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LESSICO NATURALE

Le particelle elementari

17 January 2021

A cominciare da Platone se non prima, i tentativi di svelare i segreti della natura sono stati considerati forieri non di verità assolute ma solo di verosimili congetture eventualmente superabili grazie al lavorio delle successive generazioni. Faccio mia questa maniera di vedere mentre mi accingo a porre domande sulle particelle elementari e sulla loro eventuale evoluzione. Molte domande resteranno senza risposta, ma è sperabile che suscitino pensieri e attenzione.

Se le particelle elementari sono effettivamente i costituenti primi non solo degli aspetti materiali ma anche degli aspetti mentali di tutte le entità che popolano l’universo, animate o viventi, alla nostra attenzione si pongono almeno due principali ambiti di indagine. Essi riguardano in primo luogo le modalità di combinazione dei campi di energia e informazione a cui si attribuiscono gli aspetti mentali delle entità sempre più complesse che essi hanno costruito (animali superiori e uomo). Un secondo campo di indagine riguarda l’origine e l’evoluzione delle particelle elementari primigenie. Questo secondo problema sembra preliminare in quanto riguarda i componenti primari dell’universo. Analogamente a problemi simili affrontati dall’uomo, l’esame del semplice dovrebbe facilitare la comprensione del complesso.

Credo sia generalmente accettato che la comparsa delle particelle elementari abbia contestualmente dato origine al movimento e alle dimensioni spaziotemporali necessarie al suo attuarsi. Se ci si chiede se il loro apparire sia stato istantaneo o abbia richiesto un certo tempo per quanto piccolo, la prima eventualità appare più accettabile data la simultanea comparsa dello spaziotempo.

È plausibile che le particelle primigenie siano state create dal nulla? Alla nostra mente plasmata dalla causalità terrena appare ragionevole che qualunque entità derivi da un’altra entità che l’ha preceduta. L’origine dal nulla, dal non essere, sembra non plausibile: niente è mai venuto dal non essere. Ammettendo che questa logica sia applicabile al confine iniziale dell’universo, l’apparire delle particelle elementari spinge a credere che esse siano derivate da una diversa entità in grado di generarle. Anche l’apparire di un alito di vento presuppone l’esistenza di un gradiente pressorio in cui l’alito era presente allo stato potenziale. Pertanto, anche le particelle elementari dovrebbero immaginarsi come esistenti in potenza in una entità avulsa dallo spaziotempo.

Erano mente e materia due aspetti della sostanza di cui quell’entità era fatta? Sembra difficile crederlo. Un’entità capace di generare l’universo non può che immaginarsi radicalmente diversa da esso. Tra l’altro, se avulsa dallo spaziotempo, non avrebbe potuto albergare aspetti materiali. Sembra più ragionevole assumere che si sia trattato di entità del tutto mentale, se non altro perché della mente non si ha conoscenza approfondita e ad essa possono attribuirsi gratuitamente anche capacità non facilmente pensabili. A dire il vero, di quell’entità si conosce soltanto lo straordinario evento di cui sarebbe stata capace: la generazione dell’universo.

Se si parte dal presupposto che quell’entità sia priva di aspetti materiali, le particelle elementari che ne facevano parte in potenza dovrebbero essere immaginate come radicalmente diverse da  quelle generate dal Big Bang visto che a queste ultime si attribuiscono aspetti mentali e materiali. Quelle particelle potrebbero essere viste come le gocce d’acqua di un oceano percepito allo stesso modo delle altre gocce tranne che per la sua più grande dimensione. Quest’ultima aggiunta sconfessa la validità del paragone dato che la mente non ha dimensioni. Sarebbe questa un’indicazione che particelle di sola mente non distinguono se stesse dal loro tutto? Sembrerebbe di sì, ma con la cautela dettata dalla nostra ignoranza.

Le particelle elementari identificate dagli strumenti dell’uomo sono campi di energia e di informazione situati nelle dimensioni spaziotemporali. Di conseguenza – come si dirà più avanti – esse percepiscono le altre particelle del nascente oceano dello spaziotempo come campi visti dall’esterno. Credo sia difficile immaginare l’evento percettivo di una particella che incontra un’altra particella. Molti affermerebbero che non si dovrebbe parlare di percezione dal momento che i campi elementari sono imparagonabili alla capacità percettiva della mente umana. Il proble- ma viene quindi ricondotto alla presunzione cartesiana che la mente dell’uomo sia sostanza radicalmente diversa dalla materia. Tale concezione ha finora trovato giustificazione nella palese diversità dei due aspetti, coscienza e capacità di pensiero da una parte, estensione nello spazio tempo dall’altra. Affermazioni di così immediata evidenza potevano restare accettabili fino a quando le proprietà della materia erano quelle percepite con riferimento agli oggetti macroscopici del mondo, corpo incluso. L’uomo e i suoi lontani antenati li avevano osservati per millenni e l’uomo ne aveva infine santificato la natura materiale studiandone moto e determinatezza. Ma quelle stesse affermazioni erano diventate obsolete e inaccettabili da quando si erano studiati oggetti di massa ed estensione straordinariamente piccole, atomi e particelle subnucleari. Le loro proprietà avevano infatti rivelato una natura inaspettatamente diversa da quella evidenziata dalle indagini di fisica classica. Per alcuni versi, i comportamenti dei costituenti elementari apparivano simili a quel- li elementari della mente, e a quelli messi in luce dai fenomeni paranormali.

Visioni unitarie di un universo concepito come sostanza mentale sono state proposte da antiche religioni e, più di recente, da uomini di scienza del calibro di Clifford, Fechner e Chardin. Di contro, i dualisti alla Cartesio e i monisti di stampo materialista hanno sempre cercato di attribuire e giustificare le capacità della mente umana ad un’origine materiale. Tentativi in tal senso sono stati fatti da illustri scienziati come Delbrück, Penrose e Hamenoff, ma non hanno portato alla soluzione del problema. Di conseguenza, molti si contentano di classificare le capacità della mente tra i cosiddetti epifenomeni, sotterfugio che ne mortifica l’essenza senza svelarne la natura o suggerirne l’origine. Più numerosi sono quelli che continuano ad affannarsi nel tentativo di equiparare le capacità della mente alle attività del cervello senza però precisare che queste ultime sono note solo in parte e limitatamente ai livelli molecolari, cellulari e di sistema.

Se si prendono in considerazione gli aspetti mentali delle particelle elementari, è concepibile supporre che quelle nate subito dopo il Big Bang (particelle primigenie) siano state le progenitrici indifferenziate dei campi attualmente noti come gravitazionali, elettromagnetici, nucleari forti e nucleari deboli. Ai campi noi attribuiamo la capacità di percepire come materiali gli altri campi e i loro più complessi costrutti. Tale è l’opinione di Einstein secondo cui «noi possiamo perciò considerare la materia come costituita dalle regioni dello spazio nelle quali il campo è particolarmente in- tenso … In questo nuovo tipo di fisica non c’è luogo insieme per campo e materia poiché il campo è la sola realtà.» È quindi naturale che i nostri sensi percepiscano materia lì dove il campo è partico- larmente intenso, indipendentemente dal fatto che esso appartenga a corpi animati o inanimati. Allo stesso modo, dovrebbe essere naturale che i cosiddetti sensitivi percepiscano gli stessi corpi estesi fino a regioni spaziali nelle quali il campo è meno intenso.

Gli incontri tra le particelle elementari possono portare alla fusione dei loro campi e alla conseguente nascita di entità dotate di campi più complessi che si distribuiscono in parte sul più ampio dominio della neonata entità. Ne consegue che l’architettura energetica/informazionale dei prodotti delle particelle elementari può essere distinta in una frazione comune all’intero e una frazione circoscritta ai singoli componenti. L’esistenza degli elettroni π nei composti aromatici del carbonio conferma e sottolinea quanto appena detto. Insieme a una parte significativa dell’energia e dell’informazione degli atomi costituenti essi sono distribuiti su tutto il dominio molecolare di cui garantiscono l’unità e l’integrità. Considerazioni analoghe valgono per tutti i legami chimici.

In versione antropomorfica la parte in comune può considerarsi l’anima della molecola. L’estrapolazione di questi effetti a tutti i livelli delle entità generate dalle particelle elementari porta alla ragionevole presunzione che ruoli equivalenti a quelli degli elettroni π siano presenti ovunque. Infatti, indipendentemente dalla sua collocazione nella scala delle complessità, ogni entità permane in quanto tale perché mantenuta in essere da un comune supporto energetico/informazionale. Tale processo è in atto sin dall’inizio dell’universo. Anche l’anima dell’uomo può essere equiparata alla distribuzione su tutto il corpo di una frazione di energia e informazione contribuita dai componenti elementari. Si tratta di una architettura dinamica che spinge le sue radici fin nell’interno di atomi e componenti subnucleari. Come pioggia che cade sui monti formando rivoli, torrenti e poi fiumane, così l’anima dell’uomo sorge da rivoli infinitesimi di energia uniti tra loro e a quelli che derivano dalle maggiori subunità.

Tratto da:  Antonio Giuditta, Le particelle elementari e la mente

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Wolfgang Sachs

17 January 2021

Wolfgang Sachs è nato a Monaco, in Germania. Ha fatto studi di teologia, sociologia e storia a Monaco, Tubinga e Berkeley. Dal 1993 è direttore di ricerca al Wuppertal Institut per clima, energia, ambiente, dove è responsabile del progetto interdisciplinare «Globalizzazione e sostenibilità». È professore onorario all’Università di Kassel, membro del Club di Roma e conosciuto come allievo di Ivan Illich. I suoi lavori critici sull’idea di sviluppo hanno influenzato il movimento ecologista. Wolfgang Sachs è stato presidente di Greenpeace Germania e nel 2007 ha partecipato al progetto Stock Exchange of Visions. È autore di molte ricerche, saggi e articoli nel campo dell’ambiente, della globalizzazione, dei rapporti Nord – Sud e sulla necessità di un profondo mutamento sociale ed ecologico.

Rivedere l’uso delle risorse naturali, ridurre gli sprechi, riorientare il sistema dei sussidi che hanno distrutto le agricolture dei paesi poveri, intervenire sulle cause di inquinamento ambientale ormai insostenibile sono infatti i temi al centro del pensiero e dell’impegno di Sachs. Non solo scientifico ma anche morale e civile, quindi, che i titoli di alcuni suoi libri sintetizzano bene: Dizionario dello sviluppo (Gruppo Abele, 1998), Ambiente e giustizia sociale. I limiti della globalizzazione (Editori Riuniti, 2002), Per un futuro equo (Feltrinelli, 2008).

L’interesse e l’impegno sulle tematiche che riguardano l’acqua scaturiscono da una passione nata per caso o la causa va ricercata nei suoi studi pregressi?

«Deriva da due fonti diverse: il fatto che io pensi all’acqua come ad uno dei quattro elementi e dunque ad una delle risorse elementari, mi porta a tenerla in considerazione nelle discussioni sul futuro delle risorse della natura; l’altro fattore consiste nel fatto di essere un allievo di Ivan Illich, che ha scritto un bellissimo libro: H2O o Le acque dell’oblio, dove pone l’accento sulla forza mitologica dell’acqua, la quale gioca un ruolo importante nell’immaginario, nella mitologia e nei riti (ad esempio la centralità dell’acqua nella liturgia cristiana) sotto tante forme. L’acqua è un costituente e una materia della quale il nostro ‘immaginario’ è fatto.»

Lei è stato presidente di Green Peace Germania: pensa che l’attribuzione delle bandiere blu a determinate zone di mare italiane nasconda interessi di tipo economico-turistico?

«Le ragioni di assegnazione vanno ricercate in motivazioni sia di tipo etico, sia di interessi particolari: sicuramente si inizia per una questione etica e poi entrano in gioco anche interessi di tipo commerciale. Per fortuna è così, perché poi anche l’etica ha bisogno di un appoggio di interessi più tangibili e materiali, altrimenti diventa troppo volatile: l’etica si fortifica quando si sposa con interessi di tipo economico.»

C’è una differenza di sensibilizzazione riguardo alle tematiche che riguardano l’acqua e il suo spreco, tra la cultura tedesca e quella italiana?

«In Italia c’è sicuramente un’attenzione maggiore che in Germania per l’acqua del mare, visto che il mio paese non si vede e non si percepisce come marittimo, tranne un pezzo del nord. Poi ci sono sicuramente delle differenze regionali, per esempio nella Baviera, da dove provengo io: l’acqua dolce, i posti fluviali, i laghi ricoprono un ruolo molto centrale, infatti sono stati stanziati tanti investimenti per tenerli puliti.»

E dal punto di vista dello spreco?

«Per un paese ricco di acqua come la Germania io porrei il problema del costo del dis-inquinamento (l’agricoltura è la fonte primaria di inquinamento), che è più importante del problema dello spreco. Tuttavia, sicuramente, per tenere più basso possibile il tasso di inquinamento, è anche importante fare attenzione al volume di acqua che si usa. Un dato importante per me è il successo della politica ambientale in Germania riguardo al problema dell’inquinamento dell’acqua, che è stato in gran parte risolto: tu puoi oggi bere l’acqua dei laghi in Baviera. In linea generale, io non ne farei una questione tedesca o italiana, piuttosto qualcosa che riguarda le varie regioni.»

Il risparmio di acqua nei posti dove ce n’è in abbondanza è un risparmio fine a se stesso oppure ‘provoca’ un effetto positivo in quei paesi dove l’acqua è un miraggio?

«Certo, il buon esempio è sempre una bella cosa e da un punto di vista generale certamente importa il modo in cui noi viviamo, il modo in cui usiamo l’acqua. Ma nelle nostre zone io non credo se ne possa fare tanto un problema etico, quanto economico, visti i costi dell’acqua. Non tanto per la scarsità di questa, quanto per il suo trattamento. Quindi si potrebbe entrare in un circolo di risparmio per questioni economiche.»

Lei beve l’acqua del rubinetto o quella in bottiglia?

«Dal rubinetto. Io non compro mai l’acqua in bottiglia perché non ho voglia di portare quel peso fino al terzo piano dove vivo. L’unica cosa liquida che mi permetto di comprare è il vino.»

Si interessa al rapporto acqua – salute?

«Non mi interessa così tanto. Solo adesso che sto diventando un po’ anziano ho cominciato ad avvicinarmi alle terme. Questo anche e soprattutto in considerazione del fatto che mia moglie ha lavorato a Napoli e visto che Ischia è lì vicino ho cominciato ad apprezzarne le terme.»

Cosa pensa dell’acqua minerale in bottiglia?

«Ci sono tante indicazioni che ci dicono che le due acque (rubinetto e bottiglia) non sono così diverse tra loro. Dal punto di vista della salute non c’è tanta differenza, perché entrambe sono sottoposte a controlli; dal punto di vista dei minerali neanche. Di conseguenza, l’acqua minerale in bottiglia è solo qualcosa di simbolico, qualcosa che serve per arricchire i ristoratori. Io non credo che tutta l’acqua imbottigliata venga consumata, anzi moltissima viene sprecata.»

È vero che le acque ad alto residuo calcico e magnesico favoriscono la comparsa di calcolosi renali oppure è un mito da sfatare?

«Sono troppo vecchio per credere a questa moda!»

Di Giovanni Angileri e Gabriele Nicolus

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si fa tardi

16 January 2021

A cosa serve l’istruzione le scuole se non a innescare un processo di comprensione e uguaglianza nel mondo, a cosa servono le scuole se poi una parte fortunata di questi prende la preferenziale. La felicità come la ricchezza non è un dono che si può ereditare ma lo si deve conquistare per poi ridistribuirlo, perché la vera ricchezza è l’assenza di ricchezza.

Un vero desiderio d’amore e comprensione del mondo animale e vegetale e dei propri simili richiede un cambiamento uno svuotamento una ridistribuzione, richiede un processo al proprio ego. Possedere è immorale possedere troppo e volgare e dannoso, l’ossessione di possedere è il virus malato del capitalismo, quella folle febbre che inganna la mente e la rende avida, egoista.

Tratto da: Andrea Soriano, Si fa tardi

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William Wordsworth

16 January 2021

Udivo mille note confuse fra di loro,

mentre in un bosco stavo sdraiato,

in quel dolce umore quando gradevoli pensieri

portano tristi pensieri alla mente.

Alle sue belle opere la Natura univa

l’anima umana che scorreva in me;

e il mio cuore si affliggeva pensando

a ciò che l’uomo ha fatto dell’uomo.

 

/ William Wordsworth

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La nave

14 January 2021

 

 

In questo segno grafico lieve
Tracciato in fretta a bordo della nave
Ritrovo, sì, i suoi tratti.

Noi cinti dal mare ionico,
Stregato il pomeriggio.

I suoi tratti. Ma bello
Molto più di così mi appare
Ora, nel rievocarlo.

Una morbosità nel sentimento
Tale, la sua, da renderne
Abbagliante lo sguardo.

Così riemerge
Dentro di me – dal Tempo.

Dal Tempo… Eventi tanto
Remoti… Quel ritratto,
La nave, il pomeriggio…

1919

 

Tratto da: KOSTANTINOS KAVAFIS, Un’ombra fuggitiva di piacere, 1919, Adelphi 2004 – Traduzione di Guido Ceronetti

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Modella il tuo temperamento come un giardino

13 January 2021

Dipende da noi modellare il nostro temperamento come un giardino. Piantarvi delle esperienze, estirparne altre: costruire un tranquillo e bel viale dell’amicizia, conoscere segrete prospettive di silenzio, tener pronti gli accessi a tutti questi begli angoli del proprio giardino perché non ci venga a mancare quando ne abbiamo bisogno! […]

Forse le differenze di temperamento sono condizionate dalla diversa distribuzione e quantità dei sali inorganici più che da tutto il resto. Gli uomini biliosi hanno troppo poco solfato di sodio, agli uomini melanconici manca il fosfato e il solfato di potassio; e nei flemmatici vi è troppo poco fosfato di calcio; le nature coraggiose hanno un’eccedenza di fosfato di ferro.

 

 

Tratto da: Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869

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IL PAESAGGIO COME OPERA D’ARTE E IL MONDO SENZ’ARTE

12 January 2021

L’ideale del Paradiso Terrestre, quale modello di un paesaggio in cui gli interventi dell’uomo non siano interventi-per-la-produzione, interventi utilitari, ma siano interventi-per-la-contemplazione, interventi estetico-metafisici, è l’ideale di una completa coincidenza di paesaggio e giardino: tutto il paesaggio come un giardino. Per ripetere una bella immagine dello Jellicoe: tutti i diversi fili dell’umanità intessuti in un unico tappeto del giardino del paradiso. Al polo opposto di questo ideale, sta, come sappiamo, la prospettiva di una terra interamente sottratta così al paesaggio come al giardino, una terra dalla quale l’urbanizzazione totale abbia fatto scomparire ogni residuo di paesaggio. E naturalmente, diciamo paesaggio nel senso che abbiamo cercato di definire quando la presente ricerca era ancora al suo esordio: natura che in quanto oggetto di esperienza estetica si costituisce ad immagine finita dell’infinito, spazializzando in sé la propria assoluta temporalità – con esclusione, dunque, dal nostro discorso, della nozione di paesaggio industriale, che Jellicoe peraltro ammette, sia pure come una semplice possibilità.

Una terra senza paesaggio, perché interamente urbanizzata ed industrializzata, è anche (non ci dovrebbe esser bisogno di dirlo) una terra senza giardini, giacché l’urbanizzazione totale, la totale industrializzazione non sopportano la destinazione di più o meno ampie porzioni del suolo, sia esso pubblico o privato, alla modellazione della natura come materia d’arte – e cioè a quel non produttivo, e perciò antieconomico, autofinalizzarsi dell’apparenza come oggetto di contemplazione avente valore in se stesso e per se stesso, che è la meta cui aspira chiunque faccia arte. Ed è quello che tutti all’arte chiediamo: non altro essendo, l’opera d’arte, (in questo caso: il giardino) se non una forma che l’uomo ha data alla materia per farne l’oggetto di una esperienza privilegiata rispetto alle altre, perché ha in se stessa la propria ragione ed il proprio scopo, e pertanto si estranea dal processo della produzione e del consumo, e dalle attività che ad esso sono comunque collegate. Nella città dell’uomo, quando questi abbia identificata la propria essenza con la fabbrilità, e si sia ridotto alla esclusiva statura del proprio essere faber, non si può fare posto ai giardini, questi luoghi nei quali il fare è fine a se stesso, e non serve.

Visto però che di aria ed erba ed acque e piante e fiori anche l’homo faber, per continuare a produrre con efficienza, in buona salute e senza frustrazioni, continua ad avere bisogno, come del cibo, del sonno, della bevanda, nella città dell’uomo-produttore-assoluto, homo faber («Handwerker siehst du, aber keine Menschen…», ammoniva però Hölderlin-Iperione), il posto che all’interno della città storica pre-tecnologica era dei giardini, e tutt’intorno ad essa era del paesaggio, viene preso, come abbiamo visto, dagli spazi verdi. Ed è un concetto, questo, di spazi verdi, aree verdi, zone verdi di cui è venuto il momento di inoltrare la confutazione a suo tempo abbozzata, registrando in esso la proposta di surrogare il paesaggio (natura come arte) ed il giardino (arte come natura), con uno strumento utilitario, indifferente al giudizio estetico: e cioè con qualcosa che da una sua empirica funzionalità trae quella giustificazione che giardino e paesaggio cercano, e trovano, al di là di ogni motivazione utilitario-funzionale.

Giardino e paesaggio, infatti, sono i due poli, ormai lo sappiamo, di una relazione paritetica e amorosa dell’uomo con la natura, e quindi, essendo l’uomo ragione e natura insieme, di quell’armonia interiore dell’uomo con se stesso e in se stesso della quale abbiamo visto, aveva parlato Hölderlin nella sua lettera al fratello per il capodanno del 1799. Nelle zone verdi, invece, negli spazi verdi, nelle aree verdi (che già nella loro definizione tradiscono uno scadimento della natura e dei suoi colori, delle sue forme, al di qua di quella che abbiamo a suo tempo definita la meta-spazialità del paesaggio, il suo essere più che spazio soltanto: una immagine della temporalità assoluta) il problema di una esteticità in sé autofinalizzata, non si pone più di quanto non si ponga, di solito, nella progettazione delle raffinerie o delle trafilerie, o delle fonderie, degli stabilimenti chimici: accanto ai quali, a distanza più o meno scrupolosamente calcolata, gli spazi verdi sono impiantati (quando ci sono) con funzioni subalterne rispetto alla produttività. La produttività, infatti, è per il mondo moderno, un surrogato di religione, del quale gli impianti industriali sarebbero i templi e le cattedrali. E la funzione delle aree verdi è quella di promuovere l’efficienza degli uomini-produttori, e quindi di assicurare la continuità e il buon livello della produzione. Una funzione, in definitiva, questa delle aree verdi, che sta alla realtà del paesaggio e del giardino, come all’unione amorosa verace sta l’accoppiamento dei vecchi con le fanciulle pneumatiche («the pneumatic girl»), di cui nel romanzo di Huxley si legge l’anticipazione: una tappa del Brave New World, nella sua fuga in avanti rispetto alla natura, in quella fuga in avanti (verso il nulla della vita?) che è nei programmi dell’urbanizzazione totale, della industrializzazione totale; e che si traduce, in realtà, in una degradazione dell’uomo, sua riduzione ad un livello meccanico, di qua della natura, e non, come si crede, oltre la natura.

tratto da: Rosario Assunto, Il Paesaggio e l’Estetica, Palermo 1994.

Filed Under: Giardini, Giardino, Paesaggi militanti, Paesaggio, Rosario Assunto Tagged With: aree verdi, Giardini, paesaggio, Rosario Assunto, spazi verdi

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