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LESSICO NATURALE

Stendhal

28 Ottobre 2017

Libro primo

I. Una città piccola

La cittaduzza di Verrières può passare per una delle più graziose della Franca Contea. Le sue case bianche con i tetti a punta, di tegole rosse, si stendono sul declivio d’una collina, sulla quale boschi di vigorosi castagni segnano le minime sinuosità. Il Doubs scorre qualche centinaio di piedi al di sotto delle sue fortificazioni, costruite già dagli Spagnoli, e oggi in rovina.

Verrières è riparata verso nord da un’alta montagna, che dirama dal Giura. Le cime frastagliate del Verra si coprono di neve ai primi freddi dell’ottobre. Dalla montagna si precipita un torrente che attraversa Verrières prima di gettarsi nel Doubs, e dà movimento a una quantità di seghe da legname: industria assai semplice, che procura qualche agiatezza ai più degli abitanti, piuttosto contadini che borghesi. Tuttavia non le seghe arricchirono la piccola città. L’agiatezza generale che, dopo la caduta di Napoleone, ha permesso di rifare la facciata a quasi tutte le case di Verrières, è dovuta alla fabbrica di tele colorate.

Al primo entrare nella città, vi stordisce il fracasso d’una macchina fragorosa e di terribile apparenza. Venti martelli pesanti sono alzati da una ruota mossa dall’acqua del torrente, e ricadono rumorosamente facendo tremare il suolo. Ognuno di questi martelli batte ogni giorno migliaia e migliaia di chiodi. Giovanette fresche e belle porgono ai colpi di questi martelli enormi i pezzettini di ferro che rapidamente sono trasformati in chiodi. Questo lavoro, così rude in apparenza, è uno di quelli che più meravigliano il viaggiatore che s’addentra per la prima volta nelle montagne che separano la Francia dalla Svizzera. Se, entrando in Verrières, il viaggiatore domanda a chi appartiene la bella fabbrica di chiodi che assorda tutti quelli che salgono per via Grande, si sente rispondere con un accento strascicato: – Eh! È del signor Sindaco.

Per pochi momenti che il forestiere si trattenga sulla strada grande di Verrières, che sale dalla riva del Doubs fin verso il sommo della collina, c’è da scommettere cento contro uno che vi vedrà comparire un signore alto, con aria affaccendata d’uomo importante.

Al suo giungere, tutti i cappelli si levano subito. I suoi capelli son quasi grigi, è vestito di grigio. È cavaliere di molti ordini; ha fronte alta, naso aquilino, nell’insieme il suo aspetto è abbastanza regolare: sembra persino, a prima vista, che esso congiunga alla dignità del Sindaco quella specie di garbo che può ancora trovarsi nell’uomo di quarantotto o cinquant’anni. Ma subito dopo il parigino è offeso da una cert’aria di compiacimento e di sufficienza, commista a qualcosa di inintelligente, e di poco geniale. Si sente, da ultimo, che l’ingegno di quell’uomo si limita a farsi pagare puntualmente quanto gli è dovuto, e a pagare per conto suo il più tardi possibile quando deve pagare.

Tale è il Sindaco di Verrières, il signor Rênal. Dopo aver traversato la strada a passi gravi, entra al Municipio e scompare agli occhi del viaggiatore. Ma, continuando la passeggiata, questi, cento passi più su, scorge una casa di bell’aspetto, e, attraverso un cancello di ferro che continua la casa, un magnifico giardino. Più lontana, all’orizzonte, la linea delle colline borgognone, che par fatta ad arte per il piacere degli occhi. Questa veduta fa dimenticare al viaggiatore l’aria appestata di piccoli interessi economici da cui comincia a sentirsi asfissiato.

Lo informano che quella casa è del signor Rênal. Il Sindaco di Verrières deve ai guadagni della fabbrica di chiodi la bella casa di pietra che è stata compiuta or ora. Dicono che la sua famiglia sia spagnuola, antica, e, si aggiunge, stabilita in paese assai prima della conquista di Louis XIV.

Col 1815, egli ha cominciato ad arrossire di essere un industriale: il 1815 l’ha fatto Sindaco. Le muraglie che sostengono le varie parti del magnifico giardino che, di terrazza in terrazza, scende fino a Doubs, sono anch’esse frutto della abilità del signor Rênal nel commercio del ferro.

Non v’aspettate di trovare in Francia quei giardini pittoreschi che circondano le città industriali tedesche: Lipsia, Francoforte, Norimberga, ecc. Nella Franca Contea, più muri si costruiscono, più si fa la propria terra irta di pietre accomodate le une sulle altre, più s’acquista diritto al rispetto dei vicini. I giardini del signor Rênal, pieni di muri, sono anche ammirati perché egli ha comperato a peso d’oro taluni piccoli pezzi del terreno ch’essi occupano. Per esempio, quella sega da legname, la cui situazione singolare vi ha colpiti entrando in Verrières, e sulla quale avete visto scritto Sorel a caratteri giganteschi su di una tavola che domina il tetto, occupava sei anni fa lo spazio su cui ora sta levandosi il muro della quarta terrazza dei giardini del signor Rênal.

Nonostante il suo orgoglio, il Sindaco ha dovuto insistere molto presso il vecchio Sorel, contadino duro e testardo; e ha dovuto contargli i bei luigi d’oro per ottenere che trasportasse altrove la sua segheria. Quanto al ruscello pubblico che muoveva la sega, il signor Rênal, col favore di cui gode a Parigi, ha ottenuto che fosse deviato. Questa grazia gli fu data dopo le elezioni del 182*.

Ha dovuto dare al Sorel, una quantità di terreno quattro volte maggiore, cinquecento passi più giù, sulla riva del Doubs. E, sebbene, questa località fosse assai più propizia al suo commercio di tavole d’abete, papà Sorel – come lo chiamano da quando è ricco – ebbe l’abilità di ottenere dall’impazienza e dalla mania di proprietario, che animava il suo vicino, la somma di seimila lire.

Vero è che questa conclusione fu criticata dalle teste forti del luogo. Una volta, una domenica, quattro anni fa, il signor Rênal, tornando dalla messa in abito da Sindaco, vide da lontano il vecchio Sorel, circondato da’ suoi tre figli, che sorrideva guardando verso lui. Questo sorriso ha fatto una luce fatale nell’animo del Sindaco: da quel giorno, egli non cessa di pensare che avrebbe potuto ottenere il cambio a miglior patto.

Per conquistarsi a Verrières la pubblica stima, l’importante è di non servirsi, pur fabbricando molto e molto muro, di qualche piano importato dall’Italia dai muratori che la primavera traversano le gole del Giura per recarsi a Parigi. Una siffatta novità varrebbe all’imprudente proprietario un’eterna fama di testa stramba, ed egli sarebbe esautorato per sempre presso le persone sagge e moderate che hanno il monopolio della pubblica stima nella Franca Contea.

In realtà, costoro vi esercitano il dispotismo più tedioso; ciò appunto fa impossibile la dimora nelle città piccole a chi ha vissuto in quella gran repubblica che si chiama Parigi. La tirannia dell’opinione pubblica – e quale opinione! – è nelle piccole città di Francia idiota quanto negli Stati Uniti d’America.

II. Un sindaco

Fortunatamente per la reputazione del signor Rênal, come amministratore, un’immensa muraglia di sostegno era necessaria alla passeggiata pubblica che costeggia la collina un cento piedi più su del corso del Doubs. Essa deve a questa postura ammirevole una delle vedute più pittoresche della Francia. Ma ad ogni primavera le acque piovane solcavano la strada, vi scavavano frane, la facevano impraticabile. Questo danno, di cui tutti risentivano, mise il signor Rênal nella fortunata necessità di immortalare la propria amministrazione mediante un muro di venti piedi di altezza, lungo trenta o quaranta tese.

Il parapetto di questo muro, – per cui il signor Rênal ha dovuto fare tre viaggi a Parigi perché il penultimo ministro s’era dichiarato nemico mortale della passeggiata di Verrières, – il parapetto di questo muro s’innalza ora di quattro piedi dal suolo. E, come per sfidare tutti i ministri presenti e passati, lo si viene guarnendo di lastre di pietra.

Quante volte pensando ai balli di Parigi lasciati il dì innanzi, appoggiato a quei grandi massi di pietra di un bel grigio azzurrastro, i miei sguardi si sono sommersi nella vallata del Doubs! Di là, sulla riva sinistra, serpeggiano cinque o sei valli in fondo alle quali l’occhio scorge benissimo i ruscelletti. Corrono di cascata in cascata e vanno a gettarsi nel Doubs. Il sole è assai caldo tra queste montagne, quando piomba diritto; ma sulla terrazza la contemplazione del viaggiatore è protetta da platani magnifici. Questi debbono il loro rapido crescere e il loro bel verde azzurro alla terra che il Sindaco ha fatto trasportare qua e porre dietro la immensa muraglia di sostegno; poiché egli, nonostante l’opposizione del consiglio municipale, ha allargato la passeggiata di oltre sei piedi (sebbene egli sia ultra, ed io liberale, ne lo lodo; nell’opinione sua e in quella del signor Valenod, il fortunato direttore del Ricovero di mendicità di Verrières, questa terrazza può sostenere il paragone con quella di Saint-Germain-en-Laye).

Per conto mio, ho un solo appunto da muovere al corso della Fedeltà (si legge questo nome ufficiale in quindici o venti punti, su targhe marmoree che meritarono una croce di più al signor Rênal): gli rimprovero il modo barbaro con cui l’autorità fa recidere e tondere fino al vivo quei platani vigorosi. Invece di ricordare, con le loro teste basse, rotonde e piatte, la più volgare delle verdure da orto essi agognerebbero a quell’aspetto magnifico che i loro simili hanno in Inghilterra. Ma la volontà del signor Sindaco è dispotica, e due volte l’anno tutti gli alberi di proprietà del Comune sono spietatamente amputati. I liberali del luogo sostengono – ma è un’esagerazione – che la mano del giardiniere ufficiale è diventata molto più severa da quando il vicario di Maslon ha preso l’abitudine d’impossessarsi dei prodotti di taglio.

Questo giovane ecclesiastico fu mandato a Besançon, or è qualche anno, per sorvegliare l’abate Chélan e alcuni curati dei dintorni. Un vecchio chirurgo dell’armata d’Italia, in ritiro a Verrières, che era, a detta del Sindaco, giacobino, insieme e bonapartista, osò un giorno lamentarsi con lui della mutilazione periodica di quei belli alberi.

– Amo l’ombra – rispose il signor Rênal con una sfumatura di alterigia, opportunissima quando si parla a un chirurgo, membro della Legion d’onore; – amo l’ombra, faccio tagliare i miei alberi per dare ombra, e non ammetto che un albero sia fatto per altro scopo, quando, come l’utile noce, non rende alcun frutto.

Ecco la gran parola che conclude tutto a Verrières: render frutto; parola che, sola, rappresenta il pensiero consueto di più di tre quarti dei cittadini.

Render frutto è la ragione che risolve ogni cosa in questa piccola città che vi pareva così graziosa. Il forestiero che vi giunge, sedotto dalla bellezza delle fresche e profonde vallate che la circondano, s’immagina in sulle prime che gli abitanti siano sensitivi al bello; essi parlano anche troppo della bellezza del loro paese, non si può negare che non ne facciano assai caso; ma la ragione è che quella bellezza invita qualche forestiero il cui danaro arricchisce gli albergatori, il che, mediante il meccanismo del dazio comunale, rende alla città. […]

tratto da Stendhal, Il rosso e il nero, trad.it. Massimo Bontempelli, Roma 1994.

Titolo originale Le Rouge et le Noir. Chronique de 1830; prima edizione 1831.

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Viaggiare?

15 Agosto 2017

Viaggiare? Per viaggiare basta esistere. Passo di giorno in giorno come di stazione in stazione,  nel treno del mio corpo, o del mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze,  sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi. Se immagino, vedo. Che altro faccio se viaggio? Soltanto l’estrema debolezza dell’immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire. “Qualsiasi strada, questa stessa strada di Enterpfuhl, ti porterà in capo al mondo”. Ma il capo del mondo, da quando il mondo si è consumato girandogli attorno, è lo stesso Enterpfuhl da dove si è partiti. In realtà il capo del mondo, come il suo inizio, è il nostro concetto del mondo. E’ in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo, se li creo esistono; se esistono li vedo come vedo gli altri.  A che scopo viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, al Polo;  dove sarei se non dentro me stesso e nello stesso genere delle mie sensazioni? La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.

Tratto da: Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine

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The Only Living Boy in New York

15 Luglio 2017

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Ettore Sottsass

25 Maggio 2017

India

Fui a India muchas veces y espero poder volver porque me siento muy bien en India. Me siento bien porque hace calor y el calor acelera mi existencia como una droga.

Me siento muy bien porque en la India no se esconde la vida: ni la vida ni la muerte; Veo niños corriendo por la calle, niñas pequeñas que salen de la escuela con sus vestidos azules y rosas y cintas y flores en el pelo, veo gente en bicicleta que se va con montones de paja en la cabeza. En la India veo ancianos sentados a la sombra de un árbol y veo a otros ancianos muriendo lentamente tumbados al sol en las escaleras del templo; Veo gente sana, veo gente enferma, veo gente pobre y gente rica, más o menos, y veo gente heterosexual y gente toda retorcida, todo en la calle, en medio de alboroto, gritos, bocinas, campanas de bicicletas, en medio de vacas blancas errantes, vacas tristes.

En las calles, en los caminos, en el campo, la presencia del universo está en todas partes, toma el nombre de varias divinidades, toma infinitas figuras, a veces hasta un cartel rojo, una tarjeta de plata, un fuego, una inmensa procesión con elefantes, banderas, tambores y collares de flores. El universo está en todas partes, todos son el universo, toda la tierra es el universo, los enfermos y los curados son el universo: dondequiera que esté Dios y quien sea Dios.

Por lo tanto, la India también está llena de templos: templos grandes, templos pequeños, templos muy pequeños; incluso algunas esquinas pueden convertirse en un templo. En la India, los templos antiguos y los templos más antiguos y los templos nuevos siempre están llenos de gente, día y noche. Aunque no tenga religión para mí, en esos templos me siento muy bien, hay gente tranquila, todos andan descalzos, hay sombras misteriosas y luces inesperadas, a veces hasta árboles inmensos, decorados con cintas de tela descolorida o de campanas o estatuillas. , también hay gente que vende cosas, gente que trae aceite, gente que corre detrás de los niños, gente que se lava en grandes piscinas verdes, gente que duerme en el suelo e incluso gente que se queda parada mirando al espacio.

Los que miran al espacio son los que más me gustan; porque solo ellos son parte total del universo. ¿Dónde mira el universo? En silencio, el universo rueda sobre sí mismo, envía radiaciones, temperaturas, gravitaciones, aceleraciones, etc. y mira al vacío.

¿Dónde miran los manantiales, los inviernos, las tormentas, hacia dónde mira el mar? En el vacío. Solo nos fijamos en la llave de alarma, el monedero, el reloj, la fecha de nacimiento, el nombre que figura en el carnet de identidad facilitado por el ayuntamiento.

En cambio, en la India hay quienes miran al espacio. También están los que duermen en el suelo, en cualquier lugar, los que mueren lentamente al sol, en las escalinatas de un templo y luego son quemados para siempre, en el polvo del crepúsculo.

Cuando toda la existencia sin complicaciones, la existencia reducida a sí misma está en la calle, cuando no está escondida, no está cubierta de mentiras, falsificaciones, astucias, secretos, cuando todo está en camino, entonces me siento bien, no tengo nada más. perder: ya no me asustan las flores, ni los colores, ni las sonrisas, ni los cadáveres, llevados a pie hacia el río, quizás ni la pobreza, que es de otros pero que también puede ser mía; tal vez incluso podría encargarme de ello.

Por eso me siento bien en la India; cada vez que me siento bañado en una inmensa tormenta depurativa, cada vez que me quedo un poco más desnudo, cada vez que he experimentado algo más, me parece un poco más claro, un poco más ligero.

 

 

Ettore Sottsass, India, en “Casa Vogue”, (1994)

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Les oreilles malades de Beethoven

22 Maggio 2017

Entre le XVIIIe et le XIXe siècle, un musicien nommé Beethoven a vécu à Vienne. Les gens le taquinaient parce que c’était un type extravagant, de petite taille et avec une drôle de tête. Les bourgeois étaient scandalisés par ses compositions. « Mais, disaient-ils, c’est dommage, cet homme a les oreilles malades. Son esprit conçoit des dissonances effrayantes. Cependant, puisqu’il prétend que ce sont des harmonies sublimes et compte tenu du fait facilement démontrable que nos oreilles sont en bonne santé, cela signifie que ses oreilles sont malades. Vraiment dommage ! ».

Les nobles, en revanche, qui grâce aux droits que le monde leur avait conférés reconnaissaient aussi les obligations qu’ils devaient respecter envers lui, lui donnèrent l’argent nécessaire pour qu’il pût composer ses œuvres. Les nobles avaient également le droit de faire jouer un opéra de Beethoven à l’Opéra impérial. Mais les bourgeois qui encombraient le théâtre décrétèrent un tel échec au travail qu’ils n’eurent plus le courage d’organiser une répétition.

Cent ans ont passé depuis et les bourgeois écoutent avec émotion les œuvres du musicien malade et fou. Sont-ils devenus nobles, comme ces nobles de 1819, et ont-ils peut-être développé un sentiment de respect pour la volonté du génie ? Non, ils sont tous tombés malades. Tout le monde a maintenant les oreilles malades de Beethoven. Pendant tout un siècle, les dissonances du divin Beethoven ont hanté leurs oreilles. Et les oreilles n’ont pas pu résister. Tous les détails anatomiques, tous les osselets, les labyrinthes, les tympans et les trompettes ont pris les formes malades caractéristiques de l’oreille de Beethoven. Et cette drôle de tête, que les gamins pourchassaient après s’être moquée de lui, est devenue pour le peuple la face spirituelle du monde.

C’est l’esprit qui construit son propre corps.

Extrait de : Adolf Loos, Words in the void, (1913)

 

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Karl Marx – Friedrich  Engels

1 Aprile 2017

I comunisti sprezzano l’idea di nascondere le proprie opinioni e intenzioni. Essi dichiarano apertamente di poter raggiungere i loro obiettivi solo con il rovesciamento violento di ogni ordinamento sociale finora esistente. Che le classi dominanti tremino al pensiero di una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi altro che le proprie catene. Da guadagnare hanno un mondo.

Proletari di tutti i paesi, unitevi!

Dal Manifesto del Partito Comunista, Karl Marx – Friedrich  Engels –  (1848)

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Ettore Sottsass

8 Marzo 2017

Inde

Je suis allé plusieurs fois en Inde et j’espère pouvoir y retourner car je me sens très bien en Inde. Je me sens bien car il fait chaud et la chaleur accélère mon existence comme une drogue.

Je me sens très bien car en Inde la vie n’est pas cachée : ni la vie ni la mort ; Je vois des enfants courir dans la rue, des petites filles quittant l’école avec leurs robes bleues et roses, des rubans et des fleurs dans les cheveux, je vois des gens à vélo partir avec des tas de paille sur la tête. En Inde je vois des vieillards assis à l’ombre d’un arbre et je vois d’autres vieillards mourir lentement allongés au soleil sur les marches du temple ; Je vois des gens sains, je vois des gens malades, je vois des pauvres et des riches, plus ou moins, et je vois des hétéros et des gens tous tordus, tous dans la rue, au milieu de l’agitation, des cris, des klaxons, des cloches des vélos, au milieu des vaches blanches errantes, des vaches tristes.

Dans les rues, dans les chemins, à la campagne, la présence de l’univers est partout, il prend le nom de diverses divinités, il prend des chiffres infinis, parfois même un panneau rouge, une carte d’argent, un feu, une immense procession avec éléphants, drapeaux, tambours et colliers de fleurs. L’univers est partout, tout le monde est l’univers, la Terre entière est l’univers, les malades et les guéris sont l’univers : partout où il y a Dieu et qui que ce soit est Dieu.

Donc l’Inde regorge aussi de temples : de grands temples, de petits temples, de très petits temples ; même certains coins de rue peuvent devenir un temple. En Inde, les temples anciens et les temples plus anciens et les nouveaux temples sont toujours pleins de monde, de jour comme de nuit. Même si je n’ai pas de religion pour moi, dans ces temples je me sens très bien, il y a des gens calmes, ils marchent tous pieds nus, il y a des ombres mystérieuses et des lumières inattendues, parfois même des arbres immenses, décorés de rubans de tissus délavés ou de cloches ou de statuettes , il y a aussi des gens qui vendent des trucs, des gens qui apportent du pétrole, des gens qui courent après les enfants, des gens qui se lavent dans de grandes piscines vertes, des gens qui dorment par terre et même des gens qui restent là à regarder dans l’espace.

Ceux qui regardent dans l’espace sont ceux que j’aime le plus ; car eux seuls font totalement partie de l’univers. Où regarde l’univers ? En silence, l’univers roule sur lui-même, émet des radiations, des températures, des gravitations, des accélérations, etc., et regarde dans le vide.

Où regardent les printemps, les hivers, les tempêtes, où se regarde la mer ? Dans le vide. Seulement on regarde la clé du réveil, le sac à main, la montre, la date de naissance, le nom sur la carte d’identité fournie par la mairie.

Au lieu de cela, en Inde, il y a ceux qui regardent dans le vide. Il y a aussi ceux qui dorment par terre, n’importe où, ceux qui meurent lentement au soleil, sur les marches d’un temple et qui sont ensuite brûlés à jamais, dans la poussière du couchant.

Quand toute existence simple, l’existence réduite à elle-même est dans la rue, quand elle n’est pas cachée, elle n’est pas couverte de mensonges, de faux, de ruse, de secrets, quand tout est en route, alors je me sens bien, je n’ai plus rien perdre : les fleurs ne me font plus peur, pas même les couleurs, pas même les sourires, pas même les cadavres, emmenés à pied vers le fleuve, peut-être même pas la pauvreté, qui appartient aux autres mais qui pourrait être aussi la mienne ; peut-être que je pourrais même le prendre sur moi.

C’est pourquoi je me sens bien en Inde ; chaque fois que j’ai l’impression d’être baigné dans un immense orage purificateur, chaque fois que je reste un peu plus nu, chaque fois que j’ai vécu quelque chose de plus, cela me semble un peu plus clair, un peu plus léger.

 

 

Ettore Sottsass, Inde, dans “Casa Vogue”, (1994)

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Ettore Sottsass

8 Marzo 2017

India

I went to India many times and I hope to be able to go again because I feel very good in India. I feel good because it is hot and the heat accelerates my existence like a drug.

I feel very good because in India life is not hidden: neither life nor death; I see children running down the street, little girls leaving school in their blue and pink dresses and ribbons and flowers in their hair, I see people on bicycles leaving with piles of straw on their heads. In India I see old people sitting in the shade of a tree and I see other old people slowly dying lying in the sun on the steps of the temple; I see healthy people, I see sick people, I see poor people and rich people, more or less, and I see straight people and people all crooked, all in the street, in the midst of fuss, screams, horns, bells bicycles, in the midst of wandering white cows, sad cows.

In the streets, in the paths, in the countryside, the presence of the universe is everywhere, it takes the name of various divinities, it takes infinite figures, sometimes even a red sign, a silver card, a fire, an immense procession with elephants, flags, drums and flower necklaces. The universe is everywhere, everyone is the universe, the whole Earth is the universe, sick and healed are the universe: wherever there is God and whoever is God.

Therefore India is also full of temples: large temples, small temples, very small temples; even some street corners can become a temple. In India, ancient temples and older temples and new temples are always full of people, day and night. Even if I have no religion for me, in those temples I feel very good, there are calm people, they all walk barefoot, there are mysterious shadows and unexpected lights, sometimes even immense trees, decorated with faded fabric ribbons or from bells or statuettes, there are also people who sell stuff, people who bring oil, people who run after children, people who wash themselves in large green pools, people who sleep on the ground and even people who stand there looking into space.

Those who look into space are the ones I like most of all; because only they are totally part of the universe. Where does the universe look? In silence, the universe rolls on itself, sends out radiations, temperatures, gravitations, accelerations, etc., and looks into the void.

Where do the springs, the winters, the storms look, where does the sea look? In the void. Only we look at the alarm key, the purse, the watch, the date of birth, the name on the identity card provided by the town hall.

Instead in India there are those who stare into space. There are also those who sleep on the ground, in any place, those who die slowly in the sun, on the steps of a temple and who are then burned forever, in the dust of the sunset.

When all uncomplicated existence, existence reduced to itself is on the street, when it is not hidden, it is not covered with lies, fakes, cunning, secrets, when it is all on the way, then I feel good, I have nothing more to lose: the flowers no longer scare me, not even the colors, not even the smiles, not even the corpses, taken on foot towards the river, perhaps not even the poverty, which belongs to others but which could also be mine; maybe I could even take it on me.

This is why I feel good in India; every time I feel like I’m bathed in an immense purifying storm, every time I stay a little more naked, every time I have experienced something more, it seems to me to be a little clearer, a little lighter.

 

 

Ettore Sottsass, India, in “Casa Vogue”, (1994)

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Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

1 Marzo 2017

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

 

Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 22 Marzo 1950

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104 years

20 Gennaio 2017

When I look back I think the world is perverse and life is no joke.

Life is short, it lasts only a moment.

The longer you live, the greater the suffering you go through. As soon as we begin to take a direction, to mature, it is already time to say goodbye to family and friends.

I think that life is, ultimately, an experience that is lived against evil, counteracting evil.

How you do it? By setting a series of principles.

In my case, the battle for what I have always considered right: equality. Precisely because the suffering of others is also ours and we are part of the world. In all cases, the result is always the same: in the end it disappears. Life is a breath. For this you have to learn to cross it in a decent way. Cultivate their own ideas, their own principles, which are like pillars, and carry them with us for the rest of life. This is the great challenge.

We are a bit like a house, we are born with a pre-established design: we grow one step at a time and we can also change, albeit only superficially. Like a house, we can then also be repaired, replacing a door, repainting the walls, but the most attentive will always find the original defects.

I feel saudade of the many passages of my life. Of the time of the college and then of the school of architecture, which in my day was the School of Architecture and Fine Arts. And then of the first loves, of the life that one led as a young man, drinking with friends, playing football, traveling. Above all friendship, which is the most important thing, a good to be preserved and cultivated.

At home we had the piano, and Vinícius de Moraes, Antonio Carlos Jobim, Ary Barroso, and that fantastic figure that is Chico Buarque came to visit us. When I saw him for the first time, Chico was a child because I was a friend of his father, the great historian Sergio Buarque de Hollanda: I designed a house for them, which however was not built, and it was a great regret. Jorge Amado was my friend, and so was Manuel Bandeira, an enormous poet. But how many friends! There is no one left!

Together with Darcy Ribeiro, an extraordinary man, and Leonel Brizola, we created the Cieps Popular Schools project, a work of which I am proud, although I think I could have done more for the people, for the people. Sometimes I think my mission has not been fulfilled!

All my friends ended up exiled because they were political opponents, Brizola stayed in France for a long time, like me. I lived in an apartment on Boulevard Raspail near Saint-Germain, and Paris welcomed me, I went to Jean-Paul Sartre, whom I have always admired and read. I was influenced by his thinking, his pessimism in the face of the pain and suffering of the world.

But I couldn’t stay away from here for too long, from the sea, from Copacabana: I can only live near the sea. I felt saudade from friends, from cariocas.

I was born here.

I remember that, when I returned from school – in short, I was a child – I ate and then immediately went out to play football on the street, until dinner time. The table was large, my grandparents sat at the head of the table, we, the younger ones, on one side and the uncles on the other. We have to imagine a large colonial house full of people and rules: we were six children and we had to sit at the table dressed in full clothes, jacket and cuffs.

I was studying in a religious college, strict, and when something was done wrong the fathers ordered us to write a hundred or two hundred times “I must not speak in class!”, And sometimes I was expelled, and so I went around, I went for a walk. I have always loved walking, walking by the sea, on the beach.

As a child I used to go all the way to Ipanema to see fishermen returning with full nets, women who went to buy fish at dawn, and fresh fish jumping out of their nets! What an impression! The sea has been my guide: I’ve always thought that a place to live is near the sea.

Of course, today I can’t move alone anymore, I always have to ask someone for help, even to go from here to there, and it’s not nice, it’s shit! But what can I do about it?

Patience!

 

Taken from: Oscar Niemeyer, The world is unfair

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104 anni

20 Gennaio 2017

Quando mi guardo alle spalle penso che il mondo è perverso e la vita non è uno scherzo.

La vita è breve, dura il tempo di un attimo.

Quanto più si vive, più grande è la sofferenza a cui si va incontro. Non appena si comincia a prendere una direzione, a maturare, già arriva il momento di dire addio alla famiglia, agli amici.

Penso che la vita è, in definitiva, un’esperienza che si vive contro il male, contrastando il male.

Come si fa? Fissando una serie di principi.

Nel mio caso, la battaglia per ciò che ho sempre ritenuto giusto: l’uguaglianza. Proprio perché la sofferenza degli altri è anche la nostra e noi siamo parte del mondo. In tutti i casi, il risultato è sempre lo stesso: alla fine si sparisce. La vita è un soffio. Per questo bisogna imparare ad attraversarla in modo decente. Coltivare le proprie idee, i propri principi, che sono come pilastri, e portarli con noi per il resto della vita. Questa è la grande sfida.

Siamo un po’ come una casa, nasciamo con un disegno prestabilito: cresciamo un passo alla volta e possiamo anche modificarci, sebbene solo superficialmente. Come una casa, potremo poi anche essere aggiustati, sostituendo una porta, riverniciando le pareti, ma i più attenti ritroveranno sempre i difetti originali.

Sento saudade dei tanti passaggi della mia vita. Del tempo del collegio e poi della scuola di architettura, che ai miei tempi era la Scuola di Architettura e Belle Arti. E poi dei primi amori, della vita che si faceva da giovani, bere con gli amici, giocare a pallone, i viaggi. Soprattutto l’amicizia, che è la cosa più importante, un bene da preservare e coltivare.

In casa avevamo il pianoforte, e venivano a trovarci Vinícius de Moraes, Antonio Carlos Jobim, Ary Barroso, e quella figura fantastica che è Chico Buarque. Quando l’ho visto la prima volta, Chico era un bambino perché io ero amico di suo padre, il grande storico Sergio Buarque de Hollanda: progettai una casa per loro, che però non si fece, e fu un grande rimpianto. Jorge Amado era mio amico, e così Manuel Bandeira, enorme poeta. Ma quanti amici! Non c’è più nessuno!

Insieme a Darcy Ribeiro, un uomo straordinario, e a Leonel Brizola, creammo il progetto delle Scuole popolari Cieps, un’opera di cui sono orgoglioso, anche se penso che avrei potuto fare di più per la gente, per il popolo. A volte penso che la mia missione non si è compiuta!

Tutti i miei amici finirono esiliati perché erano oppositori politici, Brizola restò in Francia a lungo, come me. Io vissi in un appartamento di Boulevard Raspail vicino a Saint-Germain, e Parigi mi accolse, frequentai Jean-Paul Sartre, che ho sempre ammirato e letto. Mi ha influenzato il suo pensiero, il suo pessimismo di fronte al dolore e alla sofferenza del mondo.

Ma non riuscivo a stare per troppo tempo lontano da qui, dal mare, da Copacabana: io posso vivere soltanto vicino al mare. Sentivo saudade degli amici, dei carioca.

Io sono nato qui.

Ricordo che, quando tornavo da scuola – ero insomma un bambino – mangiavo e poi subito uscivo a giocare a pallone per strada, fino all’ora di cena. La tavola era grande, i miei nonni si sedevano a capotavola, noi, più piccoli, da una parte e gli zii dall’altra. Bisogna immaginare una grande casa coloniale piena di gente e di regole: eravamo sei figli e bisognava sedersi a tavola vestiti di tutto punto, giacca e polsini.

Studiavo in un collegio religioso, severo, e quando si faceva qualcosa di sbagliato i padri ci ordinavano di scrivere cento o duecento volte “io non devo parlare a lezione!”, e a volte venivo espulso, e così andavo in giro, andavo a zonzo. Mi è sempre piaciuto molto camminare, camminare in riva al mare, sulla spiaggia.

Da bambino andavo fino a Ipanema a vedere i pescatori che tornavano con le reti piene, le donne che all’alba andavano a comprare il pesce, e il pesce fresco che saltava fuori dalle reti! Che impressione! Il mare è stato la mia guida: ho sempre pensato che un posto dove vivere è vicino al mare.

Certo, oggi non posso più muovermi da solo, devo sempre chiedere aiuto a qualcuno, anche per andare da qui a lì, e non è bello, anzi è una merda! Ma cosa ci posso fare?

Pazienza!

 

Tratto da: Oscar Niemeyer, Il mondo è ingiusto

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Induismo

2 Dicembre 2016

Per comprendere una qualsiasi delle filosofie che ora verranno descritte è importante rendersi conto che esse sono di natura essenzialmente religiosa. Loro scopo principale è l’esperienza mistica diretta della realtà, e poiché questa esperienza è per sua natura religiosa, esse sono inseparabili dalla religione. Più ancora che per qualsiasi altra tradizione orientale, ciò è vero per l’Induismo, nel quale il legame tra filosofia e religione è particolarmente forte. E stato detto che in India quasi tutte le forme di pensiero sono, in un certo senso, di tipo religioso e che l’Induismo non’ solo ha influenzato per molti secoli la vita intellettuale dell India, ma ne ha anche determinato quasi completamente la vita sociale e culturale.

L’Induismo non può essere indicato come una filosofia, e non è nemmeno una religione ben definita. È piuttosto un ampio e complesso organismo socio-religioso formato da un gran numero di sette, di culti e di sistemi filosofici che comprendono vari rituali, cerimonie e discipline spirituali, come pure il culto di innumerevoli divinità maschili e femminili. Le molte sfaccettature di questa tradizione spirituale complessa; tuttora viva e potente, rispecchiano la complessità geografica, razziale, linguistica e culturale del vasto subcontinente indiano. Le manifestazioni dell’Induismo vanno da filosofie di grande valore intellettuale, che comportano concezioni di straordinaria portata e profondità, fino ai rituali più semplici e ingenui seguiti dalle masse. Benché gli Indù siano in maggioranza semplici contadini che mantengono viva la religione popolare nella pratica quotidiana del culto, l’Induismo ha prodotto un gran numero di eminenti maestri spirituali per trasmettere le sue profonde intuizioni.

La fonte spirituale dell’Induismo sono i Veda, una raccolta di antiche scritture redatte da anonimi saggi, i cosiddetti « veggenti » vedici. Esistono quattro Veda, il più antico dei quali è il Rg-veda. Scritti in sanscrito antico, il linguaggio sacro dell’India, i Veda sono tuttora la massima autorità religiosa per la maggior parte delle scuole dell’Induismo. In India, qualsiasi sistema filosofico che non accetti l’autorità dei Veda è considerato non ortodosso.

Ognuno di questi Veda è costituito da numerose parti che furono composte in periodi diversi, probabilmente tra il 1500 e il 500 a.C. Le parti più antiche sono inni sacri e preghiere; quelle successive trattano i rituali sacrificali connessi con gli inni vedici; l’ultima parte, infine, costituita dalle Upanisad, ne sviluppa il contenuto filosofico e pratico. Le Upanisad contengono l’essenza del messaggio spirituale dell’Induismo e hanno guidato e ispirato negli ultimi venticinque secoli le più grandi menti dell’India, in armonia con il consiglio racchiuso in questo brano:

« Avendo afferrato come un arco quella grande arma che è l’arcano insegnamento (Upanisad), incocca in esso la freccia acuita dalla meditazione: avendolo tratto mediante lo spirito concentrato nella meditazione dell’Essere, riconosci questo indefettibile come il bersaglio da colpire, o mio caro »

Tuttavia le masse indiane non hanno ricevuto l’insegnamento dell’Induismo attraverso le Upanisad, ma attraverso un gran numero di racconti popolari raccolti in lunghi poemi epici, che sono la base della vasta e pittoresca mitologia indiana. Uno di questi poemi, il Mahābhārata, contiene il bellissimo poema spirituale della Bhagavad Gītā, il testo religioso più amato di tutta l’India. La Gita, come comunemente viene chiamata, è un dialogo tra il dio Krsna e il guerriero Arjuna, il quale si trova in uno stato di grande disperazione, essendo obbligato a combattere i suoi stessi parenti nella grande guerra familiare che costituisce la vicenda principale del Mahābhārata. Krsna, travestito da auriga di Arjuna, conduce il cocchio esattamente tra i due eserciti e in questo drammatico scenario del campo di battaglia comincia a rivelare ad Arjuna le verità più profonde dell’Induismo. Mentre il dio parla, lo sfondo realistico della guerra tra i due clan familiari si dissolve rapida- mente e risulta chiaro che la battaglia di Arjuna è la battaglia spirituale dell’uomo, la battaglia del guerriero in cerca dell’illuminazione. Krsna stesso fa ad Arjuna questa raccomandazione:

« Quindi, colla spada della conoscenza, recidi questo dubbio che ti siede nel cuore, nato dall’ignoranza. Raggiungi con lo yoga l’unità dell’armonia e sorgi, o Arjuna!».l

Il fondamento del messaggio spirituale di Krsna, come di tutto l’Induismo, è l’idea che la moltitudine di cose e di eventi che ci circondano non siano altro che differenti manifestazioni della stessa realtà ultima. Questa realtà, chiamata Brahman, è il concetto unificante che dà all’Induismo il suo carattere essenzialmente monistico nonostante l’adorazione di un gran numero di dèi e di dee.

Brahman, la realtà ultima, è inteso come il vero « sé », l’anima o l’essenza intima, di tutte le cose. Esso è infinito e trascende tutti i concetti; non può essere compreso dall’intelletto né adeguatamente descritto a parole: « il supremo Brahman senza principio, né essere né non essere ».1

E ancora: « imperscrutabile è questo supremo Sé immensurabile, non nato, impensabile, di cui non si può parlare ».2 Tuttavia la gente vuole parlare di questa realtà e i saggi indù, con la loro caratteristica inclinazione per il mito, hanno raffigurato Brahman come una divinità e ne parlano con il linguaggio mitologico. I vari aspetti del Divino hanno ricevuto i nomi delle diverse divinità venerate dagli Indù, ma i testi sacri indicano chiaramente che tutte queste divinità non sono altro che riflessi dell’unica realtà ultima:

« Allorché si dice: “Sacrifica a tale divinità, sacrifica a tale altra divinità!” e così per tutte le divinità singolarmente, si indica una creazione particolare di lui [Brahman]: egli è, in verità, tutti gli dèi ».3

La manifestazione di Brahman nell’anima umana è chiamata Ātman e l’idea che Ātman e Brahman, la realtà individuale e la realtà ultima, siano una sola cosa è
l’essenza delle Upanisad:

« Per quanto si riferisce all”essenza sottile, invece, è da questa che tutte sono animate; essa è lunica realtà, è L’Ātman, e tu stesso lo sei »

Il tema fondamentale ricorrente in tutta la mitologia indù, è la creazione del mondo mediante il sacrificio che Dio fa di se stesso – « sacrificio » nel senso originale di « rendersi sacro » – per mezzo del quale Dio diviene il mondo, che alla fine ridiventa Dio. Questa attività creativa del Divino è chiamata līlā, il gioco di Dio, e il mondo è considerato lo scenario nel quale si svolge il gioco divino. Come la maggior parte della mitologia indù, il mito di līlā ha un forte sapore magico. Brahman è il grande mago che si trasforma nel mondo, compiendo tale impresa con la sua « magica potenza creativa »; questo è anche il significato originario di māyā secondo il Rg-veda. La parola māyā, uno dei termini più importanti della filosofia indiana, ha mutato il suo significato attraverso i secoli. Da « potere » — o « potenza » — dell’attore e mago divino, è giunta a significare lo stato psicologico di chiunque si trovi sotto l’incantesimo di questo gioco magico. Fintanto che confondiamo la miriade di forme della divina līlā con la realtà, senza percepire l’unità di Brahman che sta alla base di tutte queste forme, siamo sotto l’incantesimo della māyā.

Māyā, perciò, non significa che il mondo è un’illusione, come spesso viene erroneamente affermato. L’illusione, semplicemente, si trova nel nostro punto di vista, se pensiamo che le forme e le strutture, le cose e gli eventi attorno a noi siano realtà della natura, invece di comprendere che sono concetti della nostra mente la quale misura e classifica. Māyā è l’illusione che deriva dallo scambiare questi concetti per realtà, dal confondere la mappa con il territorio.

Nella concezione indù della natura, quindi, tutte le forme sono relative, maya fluida e continuamente mutevole, evocata dal grande mago del gioco divino. Il mondo della māyā cambia continuamente, perché la divina līlā è un gioco ritmico, dinamico. La forza dinamica di questo gioco è il karman, un altro importante concetto del pensiero indiano. Karman, che significa « azione », è il principio attivo del gioco, è l’universo intero in azione, dove tutto è dinamicamente connesso con tutto il resto. Per usare le parole della Gītā « Karman è la forza creatrice che dà origine all’esistenza degli esseri ».

Il significato di karman, come quello di māyā, è stato trasferito dal livello cosmico originario a un livello più basso, quello umano, nel quale ha acquisito un significato psicologico. Finché la nostra concezione del mondo è frammentata, finché siamo sotto l’incantesimo della māyā e pensiamo di essere separati dal nostro ambiente e di poter agire indipendentemente da esso, noi siamo legati dal karman. Essere liberi dal legame del karman significa comprendere l’unità e l’armonia di tutta la natura, compreso l’uomo, e agire di conseguenza. Su questo punto la Gita è molto chiara:

Tutte le azioni avvengono per l’intrecciarsi delle forze della natura; (ma) colui che è traviato dal sentimento del proprio ego pensa: “sono io colui che fa”.

« Ma colui che conosce il rapporto fra le forze della natura e le azioni vede come certe forze della natura agiscono su altre, e non ne diviene schiavo ».1

Essere liberi dall’incantesimo della maya, spezzare i legami del karman, significa comprendere che tutti i fenomeni che percepiamo con i nostri sensi sono parte della medesima realtà. Significa provare concretamente e personalmente che tutto, compreso il nostro stesso io, è Brahman. Questa esperienza è chiamata moksa, o « liberazione », nella filosofia indù ed è la vera essenza del- l’Induismo.

L’Induismo ritiene che esistono innumerevoli vie per la liberazione. Non si aspetta affatto che tutti i suoi seguaci siano in grado di avvicinarsi al Divino nella stessa maniera, e perciò propone concetti, rituali ed esercizi spirituali differenti per differenti modi di consapevolezza. Il fatto che molti di questi concetti o di questi esercizi siano in contraddizione fra di loro non turba minimamente gli Indù, perché essi sanno che Brahman trascende in ogni caso concetti e immagini. Da questo atteggiamento deriva la grande tolleranza e la capacità di assimilazione che caratterizzano l’Induismo.

La scuola più intellettuale è il Vedānta che si basa sulle Upanisad e sottolinea che il Brahman è un concetto impersonale, metafisico, libero da ogni contenuto mitologico. Tuttavia, nonostante il suo livello altamente filosofico e intellettuale, la via di liberazione del Vedanta si differenzia da quella di qualsiasi scuola filosofica occidentale, in quanto comporta una meditazione quotidiana e altri esercizi spirituali finalizzati al raggiungimento dell’unione con il Brahman.

Un altro metodo di liberazione importante e autorevole è noto come yoga, termine che significa « mettere il giogo », « unire », e che indica l’unione dell’anima individuale con il Brahman. Vi sono numerose scuole, o vie », di yoga che comportano alcuni esercizi fisici fondamentali e varie pratiche mentali, destinate a persone di tipo diverso e di differenti livelli spirituali.

Per l’indù comune, il modo più diffuso di avvicinarsi al Divino consiste nel venerarlo nella forma di una divinità personale. La fertile immaginazione indiana ha creato letteralmente migliaia di divinità che compaiono in innumerevoli sembianze. Attualmente, le tre divinità più venerate nell’India sono Śiva, Visnu e la Madre Divina. Siva è uno degli dèi indiani più antichi e può assumere molte forme. E chiamato Maheśvara, il Grande Signore, quando viene rappresentato come la personificazione della pienezza del Brahman, e può anche impersonare molti singoli aspetti del Divino; la sua manifestazione più famosa è quella in cui compare come Natārāja, il Re dei Danzatori. Come Danzatore Cosmico, Siva è il dio della creazione e della distruzione, che con la sua danza sostiene il ritmo senza fine dell’universo.

Anche Visnu appare sotto numerose forme, una delle quali è il dio Krsna della Bhagavad Gita. In generale, la funzione di Visnu è quella di conservare l’universo. La terza divinità della triade è Sakti, la Madre Divina, l’archetipo delle divinità femminili, che nelle sue numerose forme rappresenta l’energia femminile dell’universo.,

Sakti appare anche come moglie di Śiva e i due sono spesso rappresentati in appassionati amplessi nelle splendide sculture dei templi sacri che irradiano una sensualità straordinaria, di un livello totalmente sconosciuto nell’arte religiosa occidentale. Contrariamente alla maggior parte delle religioni occidentali, nell’Induismo non è mai stato represso il piacere sensuale, perché il corpo è sempre stato considerato parte integrante dell’essere umano, non separato dallo spirito. L’indù, pertanto non cerca di controllare i desideri del corpo con la volontà cosciente, ma cerca di realizzarsi con tutto il suo essere, corpo e mente. L’Induismo ha addirittura prodotto una scuola, il Tantrismo medioevale, secondo la quale si cerca l’illuminazione attraverso una profonda esperienza di amore sensuale « in cui ciascuno è entrambi », in armonia con le parole delle Upanisad:

« Come un uomo tra le braccia della donna amata non è più cosciente né del mondo interiore né di quello esteriore, egualmente questo Purusa [spirito], abbracciato dallo Atman spirituale, non sa più nulla né del mondo esteriore né di quello interiore ».1

Siva fu strettamente associato a questa forma medioevale di misticismo erotico, e così pure Sakti e numerose altre divinità femminili presenti in gran numero nella mitologia indù. Questa abbondanza di dee mostra di nuovo che nell’Induismo l’aspetto fisico e sensuale della natura umana, che è sempre stato associato al femminile, è una parte pienamente integrata del Divino. Le dee indù non sono presentate come vergini sacre, ma in amplessi sensuali di meravigliosa bellezza.

La mente occidentale si disorienta facilmente di fronte al numero favoloso di divinità che popolano la mitologia indù nelle loro varie manifestazioni e incarnazioni. Per comprendere come gli Indù riescano a tener conto di una tale massa di dèi dobbiamo essere consapevoli dell’atteggiamento di fondo dell’Induismo secondo cui nella sostanza tutte queste divinità sono identiche. Esse sono tutte manifestazioni della stessa realtà divina, che riflette aspetti differenti dell’infinito, onnipresente e, in definitiva, incomprensibile Brahman.

Tratto da:  Fritjof Capra, Il Tao delle fisica

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Patrimonio artistico e democrazia

4 Novembre 2016

Il più importante repertorio di immagini della prima età moderna – l’Iconologia di Cesare Ripa – contiene un’allegoria della Conservazione il cui senso è che la «durazione» delle cose si può assicurare solo a condizione di una «trasmutazione».
È proprio così: l’ambiente e il patrimonio storico e artistico della nazione italiana dureranno solo se gli italiani «trasmuteranno» la loro mentalità. Per farlo abbiamo bisogno di pensieri diversi, di parole che non siano quelle – fruste, inefficaci, fallimentari – che affondano ogni giorno il discorso pubblico italiano. Di un altro modo per guardare alla funzione della cultura.
Un modo che riprenda le parole e lo spirito della Costituente: e soprattutto che ne riprenda lo sguardo felicemente presbite, e cioè libero dall’angoscia del presente e capace di guardare lontano. È di quel punto di vista che abbiamo disperatamente bisogno se vogliamo rompere l’opprimente stato delle cose nell’Italia di oggi: abbiamo bisogno di uno sguardo pieno di fiducia e di amore, di un progetto carico di futuro.
Per questo non parlerò di ‘beni culturali’, ma di ‘patrimonio’. Il patrimonio non è un’entità amministrativa, né una categoria economica: è, letteralmente, il retaggio dei padri, l’eredità delle generazioni che ci hanno preceduti. È ciò che ci definisce come famiglia, come comunità. «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»: l’articolo 9 della Costituzione si lega all’articolo 1 («la sovranità appartiene al popolo»), perché, conquistando la sovranità, il popolo acquista anche un patrimonio, quello che un tempo era nella disponibilità del re. Così, parlando di patrimonio parliamo di cittadinanza, di sovranità popolare, di uno Stato inteso come comunità. Durante un dibattito televisivo del dicembre 2013, un mio occasionale interlocutore ha esortato gli italiani a «non fidarsi della Pubblica amministrazione», e a fare invece da soli: rimboccandosi le maniche in prima persona per salvare il patrimonio artistico, magari riunendosi in associazioni. Il mio intervento vuole ricordare che esiste già una associazione per la difesa dell’ambiente e del patrimonio storico e artistico della nazione: quella associazione si chiama Repubblica italiana. Difficilmente potremmo inventarcene di migliori: perché solo la Repubblica può permettere al patrimonio di svolgere la sua vera funzione. Che non è assicurare il diletto privato di pochi illuminati volenterosi, ma alimentare la virtù civile, essere palestra di vita pubblica, mezzo per costruire uguaglianza e democrazia sostanziali. E a garantirlo è lo statuto di questa speciale associazione di cittadini: la Costituzione, appunto. L’impegno di ogni cittadino è prezioso: e mai come ora c’è bisogno di un’assunzione di responsabilità in prima persona. Ma il frutto di quell’impegno individuale non può essere la pietra tombale su ogni speranza di esistere come comunità: non possiamo condannarci a mimare ogni giorno il ruolo dello Stato, a ricostruirne malamente le funzioni in una sorta di bricolage personale. Al contrario, l’impegno personale dei cittadini deve aiutarci a riprendercelo, lo Stato. Insieme a quelle per la scuola, l’università e la salute pubblica, la lotta di resistenza per la difesa del patrimonio culturale è uno dei mezzi attraverso i quali dobbiamo riuscire a riportare la Repubblica a res publica.
Sono consapevole che si tratta di un messaggio controcorrente. L’intera scena politica italiana sembra infatti caratterizzata da un unico estremismo: quello antistatale. Così la pensa quel che resta della destra berlusconiana, così il centro post-montiano, così anche ciò che un giorno fu la sinistra, e che oggi si è affidata al neoliberismo ritardatario di Matteo Renzi. Quasi tutti i partiti rappresentati in Parlamento affermano che lo Stato non può essere la soluzione dei nostri problemi, perché esso stesso sarebbe il problema. Paradossalmente, questa convinzione rischia di mettere d’accordo la destra e ciò che era la sinistra: i neoliberisti con i fautori di una visione anti-pubblica del diritto dei beni comuni.

Una simile, radicale, sfiducia nello Stato fu espressa esattamente con quelle parole il 20 gennaio del 1981 da Ronald Reagan, nel discorso di insediamento del suo primo mandato alla Casa Bianca: «In this present crisis, government is not the solution to our problem; government is the problem». Ed è questa la dottrina che ha distrutto, in Europa, ogni idea di giustizia sociale e solidarietà, rimpiazzandola con la «modernizzazione», che è stata la parola d’ordine dell’età di Tony Blair: un’età a cui Renzi si ispira esplicitamente e programmaticamente, e la cui «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, … [è] volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra»1. Luciano Gallino ha spiegato che il primo articolo di questa legge – virtuale, ma ferrea – del mercato dice che «lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio»2. Così – mentre negli Stati Uniti economisti, storici e filosofi come Joseph Stiglitz, Tony Judt o Michael Sandel rilanciano il ruolo dello Stato e un’idea forte di interesse pubblico collettivo – l’Europa e con essa l’Italia sembrano condannarsi a guardare al passato, ripetendone errori e tragedie. Ciò che manca, ovunque si guardi, è un progetto di comunità, un’idea forte di cosa possa essere la Repubblica italiana del futuro, la capacità di render finalmente concreto l’attualissimo disegno contenuto nella Costituzione: quella vera. E questa idea manca perché oggi sembra impossibile avere un’idea dell’uomo che non sia ridotta alla sola dimensione economica. Far evadere il patrimonio culturale dalla prostrazione materiale e morale in cui è stato confinato dal totalitarismo neoliberista significa rimettere in circolo uno dei pochi antidoti a questo dogma. Perché le nostre città, i nostri musei, il nostro paesaggio non contengono solo cose belle: contengono valori e prospettive che possano liberarci, innalzarci, renderci di nuovo umani, restituirci un’idea dell’uomo e un idea di comunità che ci permettano di costruire un futuro diverso.

Testo di Tomaso Montanari

Bibliografia minima

Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Torino 2013

Ernst Gombrich, «Discipline umanistiche sotto assedio. La crisi delle università», in Argomenti del nostro tempo. Cultura e arte nel XX secolo, Einaudi, Torino 1991

Tony Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Bari 2010

Alice Leone, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari, Salvatore Settis,

Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Einaudi, Torino, 2013

Roberto Longhi, Critica d’arte e buongoverno, Sansoni, Firenze 1985

Ugo Mattei, Contro riforme, Einaudi, Torino 2013

Tomaso Montanari, A cosa serve Michelangelo?, Einaudi, Torino 2011

Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013

Erwin Panofsky, «La storia dell’arte come disciplina umanistica» [1940], in Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 1962

Michael J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013

Salvatore Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino, 2002

Salvatore Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, Einaudi, Torino, 2011 Salvatore Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino, 2012

Joseph Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2013

David Foster Wallace, «Questa è l’acqua», in Questa è l’acqua, a cura di Luca Briasco, Einaudi, Torino 2009

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Paola Molteni

19 Ottobre 2016

“Annodata alla rete. Era capitato un po’ per caso e un po’ per curiosità. Grande, ramificata, estesa, intricata, attraente, intrigante. Chi ci passava non poteva non rendersi conto di quale potere avesse. Era come una luce magnetica in grado di stregare gli occhi di tutti. La bimba ne era rimasta ammaliata da subito e trottando ci era caduta dentro trovandosi dappertutto, pur rimanendo seduta a gambe incrociate. Non poteva resistere alla tentazione di creare continui flussi di domande e di curiosità che scorrevano più velocemente del ticchettio dei tasti,  in cambio assorbiva come linfa parole, immagini, musica ed emozioni. Allargando con le dita le maglie di quella fitta trama, fatta da meridiani e paralleli, poteva guardare molto lontano. Viaggiare in equilibrio su un filo invisibile da un continente all’altro, in pochi istanti. Trovare la risposta e perdere la domanda. Cercare l’ordine nel disordine. Annodare i propri pensieri a quelli di un altro. Vedere la vita delle persone che filtra attraverso schermi e pagine e occhi e bocche e corpi, congestionata da un traffico prepotentemente umano.”

Tratto da: Paola Molteni, Nets

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La forma dell’albero

3 Ottobre 2016

In Messico, vicino a Oaxaca, c’è un albero che si dice abbia duemila anni d’età. È noto come «l’albero del Tule». Avvicinandomi, sceso da un torpedone di turisti, prima ancora che l’occhio distingua, è come una sensazione minacciosa che mi prende: come se da quella nuvola o montagna vegetale che si profila nel mio campo visivo venisse l’avvertimento che qui la natura, a lenti passi silenziosi, è intenta a mandare avanti un suo piano che non ha nulla a che fare con le proporzioni e dimensioni umane.

Sto già per dare un’esclamazione di meraviglia confrontando la mia visione col concetto d’albero che finora mi è servito a unificare tutti gli alberi empirici che ho incontrato, quando m’accorgo che quello che sto guardando non è l’albero famoso ma un altro della sua stessa schiatta cresciuto non lontano, certo un po’ più giovane e un po’ meno mastodontico, dato che la guida non ne parla. Mi volto: l’albero del Tule propriamente detto me lo vedo lì all’improvviso come fosse spuntato in quel momento. Ed è un’impressione tutta diversa da quella che m’andavo preparando. L’estensione quasi sferica della chioma che sovrasta la spropositata ampiezza del tronco fa apparire l’albero quasi tozzo. La mole s’impone all’occhio prima che l’altezza.

«L’albero del Tule» misura quaranta metri d’altezza, dice la guida, quarantadue metri di perimetro. Il suo nome botanico è Taxodium distichum, il nome messicano sabino.

Appartiene alla famiglia dei cipressi ma non somiglia affatto ad un cipresso; è un po’ come una sequoia, se questo può servire a dare un’idea. L’albero sovrasta una chiesa dell’epoca coloniale, Santa Maria del Tule, bianca con fregi geometrici rossi e blu, come in un disegno infantile. Le fondamenta della chiesa rischiano d’essere sgretolate dalle radici dell’albero.

Visitando il Messico ci si trova ogni giorno a interrogare rovine e statue e bassorilievi preispanici, testimonianze d’un inimmaginabile «prima», d’un mondo irreducibilmente «altro» dal nostro. Ed ecco, qui c’è un testimonio che ancora vive e che già viveva prima della Conquista, anzi prima ancora che si succedessero sugli altipiani olmechi e zapotechi e mixtechi e aztechi.

Al Jardin des Plantes di Parigi ho sempre guardato con meraviglia lo spaccato d’un tronco di sequoia pressapoco della stessa età, esposto come un compendio della storia universale: i grandi fatti storici da duemila anni a questa parte sono segnati su piccole placche in rame inchiodate ai cerchi concentrici del legno databili alle epoche corrispondenti. Ma mentre quello è il relitto d’una pianta morta, questo, l’albero del Tule, è un essere vivo, che appena dà segno di fatica nel trasportare linfa alle foglie. (Per supplire all’aridità della terra, lo alimentano con iniezioni d’acqua alle radici.) Certo è il più vecchio essere vivente che mi sia capitato d’incontrare.

Scanso i turisti giapponesi che camminando a ritroso o rannicchiandosi cercano di far entrare il colosso nei loro obiettivi, m’avvicino al tronco, gli giro intorno per scoprire il segreto d’una forma vivente che resista al tempo. E la mia prima sensazione è quella d’un’assenza di forma: è un mostro che cresce – si direbbe – senz’alcun piano, il tronco è uno e molteplice, come fasciato da colonne d’altri tronchi minori che sporgono addossati al mastodontico fusto centrale o se ne distaccano quasi volessero farsi credere radici aeree calate giù dai rami come ancore per ritrovare la terra, mentre invece sono proliferazioni delle radici terrestri cresciute verso l’alto. Il tronco sembra unificare nel suo perimetro attuale una lunga storia d’incertezze, geminazioni, deviazioni. Come scafi che non riescono a prendere il largo, sporgono dal tronco travature orizzontali mozzate mille anni fa mentre stavano dando vita a una biforcazione della pianta e che hanno perso ogni memoria di quella loro prima intenzione, per diventare corte protuberanze gibbose. Da gomiti e ginocchi di rami sopravvissuti al crollo in epoche remote, continuano a staccarsi rami secondari anchilosati in una scomoda gesticolazione. Nodi e ferite hanno continuato a dilatarsi proliferando gli uni in bitorzoli e concrezioni, protendendo le altre i loro margini lacerati, imponendo la loro singolarità come il sole attorno al quale s’irradiano le generazioni delle cellule. E sopra tutto questo, inspessita, incallita, cresciuta su se stessa, la continuità della scorza che rivela tutta la sua stanchezza di pelle decrepita e insieme l’eternità di ciò che ha raggiunto una condizione così poco vivente da non poter più morire.

Vuol dire che il segreto del durare è la ridondanza? Certo è ripetendo innumerevoli volte i propri messaggi che l’albero si garantisce contro il continuo incombere d’accidenti mortali sulle singole sue parti, e così riesce a imporre e a perpetuare la sua struttura essenziale, l’interdipendenza di radici e tronco e chioma. Ma qui siamo oltre la ridondanza: ciò che mi preoccupa mentre giro intorno all’albero del Tule è la disponibilità della morfologia a cambiare i propri ruoli, è lo sconvolgimento della sintassi vegetale: radici che salgono verso l’alto, segmenti di rami diventati tronco, segmenti di tronco nati dalla gemma d’un ramo. Eppure il risultato, visto a distanza, è sempre ancora un albero, – un super-albero – con radici tronco chioma al posto giusto – super-radici, super-tronco, super-chioma –, come se la sintassi sconvolta si ristabilisse a un livello superiore.

È attraverso un caotico spreco di materia e di forme che l’albero riesce a darsi una forma e a mantenerla? Vuol dire che la trasmissione d’un senso s’assicura nella smoderatezza del manifestarsi, nella profusione dell’esprimere se stessi, nel buttar fuori, vada come vada? Per temperamento ed educazione sono sempre stato convinto che solo conta e resiste ciò che è concentrato verso un fine. Ora l’albero del Tule mi smentisce, vuol convincermi del contrario.

L’intervista all’albero è ora che dovrebbe cominciare, ma già i turisti giapponesi hanno scattato i loro vani fotogrammi e hanno smesso di formicolare intorno al gigante. Anch’io devo riprendere il mio posto nel torpedone che riparte per le rovine mixteche di Mitla.

 

 

 

Tratto da: Italo Calvino, Collezione di sabbia, Mondadori 

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Première soirée

1 Settembre 2016

– Elle était très déshabillée
et les grands arbres indiscrets jetaient malicieusement leur feuillage, tout près, tout près sur la vitre.

Assis dans ma grande chaise,
à moitié nue, elle croisa les mains.
Sur le sol, ses petits pieds minuscules frissonnaient sans gêne.

– J’ai regardé, couleur cire,
un petit rayon fugace flotte sur son sourire
et sur ses seins, – vole sur le rosier.

– J’ai embrassé ses fines chevilles. Elle un riz sucré brutal
qui s’étirait en trilles lumineux, un joli rire de cristal.

Les pieds sous la chemise ont trouvé l’évasion : « Finissez-en ! – La première audace accordée,
le rire faisait semblant de punir !

– Douce palpitation sur ma lèvre, j’embrassai doucement ses yeux :
– elle a retiré sa petite tête
retour : « Oh ! c’est encore mieux !…

Signorino, j’ai deux mots à te dire… “- le reste je lui ai jeté sur la poitrine avec un baiser, ce qui l’a fait rire
d’un rire tranquille et complaisant…

– Elle était très déshabillée
et les grands arbres indiscrets jetaient malicieusement leur feuillage, tout près, près de la vitre.

 

 

Extrait de : ARTHUR RIMBAUD / POESIE

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Première soirée

1 Settembre 2016

PRIMA SERATA xxvii (Première soirée)

– Lei era assai svestita
e i grandi alberi indiscreti buttavano sui vetri il loro fogliame maliziosamente, vicino, vicino.

Seduta sulla mia grande sedia,
seminuda, incrociava le mani.
Sul pavimento rabbrividivano senza disagio i suoi piedini minuti, minuti.

– Io guardavo, color della cera,
un piccolo raggio fuggiasco svolazzare sul suo sorriso
e sui suoi seni, – mosca sul rosaio.

– Io baciavo le sue caviglie fini. Lei un dolce riso brutale
che s’allungava in trilli luminosi, un riso amabile di cristallo.

I piedini sotto la camicia Trovarono scampo: “La fai finita!” – La prima audacia concessa,
il riso fingeva di punire!

– Sommessi palpitanti sul mio labbro, io baciavo i suoi occhi dolcemente:
– lei ritirò la sua testolina
indietro: “Oh! è meglio ancora!…

signorino, ho due parole da dirti…” – il resto io glielo gettai sul seno con un bacio, che la fece ridere
di un riso quieto, compiacente…

– Lei era assai svestita
e i grandi alberi indiscreti buttavano sui vetri il loro fogliame maliziosamente, vicino, vicino.

 

 

Tratto da:  ARTHUR RIMBAUD / POESIE

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Dov’è l’Enel, è la devastazione.

26 Luglio 2016

Dov’è l’Enel, è la devastazione. Il paesaggio è sconvolto e febbricitante. La torre è smisurata e a servirla molte formiche faticano. Si sta lavorando a un porto fluviale per ricevere la nafta e il carbone per via d’acqua. A Ostiglia, poco lontano, un’altra centrale, tutta a carbone, manda i suoi fumi fin qua, cosí Sermide ne avrà un p0’ di piú. Proprio dov’è l’Enel il Po è piú splendido: con isole, grandi rive in movimento, un dolcissimo lago.

Dell’Eridania c’è uno zuccherificio estinto, un fossile industriale, un enorme granchio morto sulle ghiaie del Po. Una teleferica, che ancora c’è, tirava su dai barconi le barbabietole e le tuffava nello zuccherificio che le trasformava in alimento assassino, per avvelenare il mondo e seminare la carie e il diabete. È ancora in funzione invece una vecchissima fabbrica che pesca acqua (quale acqua!) dal Po, per distribuirla agli agricoltori. Il Corradi, che mi porta dove voglio, sospeso il suo lavoro di meccanico per trasformarsi in autista, entusiasta di avere un giornalista, mi mostra anche la BONLAT, la fabbrica del latte, di cui non ho nessuna curiosità.

Gli scarichi schiumosi delle fabbriche corrono sull’acqua come bande di coniglietti bianchi. – È finito, il Po… – dice il bravo Corradi.

Come non capire che questo cielo, italiano e planetario, è figurativo, e che il suo chiudersi o fendersi, per crescita di vapori e assottigliarsi di strati protettivi, il suo progressivo intossicamento da miasmi umani, ha non soltanto un significato, ma una causa morale? Le società umane civilizzate, guardatele, non sono piú che aggregazioni di follia tenute insieme dalla paura e dalle coercizioni. Un momento, dice Abramo, se si trovassero cinquanta uomini giusti nella città il fuoco della Necessità può essere fermato dalla loro faccia. Non ci sono. Quaranta… dieci… Se non si trovano vuol dire che niente può fermare la Necessità, perché è la Necessità. Resta la scommessa sublime: se mai ci fossero… sfida alla Necessità della nostra impotenza, di una natura in cui sempre l’egoismo e il vizio prevarranno, eccetto che in rari campioni onorati o respinti, come strani fenomeni. Se la faccia di quei cinquanta introvabili apparisse sul Po ecco il Po non sarebbe piú un fiume finito (che ancora scorre, ma che è morto dentro, in quel che la sua anima profonda ha di affine con la nostra, che è morta); e se la faccia di quegli almeno dieci della res reducta ad triarios si mostrasse al cielo, i vapori maledetti si romperebbero e gli abbietti ordigni che spiano questa sventurata fogna abitata, solo perché c’è qualche nave da guerra a solcarla e tante milizie nere e bianche in corsa fra una tromba e un fischietto, si perderebbero come efimere dentro un lago. Consideriamo il cielo sporco e il fiume morto come castigo, invece che come accidente tecnico, come conseguenza del peccato (oscuro, impenetrato sempre: in che peccai bambina? haber nacido ec. aver perduto il centro, adorato gli idoli) e non come una svista, un errore di calcolo: sarebbe già qualcosa, il sollievo, il respiro piú libero, un po’ piú di luce nella mente malata. Sí, il Po è finito… C’è rabbia a pensare: per gli scarichi… No, no! Per il peccato; questo bacio di fatalità rasserena. Il largo davanti al Castello degli Este si chiamava Piazzetta de’ Letamai. Quella era toponomastica! Le città italiane sono diventate opache elettricamente buie, il giorno che nacque la prima Via Garibaldi, il primo Corso Vittorio Emanuele.

Via del Paradiso (un tagliagole). Via del Travaglio… Via delle Vecchie Pescherie… C’era la funesta aria della notte sabatina, slabbrato traffico carnale, assalto al cibo ambulante caldo e al gelato, schiamazzi di bande, movimento di ombre sordide per il vecchio quartiere (9 ottobre).

 

 

Tratto da: Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, Einaudi Ed.

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Italo Calvino

6 Giugno 2016

Intervista a Italo Calvino, girato a Parigi nel febbraio 1974- regia di Nereo Rapetti

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Le Fragranti Camelie Autunnali ( Camellia sasanqua s.l )

4 Aprile 2016

Sol te, priva d’odor fredda bellezza
marmorea, preziosa, e alle superbe
figlie di lusso prediletta, io taccio
insipida Camelia ..
E.Nencioni, 1870

PREMESSA

Parlare ancora di camelie (Camellia sp. pl.) in lucchesia, dove ormai proprio in questo territorio da molti anni sono state condotte ricerche ed organizzate Mostre annuali e Convegni sul tema ”Camelie”, può sembrare in effetti un argomento di scarso interesse se non per gli ”addetti ai lavori”.

Ma le camelie non finiranno mai di sorprenderci: non a caso, in varie parti del mondo, vengono definite come le più belle piante create dal Padreterno…

Le camelie di questo gruppo, in effetti, stupiscono l’appassionato del mondo verde per due insolite caratteristiche: il periodo di fioritura – da ottobre a gennaio – ed un’altra prerogativa, che per anni si è creduto non appartenere a questo gruppo di piante, come si può dedurre dal brano del poeta E. Nencioni precedentemente citato: Sol te, priva d ‘odor fiedda bellezza. / marmorea, preziosa, e alle superbe / figlie del lusso prediletta, io taccio / insipida Camelia… Ebbene, queste camelie sono profumate, e di un profumo, particolarmente delicato, che fa ricordare le lontane regioni orientali.

MA DI QUALI CAMELIE SI TRATTA?

Tutte le camelie con tali prerogative vengono definite collettivamente CAMELIE SASANQUA; a questo gruppo afferiscono numerosi ibridi (oltre 300!) ottenuti generalmente da specie differenti, ed esattamente fra la Camellia sasanqua Thunb., ed altre due entità – frutto anch’esse di incroci fra C. sasanqua e C. japonica – la Camllia x himaalis  Nak. e la Camellia x vernalis (Mak.) Mak.

In Giappone, luogo di origine di questo gruppo di camelie, esse sono note sino dall’antichità, allo stesso modo della più nota Camellia japonica L., e con le foglie, analogamente alla camelia del tè (Camellia sinensis (L.) Kuntze), veniva preparata una bevanda molto simile al tè, ma di qualità inferiore, per i ceti meno abbienti. Attualmente, con i fiori essiccati di queste camelie, si usa solo aromatizzare la nota bevanda.

Anche i semi, che queste producono copiosamente, sono stati impiegati per secoli ed hanno dato origine a fiorenti industrie. Da essi infatti è possibile ricavarne un olio, analogamente ad altre specie di camelie, dal notevole potere e dai molteplici impieghi.

Veniva utilizzato, prima della scoperta dell’ olio di balena o degli olii fossili, per illuminazione, ma in particolare era impiegato per cucinare e nella cosmesi; non c’era giapponese di un certo livello che non si ungesse i capelli con il profumato olio di camelia!

I semi vengono attualmente utilizzati, oltre che per l’estrazione dell’olio che è ancora impiegato nella cosmesi e soprattutto come lubrificante in micromeccanica ed in missilistica, anche nell’artigianato turistico per preparare collane, braccialetti, anelli e souvenir di vario genere.

QUALI SONO LE CAMELIE CHE FANNO PARTE DI QUESTO GRUPPO

La specie principale che compone questo gruppo di Camelie e che a questo ha dato il nome, è la Camellia sasanqua Thunb.; si tratta di un arbusto o piccolo albero sempreverde che cresce, allo stato spontaneo, nelle foreste di sclerofille del sud del Giappone, nei distretti di Shikoku, Kyiishii ed altre piccole isole a sud di Okinawa, ad una altitudine spesso superiore ai 90om.

Quest’ultimo dato può indurre ad errate interpretazioni a proposito della rusticità: infatti questa camelia, pur essendo perfettamente rustica nei nostri climi, sopporta meno il freddo della più nota Camellia japonica L.

I giapponesi chiamano questa specie Samnkwa che significa “fiore del tè di montagna”, e da questo nome è stato poi tratto quello specifico sasanqua. Le foglie sono ellittiche od oblunghe, ed hanno apice acuminato e base cuneata, mentre il margine è crenato e dentato; sono più piccole (4-6 x 1,5-3 cm) di quelle della C. japonica.

Di colore rossastro e inizialmente tomentose, come del resto i giovani getti, hanno inoltre venature prominenti anch’esse tomentose (in particolare nulla pagina inferiore); sono di colore verde scuro e lucido superiormente, più chiare al rovescio e portate da un corto picciolo (3-5 mm).

I fiori, delicatamente profumati e piuttosto grandi (4-8 cm), sono protetti da squame, caduche al momento che questi si schiudono – cosa quest’ultima che avviene fra la fine dell’estate e l’inizio dell’inverno – e vengono prodotti nella parte terminale dei rami.

Portati da un corto peduncolo, i fiori sono composti da 5-8 petali bianchi o rosa, piuttosto grandi (3,5 x 2 cm) di forma irregolare, spesso ovata od ovato-cuneata, con apice arrotondato e spesso increspati: dal centro del fiore si innalzano poi gli organi riproduttivi, che sono costituiti da un gruppo assai numeroso di stami gialli, uniti alla base, che portano antere anch’esse di colore
giallo dorato.

L’ovario è sericeo, generalmente sormontato da uno stilo e da uno stimma trilobato; i frutti sono capsule globose che si fendono a maturità, con 1-3 loculi, contenenti !, 2 ed a volte anche 3 semi.

LE ALTRE SPECIE

Le altre Camelie che formano nel loro insieme il gruppo suddetto, sono la Camellia x himealis Nak., chiamata in Giappone Kan Tsubala’ che significa Camelia del freddo” e la Camellia x wrnalis (Mak) Mak. definita ancora in Giappone Haru Tsubala’, “Camellia sasanqua primaverile”.

La prima di esse (Camellia x him/is), non è nota allo stato spontaneo; sembra importata in Giappone da Shanghai, ed è probabilmente. come già accennato, un ibrido fra C. sasanqua e C. japonica; è un arbusto – raramente un piccolo albero – a portamento piuttosto espanso e con foglie simili a quelle della C. sasanqua, ma leggermente più grandi (6-9 x 3-4 cm).

I fiori sono sessili, anch’essi simili a quelli della C. sasanqua, ma di dimensioni minori (intorno ai 5 cm) e con tonalità di colori simili, anche più scuri (bianco, rosa o rosso). Si schiudono proprio nei mesi invernali, e quindi è una pianta da utilizzare nei giardini in quelle località ove il clima non sia eccessivamente rigido.

L’altra entità che forma questo gruppo (Carmellia x vernalis), è anch’essa non nota allo stato spontaneo ed ha quali probabili genitori, come la precedente, la C. sasanqua e la C. japonica; si tratta di un arbusto di piccole dimensioni, con foglie più strette rispetto alla C. sasanqua (4-7,5 x 1,5-3 cm), mentre l’apice è bruscamente acuminato. I fiori sono semidoppi, piuttosto
grandi (6-7 cm), bianchi o talvolta rosati, e si schiudono fra la metà dell’inverno fino alla primavera; è più resistente al freddo delle altre due, e può fiorire senza problemi anche in climi più rigidi.

UN PO’ DI STORIA

Il gruppo delle cosiddette ”CAMELIE SASANQUA”, oggi composto da diverse centinaia di cultivar, sono note in Giappone sino da tempi assai lontani. La loro presenza è ben documentata nel periodo Muromachi (14° secolo) e vi sono alberi di questa camelia ancora vegetanti nei giardini dei templi di Kyòtò con un’età stimabile intorno ai 400 anni.

Si parla poi di questa particolare camelia in diverse opere, fra cui l’Anthology of Beautiful Flowers (1684) e in un’altro testo del 1739, il Golden Flowers and Plants, vi sono già citate un centinaio di cultivar.

Anche se le “Camelie sasanqua” sono note in Europa sino da tempi assai lontani, bisogna attendere la seconda metà dell’800 perché essa arrivi fino a noi, importata – sembra – da viaggiatori tedeschi nel 1869.

In effetti la sua diffusione non ebbe grande successo dato che, nelle regioni centro e nord Europee, queste Camelie dovevano essere coltivate in serra poiché, provenendo appunto dalle regioni del sud del Giappone, non era specie perfettamente rustica e non era quindi possibile coltivarla in piena aria; solo in Italia, per il suo clima più mite, poté essere impiegata come pianta da giardino
ed ebbe, verso la fine dell’800, un discreto successo, anche perché la più nota Camellia japonica stava entrando in un periodo di decadenza.

CENNI SULLA COLTIVAZIONE

La coltivazione della ”Camellia sasanqua” non si discosta di molto da quella delle altre camelie, forse anche più facile. Preferiscono terreni tendenzialmente acidi, pur vegetando egregiamente anche in quelli neutri; è fondamentale che questo sia ben drenato e ricco di sostanza organica, e le concimazioni si effettuano all’atto dell’impianto con concimi organici ben decomposti o anche con appositi fertilizzanti per acidofile; è opportuno ripetere poi, alla fine dell’estate ed in primavera, un’ulteriore concimazione con gli appositi fertilizzanti anzidetti.

Notevole importanza riveste anche l’esposizione, che non deve essere mai troppo assolata, in particolare in pianura e in zone calde; l’ideale è una mezz’ombra, che escluda le piante dai raggi solari nelle ore più calde della giornata.

E’ opportuno annaffiare con regolarità ed in particolare in periodi siccitosi, con acqua il più possibile priva di calcare; per l’eventuale impianto nel giardino è d’obbligo prediligere, come per le altre camelie, siti ove le condizioni naturali favoriscono una certa umidità atmosferica.

LA PROPAGAZIONE

La propagazione di questo gruppo di Camelie si effettua in maniera analoga alle altre: per via gamica, cioè per seme, da porre in terrine prelevandolo appena maturo dalle piante (è fondamentale che il seme sia fresco o che venga conservato – sempre per tempi brevi – in sabbia umida ed in frigorifero).

La germinazione, se si rispettano tali condizioni, avverrà nell’arco di 20-40 giorni.

L’altro metodo di propagazione, detto agamico, avviene utilizzando una parte della pianta che vogliamo riprodurre; questo metodo permette soprattutto di riprodurre fedelmente (cosa che non avviene riproducendo per seme queste camelie) le caratteristiche della cultivar che ci interessa riprodurre. Le metodologie impiegate sono: talea, margotta e innesto.

Lc talee vengono prelevate da giovani getti appena lignificati, in genere in agosto 0 settembre (talee ”agostate”) ponendole poi, dopo un trattamento a base di ormoni che aiutano la radicazione, in un ambiente confinato saturo di umidità (serra, campana di vetro) ed innaffiandole regolarmente; radicheranno dopo circa un mese.

L’altro metodo – margotta – si usa su ramificazioni piuttosto grandi della pianta, facendo un’incisione anulare su un ramo ed asportando la corteccia per alcuni cm; si riveste poi la parte scortecciata con torba, muschio, ecc. e si ricopre poi il tutto, dopo averlo bene annaffiato, in un contenitore ermetico o fasciando la margotta con plastica in modo da evitare la traspirazione. Quando
le radici saranno evidenti all’interno dell’involucro – e questo avverrà dopo 2-3 mesi – si può tagliare la margotta e rinvasarla come una pianta autonoma.

L’innesto infine, si effettua spesso su piante nate da seme, in particolare quando la cultivar che vogliamo propagare ha un apparato radicale delicato. Si esegue solitamente in primavera e si usa la tecnica dell’innesto ”a spacco” od a corona”.

LE UTILIZZAZIONI DELLE “CAMELIE SASANQUA”

Le numerose cultivar ottenute in questo gruppo di camelie, fa si che vi si possano trovare piante adatte a molteplici utilizzazioni nell’ambito del giardinaggio o anche per altre finalità. Le cultivar di dimensioni minori sono infatti le più idonee alla coltivazione in vaso, e sono anche impiegate come piante da appartamento o da terrazzo. Un’altro impiego abbastanza diffuso di queste
piccole cultivar è quello di adoperarle per la realizzazione di bellissimi bonsai.

Ma l’utilizzo principale rimane pur sempre come pianta da giardino; gruppi di “Camelie sasanqua” che fioriscono scalarmente, ci possono regalare fioriture bellissime in un periodo dell’anno piuttosto avaro di fiori.

Inoltre, queste si prestano particolarmente ad essere con facilità e per lunghi anni coltivate in vaso, in modo da poterle utilizzare dove ci fanno più piacere, per esempio vicino alle abitazioni dove, in considerazione del microclima più protetto che si crea in tali ambienti, fioriranno molto più facilmente e senza subire troppi danni dal gelo.

Si potrà godere così, da ottobre a marzo/aprile, della bellezza di queste piante, che porteranno oltretutto nei nostri giardini un po’ di profumo d’oriente.

CULTIVAR REPERIBILI DI MAGGIOR INTERESSE

Con epoca di fioritura fra ottobre e novembre:

cv. ”Beatrice Emily”: fiore semidoppio, bianco violaceo;

cv. “Cleopatra”: fiori semplici, rosa molto intenso, portamento molto
compatto;

cv. ”Hind de Gumo”: fiori semplici di medie dimensioni, rosa in boccia,
poi bianco. Portamento espanso;

cv. “Jean Ma)”: fiore doppio, rosa, con portamento espanso;

cv. ”Iuletide”: fiore semplice, rosso intenso, fogliame minuto e porta-
mento piuttosto compatto;

cv. ”Mne-Ab- fida”: fiore doppio, bianco puro, portamento ricadente.

cv. ”Mmmi-Gata”: fiori semplici molto grandi, bianchi orlati di rosa; la
fioritura è assai copiosa e prolungata ed il portamento eretto;

cv. “Plantation Pink”: fiore semplice, rosa delicato, portamento eretto;

cv. ”Sparkling Burgundi”: fiore peoniforme, rosa-rosso, portamento ri-
cadente;

Con epoca di fioritura fra dicembre e marzo/aprile:

cv. ”Crimson King”: fiore semplice, rosso vivo, portamento espanso;

cv. “Hiqu”: fiore semplice, con particolare forma a coppa, rosso inten-
so, portamento espanso.

cv. ”Kanjim”: fiore semidoppio, rosa lillacino, con portamento espanso;

cv. ”Shona-M&he”: una fra le più note di questo gruppo in Giappo-
ne, con fiore semidoppio, rosa lilla; il profumo è particolarmente delicato, ed
il portamento è ricadente;

A cura di: Angelo Lippi, Guido Cattolica, Paolo Emilio Tomei

Edito a cura del Comune di Capannori | Centro Culturale Compitese e Circoscrizione n°4 di Capannori.

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La canapicoltura nel napoletano

29 Marzo 2016

Speranza e opportunità, tra terreni avvelenati e crisi occupazionale

Sosio Capasso nel suo libro “Canapicoltura e sviluppo nei comuni atellani” (Istituto di Studi atellani, 1994) riferisce della difficoltà di individuare l’origine della coltivazione della canapa. Poiché il processo di lavorazione della canapa è legato all’acqua, sicuramente la sua origine va ricercata là dove c’era un fiume o a un lago. Erodoto ci narra che nella lontana terra degli Sciti oltre il Mar Nero si trovava la canapa, un materiale molto simile al lino che i Traci coltivavano per realizzare vestiti. In Cina era conosciuta nel 500 a.C., ed è citata nello Shu-King , un classico della storiografia cinese. Gli Sciti la portarono in Europa intorno al 1500 a.C., spingendosi verso la foce del Danubio. In seguito si diffuse tra germani, i greci e i romani che la portarono in Gallia. Ai tempi dei romani importanti lavoratori di canapa erano i Miseni. Allora la canapa fu utilizzata soprattutto come cordigliera per la flotta imperiale. Dopo la distruzione di Miseno da parte dei Saraceni i cittadini del luogo si rifugiarono nell’entroterra e fondarono Fratta, l’odierna Frattamaggiore. La città è stata il cuore della produzione e della trasformazione della canapa. Con questo materiale si produssero corde e tessuti fino alla fine degli anni ’50 del ‘900. Fu allora, ben prima della crisi, che in questi comuni si sviluppò un’intensa attività legata alla canapa: talmente diffusa era la lavorazione della canapa che garage, villette e ogni tipo di edificio disponibile fu trasformato in un laboratorio.     La città è unita a Frattaminore, Grumo Nevano, Arzano, Casandrino Cardito, Caivano e Crispano da un’identità storica che risale molto indietro nel tempo: tutti questi comuni furono loci romani e poi casali medioevali, che sorsero sui resti dell’antica città osca di Atella, distrutta nel VII secolo. L’economia della canapa stimolò a tal punto gli abitati di allora che questi centri si configurano oggi come una’unica realtà urbana di circa 280.000 abitanti, su una superficie di 52,3 kmq, e con una densità media 3.977 ab/kmq. In quest’area, dunque, l’economia della canapa è un’attività millenaria che è stata capace di caratterizzare e trasformare il paesaggio.

Qui, l’elemento naturale di riferimento è l’antico fiume Clanio. È un fiume che aveva una caratteristica particolare: la portata decresceva durante l’inverno e aumentava alla fonte nei mesi estivi provocando nel mese di agosto delle piene che avvenivano proprio nel periodo della macerazione. Non solo, quindi, l’organizzazione della lavorazione della canapa lungo il fiume disponeva delle risorse necessarie a fini produttivi, ma era anche adatta alla bonifica del territorio. Infatti, il corso del fiume era costituito da margini irregolari con meandri e fiumiciattoli che s’impaludavano rendendo l’ambiente malsano e difficile agli insediamenti umani sin dall’antichità. Le erbacce che crescevano sul fondo e il crollo dei margini creava acquitrini malsani e infetti che obbligavano a una manutenzione continua. Nel 1312 un editto di Roberto d’Angiò ordinava alle popolazioni residenti in loco di eseguire a proprie spese i necessari lavori di sistemazione e di pulizia. I viceré spagnoli affidarono i primi lavori di bonifica all’architetto Giulio Cesare Fontana che realizzò un nuovo alveo e rettificò le sponde con l’aggiunta di piccoli corsi detti lagnuoli creando così un sistema di canali che da quel momento fu denominato “Regi Lagni”. All’inizio dell’ottocento furono effettuate nuove opere di bonifica con Murat, e in seguito, nel 1838, dopo particolari studi che riguardavano tutti i terreni malsani di Terra di Lavoro, furono eseguiti lavori di canalizzazione tra i Regi Lagni e il Lago di Patria sotto la direzione dell’ing. Vincenzo Antonio Rossi. Ai tempi dei Borboni il fiume era limpido e pescoso e una sua deviazione verso nord in direzione della reggia di Caserta era utilizzata per la navigazione. In seguito la deviazione che portava alla Reggia di Caserta fu interrata e divenne l’attuale viale Carlo III. Ciò che rimane dell’antico fiume Clanio oggi scorre sotterraneo e confluisce ancora nel Lago di Patria.

Un tempo, in questo territorio e nelle sue immediate vicinanze le acque del fiume venivano utilizzate per la macerazione di un altro prodotto tessile, il lino, che era coltivato anche nelle aree pedemontane della Collina dei Camaldolesi. Oggi i Regi Lagni sono stati largamente cementificati. I canali di cemento sono finalizzati alla raccolta delle acque piovane per l’irrigazione dei campi, ma raccolgono anche gli scarichi di acque reflue e di peggiore fattura e le convogliano a mare senza depurazione.
L’attività della coltivazione e lavorazione della canapa si sviluppò in modo particolare a partire dall’ottocento, quando furono realizzati maceri di varie grandezze, anche a notevole distanza dal Lagno, che erano connessi ad esso con apposite canalizzazioni. I maceri più piccoli sono collocati vicino alle case rurali. Qui, nei cicli di riposo dalla coltivazione di canapa, erano puliti e venivano utilizzati per l’allevamento di oche e anatre, oltre ad essere adibiti a peschiere dove si allevavano pesci tra quali tinche e carpe, che garantivano la purezza delle acque liberandole dagli insetti, in particolare dalle zanzare. Fu quello un periodo di trasformazione delle case rurali in vere e proprie aziende agricole: la loro estensione crebbe per accogliere gli operai e si realizzarono depositi per piante raccolte e lavorate. L’attività febbrile sarebbe proseguita per buona parte del ’900 fino all’inizio degli anni ’50 quando nei comuni atellani garage, villette e abitazioni di varie tipologie si andavano trasformando in laboratori senza nessun controllo urbanistico.

Nel recente passato l’Italia è stata la seconda nazione al mondo, dopo la Russia, per la produzione della canapa. Nel primo decennio del novecento si producevano 795.000 quintali annui su una superficie investita pari a 79.477 ettari contro i 3.440.570 quintali su 686.197 ettari della Russia. Alla produzione italiana contribuiva il napoletano con 89.000 quintali e la provincia di Caserta con 157.000 quintale; il resto era prodotto tra le provincie di Ferrara e di Bologna. Poi quest’industria fiorente cominciò a declinare. Negli anni settanta la produzione fu di soli 10.080 quintali su una superficie investita di 899 ettari. Il declino continuò inesorabile. La crisi comportò una forte disoccupazione, nel solo casertano vi furono coinvolti ben 40 comuni e, in particolare, nel napoletano, Frattamaggiore che era stata storicamente il cuore della produzione della canapa. All’origine del declino ci furono cause sicuramente legate all’introduzione sul mercato di fibre sintetiche e la rinuncia degli imprenditori di investire in nuove tecnologie; ma una parte della responsabilità va attribuita all’endemica disattenzione e miopia dei programmi di sviluppo del governo centrale e locale. A questa va aggiunta l’incapacità (o opportunità?) di distinguere nella lavorazione della canapa la sostanza che si coltiva a fini di produzione tessile e industriale da quella che si coltiva come sostanza stupefacente, di cui si ritrovano testimonianze dell’uso in questa forma fin dai tempi più remoti. Infatti, nel 1961 il governo italiano sottoscrisse la convenzione internazionale detta “Convenzione unica sulle sostanze stupefacenti”, a cui seguirono quelle del 1971 e del 1988, con l’obiettivo di far scomparire la canapa dal mondo (entro 25 anni dall’entrata in vigore delle convenzioni). In realtà si è creò allora una totale confusione tra “Cannabis sativa” da cui si ricavano le fibre e la “Cannabis indica” dalla quale si ottengono marijuana, hashish e altre droghe. La confusione creò danni enormi alla produzione della cannabis sativa e all’economia ad essa legata. Infatti in quegli anni, era il 1966, la società inglese “ Techical Association of the Pulp and Paper Industry” raccomandava la coltivazione della canapa per la fabbricazione della carta. Le cartiere italiane avrebbero potuto assorbire 500.000 quintali di produzione su una superficie pari a 22.000 ettari: uno sviluppo economico importante (soprattutto per le province di Napoli e Caserta), se si considera che oggi l’Italia spende intorno ai 2.000 milioni di euro annui per importare pasta di legno per fabbricare carta. Contemporaneamente, negli anni delle convenzioni che si andavano a sottoscrivere, in Italia si fecero ricerche per ricavare la carta dalla canapa. Ricerche che nel 1977 ottennero a tal fine un contributo dalla Comunità Europea. È stato infatti dimostrato come dalla canapa si ottiene una carta migliore perché i trattamenti chimici necessari sono meno aggressivi. Inoltre, rispetto alla produzione ottenuta con gli alberi, la canapa contiene un 33 per cento in più di cellulosa degli alberi e impiega 120 giorni a ricrescere rispetto ai 50 anni degli alberi. Un ritorno alla produzione di canapa presenta altri aspetti positivi. Oggi la coltivazione della canapa è strategica per il nostro territorio, la storica “Terra di Lavoro”. Essa permette di “depurare” a basso costo i terreni dai metalli pesanti che costituiscono i principali elementi che hanno avvelenato questa terra tra il casertano e il napoletano e in particolar modo lungo quella fascia che corre lungo i Regi Lagni. Le ricerche sulle proprietà della canapa hanno dimostrato, per esempio, che radici, fusto e foglie succhiano anche lo zinco rilasciato nell’ambiente dalla presenza di concerie e acciaierie.  Dalla raccolta si possono ottenere prodotti d’indirizzo energetico come, per esempio, la produzione di etanolo. Inoltre, attraverso il nuovissimo processo Pro.e.satm. – una tecnologia il cui primo prototipo è stato realizzato in Piemonte dalla Mossi & Ghisolfi, multinazionale della chimica tutta italiana che negli ultimi anni ha deciso di investire in ricerca – è possibile produrre carburante verde di nuova generazione in alternativa alle biomasse alimentari come zucchero di canna o mais, evitando così il loro aumento di prezzo sul mercato. La fibra è anche utilizzabile in edilizia nella realizzazione di panelli per l’isolamento energetico e di pannelli fonoassorbenti. E qui siamo entrati in un altro tema importante qual è quello del risparmio energetico. Per ora, data l’attuale scarsità di fibra di canapa, essa è mescolata con altre fibre naturali di importazione che provengono dai paesi in via di sviluppo, come il kenaf e la iuta.La coltivazione della canapa ha una filiera lunga. Oltre alla carta, all’uso nei processi di decontaminazione dell’ambiente, al carburante verde, alle applicazioni in edilizia, la canapa si trasforma in fibre per corde, tessuti, legno e geotessili a uso forestale per le applicazioni d’ingegneria naturalistica e la produzione di bioplastiche riciclabili in sostituzione dei derivati del petrolio.  Intanto le ricerche vanno avanti e la diffusione della produzione di canapa, oltre che a vantaggi economici in termini di uso industriale, commercializzazione e creazione di lavoro porterà certamente a nuove applicazioni e nuove prospettive.

 

 

di Antonio Guarino | Feb 2013

 

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Romanzo 29 settembre 1870.

28 Marzo 2016

I

A diciassett’anni non si può esser seri.
– Una sera, al diavolo birre e limonata
e gli splendenti lumi di chiassosi caffè!
– Te ne vai sotto i verdi tigli a passeggiare.

Com’è gradevole il tiglio nelle sere di Giugno!
L’aria è si dolce che a palpebre chiuse
annusi il vento che risuona – la città è vicina –
e porta aromi di birra e di vino…

II

Ecco scorgersi un piccolo brano
d’azzurro scuro, incorniciato da lievi fronde,
punteggiato da una malvagia stella, che si fonde
in dolci fremiti, piccola e bianca…

Notte di giugno! Diciassett’anni! Ti lasci inebriare.
La linfa è uno champagne che dà alla testa…
Divaghi e senti un bacio sulle labbra
che palpita come una bestiolina…

III

Il cuore è un folle Robinson in un romanzo
– quando, nel pallido chiarore d’un riverbero
passa una damigella affascinante
all’ombra del colletto d’un padre tremendo…

E siccome ti trova immensamente ingenuo,
trotterellando sui suoi stivaletti
si volta, attenta ma con gesti vivaci
-e sul tuo labbro muoiono le cavatine…

IV

Sei innamorato. Fino al mese d’agosto è affittato.
Sei innamorato. I tuoi sonetti la fanno ridere.
Tutti gli amici sono già andati, sei di cattivo gusto.
Poi l’adorata, una sera, si degnò di scriverti!…

Quella sera… – Ritorni ai lucenti caffè
e ordini ancora birre e limonata…
a diciassett’anni non si può esser seri,
se ci son verdi tigli lungo la passeggiata.

Tratto da: Arthur Rimbaud, Romanzo, 29 settembre 1870.

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Perché gli italiani sono diventati nemici dell’arte

26 Marzo 2016

In Europa e nel mondo si moltiplica oggi il dibattito sul ruolo che deve giocare il patrimonio culturale nella società del futuro. La questione del patrimonio è particolarmente presente nell’agenda culturale e politica in Italia in ragione della cieca politica di drastici tagli al budget per la cultura, della privatizzazione del patrimonio culturale e dell’alleggerimento degli enti pubblici di tutela che caratterizza l’attuale Governo. Io credo comunque che l’osservatorio italiano su questo tema abbia una grande importanza, anche fuori dall’Italia, in ragione della convergenza di tre caratteristiche storiche: l’altissima densità del patrimonio in situ in Italia, il suo intimo legame con il paesaggio e infine perché è in Italia (per la precisione negli Stati precedenti all’unificazione politica del Paese) che le più antiche regole di salvaguardia del patrimonio hanno visto la luce.

Intendiamoci sulla definizione più aggiornata di patrimonio
Le domande più frequenti sul patrimonio concernono la sua definizione, la sua importanza, l’utilizzo (o gli utilizzi) che ne vogliamo fare, la sua proprietà e i suoi costi di conservazione. La definizione di «patrimonio culturale» si è gradualmente ampliata e ha reso ancora più complessa la sua conservazione; e ciò, oltre alla sua importanza nella società contemporanea dominata dalla retorica della globalizzazione e dall’ossessione del presente, è continuamente messo in discussione in nome dei «valori» del mercato. La funzione del patrimonio culturale oscilla in continuo tra quella di deposito passivo della memoria storica e dell’identità culturale e quella, opposta, di potente stimolo per la creatività del presente e la costruzione del futuro. In relazione a questi temi, si solleva spesso un interrogativo sulla proprietà del patrimonio culturale, sballottata di continuo tra la sfera pubblica e la sfera privata; in questo interrogativo i linguaggi del diritto, dell’etica e della storia si mescolano inestricabilmente. Infine, la questione dei costi per la conservazione e la salvaguardia del patrimonio culturale è spesso trattata oggi separandola da quella della sua funzione. Si dà inoltre per scontato che il patrimonio culturale è un fardello che pesa sul budget dello Stato e non che possa divenire una riserva di energia per i cittadini e per le Nazioni.
Gli uomini politici e gli economisti affrontano spesso queste questioni riferendosi esclusivamente alla prospettiva presente, ai problemi della spesa pubblica e della libera concorrenza di mercato. Non è tuttavia meno legittimo rivendicare il ruolo della storia. La storia può dimostrare come il patrimonio culturale non sia un inutile fardello che ci trasciniamo da secoli in mancanza di nozioni economiche e politiche, ma come al contrario partecipi alla cosciente elaborazione di una strategia sociale destinata a formare e rafforzare l’identità culturale, i legami di solidarietà, il senso di appartenenza che sono condizioni necessarie di ogni società strutturata e, come riconoscono gli economisti con sempre maggiore chiarezza, sono anche un fattore non trascurabile di produttività. Se vogliamo comprendere i problemi del presente e del futuro col metro della storia secolare della conservazione, è quindi indispensabile comprendere storicamente le ragioni ultime della nozione di patrimonio e della sua funzione nelle società.

Le risibili e false stime del nostro patrimonio
Accenneremo ora all’Italia di oggi per tornare in seguito a quella di ieri. Vorrei cominciare con qualche citazione: 1. «Secondo le stime dell’Unesco, l’Italia possiede tra il 60 e il 70% del patrimonio culturale mondiale» (rapporto Eurispes 2006). 2. «Il 72% del patrimonio culturale europeo si trova in Italia e almeno il 50% del patrimonio mondiale è situato nel nostro Paese» (Silvio Berlusconi, conferenza stampa a Londra, 10 settembre 2008). 3. Secondo un ministro siciliano, «È situato in Italia il 60% del patrimonio culturale mondiale, il 60% del quale in Magna Grecia e il 60% di quest’ultimo in Sicilia»; ma secondo un consigliere regionale toscano, «L’Italia possiede da sola il 60% del patrimonio culturale dell’umanità, il 50% del quale si concentra in Toscana»; secondo un collaboratore del sindaco di Roma, «l’Urbe detiene dal 30 al 40% del patrimonio culturale del mondo». Sommando tutte queste cifre risulta che l’Italia da sola supererebbe di gran lunga il 100% del patrimonio culturale del pianeta. Evidentemente questi «dati dell’Unesco» non esistono e le cifre periodicamente improvvisate sono forse un sintomo dell’orgoglio nazionale, ma sicuramente di irresponsabile superficialità.
L’Italia è tuttavia un Paese molto importante in materia di patrimonio culturale. Il suo ruolo centrale non risiede però nella quantità ma piuttosto nella qualità del suo patrimonio e soprattutto in tre fattori diversi che sono l’armonia secolare tra le città e il paesaggio, la forte presenza nel territorio del patrimonio e dei valori ambientali e l’uso continuo in situ di chiese, palazzi, statue e quadri. In Italia, i musei non contengono che una piccola porzione del patrimonio artistico che è sparpagliato nelle città e nelle campagne. In questo insieme che è il frutto di un accumulo plurisecolare di ricchezza e civiltà, il totale è superiore alla somma degli addendi. Esiste tuttavia un quarto fattore non meno importante, è il «modello Italia» della cultura e della conservazione del patrimonio.

I primi al mondo a darci delle leggi
Molto prima dell’unificazione del Paese, gli Stati italiani sono stati i primi al mondo a dotarsi di regole e istituzioni pubbliche in questo campo. L’Italia è stata la prima a integrare la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nei principi fondamentali della sua Costituzione. La consistenza e la qualità del patrimonio da un lato, la cultura italiana della salvaguardia dall’altro sono le due facce della stessa medaglia. Le regole in merito alla conservazione non avrebbero visto la luce del giorno senza un senso civico risvegliato dalla densità del patrimonio culturale e la presenza di quest’ultimo non sarebbe mai stata così durevole se non fosse stata garantita da regole nel corso dei secoli. Che debbano esistere delle regolamentazioni pubbliche dei principi di tutela non è affatto dimostrato e, in effetti, la maggior parte dei Paesi non ne hanno avute per molto tempo. Nel XX secolo e in particolare all’inizio della seconda guerra mondiale, le leggi di tutela del patrimonio si sono moltiplicate in diversi Paesi (ad esempio in America Latina, in Africa e in Asia) seguendo modelli importati dall’Europa, ma i modelli europei si sono sviluppati a loro volta prendendo esempio dall’Italia.
Il concetto di patrimonio culturale si è formato a partire dall’idea di patrimonio nazionale elaborato in Francia tra la Rivoluzione e la Restaurazione allo scopo di utilizzare il patrimonio per definire la Nazione come un’unità culturale e giuridica. L’enorme bottino di opere d’arte messo insieme dall’esercito francese e trasportato a Parigi ha quindi dato luogo ad appassionati dibattiti. Questa razzia trovava la sua giustificazione nell’idea (ispirata da Winckelmann) che le arti non si sviluppino se non in un regime di libertà. È questa la ragione per cui la Francia postrivoluzionaria, in quanto patria della libertà, era di diritto la patria dell’arte.
Secondo il ministro degli Interni François de Neufchâteau (1794), «i grandi artisti del passato non lavoravano per i re o i papi» ma per i cittadini, perché questi creatori «prevedevano i destini dei popoli». «…mani famosi, divini genii (…) Sì: era per la Francia che partorivate i vostri capolavori. Alla fine quindi essi hanno trovato la loro destinazione», Parigi. In Italia questa gigantesca razzia venne vissuta come una violenza, ma la reazione più severa e coerente è venuta dalla stessa Francia. Nelle sue Lettres au général Miranda sur le préjudice qu’occasionneraient aux Art set à la Science le déplacement des monuments de l’art de l’Italie, le démembrement de ses écoles et le spoliation de ses écoles, galeries, musées (1796), Quatremère de Quincy sostenne che strappare le opere d’arte dal contesto per il quale erano state create era un crimine contro la memoria storica: un Raffaello uscito dal suo contesto non esprime niente, non è una reliquia (come un frammento della Santa Croce) che può comunicare «le virtù legate all’insieme». Le stesse posizioni furono molto presto difese in una petizione indirizzata al Direttorio e firmata da 50 artisti, tra i quali David. Quatremère focalizzava la sua attenzione su Roma e ricordava, a questo fine, le antiche regole di tutela dei papi in vigore dal XV secolo. È così che a partire dalla Francia si è diffuso in tutta Europa un grande dibattito culturale e politico, di cui l’Italia era il centro generatore.
In tutti gli Stati italiani preunitari esistevano regole di conservazione del patrimonio molto simili tra di loro e con influenze reciproche. Percorreremo brevemente una storia che si svolge tra Firenze, Roma e Napoli tra il 1725 e il 1755. Intorno al 1725, a Firenze, appariva ormai evidente che la dinastia dei Medici volgeva al termine e che le potenze europee avrebbero attribuito il Granducato di Toscana a una nuova dinastia. Per paura che il nuovo Granduca esportasse i tesori artistici dei Medici, nel 1728 venne fondata un’istituzione per la pubblicazione delle collezioni del Granducato che diede alle stampe i 12 volumi del Museum Florentinum a partire dal 1731. Neri Corsini, divenuto in seguito cardinale, faceva parte del novero dei promotori dell’iniziativa e, quando la Toscana venne attribuita a Francesco Stefano di Lorena, fu l’ispiratore del «patto di famiglia» tra il nuovo granduca e l’ultima dei Medici, Anna Maria Luisa (1737), in virtù del quale le collezioni dei Medici sarebbero dovute restare per sempre a Firenze come in effetti poi avvenne.
Spostiamoci ora a Roma. Nel 1728, il cardinale Alessandro Albani, nipote del papa Clemente XI, vendette al re di Polonia Augusto II trenta delle più belle statue della sua collezione (oggi a Dresda). I regolamenti pontifici vietavano l’esportazione di antichità, ma il cardinale camerlengo che avrebbe dovuto farli rispettare era allora Annibale Albani, fratello di Alessandro che non impedì questa vendita. Eppure, nel 1733, quando Alessandro Albani cercò di vendere la sua seconda collezione in Inghilterra, questa venne bloccata e le sculture furono acquistate dal nuovo papa Clemente XII, che in questa occasione fondò il Museo Capitolino, primo museo pubblico d’Europa (1734). Il nuovo papa era un Corsini di Firenze e l’ispiratore di questa iniziativa era suo nipote il cardinale Neri Corsini, lo stesso che si era battuto per il mantenimento dei tesori artistici dei Medici a Firenze.
Passiamo ora a un’altra capitale italiana: Napoli. Il re Carlo di Borbone, allora diciottenne, inaugurò una nuova era del regno ridivenuto indipendente dopo secoli di dominazione spagnola. Iniziò gli scavi a Ercolano (a partire dal 1738) e a Pompei (a partire dal 1748) che portarono in luce una massa enorme di nuove antichità. È in questo contesto che apparve la legislazione napoletana sulla tutela del patrimonio (1755), il cui punto di partenza era il «profondo disappunto» del re per le esportazioni di antichità e che riprendeva la legge pontificia del 1733. Da lì nacquero i volumi delle Antichità di Ercolano esposte e il Real Museo Borbonico. L’idea della conservazione degli oggetti d’arte nel contesto del loro luogo d’origine, idea delle più «italiane», si affermò così anche a Napoli. In effetti, quando Carlo III divenne re di Spagna (1759), egli non promulgò nessuna misura di protezione. Il «profondo disappunto» espresso per la mancanza di salvaguardia delle opere d’arte a Napoli scomparve quindi a Madrid? No. In un caso come nell’altro, il sovrano non elaborava personalmente le leggi, ma esprimeva la cultura civica e giuridica del posto.
L’emulazione tra Stati presuppone una profonda sintonia culturale che appartiene a un fondo comune di valori civici e morali. In effetti, la storia delle regole di tutela del patrimonio negli antichi Stati italiani comincia ben prima dell’Unità e prosegue fino a oggi.
Domandiamoci allora perché esista una tale continuità. A Roma, leggi molto organiche vengono emanate da Pio VII nel 1802 e nel 1819 (poco dopo la razzie di opere d’arte perpetuata dall’esercito francese e poco dopo il ritorno in patria delle opere saccheggiate). Il Commissario pontificio per le antichità Carlo Fea si rifece alle regole dei papi del passato, a cominciare da Martino V (1425), Pio II (1462) e Leone X (1515) e stabilì una continuità con i principi del diritto romano imperiale, in particolare rintracciando nella Roma antica le origini del concetto di publica utilitas così spesso evocato nella legislazione dei pontefici.
Le regole degli altri Stati italiani erano molto simili, da Venezia a Lucca, da Parma a Modena e a Milano. Dovunque si prendeva l’iniziativa di redigere il catalogo delle opere d’arte (innanzi tutto a Venezia nel 1773) e di creare istituzioni di sorveglianza come il Generale Ispettore delle Arti di Venezia (1773) o la Regia Custodia delle Antichità di Sicilia (1778). Ma perché gli antichi Stati italiani agivano in questo modo emulandosi gli uni con gli altri, quando nulla li obbligava a farlo?

Perché gli Stati italiani davano tanta importanza alle proprie opere d’arte
L’origine di questa cultura civica e giuridica si deve, credo, alle città italiane che, a partire dal XII secolo, elaborarono un potente concetto di cittadinanza secondo il quale i monumenti di ogni città costituivano un principio di identità civica e di identificazione emotiva che corrispondeva all’idea stessa del far parte di una comunità ben governata.
Mi limiterò a citare due documenti. 1) La delibera della municipalità di Roma (1162) sulla Colonna Traiana, in virtù della quale, «per salvaguardare l’onore pubblico della Città di Roma, la Colonna non dovrà mai essere danneggiata o demolita ma restare così com’è, per tutta l’eternità, intatta e inalterata fino alla fine del mondo. Se qualcuno attenterà alla sua integrità, sarà condannato a morte e i suoi beni saranno confiscati dal fisco». 2) Gli Statuti della municipalità di Siena (1309) in virtù dei quali colui «che governa la città deve in primo luogo assicurare la sua bellezza e il suo ornamento, essenziali alla felicità e alla gioia dei forestieri, ma anche all’onore e alla prosperità dei senesi». In centinaia di documenti come questo leggiamo gli stessi principi: bellezza, abbellimento (decorum), dignità, onore pubblico, bene comune o publica utilitas.
L’unanimità con la quale gli Stati preunitari si sono dotati di regole di tutela è stata (così come l’uso della lingua italiana dalle Alpi alla Sicilia) un autentico linguaggio comune nutrito di uno stesso senso della «bellezza» e dell’«ornamento» delle città e di un’identica tensione nel trasmettere i valori da una generazione all’altra, anche per il tramite di appositi magistrati come gli Ufficiali dell’Ornato (ente per l’abbellimento), attivi a Siena dal 1403. Queste regole trovavano il loro fondamento giuridico nella nozione di publica utilitas che, come ho già spiegato, risaliva al diritto romano. Per esempio, la Costituzione apostolica Quae publice utilia ac decora di Gregorio XIII (1574) affermava espressamente l’assoluta priorità del bene pubblico sugli interessi privati nell’edificazione. È su questo principio che si è esplicitamente fondato l’editto del 1733 che legava le collezioni di antichità a Roma, come le leggi che l’hanno seguito, a Roma come a Napoli e altrove.

I piemontesi difendevano la proprietà privata
Il principio «d’utilità pubblica» del patrimonio culturale è un elemento forte di continuità nella storia nazionale d’Italia. Tuttavia, dopo la costituzione del Regno d’Italia (1859-60 con la successiva annessione di Roma nel 1870), ci è voluto molto tempo per arrivare a una legge unitaria di tutela. Lo Stato promotore dell’unità italiana era il Regno di Sardegna che comprendeva il Piemonte, la Liguria e la Savoia, dove la tradizione di tutela del patrimonio era molto debole e lo Statuto concesso dal re Carlo Alberto nel 1848 affermava l’inviolabilità della proprietà privata, cioè esattamente il contrario che negli Stati Pontifici e nel Regno di Napoli. Da qui sono nati conflitti protrattisi per decenni nel Parlamento nazionale mentre la capitale si spostava da Torino a Firenze e poi a Roma. Si è dovuto attendere il 1902 per arrivare a una prima legge, seppure molto debole, che è stata rimpiazzata nel 1909 da una migliore. L’argomento che faceva abortire le numerose proposte di legge era sempre lo stesso. Era il primato del bene pubblico sugli interessi privati che suscitava strenue resistenze da parte dei grandi proprietari terrieri fortemente rappresentati in Senato (allora nominato dal re). Negli anni 1907-1908 ci fu un’importante mobilitazione pubblica che alla fine portò alla legge del 1909, intesa in continuità diretta alle regole di certi Stati preunitari, in particolare di Roma e Napoli.
La legge del 1909 sancì il primato dell’interesse pubblico sulla proprietà privata per tutti «i beni mobili e immobili dotati di interesse storico, archeologico, paleontologico e artistico» vietando la loro alienazione quando fossero di proprietà pubblica e incaricando della loro sorveglianza e conservazione il Ministero della Pubblica Istruzione. I beni rilevanti di proprietà privata non erano oggetto di una tutela completa a meno che presentassero un «interesse importante»: in questo caso si procedeva a una misura di notifica e la loro esportazione era vietata. In caso di vendita, lo Stato disponeva di un diritto di prelazione. Le scoperte archeologiche vennero dichiarate proprietà dello Stato e la loro esportazione vietata. La versione originale della legge conteneva anche altri principi approvati dalla Camera ma non dal Senato, fra cui l’azione popolare che si riferiva all’actio popularis del diritto romano. Questa doveva dare a ogni cittadino la facoltà di «far valere i diritti di competenza dello Stato», cioè di reclamare il rispetto delle regole di tutela per difendere il bene pubblico. Era insomma una sorta di class action destinata (secondo la relazione alla Camera) ad «avere un’opinione pubblica forte, ben costituita, ben diretta e ausiliaria dello Stato nella conservazione del patrimonio artistico». Ma questo principio non venne adottato né allora né successivamente.

La proprietà fondiaria contro la tutela del paesaggio
Nel testo approvato dalla Camera, la legge contemplava anche la tutela del paesaggio, che fu annullata dal Senato in cui sedevano numerosi rappresentanti dell’aristocrazia e della grande proprietà fondiaria. All’epoca si parlava ormai spesso di tutela del paesaggio in Italia, anche sotto l’influenza di altre esperienze, tra le quali ebbe grande riscontro in Italia la legge francese Beauquier (1906) e il movimento per la protezione della natura sviluppatosi negli Stati Uniti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Sotto la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909) si era svolta la più vasta campagna della storia nell’ambito della tutela dell’ambiente naturale e si era concretizzata attraverso la creazione di 6 parchi nazionali, 18 monumenti nazionali, 51 riserve ornitologiche federali e 150 foreste nazionali. Roosevelt si era esplicitamente ispirato a un principio già formulato da Gifford Pinchot (primo capo del servizio forestale degli Stati Uniti): «conservare significa creare il massimo vantaggio possibile per il maggior numero possibile (di cittadini) il più a lungo possibile». Egli commentò anche: «il criterio del maggior numero possibile deve applicarsi a tutto il corso dei tempi e, in questo ambito, noi che viviamo oggi non rappresentiamo che una frazione insignificante. Noi abbiamo il dovere di rispettare l’insieme degli uomini, soprattutto le generazioni non ancora nate. Dobbiamo dunque impedire che una minoranza senza principi distrugga un patrimonio che appartiene alle generazioni a venire. Il movimento per la conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali è per la sua stessa essenza democratico nello spirito, nelle finalità e nel metodo». Tra i pionieri della difesa dell’ambiente è annoverato George Perkins Marsh, primo ambasciatore americano in Italia per vent’anni (1861-82), che vi ha scritto il suo libro L’Uomo e la natura o la geografia fisica modificata dall’azione umana (1864), immediatamente tradotto in Italiano.
La protezione della natura come obbligo morale nei confronti delle generazioni future e il forte legame tra la salvaguardia della natura e l’identità nazionale non solo sono state caratteristiche della difesa dell’ambiente in America ma anche di analoghi movimenti in Europa (per esempio in Francia, in Germania e nel Regno Unito). John Ruskin si è mostrato particolarmente eloquente nel contesto inglese. Secondo lui, il paesaggio deve essere protetto in quanto fonte di esperienze etiche ed estetiche forti, non soltanto sul piano individuale ma per la collettività dei cittadini. Il paesaggio riflette e determina l’ordine morale e per questo è un luogo chiave per la responsabilità sociale. Di fronte ad esso, le istanze sociali e politiche sono obbligate a misurarsi con i valori della natura, della bellezza e della memoria e non possono rinunciarvi senza tradire se stesse. Le teorie di Ruskin sono state diffuse in Francia da Robert de la Sizeranne in un libro (Ruskin et la religion de la beauté, 1897) che ha avuto grande successo in Italia. Da questo è tratta la frase che, spesso attribuita a Ruskin, diventerà lo slogan della protezione della natura in Italia: «Il paesaggio è il volto amato della patria».
Tuttavia, il paesaggio italiano non è solo natura. Esso è stato modellato nel corso dei secoli da una forte presenza umana. È un paesaggio intriso di storia e rappresentato dagli scrittori e dai pittori italiani e stranieri e, a sua volta, si è modellato con il tempo sulle poesie, i quadri e gli affreschi. In Italia, una sensibilità diversa e complementare si è quindi immediatamente aggiunta all’ispirazione naturalista. Essa ha assimilato il paesaggio alle opere d’arte sfruttando le categorie concettuali e descrittive della «veduta» che si può applicare tanto a un quadro o a un angolo di paesaggio come lo si può osservare da una finestra (in direzione della campagna) o da una collina (in direzione della città). Secondo il Viaggio in Italia di Goethe, le architetture inserite nel paesaggio italiano sono «una seconda natura destinata alla pubblica utilità» o «che opera a fini civili».

La legge del 1920 voluta da Benedetto Croce
La tutela del paesaggio in Italia si è innestata sullo stesso tessuto etico, giuridico, civile e politico che aveva dato luce alle regole di tutela del patrimonio. Con la crescita dell’industrializzazione (più lenta che nel nord Europa), i pericoli per il paesaggio italiano sono cresciuti e il movimento di protezione della natura si è sviluppato. Ha dato vita ad associazioni e movimenti di opinione e, nel 1905, a una regolamentazione ad hoc per la salvaguardia della pineta di Ravenna. Tuttavia, la prima legge organica è stata elaborata nel 1920 da Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione. Nella sua relazione al Senato, Croce si appella ai precedenti americani ed europei e allude a ciò che è e resta il «doppio cuore» del problema, cioè da un lato la relazione tra natura e cultura (in Italia tra città e campagne), e dall’altro l’equilibrio tra interesse pubblico e proprietà privata. Un «grandissimo interesse morale e artistico legittima l’intervento dello Stato», scrive Croce, perché il paesaggio «non è nient’altro che la rappresentazione materiale e visibile della patria».
Le misure di tutela rappresentano, è vero, una limitazione dei diritti della proprietà privata, ma si tratta, dice Croce, di una servitù di pubblica utilità, assolutamente necessaria. Sarebbe ugualmente inammissibile «sfigurare un monumento o fare oltraggio a un bel paesaggio, entrambi destinati al godimento di tutti». Si riallaccia qui al tema della publica utilitas e richiama il diritto romano. Nel corso dei dibattiti alla Camera, furono evocate le servitù di veduta (servitus prospectus) previste nel diritto romano, per esempio per Costantinopoli.

Le due leggi «fasciste» di Bottai del 1939
La legge Croce venne approvata pochi mesi prima dell’avvento del fascismo, nel 1922. Per diciassette anni, il regime di Mussolini non modificò nulle delle regole di tutela ma, nel 1939, il ministro Giuseppe Bottai intraprese una riforma organica ed elaborò due leggi parallele per la tutela del patrimonio e la tutela del paesaggio. Queste leggi, seppure emanate sotto un governo fascista, non avevano niente di particolarmente «fascista». Esse presentavano al contrario una redazione più precisa e completa della regolamentazione dell’Italia liberale, la legge Rava del 1909 e la legge Croce del 1920-22. In materia di paesaggio, Bottai impose il principio della «servitù di godimento pubblico» esplicitamente ripresa da Croce. In materia di patrimonio, la legge si ispirava al primato dell’interesse pubblico sulla proprietà privata. Durante la fase di elaborazione delle leggi, Bottai si avvalse della migliore intellighenzia italiana, in particolare di Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e del grande giurista Santi Romano.
Le due leggi del 1939, che è impossibile descrivere nel dettaglio in questa sede, sono state elaborate come dittico e hanno stabilito che la tutela del paesaggio e la tutela del patrimonio storico, archeologico e artistico erano le due facce della stessa medaglia, conclusione in corrispondenza perfetta con la tradizione civile e giuridica secolare degli italiani. Possiamo anche risalire alle origini molto antiche di questo strettissimo legame nei sistemi giuridici italiani, e ritornare indietro almeno fino all’ordinanza del Patrimonio reale di Sicilia del 21 agosto 1745 che impose congiuntamente la conservazione delle antichità di Taormina e del bosco di Carpineto sul monte di Mascali come del «castagno dei cento cavalli» (oggi nel parco dell’Etna). L’autore di questa misura era il viceré di Sicilia Bartolomeo Corsini, nipote di Clemente XII, il papa cui dobbiamo importantissime regole di tutela (1733) e la creazione del Museo Capitolino, come abbiamo visto. Il viceré Corsini era anche fratello del cardinale Neri Corsini, l’ispiratore del Museum Florentinum e del «patto di famiglia» Medici-Lorena (1737) che ha assicurato il mantenimento perpetuo delle collezioni dei Medici a Firenze.
Le due leggi Bottai, approvate in dittico nel giugno del 1939 a qualche settimana di distanza l’una dall’altra, erano così poco fasciste che dopo la guerra e la catastrofica caduta del fascismo, la Repubblica nata dalla Resistenza ne ha iscritto il nucleo originario tra i principi fondamentali dello Stato nella Costituzione della Repubblica.
L’articolo 9 della Costituzione (entrata in vigore il 1° gennaio 1948) enuncia: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L’Assemblea Costituente giunse a questa formulazione dopo lunghi dibattiti e undici differenti formulazioni. I rappresentanti di tutti i partiti contribuirono al testo finale, in particolare il comunista Concetto Marchesi e il democristiano Aldo Moro. Nella Costituzione italiana, fa parte dei «principi fondamentali dello Stato» e si lega a una sapiente struttura di valori, in particolare «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3), i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), i limiti imposti alla proprietà individuale «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (art. 42). E inoltre, la Corte Costituzionale ha ugualmente riconosciuto come valore costituzionale la tutela dell’ambiente (non espressamente menzionata nel testo) facendola derivare dalla convergenza della tutela del paesaggio (art. 9) e il diritto alla salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art.32).
Insomma, l’articolo 9 della Costituzione italiana è la sintesi di un processo secolare che ha due caratteristiche principali: la priorità dell’interesse pubblico sulla proprietà privata e lo stretto legame tra tutela del patrimonio culturale e la tutela del paesaggio. Si è trattato in effetti di una «costituzionalizzazione» delle leggi di tutela del 1939 come attestato dai dibattiti dell’Assemblea Costituente. Dire che «La Repubblica protegge il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» non è una dichiarazione d’intenti, ma piuttosto la descrizione di un sistema normativo e istituzionale già in atto. Da un alto le regole (le due leggi Bottai del 1939) e dall’altro le istituzioni (il sistema delle Soprintendenze territoriali divise per competenze e incaricate concretamente di una missione di sorveglianza e tutela). La perfetta continuità tra le leggi dell’Italia liberale, le due leggi approvate dal governo fascista e infine l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica non sorprenderà se non quelli che ragionano per etichette e appartenenze senza entrare nella complessità della storia delle idee. Ancora più sorprendente sarà per essi l’evidente continuità tra le regole di tutela degli Stati italiani dell’ancien régime (come Roma o Napoli) e la cultura del patrimonio e della conservazione diffusa in Europa dopo la rivoluzione francese. Non si trattava quindi di «restaurazione» delle regole più antiche, ma di una nuova riflessione sui linguaggi e le regole dell’ancien régime alla luce di idee direttrici nuove come quelle di nazione, di sovranità popolare e di cittadinanza, che gli avvenimenti della rivoluzione francese avevano cambiato per sempre fornendo contenuti inediti alla nozione di «bene comune» e incarnandolo anche nei monumenti.
Una breve citazione dei Principi della filosofia e del diritto di Hegel (1821) lo dimostra bene: «I monumenti pubblici sono proprietà nazionale, cioè più esattamente, come nel caso delle opere d’arte in generale quando esse sono utilizzate, i monumenti pubblici hanno valore di fini viventi e autonomi fin tanto che sono abitati dall’anima della memoria e dell’onore. Quando quest’anima li ha lasciati, al contrario, essi diventano in questo senso, per la nazione, delle proprietà private, anonime e accidentali, come le opere d’arte greche ed egiziane in Turchia». In questo testo molto denso, si riconosce la nobile concezione del patrimonio nazionale che abbiamo visto nascere con Quatremère. I due poli convergenti di «memoria» e «onore» con la loro forte carica etica ritornano alla collettività dei cittadini ma presuppongono la forma dello Stato e richiedono una piena armonia tra etica e politica. Se «l’anima della memoria e dell’onore» scompare dall’orizzonte della vita e della storia, si produce una perdita radicale di significato. Questo evento, secondo Hegel, si era prodotto in Turchia, cioè nell’Impero Ottomano, per le antichità greche e egiziane.
Dagli statuti dei Comuni italiani del Medioevo alle leggi degli Stati preunitari e dell’Italia unificata fino alla Costituzione della Repubblica si disegna il percorso della cultura della tutela del patrimonio in Italia, un percorso unico per la sua lunga durata oltre che per la sua coerenza. Che i principi della tutela debbano essere iscritti nella Costituzione di un Paese moderno non è affatto evidente, e ancora oggi assai raro. L’articolo 9 della Costituzione italiana non ha avuto che due precedenti: la Costituzione della Repubblica di Weimar (1919) e quella della Repubblica Spagnola (1931), che fu peraltro di brevissima durata. In nessuno di questi due casi, comunque, la tutela del patrimonio faceva parte dei principi fondamentali dello Stato. A tutt’oggi, pochi Stati hanno dato a questo principio un rango costituzionale. In Europa, è uno dei principi fondamentali della Costituzione maltese e portoghese e ricopre forme diverse in altri Paesi, dalla Polonia alla Grecia ma anche nel continente americano, per esempio in Costa Rica e in Brasile.
Ho finora raccontato una storia «in crescendo», dalle regole sparse di qualche città nel Medioevo alla Costituzione di uno Stato moderno; e potrei benissimo proseguire ancora aggiungendo delle leggi e delle regole più recenti, in particolare la creazione del ministero dei Beni Culturali (1975) e, più recentemente, il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (2004, modificato nel 2006 e 2008) alla cui redazione ho partecipato e che ha modificato le leggi del 1939 conservandone tuttavia la la sostanza e lo spirito.

Ma dopo, e contro, le leggi inizia la distruzione massiccia
Devo tuttavia concludere con un tono completamente diverso, dichiarando senza mezzi termini che questo complesso sistema di tutela (il più vecchio e probabilmente ancora oggi sulla carta tra i migliori al mondo) funziona oggi sempre meno bene. La distruzione del paesaggio è sempre più drammatica. Basta ricordare che in 15 anni, dal 1990 al 2005, il 17% della campagna italiana si è ricoperta di nuove costruzioni, che ogni anno vengono edificati oltre 250 milioni di metri cubi e che la crescita della superficie abitativa dovuta alle nuove costruzioni è quaranta volte superiore alla modestissima crescita demografica (0,4%). L’armonico rapporto città-campagna costruito nei secoli sta cedendo terreno a un urban sprawl (distribuzione urbana) incontrollato che ospita ormai quasi un quarto della popolazione e delle attività produttive. L’antica forma urbis sta esplodendo e la sua espansione indefinita non annulla soltanto la periferia ma anche il centro. Nel nuovo paesaggio di periferia, lo spazio residuo tra le agglomerazioni perde il suo carattere di filtro e assume quello di terra di nessuno, mentre la terra delle campagne, coperta di cemento, perde per sempre le funzioni ecologiche che esercitava. Un territorio eccezionalmente fragile, soggetto a frane, inondazioni e terremoti è sempre più lasciato a se stesso e, mentre iniziano immensi lavori pubblici (per esempio il ponte sullo Stretto di Messina) non si fa quasi nulla per consolidare le zone più esposte ai rischi. Mentre le leggi di tutela restano in vigore e addirittura si migliorano un poco nel tempo, vengono concesse periodicamente deroghe, eccezioni o anche condoni in modo tale che quanti hanno commesso un delitto distruggendo un angolo di paesaggio possano fare ammenda pagando una piccola multa allo Stato o alle municipalità. Dato che questi condoni vengono accordati periodicamente (soprattutto dai Governi di destra), tutti sanno di potere violare impunemente la legge e che basterà attendere qualche anno per mettersi in regola pagando un’ammenda.
In materia di tutela del patrimonio culturale, si registra una profonda crisi di risorse umane e finanziarie. Da molti anni non si assume più personale e i funzionari di Soprintendenza hanno ormai in media 55 anni, cioè sono destinati ad andare in pensione entro cinque o dieci anni al massimo. Nel 2008 il Governo Berlusconi ha ridotto il budget del Ministero dei Beni culturali di circa un miliardo e mezzo di euro rendendo così praticamente impossibile qualsiasi intervento, anche i restauri urgenti divenuti indispensabili (come dopo il crollo della volta della Domus Aurea di Nerone). A fronte di queste carenze si sta affacciando l’idea di privatizzare il patrimonio culturale o di vendere una parte dei monumenti con il pretesto di adottare il «modello americano» di cui tutti parlano ma che nessuno conosce veramente. Nel frattempo il peso crescente della Lega Nord, partito nato con il progetto di realizzare la secessione delle regioni del Nord dal resto d’Italia, accresce la probabilità di una riforma costituzionale di orientamento «federalista» il cui enorme costo per i cittadini nessuno si preoccupa di misurare.
Per tracciare i confini di questa crisi bisogna almeno sommariamente richiamare un terzo punto. L’assenza di leggi non figura tra le ragioni della continua distruzione del paesaggio e del patrimonio. In questo campo esiste, al contrario, una sorta di accanimento terapeutico che origina un numero di leggi troppo elevato che è la ragione per cui è difficile osservarle tanto più che esse si sono spesso sedimentate nel tempo in maniera incoerente creando un labirinto di conflitti di competenze, in particolare tra lo Stato e le Regioni. Citerei a questo proposito il caso più grave che è rappresentato dal caos terminologico creato intorno alla tre parole chiave «paesaggio», «territorio» e «ambiente».

Il caos delle tre parole chiave: paesaggio, territorio e ambiente
Il «paesaggio», secondo l’articolo 9 della Costituzione, come abbiamo visto, deve essere posto sotto la tutela dello Stato e, in particolare, del Ministero dei Beni culturali, ma il «territorio», secondo l’articolo 117 della Costituzione, deve essere regolamentato e pianificato non dallo Stato centrale ma dalle Regioni e dai Comuni. Infine, «l’ambiente» è oggetto di competenza mista e, a livello dello Stato centrale, è un altro Ministero denominato proprio «dell’Ambiente» ad averne la responsabilità. Non si tratta di un dibattito astratto. Se, per esempio, si deve decidere dell’opportunità di distruggere o meno una grande pineta sulla costa tirrenica, chi dovrà prendere la decisione a questo proposito e accordare le relative autorizzazioni? Lo Stato, la Regione, il Comune? La legislazione è così complessa, soprattutto dopo la riforma costituzionale del 2001, che numerosi conflitti di competenza vengono portati ogni anno davanti alla Corte Costituzionale. Sarebbe quindi necessario porsi una domanda più radicale: esiste un territorio senza paesaggio e senza ambiente? Un paesaggio senza territorio e ambiente? Un ambiente senza paesaggio e senza territorio? Una revisione delle leggi finalizzata alla riunificazione delle tre Italie del paesaggio, del territorio e dell’ambiente è tanto difficile da realizzare quanto indispensabile.

A nessun politico, senza eccezioni, interessa il patrimonio artistico
La cronaca quotidiana, che non vado certo a ripercorrere oggi, mostra insomma l’usura progressiva e forse irreversibile della lunga tradizione italiana di tutela del patrimonio e di civiltà etica e giuridica del bene comune di cui in precedenza ho brevemente evocato la storia. Bisogna dunque domandarsi se ogni speranza è morta o se ci sono ancora dei rimedi da adottare. La mia non può essere che una risposta individuale di cittadino e non di uomo politico e deve partire da due semplicissime constatazioni. In primo luogo, nessun partito politico attivo nell’Italia di oggi, senza alcuna eccezione, ha richiamato l’attenzione su questo tema, per esempio in occasione delle elezioni politiche del 2008 o delle elezioni regionali del 2010. In secondo luogo, circa 20mila associazioni di cittadini, piccole e grandi, hanno fatto la loro apparizione negli ultimi anni promuovendo campagne di informazione e di difesa dei loro rispettivi territori. Questo «particolarismo italiano», che sembra aggiungersi alle così numerose altre forze di disgregazione del Paese, potrebbe avere in sé qualche caratteristica positiva, almeno lo spero, e riconnettere il meglio delle forze politiche ufficiali all’antica cultura delle città facendo rinascere forme di «azione popolare» o di class action come quelle che erano state prese in considerazione al momento dell’emanazione della legge del 1909.

Gli italiani hanno perso la coscienza
del valore del paesaggio
La crisi che viviamo è una ragione in più per riflettere, con un occhio rivolto al passato e l’altro al futuro, sui modelli storici di conservazione del patrimonio e sul loro destino. Per restituire all’antico modello consolidato della conservazione contestuale del paesaggio e del patrimonio, lo smalto e lo slancio richiesti dalle circostanze e dalla nostra responsabilità nei confronti delle generazioni future, è necessario sottomettersi a nuove questioni e nuove tensioni. Perché la conservazione del patrimonio abbia ancora un senso e perché il museo abbia ancora un avvenire nella città, credo che sia assolutamente necessario saper innescare due processi culturali. Il primo, del quale ho parlato, è la piena coscienza storico-istituzionale della funzione civile e sociale del patrimonio nella storia d’Europa. Il secondo processo, del quale non posso che accennare, è la piena reintegrazione della cultura della tutela del patrimonio nei grandi sviluppi culturali dei nostri tempi.
Perché il paesaggio non sia cannibalizzato da un pugno di speculatori senza scrupoli, esso deve divenire un luogo di coscienza di sé della società che l’ha creato e che lo sta distruggendo (è la «produzione dello spazio» evocata da Henri Lefebvre). Come ci bene mostrato Jean Clair nel suo recente libro L’hiver de la culture, i musei, come tutte le istituzioni culturali, sono soggetti all’usura del tempo e potrebbero quindi ben avere, in un prossimo futuro, la loro data di scadenza. Per non morire, il museo deve dialogare con la città e diventare un nodo urbano che si fonde al tessuto patrimoniale, civile e sociale della città e farsi concentrato e vetrina della sedimentazione storica e della memoria collettiva. Definire nuove funzioni per il paesaggio e il patrimonio è un obiettivo urgente che compete in primo luogo agli storici dell’arte come noi.
In realtà, il futuro della conservazione del patrimonio nelle nostre città si gioca innanzi tutto nella difesa del paesaggio e dell’ambiente, nella coscienza dei valori civili e sociali ad essi legati e non tra le mura di un museo. La scelta in effetti è la seguente: o il nostro patrimonio nel suo insieme, nel tessuto vivente della città e del paesaggio ridivengono un luogo di coscienza di sé del cittadino e un centro generatore di energia per la polis, o il loro destino è perire. La responsabilità etica e professionale degli storici dell’arte è anche di comprendere questo grave pericolo e di contribuire a evitarlo.

Poiché gli italiani non se ne occupano, ci vuole un movimento d’opinione (e di indignazione) internazionale
Tuttavia, gli sforzi isolati non bastano, per generosi e accaniti che siano. Un più ampio movimento di opinione che non si limiti all’Italia ma che possa farne un’opportunità di riflessione, è necessario, anzi urgente.
La qualità del patrimonio dell’Italia e del suo paesaggio, ma anche l’antichità delle sue tradizioni di tutela, storicamente legate a una piena coscienza e a una forte etica, attirano sempre di più l’attenzione dei cittadini di altri Paesi (soprattutto in Europa e in America). Un movimento di opinione come quello che auspico deve partire da un’informazione solida ed esatta. Richiede che venga valutata la gravità dei rischi che il paesaggio e il patrimonio d’Italia corrono oggi, ma richiede anche una piena coscienza del valore civile, etico e giuridico delle antiche regole di tutela e della loro trasmissione di generazione in generazione come elemento portante di continuità storica.
Per salvaguardare il prezioso patrimonio italiano e per evitare che ciò che resta del nostro paesaggio venga distrutto, bisogna ripartire dai diritti delle generazioni future e, su questa base, costruire (o ricostruire) un quadro istituzionale e legislativo credibile, funzionale e efficace. Senza dubbio sarebbe straordinariamente importante a questo riguardo che l’opinione pubblica internazionale illuminata esprimesse le proprie preoccupazioni su questo tema.

Testo della conferenza «La tutela del patrimonio e del paesaggio in Italia: una lunga storia, una crisi di grande attualità» tenuta domenica 29 maggio 2012 al primo Festival di Storia dell’Arte nel Castello di Fontainebleau
Per un approfondimento: Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Giulio Einaudi Editore, Torino 2010

di Salvatore Settis, da Il Giornale dell’Arte numero 324, ottobre 2012

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Pietro Porcinai

28 Febbraio 2016

L’Urbanistica come problema sociale in connessione alla organizzazione delle zone industriali.

In senso concreto, il “verde” nell’urbanistica non può certamente limitarsi a ciò che spesso avviene di vedere nei piani e progetti, cioè la mera indicazione, non sul terreno, ma sulle planimetrie, di quel colore in corrispondenza delle aree destinate ad esser piantate ad alberi, a cespugli generici, o a prato. Deve essere invece molto di più.

Anzitutto è bene rammentare che piantando senza precise vedute, od anche chiamando, ad opere eseguite, un giardiniere che infili piante nella terra, l’azione a pro del “verde” sarebbe molto simile a quella di certi ingegneri del passato i quali fatto l’edificio chiamavano l’architetto per fare la facciata.

Ebbene, quando si tratta del verde, oggi, da noi in Italia (ma non solo in Italia) siamo purtroppo proprio al caso della facciata pensata e disegnata a posteriori, dato che ben di frequente le zone verdi o sono lasciate all’abbandono o son fatte piantare a talento dal primo qualunque operaio sedicente giardiniere che capita a portata di mano.

E così facendo, non soltanto le zone verdi vengono ad essere quel che sono cioè spesso cosa miserrima o banale, ma, il che pure conta, vengono a costare enormemente di più, sia come impianto, sia come manutenzione: ne consegue di frequente che – siccome le economie si fanno sempre sulle cose ultime – nulla o poco, alla fine, risulta concretamente a pro delle zone verdi.

Ciò è non solo doloroso, ma anche assurdo, perché, se invece divenisse abitudine operare opportunamente già nella fase di progettazione, già all’inizio dei movimenti di terra (lavoro primo in qualunque costruzione), si arriverebbe agevolmente a realizzare le zone verdi usufruendo delle sole economie ottenute operando in senso logico e razionale.

Per giungere a tanto, architetti, ingegneri e geometri, tutti i costruttori, bisogna che si educhino opportunamente. Oggi, epoca delle zone verdi, non abbiamo invece in Italia nemmeno un corso di studi che a tali costruttori lasci intravedere come le accennate economie d’impianto e manutenzione possano essere realizzate.

Tra i concetti fondamentali, non appare si sappia che la zona verde non può e non deve essere un pezzo di giardino da trasferirsi sopra una data area. Tanto meno, poi, quando trattisi di sistemare col verde uno stabilimento industriale. Quel che occorre invece è creare un insieme di piante che, per l’opportuna scelta ed il voluto collocamento, abbia attitudine a formare un complesso in cui i singoli si tengano a bada reciprocamente, senza, quindi, la necessità del continuo intervento del giardiniere.

Trascurando gli accennati criteri fondamentali le zone verdi vengono a costare molto più del dovuto e, quindi, saranno sempre avversate da coloro che debbono aprire la borsa. Bisogna dunque capire e far capire che operando a dovere le zone a verde sono suscettibili di fortissima economia d’impianto e manutenzione, ripagata abbondantemente dai tanti altri benefici che se ne ricavano, specie nell’ambito dell’industria.

Altro criterio basilare è quello della scelta del terreno.

Determinata la zona in cui, rispetto alle materie prime, mano d’opera, energia e mercati, si considera conveniente far sorgere un impianto industriale, bisogna prima preoccuparsi di scegliere, per la definitiva ubicazione, terreni di minima redditività agraria.

A giustificazione di tale criterio basta riflettere che, in un paese come il nostro, super popolato e povero non solo di materie prime essenziali ma anche di buona terra, è colpevole distruggere appezzamenti di terreno capaci d’esser fonte di vita, quelli cioè dotati della meravigliosa forza che trasforma un seme in un prodotto.

Appare quindi indispensabile e saggio, prima di piazzare uno stabilimento, consultare una carta agrogeologica. Vero è anche, spesso, che la carta non c’è, perché non sempre gli organi governativi si occupano di provvedere a cose che certa burocrazia considera di dettaglio. Ma, anche in tale evenienza, si può supplire con fonti informative locali. Si avverta che consultare i dati del reddito catastale non basta; spesso, terreni a basso reddito possono con lavori opportuni esser messi in valore.

All’area industriale devono invece esser destinati sempre, se possibile, terreni non redditizi sotto l’aspetto agrario.

Ma non basta, che c’è ancora un criterio da tener per guida nella scelta delle aree di complessi destinati all’industria, ed è che l’impianto, una volta realizzato, non danneggi o deturpi l’ambiente naturale, come si verifica, non poche volte, a causa di un cattivo inserimento nel paesaggio, o per causa di esalazioni, rumori, smaltimento di rifiuti ecc.

Già troppo scempio si è fatto sinora a questo riguardo, e in un paese che ha le bellezze del nostro non si può all’infinito continuare la distruzione del paesaggio: in queste distruzioni, colpevoli perché oltretutto per nulla necessarie e invece facilmente evitabili, l’industria, insieme al Genio militare e civile, ha la sua buona parte di colpa.

L’inserimento del complesso industriale nel paesaggio dipende essenzialmente dalla sensibilità dei progettisti. Uno stabilimento brutto è, anche tecnicamente, sempre sbagliato; mentre un insieme ben inserito nel paesaggio è motivo pubblicitario notevole per lo smercio dei prodotti, ed è fonte di piacere per chi lavora, il che, per chi intenda, è cosa della massima importanza.

Studi, pubblicazioni ed esperimenti si vanno moltiplicando sulla efficienza del lavoro razionalizzato, e concordemente si riconosce che non basta creare industrie ottimamente dotate di macchinari attrezzi e arredamenti moderni, se, insieme, non si presta cura all’adattamento all’uomo del posto di lavoro.

Creare al lavoro umano l’ambiente più adatto è oggi dagli specialisti, e dagli industriali più lungimiranti, considerato l’antidoto essenziale alla fatica, alla monotonia, alla spersonalizzazione provenienti dai moderni sistemi tecnici di lavorazione.

L’operaio nell’opificio non è lieto come l’artigiano, specie perché non ha più la possibilità di usare il talento creativo: nello stabilimento industriale moderno, ben ordinato, ben dotato, ben organizzato, l’uomo tende a divenire poco più di un utensile e questo ha conseguenze gravi sulle possibilità di rendimento e, indirettamente, sugli stati d’animo riguardanti socialmente l’intera collettività.

Le zone verdi e il giardino di stabilimento creano un ambiente che nel modo migliore si contrappone al meccanicismo, perché riporta l’animo umano a contatto della natura. Risolvere in un opificio la questione del “verde” vuol dire influenzare beneficamente tutti coloro che lavorano: dal presidente del complesso industriale fino all’ultimo manovale e al più modesto impiegato. L’influsso di un ambiente ben sistemato con popolazione di alberi e piante è incalcolabile e può non solo mutare le sorti di una cattiva giornata, ma essere stimolo favorevole per un’intera esistenza. A tacere i dettagli, si può dire che colà dove tentativi coraggiosi di condurre il giardino e il verde nell’industria sono stati realizzati, si è creata la premessa per un maggiore rendimento del fattore umano e per una più placata convivenza di rapporti.

Zone verdi e giardino di stabilimento debbono essere, s’intende, volta per volta preliminarmente studiati in rapporto alle caratteristiche di luogo, spazio, lavorazione.

Ogni qual volta sia possibile, alla manutenzione del giardino e del verde si destineranno avvicendandoli, gli operai della fabbrica. Se il complesso comprende abitazioni operaie, non si innalzi casa che non abbia il suo piccolo pezzo di terra dove l’operaio possa fare qualcosa a proprio talento, come reattivo alla necessaria disciplina e coordinamento d’officina: sarà questo il mezzo migliore per conservare all’operaio la sua facoltà creativa, a tutto vantaggio del consueto lavoro.

Nell’area dell’abitato operaio non si rinunci poi al terreno comune da destinarsi ai giuochi dei ragazzi. Su questo terreno, anzi, si pongano a disposizione mezzi elementari, pietre, mattoni, pali e simili, con cui alla fantasia dei fanciulli e giovanetti sia possibile “costruire” qualcosa; si hanno all’estero, nei paesi della Scandinavia in specie, esempi altamente significativi di quanto possa ottenersi in fatto di autoeducazione al lavoro dei figli di operai. Liberi di “creare” ciò che a loro più talenta, abituati a risolvere da soli i contingenti problemi che in tali giuochi si presentano, questi ragazzi ricorderanno poi le difficoltà superate e saranno capaci di trarsi d’impaccio ne lavoro di domani, quando a loro volta diverranno operai nell’industria.

Mettere riparo ai danni e molestie che possono derivare da esalazioni e rumori di stabilimento è cosa facile a risolversi con accorgimenti tecnici; per i rumori in specie, non si dimentichi, tra l’altro, il potere assorbente e frangente che hanno le piantagioni opportunamente disposte.

Più complessa è la questione dello smaltimento dei rifiuti di fabbrica, ma anch’essa va programmaticamente risolta all’inizio in modo da non recar danno all’ambiente e ai terreni ed acque all’intorno. Le soluzioni non sono né difficili, né costose; basta affidare la realizzazione a chi ha pratica ed esperienza in materia, ed in Italia c’è chi sa molto al riguardo.

Un argomento, infine, che si aggiunge col suo peso agli altri accennati per consigliare la creazione di zone verdi nell’ambito degli edifici industriali ed ottenere il completo ambientamento di essi nel circostante paesaggio, è quello mimetico. Senza dilungarsi in proposito, basta ricordare che al Congresso internazionale di Madrid, urbanisti e paesaggisti di tutti i principali paesi del mondo votarono concordi un indirizzo ai Governi onde promuovano la creazione, attorno ad ogni complesso industriale, di una cinta alberata, tanto più spessa quanto maggiore sia l’area occupata dagli edifici e dipendenze.

In un mondo senza pace, è questa una misura molto saggia che nessun industriale e nessun progettista di costruzioni industriali deve a cuor leggero ignorare; tanto più in quanto una protezione di verde rispondente agli scopi non è cosa che possa improvvisarsi in un domani deprecabile nel quale incomba una pericolosa necessità.

Riassumendo e concludendo quanto esposto, si può dunque affermare che, per quanto in specie riguarda l’industria e l’urbanistica industriale, il problema del “verde” è innanzi tutto un problema di giusta comprensione e di economia.

Progettare un’industria tenendo presente l’elemento verde può consentire, fin dai primi movimenti di terra, di economizzare notevolmente; si evita di deturpare il paesaggio e si realizza una misura protettiva di mascheramento; si pongono, infine, le basi per creare un ambiente di lavoro adatto al fattore umano, mettendo l’operaio in condizione di produrre di più e d’esser più felice, conservandone più a lungo l’energia psichica di cui benefica il lavoro materiale, e si promuove inoltre la formazione di abitudini e convivenze utili al pacifico rapporto sociale nella comunità.

Perché le nuove costruzioni industriali e le trasformazioni di quelle esistenti siano avviate sopra una via che intenda al giusto valore l’importanza delle zone verdi, bisogna sperare in una azione educatrice che risulti convincente e formativa per architetti, ingegneri, geometri, impresari e committenti. Si potrebbe intanto cominciare con questi ultimi.

Lo Stato, per quanto lo concerne, ed in quanto emanatore di leggi sulla protezione del paesaggio, provveda in modo semplice e chiaro affinché d’ora in poi uno stabilimento industriale sia sempre realizzato con la stessa armonia che risulta dal lavoro dei campi, e ambientato in un paesaggio bello ed armonico.

Si pensi, ad esempio, alla dolce campagna toscana, in cui il lavoro umano nelle opere agrarie è continuazione ammirevole del lavoro millenario della natura.

E, soprattutto, non manchino le volontà, intese a far cosa praticamente e moralmente utile all’economia privata e all’economia dell’intera nazione.

Saggio di Pietro Porcinai presentato al congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica del 1951

Per gentile concessione di Anna Porcinai, Archivio Pietro Porcinai – Via Bandini, 15, San Domenico di Fiesole (FI)

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Andreina Montà Zegna

16 Febbraio 2016

Storie di giardini e di giardinieri

La contessa Andreina Montà Zegna ricorda la collaborazione
con il paesaggista Pietro Porcinai e il vivaista Ernesto Pozzi
durante i lavori dei giardini Zegna nel Trivero

Le interviste di lessico naturale | Storie di giardini e giardinieri
Ideazione e realizzazione di Alessio Guarino e Fulvia Grandizio

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