Dacia Maraini non l’ho conosciuta di persona. Quest’intervista è l’unica che ho dovuto fare per telefono: lei si trovava nella sua casa in Abruzzo, isolata per diversi giorni da una tormenta di neve. Abbiamo passato un paio d’ore insieme al telefono, ma naturalmente non è la stessa cosa. Molte domande possibili si perdono, si dimenticano, mentre a una parentesi segue un’altra parentesi. Dacia era influenzata, faceva molta fatica a stare al telefono e anche per questo non ho voluto abusare del suo tempo.
Con lei avrei voluto parlare per esempio di Madame Bovary, cui Dacia ha dedicato un saggio nel quale indaga il rapporto tra Flaubert e la sua eroina, oltre il «Madame Bovary c’est moi». Non sono d’accordo su molte sue riflessioni a proposito di Emma, «ostaggio del suo autore». Abbiamo comunque fatto in tempo a parlare di tantissime cose, anche al di là del racconto di una vita decisamente fuori dal comune. Dello stato attuale della letteratura italiana, per esempio. Ho subito notato – in una donna non più giovanissima ma che soprattutto ha avuto il privilegio di confrontarsi con le più importanti voci della letteratura italiana – l’assoluta mancanza di nostalgia. Che poi si traduce anche in un’estrema attenzione verso tutto ciò che è contemporaneo, quel contemporaneo che invece chi scrive fatica così tanto a trovare interessante o degno di nota. Riconosco che è un atteggiamento universale, di ogni epoca, guardare al passato con un rimpianto desolato e sospirante: dunque forse è più una questione di sguardo, di attitudine, di esercizio.
Invece a proposito della superficialità con cui vengono oggi trattati i libri, la Maraini ha perfettamente ragione. Il mercato è in parte una risposta, perché è lo stesso mercato a trovarsi in un guado difficile, tra la forma che abbiamo sempre conosciuto fino a pochi anni fa – cioè il libro fisico, il libro oggetto – e la rivoluzione digitale che davvero non sappiamo dove andrà a parare. Una volta Gian Arturo Ferrari – uno dei più importanti manager dell’editoria italiana – mi ha detto: «La lettura non è qualcosa che si può risolvere in due ore, come un film al cinema. Io sono sempre stato progressista, credo nel progresso e nel miglioramento. Le teorie della decadenza non mi hanno mai convinto fin da quando ero giovane: allora si tuonava contro la crisi della borghesia e il ’capitalismo maturo’, sottintendendo che fosse sul punto di cadere come una mela e di marcire». Non è andata esattamente così, però io sto più con Pietro Citati e la sua teoria sulla letteratura «bella addormentata». Del resto, mai come per queste cose, vale la scorciatoia latina del de gustibus.
Le radici non sono il contrario delle ali, e sono ugualmente importanti. È l’immagine che viene in mente, quando Dacia Maraini comincia a raccontare la storia della sua famiglia. Il primo a fare capolino è il nonno materno, Enrico Alliata. Come il Tolstoj degli anni della Confessione diventò vegetariano, vestì i panni dei contadini, prese a vivere con loro e come loro.
«Nonno Enrico andava in campagna, si occupava personalmente delle vigne e del vino: era anche enologo. Era un uomo buono e generoso. Mia nonna Sonia, invece, era figlia di diplomatici cileni, era ignorante perché non aveva studiato, come succedeva alle ragazze di allora, ma era una cantante di grande talento. Ricordo la sua voce bellissima, potente: era un soprano, aveva studiato alla Scala di Milano e con Caruso. Allora le donne di buona famiglia non potevano salire sul palcoscenico perché era considerato sconveniente. E quindi cantava alle serate di beneficenza, ma è stata frustrata tutta la vita perché avrebbe voluto fare la cantante lirica a tutto tondo, cantando nei grandi palcoscenici la grande opera.»
Dall’altra parte della storia c’è il nonno Maraini, di origine ticinese, uno scultore che si era stabilito a Firenze: il papà di Fosco.
«Era stato conquistato dal primo fascismo e dalle avanguardie del primo Novecento. Mio padre invece era ferocemente contrario, soprattutto si opponeva a qualunque tipo di discriminazione razziale. Il nonno voleva che lui prendesse la tessera per trovare lavoro e lui ha sempre rifiutato. Invece mia nonna paterna era una scrittrice, Yoï Pawlowska. Era per metà inglese e per metà polacca. Scriveva romanzi di viaggio, si metteva lo zaino sulle spalle e andava a piedi: ha attraversato la Persia con grande coraggio. Allora le donne non viaggiavano sole.»
In La nave per Kobe ha raccontato, attraverso i diari di sua madre Topazia, anche la sua infanzia in Giappone.
Avevo un anno, quando ci siamo imbarcati da Brindisi: mio padre aveva vinto una borsa di studio internazionale per studiare gli Hainu, una popolazione del Nord che ormai si è integrata coi giapponesi. Allora però avevano una loro lingua e vivevano cacciando orsi. Siamo rimasti lì fino a quando, nel ’43, ci hanno rinchiuso in un campo di concentramento. Mio padre e mia madre avevano rifiutato di firmare l’adesione alla Repubblica di Salò: ci consideravano traditori della patria. La vita nel campo era fame, parassiti, freddo, malattie, tutte le malattie della denutrizione. Soprattutto ricordo i morsi della fame, era un’ossessione che ci tormentava. Non ci davano quasi niente da mangiare. Io avevo sette anni, di quel periodo mi è rimasta dentro l’idea di continua allerta, di pericolo, l’arrivo dei bombardamenti. E ancora: il filo spinato, le guardie, gli orari. Ma il problema principale era non mangiare. Giocavo con le pietre e facevo finta che fossero cibo. Immaginavo che lo fossero e mi nutrivo con la fantasia. Mio padre m’insegnava la matematica, mia madre mi raccontava le favole in mezzo alle bombe che scoppiavano vicino al campo.
Nel ’46 vi liberano.
Sì, ma restiamo altri nove mesi in Giappone, in attesa di una nave. Non avevamo più niente, solo il vestito che ci avevano dato gli alleati. Mia madre lavorava per loro come esperta d’arte, mio padre traduceva dal giapponese. In qualche modo ce la siamo cavata. Poi siamo andati a vivere in Sicilia, in una villa molto bella che apparteneva ai parenti della mamma. Ma noi stavamo nell’ex pollaio, da cui era stato ricavato un appartamentino. La Sicilia, l’Italia tutta, era poverissima nel Dopoguerra. E noi non avevamo davvero niente. La Sicilia era dura per una ragazzina, c’era un controllo sociale continuo. Non potevo andare in giro da sola per strada, la mentalità era molto arcaica.
Fosco che padre era?
Era un uomo pieno di talenti. Piuttosto assente come genitore, perché girava il mondo per i suoi studi. Era un uomo straordinario. Soffrivo la sua assenza, però quando veniva da noi ci portava a nuotare, a camminare in montagna, a sciare, era un uomo che amava lo sport rischioso. Tante volte mi ha fatto prendere delle paure tremende portandomi ad arrampicare sulle rocce scoscese. Io poi che soffro di vertigini! Ma una volta gli ho salvato la vita. Perché lui doveva andare a fare una gita in alta montagna con dei suoi amici. Quella mattina io mi sono svegliata con la febbre alta e mia madre l’ha costretto ad andare a cercare un medico. Gli amici sono venuti a prenderlo e lui ha detto: «Voi andate avanti che io vi raggiungo appena posso». Quando li ha raggiunti, dopo qualche ora, erano tutti morti sotto una slavina.
E i libri quando li scopre?
Subito, sempre: in casa mia non c’era niente, i libri erano l’unica ricchezza. E poi era una famiglia di scrittori. Leggevo tantissimo, era la cosa che preferivo. Al liceo ho scoperto i classici, i greci, i latini, la grande letteratura dell’Ottocento. Funzionavo così: scoprivo un autore, me ne innamoravo, lo leggevo tutto. Balzac, i trenta romanzi, li ho divorati in fila. Non avevamo soldi per comprare scarpe nuove – le facevano risuolare venti volte – e andavo in giro con il cappotto rivoltato del nonno. Però la biblioteca era immensa, era lì da generazioni. Per fortuna, dico oggi. E ho cominciato prestissimo a scrivere, sul giornale della scuola, a Palermo.
Cosa?
Poesie e racconti. Poi ho fondato una rivista, a diciassette anni. Si chiamava Tempo di letteratura. Eravamo tutti aspiranti scrittori: c’incontravamo, discutevamo, scrivevamo i nostri racconti, poi traducevamo. Con me in quest’avventura c’era Sebastiano Addamo, che poi ha pubblicato per Garzanti e Sellerio.
Quanto resta in Sicilia?
Fino a diciotto anni: poi i miei si sono separati. Le mie due sorelle sono rimaste con mia madre e io, che ero la più grande, sono andata via con mio padre. Ho finito il liceo al Mamiani.
Roma com’era?
Povera: c’erano ancora le pecore che al mattino passavano in piazza del Popolo. Era più piccola anche, perché i grandi cambiamenti urbanistici sono avvenuti nei vent’anni successivi. Ma al mio arrivo era una città vivissima, si respirava una grande voglia di libertà, dopo il fascismo. Andavamo da Rosati, che era un posto molto diverso da quello che è oggi. Non era per i turisti, era il caffè degli artisti. Incontravi Calvino, Fellini, Pasolini, Guttuso, Moravia, Natalia Ginzburg, Elsa Morante. C’erano due o tre trattorie, molto alla buona, dove ci vedevamo tra scrittori. Ma non era vita mondana. Non c’erano né macchine né vestiti eleganti, né case di lusso, né niente. Soprattutto si parlava. Anche di politica, non solo di arte o di letteratura. Quando scoppiò la guerra in Vietnam ricordo che la seguivamo con molta partecipazione, ne discutevamo di continuo. Allora io facevo teatro di strada, contro la guerra. In quegli anni ho fondato il teatro di via Belsiana e poi il teatro di Centocelle.
Guttuso che tipo era?
Era un uomo affascinante, con una voce meravigliosa e bellissime mani. Le donne lo adoravano, aveva un grande charme. In quel periodo, nel nostro giro, c’erano anche Schifano, Titina Maselli e Franco Angeli. E Federico Fellini: Roma era una specie di salotto, nel senso migliore del termine.
E Pasolini?
Pier Paolo è diventato un amico carissimo: c’era tra noi una grande solidarietà. Era uomo di lunghi silenzi, riservato, in certi momenti quasi muto. Pieno d’idee, di progetti. Insieme nel ’74 abbiamo scritto la sceneggiatura di Il fiore delle Mille e una notte. Con le donne aveva un bel rapporto, affettuoso. La Callas era davvero convinta di poterlo convertire all’eterosessualità, una cosa assurda. Il fatto è che lui le voleva molto bene, in un certo senso l’amava. Ma non avrebbe mai fatto l’amore con una donna. Pier Paolo era un uomo coraggioso, ha sempre sfidato la vita. Anche la sua morte è stata una sfida. Non aveva paura di nulla, nemmeno dei suoi assassini. Ma purtroppo sappiamo poco della sua morte, né chi veramente l’ha ucciso né perché. L’omosessualità non c’entra per niente con la sua morte. Non dimentichiamo il caso Mattei, il lavoro che Pier Paolo stava facendo su quel mistero e non dimentichiamo le sue parole: «Io so, ma non ho le prove». Quel suo sapere aveva impaurito chi non voleva che si sapesse.
Leggendari sono i vostri viaggi.
Ne abbiamo fatti molti, in India, nello Yemen, ma soprattutto in Africa. Almeno dieci volte. Viaggiavamo in gruppo, con Alberto, qualche volta ci accompagnavano Ninetto Davoli o i fratelli Citti. Dormivamo nelle tende nel deserto, nelle missioni, nelle caserme. All’avventura, sempre il più lontano possibile da mete turistiche.
Il suo primo libro viene pubblicato quando lei è giovanissima, appena ventitreenne.
Sì, ma avevo già pubblicato su molte riviste letterarie: Paragone, Il Mondo, Nuovi Argomenti.
Che rapporto aveva con Pannunzio?
Mario era un uomo coltissimo e molto dolce. Però coltivava alcune idee antiquate, soprattutto sulle donne. Una volta, in sua presenza, avevo fatto un apprezzamento su un uomo. Avevo detto: «Guarda che bel corpo ha». E lui è rimasto stupitissimo, mi ha detto: «Ma io credevo che le donne guardassero solo gli occhi degli uomini». Io mi sono messa a ridere e gli ho spiegato che un uomo poteva piacere anche per altro, al di là degli occhi. Come si guarda una bella donna, si guarda un bell’uomo. Non credo di averlo convinto, su queste cose era un po’ ingenuo, un po’ infantile.
C’era anche un giovane Scalfari.
Era un uomo molto bello. Mi ricordo una sera che diede una festa bellissima sulla terrazza di casa sua. E io mi vergognavo perché avevo un vestito che non mi sembrava all’altezza della serata, troppo povero. Sono stata povera a lungo. A proposito di uomini belli: su quella terrazza ho conosciuto anche Lucio Magri. Aveva degli occhi verdi che erano una cosa stupefacente, una potenza magnetica. Quella sera ho ballato con lui: ma non era uomo che si potesse corteggiare, era impegnato con Luciana Castellina. C’erano anche Enzo Siciliano con la moglie Flaminia, Bernardo Bertolucci, Adriana Asti, Laura Betti. Un’altra casa dove andavano gli artisti – una bella casa grande, comoda, piena di libri e di quadri, era quella di Luisa Spagnoli, la «signora perugina». Amava moltissimo l’arte, faceva del vero mecenatismo: comprava le opere degli artisti e così li aiutava. Non solo: la sua casa era sempre aperta, i giovani pittori senza una lira lì trovavano sempre un pasto caldo. Era una donna gentile e generosa.
Siamo negli anni Sessanta, cioè quando nasce l’amore tra lei e Alberto Moravia. Com’è successo?
Lo conoscevo da quando avevo cominciato a frequentare Rosati. Poi avevo scritto un romanzo, La vacanza, che avevo proposto a un editore, il quale mi aveva detto di portargli la prefazione di un grande autore. E aveva fatto i nomi di Calvino, di Cassola, di Bassani. E di Moravia. Io ho cercato fra loro chi fosse disponibile e ho trovato Alberto che per fortuna era sempre ben disposto verso i giovani scrittori. Gli ho dato il libro, lui l’ha letto e gli è piaciuto. E così mi ha fatto la prefazione. A un certo punto ci siamo innamorati, per le consuete e misteriose strade che portano a queste cose.
Lui era sposato con Elsa Morante e molto più vecchio.
Si, ma erano separati da anni. Lei aveva suoi amori e lui pure. Siamo andati a vivere insieme quando io avevo ventisei anni e lui cinquantotto: ma l’amore non bada alle età. Sono stati quindici anni molto intensi, molto vivi e felici. Lui era affascinante, spiritoso, un grandissimo raccontatore di storie. La sua compagnia era una gioia. Mi piaceva moltissimo viaggiare con Alberto, proprio per questo suo modo di stare con le persone. Con Elsa non c’è mai stato un attrito, avevo un rapporto molto bello, sereno con lei. Mi chiamava quando leggeva un mio libro, parlavamo a lungo, la andavo a trovare. Si faceva il Natale a casa sua, con Visconti prima, che lei ha amato per anni e poi con Bill Morrow, un giovane pittore di cui si era innamorata da ultimo. A Elsa piaceva organizzare la pesca dei regali.
Con Moravia vi scambiavate idee mentre scrivevate?
A cose fatte, ma mai mentre lavoravamo. Eravamo gelosissimi, entrambi, delle nostre cose.
Perché è finita?
Gli amori, anche i più belli, si consumano, ci si allontana. Poi lui si è innamorato di un’altra donna, Carmen Llera, una giovanissima e bella e colta spagnola. Questo non ci ha impedito di rimanere legati e sempre molto amici. Non ci sono stati rancori o allontanamenti traumatici. Fino alla fine.
Lei ha vinto il Campiello con La lunga vita di Marianna Ucrìa, nel 1990, e lo Strega con Buio, nel 1999. Cosa pensa dei premi letterari italiani?
L’Italia è un Paese che legge poco e io ho l’impressione che i premi siano una sorta di compensazione. Si cerca di rendere visibili i libri attraverso i premi. Si legge poco da noi, ma non per pigrizia, bensì per la particolare storia della nostra lingua. Abbiamo cominciato prima di tutti in Europa, nel Trecento, con il volgare di Dante. Poi però lo sviluppo della lingua nazionale si è interrotto, con la Controriforma si è tornati al latino. C’è stata una frattura tra l’italiano colto e la lingua parlata, cioè i dialetti regionali. Questo ha impedito la nascita del grande romanzo dell’Ottocento, come è accaduto altrove. Non è un caso che Manzoni andasse a sciacquare i panni di qua e di là, cercando una lingua nazionale che non c’era. Settembrini si lamentava che gli scrittori italiani non conoscessero la lingua «dei mestieri». La lingua «dei mestieri», ovvero una vera lingua nazionale, è nata dopo, con l’unificazione del Paese e soprattutto grazie alla diffusione della radio, nel secondo Dopoguerra.
Gli anni della sua giovinezza sono stati un periodo d’oro per la letteratura italiana.
Dopo il fascismo c’è stato un inevitabile risveglio, per vent’anni si era respirata un’aria pesantissima. Di censure e tentativi di omologazione: Kafka, per esempio, era stato bandito perché considerato pessimista. I grandi russi venivano censurati. L’esplosione degli anni dopo il ’45 si deve secondo me moltissimo a Giulio Einaudi, che si era circondato di intellettuali come Pavese, Calvino, Leone e Natalia Ginzburg. La grande letteratura del secondo Novecento italiano nasce dall’euforia, dalla gioia di una liberazione anche intellettuale.
Dello Strega cosa pensa? Tutti gli anni è la culla di mille polemiche e dibattiti.
Questo succede perché è un premio molto legato agli editori, secondo me un po’ troppo. Non che gli scrittori premiati siano cattivi, ma guarda caso vincono sempre i grandi editori.
La letteratura italiana di questi anni?
Sono contraria alle nostalgie, all’elogio dei tempi andati. A posteriori si vede sempre tutto con un altro occhio: bisogna sapere guardare con attenzione alle nuove scritture. C’è sempre qualcosa di interessante. E ci sono voci di talento. Tanto per citarne alcuni: Ammaniti, Piccolo, Melania Mazzucco, la Mazzantini, Giordano, Fleur Jaeggy, Silvia Avallone, Mariapia Veladiano. Ma sono tanti di più. Un vivaio formidabile è la redazione di Nuovi Argomenti dove sono passati tutti, da Calvino a Saviano e che oggi sforna in continuazione nuovi romanzieri, da Veronesi a Desiati, da Chiara Valerio a Carola Susani, da Francesco Longo a Filippo Bologna, da Colombati a Lorenzo Pavolini. Purtroppo bisogna dire che da noi si pubblica troppo e senza molto criterio. Questo significa che i libri restano in libreria solo pochi giorni, non c’è il tempo di leggerli, di fare il passaparola, che è un modo democratico di far circolare un libro. L’editoria adesso si fonda sulla quantità: su cento libri, tre funzionano e con quei tre si paga tutto il resto. E il consumo presuppone la rapidità del passaggio delle merci: solo che i libri non sono merci qualsiasi, sono un oggetto di artigianato che entra poi nel mercato di massa, ma va trattato con delicatezza, perché dentro ci stanno le idee, la cosa più fragile, preziosa e complicata del mondo. E invece vengono trattati come gli ombrelli, si fanno, si comprano, si usano due volte e poi si buttano.
7 gennaio 2015
Tratto da: Silvia Truzzi, Un paese ci vuole, Sedici grandi italiani si raccontano, ed. Longanesi