Guido Giubbini

 Il paesaggio come opera d’arte, luogo sacro, sedimento di storia e di memoria

Negli ultimi cinquant’anni il paesaggio ha subito un processo accelerato di degrado e in qualche caso di distruzione. È un fenomeno che è iniziato nell’Ottocento, ma che nell’ultimo mezzo secolo, anche a causa delle nuove tecnologie, ha assunto proporzioni devastanti. Parlo del paesaggio in generale, sia naturale sia antropizzato, ma nel caso dell’Europa e dell’Italia in particolare intendo soprattutto il paesaggio modificato dall’uomo e di quello agricolo in particolare. Per porre un argine a questo processo distruttivo, che procede ormai con rapidità esponenziale, e per tentare un’inversione di rotta, dobbiamo liberarci dalle interpretazioni convenzionali e recuperare del paesaggio il senso originario di opera d’arte collettiva, spazio del sacro, sedimento di storia e di memoria.

1 – Il paesaggio come opera d’arte.

Siamo abituati a considerare “opera d’arte” un quadro, una scultura, un monumento architettonico, un’opera letteraria e musicale, ma non lo spazio quotidiano del vivere, l’ambiente che ci circonda: la città e il paesaggio. All’opera d’arte colleghiamo una sorta di separatezza dal quotidiano, come se fosse una parte privilegiata ma alla fine, se non proprio superflua, certo non necessaria dell’esistenza. Si pensa che il paesaggio, la città, e in generale l’ambiente in cui viviamo debbano essere sottratti alle ragioni estetiche perché dipendono prioritariamente dalle leggi della necessità, dell’economia, dalle esigenze pratiche della vita (l’arte e la cultura sono passatempi da ricchi, ci si può permettere la bellezza solo in tempi di benessere eccetera…).

La cultura romantica e idealistica borghese hanno separato il sublime dal quotidiano, l’arte dalla vita normale. Ma fino a due secoli fa l’arte non era qualcosa di separato: l’arte era innanzitutto ciò che viene fatto secondo determinate regole, in base a una tecnica (nell’antica Grecia, luogo artistico per eccellenza, technè era appunto il termine usato per indicare l’arte). Nel mondo pre-borghese tutto era tendenzialmente artistico, dall’oggetto o comportamento più quotidiano a quello più importante, cioè l’ambiente in cui vivere. Eppure dire oggi che l’ambiente e il paesaggio devono essere opera d’arte può apparire scandaloso, come se si trattasse di un’eresia contro la ragione economica e sociale.

In realtà in una visione “normale” e “umana” del mondo l’uomo tende a circondarsi di oggetti belli e a vivere in un ambiente gradevole, gratificante, cioè formato a regola d’arte. In un paese come l’Italia, dove per secoli le classi dirigenti hanno prodotto opere d’arte eccelse, l’opera d’arte suprema non era soltanto il quadro, la scultura o il palazzo (come si tende a credere) ma prima di tutto l’ambiente in cui vivere, la città, il paesaggio, e il paesaggio agricolo in particolare, cui la città doveva la sua vita e il suo benessere, e che costituiva l’essenza del territorio, del “paese”.  I papi, i Medici, gli Sforza, i Savoia, le oligarchie di Venezia e di Genova hanno modellato per secoli il paesaggio facendone l’opera d’arte suprema.  Quello che gli stranieri ammiravano più di ogni altra cosa al punto di chiamare l’Italia il “giardino d’Europa” alludendo, sia ben chiaro, non ai giardini in senso stretto, ma proprio al paesaggio agricolo: il più diversificato, specializzato, raffinato, esteticamente codificato, cioè più “colto” (che vuol dire appunto “coltivato”) del mondo.

Purtroppo il riconoscimento del paesaggio come opera d’arte incontra molti ostacoli, e due in particolare. Il primo è che il paesaggio è opera d’arte collettiva, mentre la concezione romantica dell’arte ci ha abituati a considerarla individuale, frutto del “genio” del singolo artista. In realtà, come vedremo, il carattere “collettivo” e “storico” della qualità artistica del paesaggio deve essere considerato motivo di superiorità, non di inferiorità. Il secondo è che il paesaggio agricolo è direttamente connesso a una necessità produttiva, cioè economica e pratica, cui noi oggi (in età borghese) attribuiamo una priorità incondizionata. Il prodotto artistico e culturale deve avere la priorità rispetto all’economia. Siamo disposti a riconoscere che le opere di Leonardo e Raffaello vanno tutelate in sé, indipendentemente da quello che rendono in termini economici, ma non accettiamo che un paesaggio-opera d’arte vada tutelato in sé, indipendentemente da quello che rende. Invece le attività agricole e le colture che hanno determinato la bellezza di un certo paesaggio vanno tutelate, cioè in pratica finanziate a fondo perduto, anche se apparentemente obsolete e nell’immediato antieconomiche.

Bisogna avere il coraggio di affermare che un paesaggio-opera d’arte deve avere assoluta priorità sull’aspetto economico. D’altra parte, sarebbe anche sbagliato affermare che l’arte e la cultura trascendono l’economia, per il semplice fatto che sono esse stesse motore di economia. Il pensiero corrente va totalmente ribaltato: sono l’arte e la cultura a creare economia, non viceversa. La tutela dell’ambiente e del paesaggio agricolo che abbia valore e qualità d’arte produce un doppio, triplo, quadruplo ritorno di tipo economico. In termini direttamente produttivi, appunto per la conservazione di un patrimonio di sapienza e quindi per l’eccellenza e l’unicità dei prodotti (ma la loro comprensione è a sua volta un’arte, attiene davvero all’intelligenza e alla qualità della vita), in termini turistici ovviamente, ma soprattutto in termini di salute fisica e mentale per l’uomo, e di salute ambientale, di equilibrio ecologico per l’ambiente. Si tratta ovviamente di vantaggi non sempre immediati, spesso a media e lunga scadenza, ma non possiamo continuare ad accettare le regole apparentemente indiscutibili di un’economia autoreferenziale. La ragione economica fine a se stessa è un’economia di rapina, mero economicismo che crea intorno a sé il deserto – oggi, addirittura, la catastrofe ecologica. Un destino cui siamo diretti, secondo una nota metafora, come viaggiatori incoscienti su un mezzo senza pilota.

Può sembrare ingenuo e velleitario fare affermazioni di questo genere, specialmente in Italia, un paese in cui è in atto una demolizione sistematica dei valori tradizionali dell’arte, della cultura e dell’ambiente. Eppure è proprio la situazione attuale la dimostrazione più convincente della necessità di rovesciare radicalmente il punto di vista. Contrariamente a quello che si pensa il problema della classe dirigente italiana in genere e di quella politica in particolare non è tanto la corruzione (le classi dirigenti hanno sempre rubato, almeno ogni volta che i cittadini o i sudditi gliel’hanno lasciato fare): il vero problema è il basso livello intellettuale. Non si tratta tanto di mancanza di cultura o di disprezzo per la cultura (per definizione non si può disprezzare ciò che è superiore), ma di risentimento, di rancore, di complessi di inferiorità nei confronti dell’arte e della cultura.

Ancora a proposito di arte e non arte

Come ho detto, la teoria idealistica e romantica dell’arte è servita da alibi per sancirne la separatezza tra arte e quotidianità, tra normale ed eccezionale. Le opere d’arte sono state deportate dai palazzi e dalle chiese per cui erano nate nei musei-lager, dove dell’opera è negata la situazione, la storia, e di cui quindi si è perduto il senso: meri fenomeni da baraccone da sfruttare in eventi mediatici o/e per legittimare dubbie attribuzioni. I centri storici (termine a sua volta assurdo e mistificante, come se al di fuori dei confini del centro storico non esistesse più la storia) sono stati affogati nella melma delle periferie e delle conurbazioni, e ora della “città diffusa”, pietoso eufemismo per il cancro della speculazione: e a loro volta, come centri “storici”, sono stati riciclati in luoghi di evasione e di shopping per ricavarne ulteriori occasioni di profitto. Le città, che fino a due secoli fa erano estetiche e quindi piacevoli da vivere così com’erano, sono diventate talmente squallide e malsane da necessitare di “spazi verdi” e di giardini pubblici per renderle vivibili. La natura selvaggia è stata confinata nei parchi naturali e nelle “isole” naturalistiche, poveri scampoli continuamente minacciati e destinati a ridursi sempre di più, funzionali soltanto a dare maggior “valore” al turismo coatto o peggio alla speculazione edilizia. Quest’idea di salvare il salvabile facendone parco, ghetto, isola è subalterna, perdente, alla fine suicida. Non si tratta di salvare, isolandoli dal resto, dal mondo normale, frammenti di qualità, ma di farne il modello per estendere la qualità artistica a tutto il mondo che ci circonda. Dobbiamo portare la campagna in città, non permettere che la città divori la campagna. Anche in questo caso il punto di vista va radicalmente rovesciato. Dobbiamo poter fare a meno dei giardini pubblici – meri palliativi al degrado urbano – e dei parchi naturali – meri alibi al disastro ambientale. L’importante è avere delle belle città e una bella campagna – così come è sempre stato. Le città antiche avevano un tessuto edilizio compatto – sarebbe inimmaginabile un giardino pubblico nel centro storico di Siena – semplicemente non ce n’era bisogno perché la forma urbana e costruita di Siena è bella, artistica, quindi umana.  Parchi, giardini pubblici, riserve, sono mere foglie di fico per nascondere i crimini contro la città e l’ambiente.

2 – Il paesaggio come luogo del sacro

Come abbiamo visto la subordinazione delle ragioni estetiche, della bellezza (cioè della codificazione formale) alle ragioni dell’economia ci ha fatto perdere il senso della qualità dell’ambiente e del paesaggio.  Non solo viviamo in un ambiente esteticamente osceno, ma poiché non ne abbiamo coscienza e quindi lo accettiamo o comunque lo subiamo, la sua influenza ha conseguenze profonde a livello inconscio, di malessere individuale e sociale, di aggressività, di dissociazione psichica.

Ancora più grave della perdita del valore estetico del mondo è quella del valore sacro del mondo. Per decine di migliaia di anni l’uomo ha considerato se stesso alla pari con le cose. Si pensava che uno stesso spirito animasse l’uomo e le cose, e questo determinava nei confronti delle cose rispetto, affetto, timore. Le religioni rivelate hanno combattuto l’antica concezione animistica del mondo, ma nella pratica, molto saggiamente, si sono limitate a sostituire i luoghi sacri pagani con luoghi sacri religiosi. In realtà, non solo di singoli luoghi si è trattato, ma di interi paesaggi. Paesaggi eccezionali per qualità naturali e sedimentazione storica, e per ciò stesso individuati nel loro insieme come teatri del sacro. Sulla rivista Rosanova mi sono occupato a  questo proposito di alcuni esempi dell’Italia settentrionale: il paesaggio ligure delle Riviere plasmato in forma di paesaggio mariano nel Sei – Settecento, quello delle Prealpi piemontesi e lombarde con la corona dei Sacri monti nel Cinque – Seicento, i laghi lombardi e in particolare le isole di lago come luoghi privilegiati del sacro. Ma in realtà ogni paesaggio è insieme un concentrato di bellezza e di sacralità, qualità oggi opache e inaccessibili agli occhi contemporanei non solo perché le ragioni estetiche sono subordinate a quelle economiche, ma perché lo spirito laico ci impedisce di riconoscere quella topografia del sacro che ha determinato l’assetto di gran parte del nostro paesaggio. Ogni uomo contemporaneo, orgoglioso di essere laico e moderno, può manovrare una ruspa e annientare in un attimo una sedimentazione secolare, per non dire millenaria, di sensibilità, di attenzione, di lavoro, di competenza, di riverenza religiosa verso la natura e la storia, insomma tutto ciò che ha determinato il tanto declamato e mai quanto oggi profanato e offeso “spirito del luogo”.

Dicendo questo non intendo affatto riproporre la necessità di una visione religiosa del mondo, e tanto meno una regressione a una spiritualità di tipo animistico (anche se una mentalità di questo tipo è ben più diffusa di quanto si creda, solo applicata a oggetti, ambienti, persone e situazioni “moderne”, come l’automobile, la televisione, le aree di sosta delle autostrade, gli outlet o i centri commerciali vissuti come nuovi luoghi di culto).

Desidero invece proporre un’interpretazione laica della sacralità del paesaggio. Penso che il paesaggio, e il paesaggio agricolo in particolare, sia sacro perché è il frutto della fatica e del lavoro dell’uomo. Una fatica non solo fisica – e comunque degna anch’essa del massimo rispetto – ma sempre insieme intellettuale e fisica, fatta di specializzazione, di competenza, di sensibilità, di attenzione alle leggi della natura. E soprattutto una fatica non solo individuale, ma di generazioni di uomini: il paesaggio come traccia sensibile del lavoro intelligente delle generazioni. E lavoro significa delusioni, privazioni, fatica, sofferenze, ma anche speranze, entusiasmo, benessere e, infine, bellezza. Insomma, il paesaggio come vero specchio della storia.

Sulla dignità del lavoro, apparentemente, tutti sembrano essere d’accordo. Addirittura la Costituzione recita che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Ma quale lavoro, e di chi? Il mio, il tuo, quello dei campi, degli uffici, del tornio, quello di oggi o quello di mio nonno e bisnonno? In realtà sotto l’unanimismo delle convenzioni si celano profonde discriminazioni. Com’è noto per i gruppi di potere l’unico lavoro che conta è il proprio, e il rapporto con quello degli altri si configura come sfruttamento. E devastazione e sfruttamento, ben lo sappiamo, è il rapporto strutturale di chi oggi ci governa nei confronti del territorio: grandi opere, condoni edilizi, svalutazione degli organi di tutela, privatizzazioni, svendita delle aree demaniali, leggi urbanistiche criminali, parchi eolici truffa, e via devastando. Ma è sufficiente mandare a casa chi ci governa per ritrovare un buon rapporto con il territorio e con l’ambiente? Ne dubito. Purtroppo, anche nei partiti e nelle associazioni di sinistra vi sono indifferenza e spesso fastidio nei confronti di questi temi, ritenuti secondari, elitari, quasi superflui. Come mai nei programmi della sinistra manca quasi ogni riferimento alla tutela del paesaggio? L’unico che ne aveva fatto un punto qualificante del programma è stato Renato Soru in Sardegna, emarginato dai suoi non meno che dalla destra. Il fatto è che la sinistra ha sempre ritenuto il lavoro operaio più importante di quello contadino – è un noto atteggiamento che si chiama operaismo. La sinistra ha sempre pensato che gli operai fossero più moderni (e quindi votassero a sinistra) e che invece i contadini fossero arretrati, legati a un mondo arcaico, e quindi conservatori, di destra. Insomma, il classico schema “operai rossi contro contadini bianchi – o neri -, civiltà urbana contro Vandea contadina”. Nel caso in cui era in buonafede, questo atteggiamento era comunque subalterno a concetti tipici del capitalismo ottocentesco, come quelli di modernità e di progresso; se in malafede, era il tipico cinismo della sinistra degli apparati – conta solo chi mi vota e quindi mi dà potere. È lo stesso cinismo che induce a tenere in conto solo il lavoro dei nostri contemporanei, e non il lavoro di chi ci ha preceduto, della fatica delle infinite generazioni grazie alle quali noi siamo quello che siamo. Ma tanto si sa, i morti non votano, quindi la loro fatica non conta nulla. Il paesaggio – cioè il frutto della fatica delle generazioni – può andare a farsi friggere. Può sembrare un paradosso, una provocazione, dire che in realtà anche la sinistra disprezza il lavoro: certo ignora e disprezza il lavoro dei morti. Insieme all’incultura e all’ottusità di fronte alla bellezza, è proprio questo che determina l’indifferenza per il territorio, per la natura, per il paesaggio: l’insensibilità per il lavoro e la fatica dei vecchi, che ha creato tanta bellezza.

3 – Paesaggio come luogo della storia.

Il paesaggio è prima di tutto, ovviamente, il frutto dell’evoluzione del nostro pianeta. La formazione degli oceani, la deriva dei continenti, l’innalzamento e smantellamento delle catene montuose, i fenomeni vulcanici, i mutamenti climatici, le glaciazioni, l’erosione, i bradisismi hanno determinato la struttura fondamentale del paesaggio. Per capire davvero il paesaggio bisogna cominciare a capirne la struttura geologica. Poi sono venute la comparsa e l’evoluzione delle specie viventi e delle specie vegetali in particolare, la competizione e il formarsi delle associazioni vegetali sino al raggiungimento del climax, e il ripetersi del ciclo a ogni cambio climatico. Fenomeni durati centinaia di migliaia, milioni di anni, cui è seguita la storia breve dell’uomo, a sua volta misurabile solo in decine di migliaia di anni, e il suo impatto sul paesaggio attraverso la pastorizia e l’agricoltura, misurabile solo in poche migliaia di anni, ma altrettanto importante per determinare l’aspetto della superficie della terra.

Poche cose sono significative dell’incomprensione e del degrado attuale del paesaggio come il proliferare dei paesaggisti e degli architetti del paesaggio. In realtà, il paesaggio lo fanno solo la natura e la storia.

Il paesaggio, dunque, è la più importante testimonianza della storia, sia quella del nostro pianeta, sia quella dell’uomo. Se al livello individuale la storia è quella scritta nel nostro corredo genetico, a livello collettivo non vi è altra traccia fisica della storia se non quella impressa dall’uomo nel mondo in cui si è trovato a vivere. Il paesaggio, e il paesaggio agricolo innanzitutto, è la testimonianza fisica, vivente, palpabile della storia. Il paesaggio è stato modellato dalla sedimentazione plurisecolare, spesso millenaria, di vicende umane e naturali. Un accumulo formidabile di memorie, di conoscenze, di credenze, di speranze, di fatiche, di conquiste.

Da questo punto di vista, non esiste alcuna differenza tra la storia e la geografia: solo un cattivo insegnamento scolastico ha fatto della storia una sequela di date e della geografia una sequela di dati. La geografia è semplicemente lo spazio in cui si svolge la storia, così come il paesaggio è tutto ciò che fisicamente è sopravvissuto della storia. Né esiste alcuna reale contraddizione tra il paesaggio (visto come qualcosa di “naturale”) e la città (vista come qualcosa di “artificiale” o “umano”). La città è sempre stata, almeno fino all’età borghese, il complemento naturale della campagna e del paesaggio, in quanto luogo dello scambio e della lavorazione dei prodotti della terra, quindi essa stessa parte e naturale compimento del paesaggio agricolo. Il paesaggio è sempre stato concepito come un corpo di cui la città era caput, o capo-luogo. È solo dall’inizio dell’Ottocento, con l’industrializzazione e l’inurbamento, che la città ha cominciato a contrapporsi alla campagna e a divorarla progressivamente, fino all’attuale disastro, la metastasi della città diffusa.

L’ideologia borghese del progresso ci ha proiettato verso il mito di una modernità illusoria e ci ha indotto a rinnegare la storia. Oggi della storia ci si vergogna. Come non si accetta la vecchiaia (cioè si ha vergogna di se stessi) così non si accetta il passato, visto come arretratezza, inferiorità, oscurantismo. Oltre alle cattive politiche agricole sia nazionali sia comunitarie, è stato soprattutto il mito della modernità che ha allontanato i giovani dalla campagna. Ancora una volta, si distrugge il paesaggio perché si rifiuta la storia. Questa dunque è la terza ragione per cui oggi il paesaggio è in rovina – ovunque nel mondo ovviamente e non solo nel nostro paese, ma nel nostro paese è un fenomeno tanto più grave: perché il paesaggio è l’immagine vivente di una storia che vorremmo cancellare. Ma ormai anche il mito della modernità è diventato vecchio, e i limiti e le contraddizioni del progresso sono drammaticamente sotto gli occhi di tutti.

Conclusione

All’origine della distruzione del paesaggio (e del conseguente disastro ambientale) vi sono dunque tre ragioni, tutte connesse ai fondamenti ideologici e strutturali della cultura borghese otto – novecentesca, da cui noi, ancora oggi, siamo totalmente condizionati: la prima è l’economicismo, cioè la priorità data all’economia rispetto agli altri aspetti della realtà, tra cui l’arte, confinata in una sfera separata dell’esistenza; e quindi l’incomprensione e l’indifferenza di fronte al valore estetico dell’ambiente. La seconda è il laicismo, la perdita del senso del sacro, e quindi l’incomprensione e l’indifferenza di fronte alle ragioni magiche, mitiche, religiose in cui si è articolato per millenni il rapporto tra l’uomo e la natura. La terza è l’ideologia del progresso, da cui discendono il mito della modernità e la perdita del senso della storia: storia di cui il paesaggio è la più alta testimonianza vivente.

Affinché questa distruzione sia fermata in tempo abbiamo il dovere di ripensare questi principi. Non con una fuga all’indietro naturalmente, cioè mitizzando un’età dell’oro pre-borghese, che sarebbe un’altra forma di negazione della storia, ma sottoponendo a critica l’economicismo, il laicismo e i miti della modernità e del progresso. L’estensione a tutti gli aspetti della vita di una dimensione estetica, dall’ambiente in cui si vive, città e paesaggio, custodendo un patrimonio prezioso e incrementandolo, può essere fonte di un benessere economico ben più diffuso di quanto non sia ora. Il sacro può essere rivissuto in una dimensione laica, come rispetto per la dignità del lavoro, qualsiasi lavoro se condotto a regola d’arte, a partire da quello delle generazioni che ci hanno preceduto. Infine, solo il riconoscimento della storia può assicurarci la certezza dell’identità. Dobbiamo credere non già all’illusione di un progresso automatico e indefinito, ma alla necessità di conquistare e riconquistare valori e patrimoni di arte e di cultura minacciati in ogni istante di perdita irreversibile.

Testo della comunicazione tenuta da Guido Giubbini al Convegno Articoltura. Lavoro e arte per l’agricoltura di domani,  Traversetolo (Parma), 3 luglio 2010.

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