• Skip to primary navigation
  • Skip to main content
  • info
    • Archivio
  • Misticismo Orientale
    • Induismo
    • Buddhismo
      • La vita di Buddha, l’infanzia e la gioventù
      • La vita di Buddha, l’Illuminazione e la morte
    • Taoismo
    • Il pensiero cinese
    • Zen
  • Links
    • Terre di Mezzo Editore
    • Libreria Editrice Fiorentina
    • l’Ecologist Italiano
    • People for the Ethical Treatment of Animals
    • La successione di Fibonacci nella Fillotassi
    • The Voynich Manuscript
    • Association Kokopelli — Semences biologiques, libres de droits et reproductibles
    • Internazionale
    • Slow Food
    • Acta Plantarum
    • The Garden Landscape Guide
    • British Antarctic Survey – Polar science for planet earth
    • Fai | Fondo Ambiente Italiano
    • Greenpeace Italia
    • Gruppo Giardino Storico dell’Università di Padova
LESSICO NATURALE

Viaggiare?

15 August 2017

Viaggiare? Per viaggiare basta esistere. Passo di giorno in giorno come di stazione in stazione,  nel treno del mio corpo, o del mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze,  sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi. Se immagino, vedo. Che altro faccio se viaggio? Soltanto l’estrema debolezza dell’immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire. “Qualsiasi strada, questa stessa strada di Enterpfuhl, ti porterà in capo al mondo”. Ma il capo del mondo, da quando il mondo si è consumato girandogli attorno, è lo stesso Enterpfuhl da dove si è partiti. In realtà il capo del mondo, come il suo inizio, è il nostro concetto del mondo. E’ in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo, se li creo esistono; se esistono li vedo come vedo gli altri.  A che scopo viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, al Polo;  dove sarei se non dentro me stesso e nello stesso genere delle mie sensazioni? La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.

Tratto da: Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine

Filed Under: Azioni di paesaggio, Fernando Pessoa, Il pensiero selvaggio, Lessico Naturale, Paesaggi letterari, Viaggiare? Tagged With: Città, Fernando Pessoa, Il Viaggio, Viaggiare?

The Only Living Boy in New York

15 July 2017

http://www.lessiconaturale.it/wp-content/uploads/2019/04/The-Only-Living-Boy-in-New-York.m4v

Filed Under: Lessico Naturale

L’odore del fieno

15 June 2017

Altre notizie su Bruno Lattes

 1

 Delimitato torno torno da un vecchio muro perimetrale alto circa tre metri, il cimitero israelitico di Ferrara è una vasta superficie erbosa, così vasta che le lapidi, raccolte in gruppi separati e distinti, appaiono assai meno numerose di quanto non siano. Dal lato est, il muro di cinta corre a ridosso dei bastioni cittadini, fitti ancor oggi di grossi alberi, tigli, olmi, castagni, perfino querce, allineati in duplice schiera lungo la sommità del terrapieno. Almeno da questa parte la guerra le ha risparmiate, le belle, antiche piante. La rossa torre cinquecentesca che una trentina di anni or sono funzionava da polveriera militare, mezzo nascosta come è dietro le loro larghe cupole verdi si intravede appena.

Durante i mesi estivi, l’erba del nostro cimitero è sempre cresciuta con forza selvaggia. Attualmente non so. Certo è che attorno al ’38, all’epoca delle leggi razziali, la Comunità soleva affidarne la falciatura a una azienda agricola della provincia: una ditta di Quartesana, di Gambulaga, di Ambrogio, o giù di lì. I falciatori avanzavano adagio, disposti a semicerchio e muovendo le braccia con ritmo concorde. Ogni tanto uscivano in gridi gutturali. E le sentinelle di guardia alla vicina polveriera, ascoltando quelle voci lontane, perdute nella canicola (la garitta dinanzi alla quale sostavano spiccava bianca, lassù, ai piedi di un nero tronco secolare), dovevano sentire più forte il peso della loro costrizione, più acuta la nostalgia della libertà.

Verso le cinque del pomeriggio i contadini smettevano di falciare. Stracolmi di fieno dondolante e trainati da coppie aggiogate di buoi, i loro carri uscivano uno dopo l’altro in via delle Vigne, dove, a quell’ora, gli abitanti della contrada, pensionati in maniche di camicia con pipa o toscano fra i denti, vecchie arzdóre occhialute intente a rammendare biancheria o a pulire verdura, stavano quasi tutti seduti fuori, in fila davanti alle basse casupole a un solo piano. La via era angusta, poco più larga anche a quei tempi di uno stradello di campagna. Tanto che se, proveniente in senso contrario, fosse capitato proprio in quel punto un funerale, pazienza: bisognava che il funerale si rassegnasse a aspettare là in fondo, presso il movimentato incrocio di corso Porta Mare, cinque minuti, dieci, e talvolta perfino un quarto d’ora.

 *

 Non appena il carro funebre ebbe varcato la soglia del grande cancello d’ingresso, e nel varcarla fece un lento sobbalzo, un odore acuto di fieno tagliato sopraggiunse a rianimare il corteo oppresso dal caldo. Che sollievo. E che pace. Ci fu subito un brusco, quasi allegro agitarsi simultaneo. Alcuni si sparpagliarono fra le tombe prossime all’entrata. Altri, i più, lasciatisi alle spalle il carro ormai fermo da cui i becchini prendevano a staccare le corone, e insieme con esso il gruppo compatto dei familiari e dei parenti rimasti in attesa del feretro, già si avviavano di buon passo alla spicciolata verso il lontano posto della sepoltura.

Soltanto l’insistenza del padre (“Il cancro non perdona!” aveva detto con la solita, patetica aria ammonitrice e ricattatoria) aveva potuto indurre Bruno Lattes a partecipare al funerale dello zio Celio. Per non star lì a litigare si era adattato. E anzi, per un bel po’ di tempo, sorpreso lui per primo di se stesso, era stato molto bravo. Non solamente durante il percorso da via Voltapaletto al cimitero, ma anche dopo, confuso nella piccola folla dei congiunti e degli intimi, a cura dei quali, alta sulle teste, la bara aveva attraversato da occidente a oriente tutto quanto il cimitero, anche dopo si era comportato più che bene, mantenendosi sempre buono, quieto, tranquillissimo.

A un dato momento però si era riscosso. Da quando i becchini avevano cominciato a adoperarsi per far entrare la bara nella fossa, e i suoi sguardi erano tornati a incrociarsi con quelli smarriti del padre, da quell’istante si era sentito riprendere dalla sorda rabbia che gli era abituale.

Che cosa c’era di comune – tornava a domandarsi -, fra lui, da una parte, e suo padre coi relativi suoi parenti e affini dall’altra? Lui era alto, secco, scuro di pelle e di capelli, mentre il papà, e dietro al papà l’interminabile sfilarata dei Camaioli, dei Bonfiglioli, degli Hanau, degli Josz, degli Ottolenghi, dei Bassani, eccetera, costituenti tutti assieme la cosiddetta “tribù Lattes”, erano in larga prevalenza bassi, tarchiati, forniti di occhi azzurri, di un celeste slavato (oppure neri, ma di un nero opaco, senza splendore), e di certi speciali menti molli e rotondi, inconfondibili. E moralmente? Ebbene, anche dal alto carattere nessuna somiglianza fra lui e loro, grazie a Dio, nemmeno la più piccola. Niente di instabile, di eccitabile, di morboso, in lui, niente di così tipicamente ebraico. Il suo carattere era molto più vicino, così almeno gli sembrava, a quello forte e schietto di tanti suoi amici cattolici, e non per nulla la mamma, nata cattolica, cattolicissima, si chiamava Marchi. E quanto al cancro, infine, che da quando il nonno Benedetto, nel ’24, al termine di quasi un biennio di inenarrabili sofferenze, era stato ucciso da un tumore allo stomaco, il papà aveva deciso che dovesse essere per forza la malattia di famiglia (ma lo zio Celio no, in ogni caso, non stessero a contare balle: lo zio Celio era morto in seguito a un attacco di nefrite, una vecchia nefrite, e quindi il cancro una volta tanto non c’era entrato né per molto né per poco…), che venisse pure, un giorno o l’altro, se avesse avuto voglia di venire! Avanti. Si accomodasse. Per quello che lo riguardava, lui si era proposto già da un pezzo di comportarsi anche in una circostanza del genere esattamente come di certo si sarebbe comportata la mamma, sempre così allegra, lei, poverina, sempre così semplice e naturale. Che il cancro potesse diventare assillo quotidiano, pensiero dominante da alimentare e coccolare dentro, fra paura e delizia, per anni e anni? Schifo! Questo al cancro lui non glielo avrebbe ami permesso. Mai e poi mai.

La bara adesso giaceva sul fondo. I necrofori avevano ritirato le loro funi, e il rabbino dottor Castelfranco, con la sua voce nasale e cantilenante, stava già recitando le preghiere dei defunti.

Quand’ecco un suono di fisarmonica, vicinissimo.

Bruno alzò gli occhi.

A causa del muro che separava il cimitero dai bastioni, il suonatore non gli riusciva di scorgerlo. Vedeva là sopra solo un soldato di fronte a una garitta (una sentinella che montava la guardia alla polveriera, era chiaro), il quale, protendendo il viso sudato in avanti, annuiva a tempo con la musica.

Una voce femminile cantava:

Amore amor

portami tante rose…

Qualcuno intimò: “Silenzio!”. Seguirono altre grida di protesta, insulti a pugni levati, imprecazioni. Dietro i grandi alberi delle mura, oltre la massa lustra e compatta del loro fogliame, si indovinava un’aria aperta, una brezza quasi marina.

 *

 Le palate di terra si susseguivano sempre più veloci.

Bruno girò gli occhi altrove.

E dopo cena – pensava -, quando sarebbe passato in bicicletta lungo quel tratto dei bastioni, combattuto inevitabilmente fra il desiderio di scoprire col fanale le coppie abbracciate nell’erba e il timore di guardare verso la nera distesa del cimitero sottostante (fin da bambino aveva sempre avuto orrore delle fiammelle dei fuochi fatui), lo avrebbe mai ritrovato, dopo cena, il giovane soldato fermo davanti la sua garitta? Chi lo sa. Amarezza e disgusto: ecco, in ogni caso, ciò che provava in quel momento.

Tuttavia, lo sapeva, eccome se lo sapeva! L’impazienza, l’agitazione quasi forsennata dalla quale adesso, pensando alla sentinella di guardia alla polveriera, si sentiva tormentare (diventati amici, forse sarebbero andati al cinema, e più tardi, nonostante i propri diciott’anni nemmeno compiuti, più tardi a casino, magari…), non nascevano affatto, in lui, per reazione immediata, dalla stupida corvée che gli era stata inflitta oggi, ma da assai più lontano, da lontanissimo: da un punto del passato perduto in fondo a una lontananza quasi infinita.

Ai funerali del nonno Benedetto, nell’agosto ’24, prima di calare nella buca la cassa i becchini ne avevano svitato il coperchio. Quindi sulla salma avvolta in un lenzuolo di lino ricamato era stata sparsa, in ossequio al rito ebraico più antico, calce viva. Era stato proprio il nonno a volere così. Aveva appena cessato di respirare che qualcuno era subito corso ad aprire il testamento. Il testamento parlava chiaro. La calce viva avrebbe dovuto essere introdotta nella cassa dopo, al cimitero, dinanzi alla fossa spalancata. Prima, cioè a casa, no. Guai.

Lui a quell’epoca aveva nove anni. Sul prato del cimitero, dove in precedenza non era mai stato condotto una volta sola, insieme con le prime ombre della sera erano scesi, lo ricordava bene, fitti sciami di zanzare. E queste zanzare gli erano sembrate curiosamente simili, specie se lui si copriva un occhio con la mano, agli aeroplani militari da caccia che una sera d’agosto di parecchi anni avanti aveva visto attraversare silenziosi, mentre atterravano, l’immenso cielo che si apriva di fronte alla finestra del tinello dove il nonno Benedetto, rimasto vedovo per la seconda volta, cenava da solo. La guerra durava ancora. Il papà era al fronte. E la mamma? Dove era la mamma? Qualcuno, forse la zia Edvige, che dopo la scomparsa della nonna Esterina era diventata la governante di casa, gli aveva raccontato che la mamma era partita per Feltre, dove avrebbe trascorso col papà una breve licenza. Ma Feltre? Dove era, Feltre? E anzi, che cosa era? E le retrovie, di cui la zia Edvige aveva anche parlato, che cosa erano le retrovie? Gli aeroplani da caccia scendevano adagio adagio, uno dopo l’altro, nel cielo color di latte della sera, senza produrre il minimo rumore. Toccarli pareva facile. Sarebbe bastato, per toccarli, sporgere un braccio da una delle due finestre del tinello. Senonché c’era il nonno, purtroppo, lì dietro, che cenava da solo, e intanto, con gli occhiali rialzati sulla fronte, leggeva nel giornale tenendolo appoggiato come d’abitudine alla caraffa dell’acqua. Se il nonno, capace come era di indovinare tutto, anche i pensieri più nascosti, avesse capito quello che lui avrebbe desiderato fare, non lo avrebbe sgridato, macché. Si sarebbe limitato a fissarlo coi suoi occhi duri e pungenti, di smalto celeste. E sarebbe stato molto peggio.

Quell’altro pomeriggio di agosto in cui il nonno Benedetto era stato sepolto, quello del ’24, il prato del cimitero appariva falciato di fresco: esattamente come adesso. Invitava a correre. E lui, infatti, sfilata a un certo punto la mano da quella della mamma, che sostava insieme con gli altri dinanzi alla fossa del nonno ancora ben lontana dall’essere colmata, si era messo a giocare per conto proprio, inseguendo nuvole di zanzare e allontanandosi sempre più.

A un tratto però era caduto: lungo disteso, e con la faccia in avanti. Mentre ancora stava cadendo l’aveva capito subito di essersi sbucciato un ginocchio. Eppure al ginocchio sul momento non aveva badato. Si era guardato attorno. Che solitudine tutta in una volta! Sebbene la gamba gli facesse male, molto male, nessuno si occupava di lui, nemmeno la mamma. Le lacrime sulle guance gli si erano asciugate lentissimamente.

“Cos’è che ti sei fatto?” aveva gridato la mamma quando, trafelata, lo aveva raggiunto. “Se stessi un minutino fermo! Non lo sai che il nonno Benedetto è morto?”

Aveva tardato a rispondere. Infine, ricordandosi di una frase che aveva sentito pronunciare dal papà quella mattina stessa, a tavola, l’aveva ripetuta pari pari quasi senza accorgersene: uguale identica.

“Solo i morti stanno bene”, aveva detto, sospirando proprio come il papà. E intanto alzava le palpebre a guardarla, la mamma la sbirciava di sotto in su.

Dopo averlo fissato abbastanza a lungo coi suoi begli occhi marrone profondamente cerchiati a causa delle molte notti trascorse al capezzale del suocero durante gli ultimi mesi della sua malattia, e ciò nonostante più vivi e più luminosi che mai, la mamma gli aveva posato una mano sulla bocca. Quindi, chinatasi, gli aveva fasciato il ginocchio col fazzoletto.

tratto da: Giorgio Bassani, L’odore del fieno, Milano 2013. | 1a ed. Milano 1972.

Filed Under: Emilia Romagna, Ferrara, Giorgio Bassani, Paesaggi letterari Tagged With: Ferrara, Giorgio Bassani, L'odore del fieno

Cosa vogliamo? Cambiare la società

30 May 2017

L’architettura dovrebbe poter essere goduta da tutti, ma spesso soltanto i ricchi hanno l’opportunità di farlo. L’architetto lavora per i ricchi, per i governi, per le imprese, un tempo lavorava al servizio di principi e re, e i poveri sono segregati nelle favelas in condizioni di vita assurde! Dunque, la missione dell’architetto, molto spesso, non si realizza. È questo il motivo per cui ripeto che l’architettura non è importante ma è un pretesto: cioè, l’architetto compie la sua funzione se prende coscienza di come trasformare la sua professione in atto politico.

Io penso che la questione politica faccia parte di qualunque professione, e a maggior ragione dell’architettura, dal momento che l’architetto agisce in uno degli ambiti fondamentali della vita dell’uomo: quello sociale. La città, la convivenza, l’esistenza quotidiana e lo spazio di ognuno di noi, sono il suo campo di battaglia.

Qui, l’architetto può prendere una posizione e lottare.

Sono entrato nel Partito comunista brasiliano spinto dal sentimento di rivolta per le ingiustizie a cui assistevo, interessato al pensiero di Karl Marx e sotto l’influenza di Luís Carlos Prestes.

È stata la presenza di Prestes a farmi davvero interessare alla politica. Negli anni Trenta aveva combattuto in clandestinità, era stato in Russia e poi era tornato in Brasile per rovesciare il governo di Getúlio Vargas, ma fu arrestato insieme a sua moglie, l’ebrea tedesca Olga Benario – che fu deportata in Germania gravida della figlia, e lì morì in un campo di concentramento.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il Partito comunista tornò legale per un breve periodo.

Prestes partecipò alla Costituente del 1946 insieme a compagni di partito come lo scrittore Jorge Amado. A quel tempo, io e Jorge eravamo già amici, lo diventammo dal primo momento.

La traversie, però, non era finite. Quando, nel 1964, la dittatura militare prese il potere, il partito fu dichiarato ancora una volta illegale e Prestes fuggì in esilio in Unione Sovietica. Tornò solo nel 1979, dopo l’amnistia generale, e fui io la prima persona che cercò.

Venne nel mio studio. Ricordo che lo ricevetti con il rispetto che si doveva a una figura del genere. Prestes era il leader! Ed era più anziano di me. Gli diedi del “signore”. Al che, lui obiettò: «No, Signore è il padrone di fazenda!».

In quel momento, il suo problema era basilare: una casa dove poter vivere e lavorare. Non aveva potuto comprare la casa che voleva. Gli dissi che si sbagliava: «L’appartamento è tuo perché l’ho già comprato per te» rivelai.

Aiutare un amico e una causa, ecco qualcosa che mi fa molto piacere; ovvio, quando posso farlo. Ma è una cosa normale, dovrebbe essere sempre così, perché siamo tutti fratelli. L’esempio di Luís Carlos Prestes ha avuto una forte influenza su di me, poiché il suo obiettivo principale era l’uguaglianza.

Quando ho avuto bisogno io, c’è stato qualcuno che mi ha dato una mano. Nel 1964, i militari presero il potere mentre io ero all’estero, mi trovavo in navigazione verso la Francia e ricevetti l’aiuto di André Malraux, all’epoca ministro della Cultura di Charles de Gaulle.

Quando giunsi a Parigi, Malraux firmò un decreto speciale che mi permetteva di fermarmi in Francia a lavorare. Era una figura straordinaria, uno degli uomini che ricordo con più affetto: la cultura, la sensibilità, l’interesse nei confronti del mondo. E mi piacque molto il suo romanzo La condizione umana.

Nel frattempo, a Rio, i militari avevano messo sottosopra il mio studio e anche la redazione di “Modulo”. Io ero comunista, avevo partecipato alla militanza fin dagli anni Quaranta, non avevo mai nascosto le mie idee e per questo motivo, tante volte, avevo perso delle opportunità di lavoro.

Quando, alcuni mesi dopo, tornai in Brasile, fui convocato immediatamente dalla polizia e sottoposto a un interrogatorio.

Mi ricordo un lungo tavolo, con i militari da un lato e io dall’altro e la prima domanda che un ufficiale mi fece: «Allora, mi dica Niemeyer, a conti fatti, cosa volete?».

Io risposi: «Cambiare la società».

Allora il militare si voltò verso il suo superiore e, sarcasticamente, ripeté quello che avevo detto: «Vogliono cambiare la società!».

Il clima era teso, dovevamo continuamente comparire davanti alla polizia, giustificare le nostre idee, ma eravamo spinti dalla convinzione di essere dalla parte del giusto. Non c’era tempo per la paura e la battaglia era lunga. Dopo le elezioni del 15 novembre 1978, quando i brasiliani respinsero con forza la dittatura aprendo al ritorno in Parlamento dei diritti politici, il cammino verso la libertà del paese non era però ancora compiuto.

I brasiliani erano stremati, stanchi di sottostare a un potere totalmente arbitrario. La dittatura aveva riportato il Brasile all’epoca della colonia, però la cruda realtà veniva nascosta dalla propaganda e dai falsi indici di crescita economica, vantaggiosi solo per chi si era associato ai militari.

C’era la necessità di nuove leggi che potessero assicurare i diritti politici e individuali e ristabilire la libertà di espressione, soppressa nel 1968 dall’AI-5 (Ato Institucional Número Cinco), il complesso di norme censorie che la dittatura aveva introdotto per soffocare una volta per tutte le forze di opposizione. La dittatura era cominciata nel 1964 e si era perfezionata dal 1968 in avanti, facendosi più dura, repressiva e violenta.

Dopo le elezioni del 1978, chiedevamo due cose: l’amnistia generale, perché nessun brasiliano si trovasse costretto a vivere fuori dal paese senza poter collaborare con il nuovo corso, e poi una nuova Carta costituzionale che ristabilisse le libertà fondamentali, di espressione, riunione e organizzazione. Entrambe le riforme sarebbero arrivate: l’amnistia nel 1979 e la Nuova Costituzione nel 1988. Ripenso al tono sarcastico di quel capitano: vogliono cambiare la società!

Nel 2002 un operaio, Luiz Inácio Lula da Silva, è diventato presidente della Repubblica e dopo di lui è stata eletta una donna, Dilma Rousseff, che da giovane aveva combattuto per i nostri stessi ideali e che fu torturata da quegli stessi militari.

Oggi è lei che governa…

Il sorriso è tornato sulle nostre labbra.

Però la lotta non è finita.

La mia lotta non si può certo paragonare a quella di chi scende in strada e protesta, ma avere coscienza di ciò mi dà una certa tranquillità.

Abbiamo apprezzato l’impegno di Lula per il cambiamento, ma la miseria continua, ci circonda in ogni dove. La lotta è chiara: i poveri devono diventare meno poveri e i ricchi meno ricchi. È possibile che sia così difficile accettare che anche i poveri, gli esclusi, nutrano il legittimo desiderio di voler partecipare alla costruzione di una società e non restarsene confinati ai margini?

È possibile che i ricchi vogliano continuare per l’eternità a dominare il mondo dall’alto dei loro privilegi?

 

 

Tratto da: Oscar Niemeyer, Il mondo è ingiusto

Filed Under: Architettura, Architettura degli uomini della conoscenza., Cosa vogliamo? Cambiare la società, Il mondo è ingiusto, Oscar Niemeyer Tagged With: Architettura, Architettura degli uomini della conoscenza., Cosa vogliamo? Cambiare la società, Il mondo è ingiusto, Oscar Niemeyer

Teodor Cerić

30 May 2017

Ora lei mi chiede di scrivere un articolo, in aggiunta a quelli che ho già inviato alla sua rivista. Sul mio giardino. Vuole che le spieghi com’è nato, quali vegetali vi ho piantato e come, dice lei, è «strutturato lo spazio». Vorrebbe sapere se ha un nome, se è aperto sul paesaggio o chiuso in se stesso, se è selvatico o ben ordinato, e altre cose dello stesso genere. Per giunta, lei è sicuro che esso sia abitato da un genius loci. I giardini dei poeti, mi scrive, lo sono sempre…

Sono dispiaciuto di dover deluderla. Non posso scrivere niente sul mio giardino.
Il suo genius loci, non so bene cosa sia. Se si tratta semplicemente di quella musica che mi sembra di sentire a volte, quando, posata la zappa, mi siedo sotto una quercia e chiudo gli occhi, sappia che sparisce non appena tento – un vecchio riflesso di studente di cui, alla mia età, non mi sono ancora completamente liberato – di capire cosa dice. Questa musica è soltanto vento, lei lo sa. È il canto degli uccelli e il rumore delle auto lontane, è la pioggia che cade sulle foglie degli alberi, con le pause di silenzio durante i canicolari pomeriggi estivi. Si tratta soltanto delle energie presenti nella natura, che si concentrano in un giardino. È ovunque, questa musica, e non si ferma mai, anche se la si sente soltanto a tratti, vale a dire nei pochi momenti di grazia che la vita ci concede.
Così, quando questo accade, ormai mi limito ad ascoltare. Perché abbiamo poco tempo da perdere, non è vero? Ed essere qui (è la lezione del giardino, quella che io – testone – devo tornare a imparare ogni giorno) non è cosa da poco. Il più piccolo uccellino lo sa. Il più piccolo sasso sul bordo della strada lo proclama, quando il sole lo scalda o il gelo lo spacca a metà. Loro, che sanno soltanto essere presenti alla vita.
No, non c’è tempo da perdere. Ecco perché evito quanto più posso le distrazioni che ci distolgono da ciò che è semplice e immediato. E le parole, quando si vuol fare poesia o quando le si usa per cogliere la realtà, come direbbero i filosofi, sono la peggiore delle distrazioni. Non ho niente contro le parole, si rassicuri, è soltanto che ci rinchiudono un po’ di più in noi stessi, quando ci avevano promesso il contrario. Ci tagliano fuori dal mondo, quando è verso il mondo che noi tendevamo le braccia. Le «presenze terrestri» di cui parla la nostra amica comune,1 quelle sorgenti vive che scaturiscono costantemente nella natura, esigono da noi uno sguardo amorevole, non chiedono di essere dette; ancor meno, capite. Una parola o due, tutt’al più, come quando i bambini dicono «Bello» o «Buono».

Lei mi fa notare che io ho pur scritto parecchi articoli per la sua rivista. È vero. Sappia però che me ne pento. Li ho scritti, credo, spinto dalla gratitudine che provo ancora per quei giardini che in passato, quando mi sono ritrovato solo, senza più punti di riferimento (a parte i poeti che avevo amato da studente e il peso dei miei ricordi), mi hanno fatto intravedere la possibilità di un luogo, su questa terra, dove mi sarei sentito come se fossi tornato, finalmente, a casa. Uno spazio che le guerre avessero risparmiato. Scrivere su quei giardini, mi sembrava, insomma, un atto dovuto.
A meno che non fosse per una ragione meno nobile.
L’illusione più temibile della scrittura è quella che consiste nel farci credere che essa può abrogare lo spazio, e anche il tempo, rendere di nuovo presente ciò che non lo è più, o raggiungibile ciò che è perso per sempre. Credo di aver ceduto alla tentazione. Ed è vero che, mentre cercavo di far rinascere quei giardini sulla pagina, li ritrovavo là dove li avevo lasciati, li percorrevo di nuovo, con la stessa gioia, come se fossi ancora il giovane cane randagio di quegli anni o come se quei luoghi non fossero invecchiati. Un’illusione, ma così piacevole! Sì, mi pento di quegli articoli, ma non del tutto.

Ciò che posso dirle sul mio giardino è che non ha niente di straordinario, soprattutto per lei che è abituato ai giardini di Francia, di cui ben conosco la raffinatezza. All’interno del suo muro di cinta, vi sono alberi, c’è erba che in questo momento, al di là della finestra del mio studio, si muove appena alla brezza della sera, ci sono fiori, rospi che fra poco si metteranno a gracidare tutti insieme, facendo tremare la casa, ridestando nel mio petto una felicità ma anche un sentimento strano, una sorta di turbamento a cui non riesco ancora ad abituarmi.
Cos’altro dire?
Che è un figlio della nostalgia, sì, ma di una nostalgia esente da ogni rimpianto e che non ci relega nel passato. Che, al contrario, ci àncora al presente, come se fossimo – che so? – un albero, con le radici ben affondate nell’oscurità della terra e la testa esposta ai quattro venti. Forse lei lo sa: i giardini – tutti i giardini, dal parco di Versailles al più piccolo orticello di periferia – nascono dall’amore più disperato che esista, l’amore per una vita che non si è conosciuta ma che ci è familiare, cara come una madre perduta, e che non smette mai di chiamarci. Da un desiderio che lì, in mezzo alle piante, si placa, non brucia più, diventa, al contrario, una promessa.
E, come qualsiasi altro giardino, il mio si limita a passare. È la forma che avrà preso il mondo, per qualche tempo, in questo recesso oscuro dell’Europa che pochi anni di guerra hanno devastato. Sparirà, come tutto ciò che è vissuto e ha espresso, per un momento, il canto incessante della terra, gioioso, talvolta doloroso… Sì, quella musica di cui le parlavo poco fa e che prosegue, mentre scrivo, al di là della mia finestra aperta.

Sparirà, ma per il momento è qui. Lo ritrovo ogni mattina, quando esco di casa all’alba e immancabilmente mi fermo, sbalordito, davanti a tanta grazia che appare per me, soltanto per me, uscendo dalle tenebre. Lo guardo fremere, come una bestia selvaggia della foresta che, per non so quale miracolo, abbia acconsentito a lasciarsi addomesticare. Dico a me stesso che, acquattato nel buio della notte, aspettava che mi svegliassi. Un’illusione, forse. O forse no. Come che sia, il solo gesto di cui sono capace allora è spegnere la sigaretta e andare subito a prendere i miei attrezzi da giardino nella rimessa.
Dato che mi è fedele, devo essergli fedele a mia volta, e aiutarlo a essere ancora più bello, a manifestare lo splendore del mondo con maggior forza, con una voce ancora più chiara. Come se un giorno quella voce potesse diventare finalmente la mia.
Non è forse questa – mi dica – la promessa del giardino? Non è questa la speranza più segreta dell’uomo? Tornare alla terra, fare di nuovo corpo con essa, e parlare finalmente la sua lingua… no, essere la sua lingua. Una nota fra le altre in questa musica senza inizio né fine.

1 Cerić si riferisce qui a un testo della scrittrice francese Claude Dourguin apparso nella rivista Jardins. Cfr. «Présences terrestres», in Jardins n. 5, marzo 2014.

Tratto da: Teodor Cerić, Giardini in tempo di guerra, Edizioni Ponte alle Grazie

Filed Under: Edizioni Ponte alle Grazie, Giardini, Giardini in tempo di guerra, Giardino, Marco Martella, Paesaggi letterari, Teodor Cerić Tagged With: Edizioni Ponte alle Grazie, Giardini in tempo di guerra, Teodor Cerić

Le orecchie malate di Beethoven

22 May 2017

Fra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo viveva a Vienna un musicista di nome Beethoven. Il popolo lo canzonava perché era un tipo stravagante, basso di statura e con una buffa testa. I borghesi si scandalizzavano per le sue composizioni. «Però,» dicevano «peccato, quest’uomo ha le orecchie malate. La sua mente concepisce dissonanze spaventose. Tuttavia, poiché egli afferma trattarsi di sublimi armonie e tenuto conto del fatto facilmente dimostrabile che le nostre orecchie sono sane, vuol dire che le sue orecchie sono malate. Peccato davvero!».

I nobili invece, i quali grazie ai diritti che il mondo aveva loro conferito riconoscevano anche gli obblighi che dovevano rispettare nei confronti di esso, gli diedero il denaro necessario perché potesse comporre le sue opere. I nobili avevano anche la facoltà di far eseguire un’opera di Beethoven all’Opera imperiale. Ma i borghesi che gremivano il teatro decretarono un tale insuccesso al lavoro che non si ebbe più il coraggio di organizzare una replica.

Da allora sono trascorsi ormai cent’anni e i borghesi ascoltano con commozione le opere del musicista ammalato, pazzo. Sono forse divenuti nobili, come quei nobili del 1819, e hanno forse maturato un sentimento di rispetto per la volontà del genio? No, si sono ammalati tutti. Tutti adesso hanno le orecchie malate di Beethoven. Per un intero secolo le dissonanze del divino Beethoven hanno tormentato le loro orecchie. E le orecchie non hanno resistito. Tutti i particolari anatomici, tutti gli ossicini, i labirinti, i timpani e le trombe hanno assunto le forme malate caratteristiche dell’orecchio di Beethoven. E quel volto buffo, che i monelli rincorrevano canzonandolo, è divenuto per il popolo il volto spirituale del mondo.

È lo spirito che si costruisce il proprio corpo.

Tratto da: Adolf Loos, Parole nel vuoto, (1913)

 

Filed Under: Adolf Loos, LE ORECCHIE MALATE DI BEETHOVEN, Parole nel vuoto Tagged With: LE ORECCHIE MALATE DI BEETHOVEN

La Visione di Olivetti per il Sud

13 May 2017

Oggi ad oltre 50 anni della sua realizzazione cosa è rimasto di quello straordinario programma?

Nel VI secolo a.C. approdò sulla costa flegrea, dove oggi c’è la città di Pozzuoli, un gruppo di greci fuggiti dalla tirannia di Policrate. Avevano lasciato la propria patria, l’isola di Samo, diretti verso l’Italia meridionale, dove fondarono una città, Dicearchia, che significa “governo-giusto”.

Dopo 25 secoli – siamo all’inizio degli anni ’50 del ‘900 – altri uomini, provenienti da parti diverse d’Italia, sono arrivati nello stesso luogo con un nuovo compito: contribuire con i loro progetti non solo allo sviluppo del Sud d’Italia, ma anche, umanizzando i processi produttivi dell’era industriale, a dare forma concreta ad una nuova e più giusta relazione tra capitale e lavoro.

Tra questi uomini vanno ricordati tre personaggi che furono protagonisti di quegli anni e che del futuro avevano una grande visione: l’imprenditore Adriano Olivetti, l’architetto Luigi Cosenza e il paesaggista Pietro Porcinai. Lo stabilimento verrà collocato sulla via Domiziana a pochi chilometri da Napoli, lungo quel tratto eccezionale di linea di costa flegrea denominato Arco Felice, dove al magnifico paesaggio dominato dal mare si sovrappone la stratificazione storica sedimentata in millenni di storia.

Afferma Adriano Olivetti il 25 aprile 1955 nel discorso d’inaugurazione dello stabilimento: “La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto”.

Il processo di costruzione di questa realtà produttiva concretizza ciò che continua a sembrare utopia: creare uno spazio in cui il lavoro e l’operare dell’uomo anziché mortificarla, valorizzi la sua umanità, mediante luoghi di lavoro dove la luce, il paesaggio e l’articolazione degli spazi permettono a chi opera e produce di amare il proprio lavoro e di contribuire attivamente e consapevolmente con la propria opera al futuro pulsante della fabbrica.

L’architettura di Cosenza esprime appieno in modo razionale lo sviluppo organico del manufatto rispetto al territorio in cui s’inserisce. Cosenza, rifiutando l’idea di fabbrica monolitica tradizionale, realizza ambienti che con le loro funzioni avvolgono e si riavvolgono nel paesaggio circostante. Il complesso si frammenta per accogliere la morbidezza del giardino di Porcinai che, sapientemente misurato, si inserisce in continuum, senza fratture, con il grande paesaggio locale e con il costruito: in alcuni momenti ne ammorbidisce il disegno, in altre lo esalta, in altre ancora lo apre all’immenso paesaggio costiero. Gli ampi e continui porticati rafforzano questo senso di forte compenetrazione tra esterno e interno. Dove mancano, le ampie vetrate continuano questo compito fondendo spazio-luce e spazio-materia. Significativo è quanto ebbe a dire Eduardo De Filippo visitando il complesso: “Ah, potete vedere il tramonto anche dall’officina?”

Intorno a una vasca di accumulo – a forma di laghetto naturale – delle acque per l’irrigazione, posta al centro del complesso, il giardino conserva, nel suo dolce pendio a terrazzamenti, le alberature esistenti fatte di pino d’Aleppo (Pinus halepensis) e carrubo (Ceratonia siliqua) e le arricchisce con essenze esotiche quali l’albero del glicine (Jacaranda mimosifolia) e il gelso da carta (Broussonetia papyrifera), oltre ad altre. Mentre siepi sempreverdi e piante rampicanti completano l’equilibrata architettura del giardino.

Oggi, a oltre cinquant’anni dalla sua realizzazione, cosa è rimasto di quello straordinario programma? La continuità degli ambienti fatti di officine, sale di progettazione e di studio, uffici, biblioteche, mensa e luoghi di forte socialità dedicati all’incontro e al confronto sono spariti.

Passato alla Telecom, rimossa in nome del dio profitto quella straordinaria utopia del lavoro e della produzione che lo aveva generato, spezzettato lo spazio in uffici diversi, gli esterni sembrano rispettati ma gli interni sono stati brutalmente modificati con soppalchi e divisioni.

Ora che la crisi economica sta cancellando sogni e speranze per colpa di una finanza internazionale manovrata da potenti agenzie di rating, lo stabilimento rimane ancora lì, nel suo golfo tra la collina di Posillipo e il Monte Nuovo, uno tra i più belli del mondo, un modello di comunità produttiva per il futuro; un complesso che è un vero atto di fede nel lavoro inteso come strumento di valorizzazione dell’Uomo e di tensione verso la Bellezza.

Antonio Guarino, La Visione di Olivetti per il Sud. Oggi ad oltre 50 anni della sua realizzazione cosa è rimasto di quello straordinario programma?, in «Diari», (2010).

Filed Under: Adriano Olivetti, Antonio Guarino, Architettura, Città, Paesaggi letterari, Paesaggi mentali, Paesaggi militanti Tagged With: Antonio Guarino, La Visione di Olivetti per il Sud

  • Less Posts
  • Go to page 1
  • Interim pages omitted …
  • Go to page 63
  • Go to page 64
  • Go to page 65
  • Go to page 66
  • Go to page 67
  • Interim pages omitted …
  • Go to page 73
  • More Posts
  • Plantae
  • Itinerari
  • Privacy & Coockie
© 2020 LESSICO NATURALE
by IM/STUDIO