A Kyoto, dove, in angoli quasi sempre trascurati del centro, si celano alcuni dei più bei giardini giapponesi, il visitatore percorre dapprima lunghi viali grigi meno aggressivamente contemporanei di quelli di Tokyo; benché siano allineati esattamente sugli antichi viali imperiali, producono l’effetto di un occidentalismo avvizzito e tetro. Le viuzze tipicamente nipponiche si infilano tra le strade che furono moderne verso il 1910; famose case da tè, in realtà case chiuse, si trincerano dietro i loro steccati e i loro tramezzi di carta di riso; e nessuno penserebbe di attardarsi, se un amico giapponese non ci avesse appena detto che era proprio là che i capi dei quarantasette ronin si recavano a ordire i loro piani, protetti dall’alibi della depravazione. Negozi discreti, zeppi di vecchie sete o di ventagli squisiti, fanno fare una ben magra figura alle costose cianfrusaglie dei negozi destinati ai turisti; in laboratori dal soffitto basso, dalla scala ripida, sette o otto lavoranti si affaccendano intorno a un “tesoro nazionale vivente”, maestro incontestato della sua arte, che impiegherà sei mesi per completare un kimono caro quanto una parure di diamanti da un’altra parte. I ristoranti sopraffini vengono individuati a fatica, solo grazie all’odore asprigno e dolciastro che sfugge da spesse tende che sbarrano l’entrata di quello che sembrava a prima vista un cortiletto di sgombero. I rinomati ryokan, dove lo straniero, se è veramente informato per farlo, va ad assaporare ad altissimo prezzo il lusso delle locande giapponesi, nascondono dietro le cancellate i loro perfetti giardinetti. Sulla soglia, si allineano le scarpe degli ospiti di passaggio, un po’ deformate come appaiono le calzature che sono state portate, non fosse che per una volta sola, affiancate dall’enorme calzascarpe che permetterà di rimetterle senza averle toccate, poiché sembra che in Giappone si sia creato una sorta di tabù nei riguardi della pelle o anche della similpelle; ci si servirà di pianelle di plastica per salire in camera, dove anch’esse saranno fuori luogo.
La grande stanza dalle squisite proporzioni non ha altri mobili se non una tavola molto bassa, e talvolta due poggiaschiena per i visitatori venuti dall’Occidente. I copiosi effetti letterecci, con il piccolo guanciale che sembra imbottito di piselli secchi, sono stati appena posati direttamente sul pavimento; verranno portati via di buon mattino da una cameriera che si inginocchia davanti alla porta scorrevole, senza alcun tipo di serratura, ma entra poi perentoriamente per eliminare ogni traccia della notte. Si esce dal bagno quasi bollente con le gambe molli e la pelle arrossata. Ma chi non ha fatto almeno per qualche notte l’esperienza di queste tormentose delizie, non capirà mai appieno che il disordine delle stampe erotiche, in cui corpi morbidamente vestiti di sete strisciano l’uno sull’altro, rivelando talvolta un sesso che tocca per terra, non illustra una particolarità dell’amore giapponese, ma testimonia soltanto le posizioni a contatto del pavimento, che sono anche quelle che si assumono per leggere o per cenare. Chi non ha trascorso almeno una sera al ryokan, non gusterà nemmeno mai totalmente la prospettiva dei disegni di interni del periodo Muromachi e le camere intraviste in diagonale, ad altezze differenti, come quella dove, nell’ora in cui si accendono le luci, scorgo per un attimo due signori inginocchiati l’uno di fronte all’altro, intenti a giocare a scacchi, con indosso i pesanti kimoni imbottiti forniti dall’albergo per conservare il calore del bagno. Simili fortune non sono per le occhiate frettolose dell’escursione organizzata.
Questo turista non vedrà i piccoli santuari dai tetti bassi, in cui aleggia, poiché sono buddisti, un odore d’incenso, allineati lungo una via qualunque. C’è quel piccolo tempio, fiancheggiato da una meravigliosa campana, che sembra situato in un’infinita solitudine; e quell’altro in cui draghi e leoni mitici, al tempo stesso inquieti e pacifici, ricoprono i muri con la loro esuberanza cinese; e quello il cui soffitto reca tracce di sangue: prima era un parquet, ma l’hanno messo in alto perché i segni di un delitto commesso tre o quattro secoli prima non si cancellino; e il più bello, il più illustre, il Sanjusangendo sovrumano, in cui si allineano in una grande sala, a destra, a sinistra e dietro un qualunque Budda, centinaia di angeli dorati, pressoché simili, gracili, di altezza quasi umana, che sono le Kannon. Che effetto ci fanno quelle statue rifinite allo stesso modo, monotone come quelle di un tirassegno da fiera, e dotate di sei braccia, prodotto di un artigianato senza sorprese e di un donatore che voleva assicurarsi un posto nella Terra Pura? Mentre si percorre il lungo corridoio su un lato del quale esse sono disposte, si fa un calcolo: quante Kannon, quante braccia? I difficili, che amano soltanto l’opera d’arte unica, si danno alla fuga. Ma noi abbiamo capito: non sono mai state rappresentate meglio al tempo stesso l’unità e la molteplicità divine.
Conservo un più profondo ricordo di una visita a un tempietto di cui ho dimenticato il nome, e in cui ritroviamo i sempiterni quarantasette ronin. E in questo tempio che si celebra l’anniversario…
tratto da: Marguerite Yourcenar, Il giro della prigione, trad. it. Fabrizio Ascari, Milano 1999.
Titolo originale Le tour de la prison, Parigi 1991.
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