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LESSICO NATURALE

Libro dei Maya sec XVI

7 August 2014

Ahi! Crudele è la schiavitù che arriva con il cristianesimo! Ecco che sta venendo! Schiavi diventeranno le parole, e schiavi gli uomini, schiave le donne quando sarà venuto! Sta venendo a voi, sventurati lo vedrete! Minaccioso è il volto del loro Dio! Tutto quel che insegna, tutto quel che dice è morrete! Sordi a tutti saranno i loro guerrieri, miserabili i loro capitani! Preparatevi a portare il peso dell’amarezza che arriva in questo katùn undici ahàu, che è il tempo della sventura.

Libro dei Maya sec XVI

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Ermanno Pozzi

22 April 2014

 

Storie di giardini e di giardinieri
Il giardino di Villa J’Aune a Valdengo | Grandi Vivai Ernesto Pozzi – Biella | Ermanno Pozzi ricorda la collaborazione con il paesaggista Pietro Porcinai in occasione dei suoi lavori nel Biellese.
Le interviste di lessico naturale | Storie di giardini e di giardinieri ideazione e realizzazione di Alessio Guario e Fulvia Grandizio
2014 © lessiconaturale.it

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Dacia Maraini

15 April 2014

«“La senia o noria oggi in disuso, era costituita da un sitema di secchielli inseriti in un nastro a catena che ruotavano con un congegno meccanico, a trazione animale (di solito asino o mulo) a mezzo di una manovella girata a mano per tirare dai pozzi l’acqua per l’irrigazione dei campi”, leggo nel libro di Oreste Girgenti su Bagheria, il solo libro organico che racconti la storia della cittadina.

Un uomo onesto questo Girgenti, meticoloso e molto amante della sua terra. Anche se si indovina, dietro le sue ricerche accurate, il terrore di offendere i notabili del paese, che siano sindaci, o prelati o nobili o “emeriti professori”. Un libro accurato e rassicurante, di assoluto ossequio alle “autorità”.

Nel libro compare la data del 1985 ma immagino che si tratti di una ristampa perché sembra uscito dai cassetti di uno studio dell’Ottocento. Anche le fotografie sembrano a cavallo del secolo, con il loro sobrio bianco e nero, e mostrano una Bagheria ormai inesistente, commovente nelle sue sfilate di scolaresche del Convitto Manzoni, o negli scorci di ville viste da lontano, sprofondate in mezzo agli ulivi che sono stati tagliati per lo meno da mezzo secolo.

Niente ci viene detto, da parte dell’onesto Girgenti, sullo scempio delle ville di Bagheria che pure lui ama e ammira.

“Tutto è cominciato con un esproprio voluto dal Comune di Bagheria verso la metà degli anni ‘50”, scrive Francesco Alliata, uno dei pochi fra i miei parenti che ha dimostrato una coscienza civica, assieme alla giovane nipote Vittoria. “Non fu possibile da parte di mia zia Caterina e di mio fratello Giuseppe di convincere il Comune a usare un’altra area vicina.”

Il pretesto era la costruzione di una scuola elementare. Ma chiaramente si trattava di una scusa perché la scuola si sarebbe benissimo potuta costruire un poco più in là, mentre le terre vincolate che contornavano villa Valguarnera facevano gola a chi voleva costruire in pieno centro di Bagheria. Uno dei preziosi “polmoni verdi”, uno degli spazi più deliziosamente arredati dai giardinieri di tre secoli fa è stato così brutalmente “ripulito” dei suoi alberi secolari, delle sue fontane, dei suoi vialetti, delle sue statue, delle sue balaustre in arenaria, per fare spazio a una orribile scuola che non ha nessuna vera necessità di stare dove sta.

Ma si trattava di una prima mossa, apparentemente nata da una considerazione di bene comune – chi si sarebbe opposto alla costruzione di una scuola pubblica? – per poi fare seguire le villette e i palazzi.

Che la zona fosse vincolata da precise leggi per la difesa del paesaggio, dei monumenti e del verde pubblico non preoccupa nessuno. All’esproprio segue la costruzione di una strada e poi di un’altra strada, più larga e infine ecco le lottizzazioni selvagge.

Solo nel ’65, a scempio avvenuto, per volontà del Partito comunista di Bagheria viene costruita una Commissione d’inchiesta presieduta dall’onorevole Giuseppe Speciale. Essa, dopo avere indagato con scrupolo per mesi, compila una serie di relazioni davvero angosciate e allarmanti in cui si denunciano, con nomi e cognomi, coloro che hanno contribuito allo sfacelo del primo e del secondo polmone verde di Bagheria per favorire quelli che a Roma si chiamano “palazzinari”, con la complicità a volte sfacciata, a volte sorniona e nascosta degli uomini del governo locale: sindaci, consiglieri comunali, assessori, tecnici eccetera.

“L’Amministrazione comunale”, scrive Rosario La Duca, uno dei più attenti osservatori delle cose siciliane, “ha volutamente ignorato gli strumenti di legge che erano predisposti nel tempo, ha favorito la speculazione privata, ha dato un eclatante esempio di malcostume politico e di corruzione […] Dopo villa Butera, il massacro urbanistico di Bagheria prosegue senza pietà…l’Amministrazione oggi, con questa inchiesta, viene chiamata a rispondere di fronte alla magistratura di gravi imputazioni che emergono dai risultati di una commissione d’inchiesta scrupolosa e vigile”.

Qualcuno ha accusato Francesco Alliata di esser coinvolto anche lui e di avere partecipato, attraverso sua zia e cugina Marianna Alliata, alla svendita del “polmone verde”. “Ma se anche i miei congiunti furono colpevoli”, risponde saviamente lui, “era comunque dovere di una Amministrazione comunale seria e responsabile impedirlo in quanto custode ed esecutore per legge dei vincoli imposti dallo Stato.”

Ho avuto fra le mani, grazie all’amicizia di una delle persone più oneste, amabili e intelligenti di Bagheria, il professor Antonio Morreale, appassionato studioso della storia di Sicilia, le relazioni della Commissione di inchiesta sull’attività dell’Assessorato ai Lavori Pubblici del Comune di Bagheria fatte nel 1965.

A leggere queste carte si rimane stupefatti dalla sfacciata arroganza, dalla sicurezza dell’impunità che accompagna le azioni di questi amministratori comunali senza scrupoli e senza vergogna.

“La manipolazione più grande dei terreni vincolati di Bagheria”, raccontano i commissari, “avviene nel luglio ’63.” Il personaggio che sbuca appena qualche pagina più avanti e che continuerà ad apparire dietro ogni contratto ambiguo, dietro ogni progetto, ogni lottizzazione è un altro, un certo ingegner Nicolò Giammanco. Un protagonista oscuro, minaccioso, tenace, che riesce, con le buone e con le cattive, a costringere tutti al suo volere. Ha qualcosa del demone, ma di un demone “meschino”, molto simile al personaggio segreto e infelice di Sologub.

Vengono interrogati i consiglieri comunali, i sindaci, ma nessuno sa niente, né ricorda niente. Altri si rifiutano perfino di andare a rispondere. Si barricano in casa, si danno malati, o sono “partiti”.

Uno dei segretari del Comune dichiara candidamente “di non ricordare di avere mai partecipato a una riunione della Giunta nel corso della quale si sarebbe discusso del prezzo concordato per l’area su cui sorge la scuola, nonché sull’ampliamento della zona da edificare al di là del limite segnato dal piano di fabbricazione. E soggiunge che probabilmente di questi argomenti si parlava dopo che gli argomenti regolarmente iscritti all’ordine del giorno erano stati esauriti ed egli di conseguenza si allontanava.”

Ma dove andava? nel corridoio “ a fumare una sigaretta? o si chiudeva nel cesso aspettando

che finissero di manomettere il piano approvato dai consiglieri, oppure se ne andava a casa? Questo non è detto nelle carte dei commissari.

“Il fatto”, dichiara il segretario comunale, “avveniva spesso e ricordo che tutte le volte che in Giunta venivano discussi argomenti relativi ai Lavori Pubblici la Giunta chiamava ad assistervi un funzionario dell’Ufficio Tecnico e che questo funzionario era quasi sempre l’ingegner Giammanco.”

Il sindaco, a sua volta interrogato, dice di non saperne niente. Tutti cascano dalle nuvole quasi che la Giunta fosse fatta di soli corpi vuoti, i cui cervelli e le cui memorie rimanevano fuori della porta.

Ci sono dei fatti, fra quelli raccontati dalla Commissione, che sfiorano il grottesco e farebbero ridere se non ci fosse da piangere per i risultati che ne sono seguiti, di impoverimento ai danni dei cittadini di Bagheria, di rovina delle bellezze e quindi delle ricchezze del paese, di distruzioni architettoniche e ambientali.

Il Comune, tanto per dirne una, concede a un dato momento il permesso di costruire un liceo, in piena zona vincolata, a una certa ditta Barone. La ditta comincia a buttare giù alberi antichi. Scava e butta cemento. Dopo qualche mese il Comune “si accorge” che i lavori non possono più andare avanti perché la zona è vincolata e per legge non vi si possono costruire edifici né pubblici né privati.

La ditta Barone giustamente chiede i danni. I magistrati danno ragione alla ditta e il Comune è chiamato a pagare poiché, “pur conoscendo e dovendo conoscere il vincolo di cui sopra, contrattò con il Barone in condizioni tali da rendere quanto meno prevedibile l’intervento delle competenti autorità per il rispetto del vincolo con la conseguente necessità di sospendere i lavori già iniziati e di rimaneggiare il progetto.”

Ma tutti sanno che è un incidente di percorso, non grave, che si troverà un rimedio alla pretesa di giustizia. Qualche intimidazione, qualche erogazione di denaro nero e i lavori ricominciano ben presto. In piena zona vincolata, senza il permesso della Soprintendenza vengono piantate le fondamenta di mostruose costruzioni a dieci piani. E i progetti sono regolarmente approvati da Assessori, Commissioni edili, Uffici tecnici del Comune.

In ognuno di questi progetti si trova però lo zampino dell’ingegner Giammanco. La Commissione addirittura ha scoperto che “da un sopralluogo effettuato nella zona risulta che una parte della strada è recintata con la proprietà dell’ingegner Giammanco.”

Il quale Giammanco è intanto diventato amico della principessa Alliata e con lei progetta un’altra sede di lotti “a monte della via Seconda malgrado il vincolo esistente dalla stessa Alliata portato a conoscenza del Comune in una lettera del 24.8.57”.

La Commissione scopre che spesso i permessi dell’Ufficio Tecnico, che è diretto dall’ingegner Giammanco, vengono scritti di pugno dell’ingegner Giammanco e poi firmati dal suo

capo. Inoltre “tutte le pratiche risultano incomplete: il rilascio delle licenze è irregolare, mancano i visti della Soprintendenza, manca il il deposito in Prefettura dei calcoli in C.A. [Cemento Armato], mancano tracce delle riunioni regolari della C.E. [Commissione Edilizia], manca il pagamento dei contributi dovuti per la Cassa di Provvidenza Ingengeri e Architetti”.

Tutti i contratti con privati risultano essere stati scritti alla presenza del notaio Di Liberto Di Chiara di Bagheria, “assistito dal professionista Nicolò Giammanco che è indicato dagli stessi come consulente tecnico”.

Quindi un controllo totale della situazione speculativa delle aree vincolate.

“Alcuni di questi lotti risultano inoltre acquistati dallo stesso ingegner Giammanco.”

La Soprintendenza, messa all’erta dalle relazioni della Commissione (ma possibile che non se

ne fosse accorta prima?), dichiara che non darà mai il permesso di costruire nelle zone vincolate. Ma nessuno evidentemente tiene conto delle dichiarazioni della Soprintendenza, poiché le “Amministrazioni comunali proprio in quel periodo autorizzavano la nuova lottizzazione sulla strada Seconda e lasciavano che si costruissero nuovi palazzi in zona verde”.

Insomma le relazioni della Commissione, come le parole della Soprintendenza sono rimaste lettera morta. I lavori hanno continuato a imperversare, e i due polmoni verdi di Bagheria sono stati “mangiati in due bocconi”. Al loro posto abbiamo una scuola elementare tirata su in un deserto di terra e fango, un liceo che non è mai stato finito e, per di più, un mare di case nuove, affastellate in dispregio di ogni regola architettonica e urbanistica.

Alla fine, quando le carte della Commissione sono state rese pubbliche e se ne è parlato anche sui giornali, anziché punire i colpevoli e riparare (nei limiti del possibile) ai danni fatti, si è risolto tutto con una sanatoria, un condono che mandava assolti gli speculatori con una piccola multa. Per la precisione: il signor Nicolò Giammanco è stato prosciolto nel ’73 dalle accuse di interessi privati in atti di ufficio e falsità ideologica per amnistia e per insufficienza di prove e, nel ’75, avendo lui ricorso in Appello, il suo caso è stato giudicato “inammissibile” e il signor Giammanco è stato condannato a pagare le spese di giudizio.

In questo modo le straordinarie ville settecentesche di Bagheria, che sono fra le più preziose ricchezze della Sicilia, sono state private dei loro contorni, rimanendo lì, in mezzo alle case, come testimoni intirizziti e malmenati di un passato che si ha fretta di distruggere.

Basti pensare ai famosi mostri in pietra arenaria della villa Palagonia, tanto originali e stravaganti da avere richiamato, ad ammirarli, a fotografarli, a scriverne, gente da tutto il mondo. Ma mentre una volta questi capolavori del grottesco barocco si stagliavano elegantemente contro il cielo, oggi sono come inghiottiti da una cortina di case, di appartamenti arrampicati gli uni sugli altri disordinatamente.

Ho chiesto al professor Nino Morreale se oggi l’atmosfera a Bagheria è cambiata. E lui mi ha risposto: “Finché un magistrato non si deciderà a studiare a fondo gli atti dell’amministrazione di Bagheria, e finché tutto rimane affidato alla buona volontà dei pochi cittadini che si prendono questa briga, non ci sono molte possibilità di cambiamento”.

tratto da Dacia Maraini, Bagheria, Milano 1993.

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Fulvia Grandizio

15 April 2014

Memorie di Adriano. Esplorazioni in una città ai confini dell’impero.

Qualcosa da cui ricominciare. Architetture senza tempo, che a guardarle oggi ti sembrano ancora belle di quella bellezza sospesa che avevano nelle foto in bianco e nero scattate al tempo della loro costruzione. Una candidatura a sito Unesco per farsi conoscere al mondo, per salvare queste architetture e i luoghi in cui sono inserite, che sono stati gradualmente contaminati nei loro spazi interstiziali da intrusioni speculative e “distrazioni” urbanistiche, ma anche per guardarsi con gli occhi dell’altro e ricordare a noi stessi, in quest’angolo di Canavese ai confini dell’impero, ciò di cui siamo stati protagonisti. È il tardo inverno 1960, il 27 febbraio Olivetti muore improvvisamente. Ivrea si paralizza – è carnevale – i festeggiamenti sono annullati. Il vuoto lasciato da Adriano sarà riempito dal solo disorientamento.

Il Palazzo Uffici pensato per riunire tutte le funzioni direzionali dell’azienda è appena stato commissionato ma una crisi finanziaria interna all’azienda farà perdere l’occasione di vedere interamente realizzata la sistemazione esterna, non priva di echi di esotismo, a firma del paesaggista Pietro Porcinai. Accedere all’atrio, entrare in contatto con la scala centrale, elemento a pianta esagonale di snodo dei tre corpi di fabbrica articolati tra loro nella forma di un’elica, è un’esperienza sorprendente. Architettura che avvolge, ipnotizza, strania e spinge lo sguardo verso l’alto dove una volta a scaglie di prismi di vetro esagonale rimanda all’operosità di un alveare.

La storia dell’impresa Olivetti è la storia della produzione di un’idea organica, declinata quasi in ogni campo del sapere e dell’agire umano. Oggi di tutto quello che è stato resta ancora tangibile il suo essersi concretizzata in manufatti architettonici e raccontare forma e funzione di alcuni tra i più rappresentativi è un modo per rievocare il significato di questa idea. 1941: inaugurazione dell’Asilo nido Olivetti. Gli architetti Luigi Figini e Gino Pollini applicano alla lettera l’autarchia nella forma di citazione elegante del genius loci di quella città costruita su colli che è Ivrea. Si fanno beffe della retorica dell’architettura littoria disegnando spazi funzionali, articolati in blocchi parallelepipedi, razionalisti, che hanno una pelle in pietra locale. Il giardino che asseconda le curve di livello delle rocce dioritiche, un pergolato i cui pilastri sono tagliati nella foggia dei pali in pietra che reggevano le viti, un tempo abbondanti in quelle terre e la vasca d’acqua, che non c’è più, in cui generazioni di bambini si sono divertiti sotto l’occhio attento delle educatrici. E poi gli interni, con una distribuzione calibrata sulle diverse attività che diventerà un modello e, disegnati appositamente, i giocattoli di legno come l’elefante-scivolo e le grandi ceste con le ruote per trasportare i piccoli ospiti.

Poco distante, su via Jervis, arteria lungo la quale si trova gran parte degli edifici aziendali delle origini, la coppia Figini e Pollini ha lasciato un altro segno indelebile nel fabbricato dei Servizi sociali, realizzato tra 1955 e 1959 e giocato sulla modularità dell’elemento esagonale. Suddivisa in due corpi, la struttura a nastro che ospitava nel primo l’infermeria, mentre nel secondo offriva ai dipendenti la possibilità di formazione culturale con una biblioteca sempre aggiornata e, per certi temi come la saggistica e le scienze sociali addirittura specialistica, è non a caso collocata di fronte al principio di tutto: la fabbrica. Ovvero le fabbriche. Dove ha origine via Jervis si trova l’edificio industriale in mattoni a vista in cui Camillo Olivetti insediò nel 1908 la sua officina-laboratorio di meccanica di precisione e in cui creò la prima macchina da scrivere. In adiacenza sono sorti i successivi ampliamenti, tutti firmati Figini e Pollini. I due architetti realizzarono il primo stabilimento a concezione moderna tra 1934 e 1936; al suo interno fu pensato il «Salone dei 2000», spazio di riunione che poteva accogliere i 2000 dipendenti Olivetti di allora. Pochi anni dopo seguono il 2° e 3° ampliamento delle Officine I.C.O. (Ingegner Camillo Olivetti) edifici razionalisti dalle facciate interamente vetrate che saranno completati alla fine degli anni ’40. Chiudono la serie gli stabilimenti della «Nuova I.C.O» sorti tra 1955 e 1957.

A sud della cortina delle fabbriche, la mensa, progettata da Ignazio Gardella alla metà degli anni ’50, è ormai irriconoscibile negli interni frazionati e privati degli arredi, brulicanti di attività diverse. Ma percorrendone il perimetro esterno, anch’esso articolato secondo una geometria esagonale, si ha la sensazione spaesante di trovarsi in Scandinavia, circondati da un abbraccio di rocce e di alberi della flora spontanea di Monte Navale. Qui i pasti erano confezionati sfruttando una filiera corta antesignana con materie prime provenienti da realtà agricole locali che gravitavano nell’orbita aziendale: i cosiddetti stabilimenti I-Rur (Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale del Canavese) e allo stesso tempo questo è il luogo in cui si sono esibiti o hanno fatto conferenze con cadenza quasi settimanale i nomi più importanti della cultura e dell’arte italiana del secondo dopoguerra. Queste architetture, con le loro funzioni e la progettazione minuziosa, raccontano di un meccanismo d’impresa costruito secondo una «organizzazione scientifica del lavoro» efficiente. Fin dagli anni ’30 del Novecento la politica aziendale era fondata sulla convinzione che fosse indispensabile crescere una manodopera qualificata, indenne da discriminazioni, e conservarla investendo in formazione permanente. Salute e sicurezza sul lavoro erano normati e, per accrescere la fedeltà dei lavoratori, il sostegno aziendale aveva sviluppato i servizi sociali (asili e scuole), la rete dei trasporti e concesso finanziamenti per le ristrutturazioni delle abitazioni dei dipendenti dell’hinterland eporediese.

Raggiunto il pieno controllo dell’azienda Adriano è profondamente convinto che la qualità dei prodotti sia indissolubile dal loro appeal estetico e per questo, oltre che nella ricerca, investe un’alta percentuale dei proventi nel design e nel marketing. Olivetti ritiene prioritario che la redistribuzione dei profitti ricada sulla comunità che li ha generati e giunge, anche in momenti di crisi, alla scelta di non sacrificare la manodopera in esubero preferendo incrementare la rete della commercializzazione. Negli occhi di chi ha vissuto dal basso, ma non solo, l’esperienza olivettiana traspare una nostalgia che è fatta di orgoglio, di percorsi di riscatto sociale costruiti sull’accesso facilitato all’istruzione, nell’incredulità di quanto fossero all’avanguardia i servizi sociali di cui si è goduto e di quanto queste condizioni lavorative abbiano migliorato la qualità della vita e la “felicità” di un dipendente. Ma il risultato del miglioramento delle condizioni di vita materiali e di accrescimento culturale sono stati cinquant’anni vissuti in una perenne elaborazione del lutto. Come ha osservato il sociologo Luciano Gallino, che lavorò all’Olivetti dal 1956 al 1971 «Dall’ingegner Adriano davvero tutti si aspettavano tutto». Una dipendenza psicologica che è durata nel tempo e ha paralizzato iniziativa e volontà. L’eredità immateriale lasciata da Adriano ha un valore immenso per questi luoghi perché è qui, in una terra di confine, che hanno attecchito prima la fortuna della fabbrica di Camillo, innovativa rispetto alla produzione tessile dominante, e poi l’utopia comunitaria di Adriano.

Tuttavia si legge oggi ovunque in città un senso di rinuncia, di smantellamento, nel vedere che di anno in anno le immobiliari che gestiscono le proprietà ex-Olivetti vendono pezzi di storia sotto gli occhi dell’amministrazione comunale che gestisce il MAAM, il museo di architettura all’aria aperta delle architetture d’impresa. Tutto accade senza che si sollevi alcun movimento di opinione.Tutelare architetture del XX secolo senza museificarle, consapevoli che cambi di destinazione d’uso comportano adeguamenti che devono essere concessi sensibilizzando le multinazionali, che ne sono ora proprietarie, del valore storico e simbolico di questi edifici e di conseguenza difendere l’idea di cui esse sono espressione è la sfida che si propone la candidatura Unesco per l’Ivrea company town. Ma insieme a questo occorre puntare sul recupero e sul ripensamento, alla luce delle tecnologie di cui oggi si dispone, di prassi ancora valide come il radicamento al territorio dell’impresa, l’applicazione del part-farm-time, con il conseguente rispetto del paesaggio che veniva dal non sradicare i dipendenti dalle loro case – spesso sperdute in luoghi di montagna – e dal lavoro agricolo ad esse connaturato, grazie a una rete di trasporti aziendale capillarmente diffusa in Canavese. Corsi e ricorsi della storia. L’Olivetti dei tempi migliori era fuori dalla Confindustria. Una posizione che significava avere contro i capitalisti, che non comprendevano il motivo per cui Adriano non desse assoluta priorità al profitto, ma anche i marxisti, che lo accusavano di paternalismo. Il non aderire alla Confindustria era una decisione risoluta che aveva, di certo, un significato opposto a quello che la stessa scelta assume oggi per una nota impresa nazionale.

In una situazione come l’attuale, in cui l’unica realistica flessibilità del lavoro è l’adattamento del dipendente all’arbitrio dell’impresa, una riflessione sull’esperienza olivettiana riaprirebbe le menti verso un vissuto che è stato reale e che oggi appare surreale. Ricostruire la città a misura dell’uomo e non del solo profitto. È lo spirito di questi tempi malati che ce lo chiede.

Fulvia Grandizio, Memorie di Adriano. Esplorazioni in una città ai confini dell’impero, in «Domusweb», 4 ottobre 2012.

  

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La Piave

15 April 2014

La Piave è un processo di conoscenza, esplorazione, di ricerca-azione fatta con i piedi e con gli occhi, attraverso le mani: 220 km di viaggio in un territorio acquatico imprendibile, cangiante, in cui micro e macro si fondono, dialogano tra scienza e natura, rappresentazione e racconto. La Piave è il desiderio di fiume, delle sue sponde, di poterlo vivere come luogo di aggregazione e d’incontro: è la necessità di ritornare a navigarlo, di starci dentro, come un ventre materno. La Piave è la ricerca di un’identità, dell’essere fiume che vuole ritrovare il suo spazio fisico di movimento, riaffermando una dimensione unitaria, una giacitura in cui far convivere molteplici azioni umane, in equilibrio.
 

 

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