Per comprendere una qualsiasi delle filosofie che ora verranno descritte è importante rendersi conto che esse sono di natura essenzialmente religiosa. Loro scopo principale è l’esperienza mistica diretta della realtà, e poiché questa esperienza è per sua natura religiosa, esse sono inseparabili dalla religione. Più ancora che per qualsiasi altra tradizione orientale, ciò è vero per l’Induismo, nel quale il legame tra filosofia e religione è particolarmente forte. E stato detto che in India quasi tutte le forme di pensiero sono, in un certo senso, di tipo religioso e che l’Induismo non’ solo ha influenzato per molti secoli la vita intellettuale dell India, ma ne ha anche determinato quasi completamente la vita sociale e culturale.
L’Induismo non può essere indicato come una filosofia, e non è nemmeno una religione ben definita. È piuttosto un ampio e complesso organismo socio-religioso formato da un gran numero di sette, di culti e di sistemi filosofici che comprendono vari rituali, cerimonie e discipline spirituali, come pure il culto di innumerevoli divinità maschili e femminili. Le molte sfaccettature di questa tradizione spirituale complessa; tuttora viva e potente, rispecchiano la complessità geografica, razziale, linguistica e culturale del vasto subcontinente indiano. Le manifestazioni dell’Induismo vanno da filosofie di grande valore intellettuale, che comportano concezioni di straordinaria portata e profondità, fino ai rituali più semplici e ingenui seguiti dalle masse. Benché gli Indù siano in maggioranza semplici contadini che mantengono viva la religione popolare nella pratica quotidiana del culto, l’Induismo ha prodotto un gran numero di eminenti maestri spirituali per trasmettere le sue profonde intuizioni.
La fonte spirituale dell’Induismo sono i Veda, una raccolta di antiche scritture redatte da anonimi saggi, i cosiddetti « veggenti » vedici. Esistono quattro Veda, il più antico dei quali è il Rg-veda. Scritti in sanscrito antico, il linguaggio sacro dell’India, i Veda sono tuttora la massima autorità religiosa per la maggior parte delle scuole dell’Induismo. In India, qualsiasi sistema filosofico che non accetti l’autorità dei Veda è considerato non ortodosso.
Ognuno di questi Veda è costituito da numerose parti che furono composte in periodi diversi, probabilmente tra il 1500 e il 500 a.C. Le parti più antiche sono inni sacri e preghiere; quelle successive trattano i rituali sacrificali connessi con gli inni vedici; l’ultima parte, infine, costituita dalle Upanisad, ne sviluppa il contenuto filosofico e pratico. Le Upanisad contengono l’essenza del messaggio spirituale dell’Induismo e hanno guidato e ispirato negli ultimi venticinque secoli le più grandi menti dell’India, in armonia con il consiglio racchiuso in questo brano:
« Avendo afferrato come un arco quella grande arma che è l’arcano insegnamento (Upanisad), incocca in esso la freccia acuita dalla meditazione: avendolo tratto mediante lo spirito concentrato nella meditazione dell’Essere, riconosci questo indefettibile come il bersaglio da colpire, o mio caro »
Tuttavia le masse indiane non hanno ricevuto l’insegnamento dell’Induismo attraverso le Upanisad, ma attraverso un gran numero di racconti popolari raccolti in lunghi poemi epici, che sono la base della vasta e pittoresca mitologia indiana. Uno di questi poemi, il Mahābhārata, contiene il bellissimo poema spirituale della Bhagavad Gītā, il testo religioso più amato di tutta l’India. La Gita, come comunemente viene chiamata, è un dialogo tra il dio Krsna e il guerriero Arjuna, il quale si trova in uno stato di grande disperazione, essendo obbligato a combattere i suoi stessi parenti nella grande guerra familiare che costituisce la vicenda principale del Mahābhārata. Krsna, travestito da auriga di Arjuna, conduce il cocchio esattamente tra i due eserciti e in questo drammatico scenario del campo di battaglia comincia a rivelare ad Arjuna le verità più profonde dell’Induismo. Mentre il dio parla, lo sfondo realistico della guerra tra i due clan familiari si dissolve rapida- mente e risulta chiaro che la battaglia di Arjuna è la battaglia spirituale dell’uomo, la battaglia del guerriero in cerca dell’illuminazione. Krsna stesso fa ad Arjuna questa raccomandazione:
« Quindi, colla spada della conoscenza, recidi questo dubbio che ti siede nel cuore, nato dall’ignoranza. Raggiungi con lo yoga l’unità dell’armonia e sorgi, o Arjuna!».l
Il fondamento del messaggio spirituale di Krsna, come di tutto l’Induismo, è l’idea che la moltitudine di cose e di eventi che ci circondano non siano altro che differenti manifestazioni della stessa realtà ultima. Questa realtà, chiamata Brahman, è il concetto unificante che dà all’Induismo il suo carattere essenzialmente monistico nonostante l’adorazione di un gran numero di dèi e di dee.
Brahman, la realtà ultima, è inteso come il vero « sé », l’anima o l’essenza intima, di tutte le cose. Esso è infinito e trascende tutti i concetti; non può essere compreso dall’intelletto né adeguatamente descritto a parole: « il supremo Brahman senza principio, né essere né non essere ».1
E ancora: « imperscrutabile è questo supremo Sé immensurabile, non nato, impensabile, di cui non si può parlare ».2 Tuttavia la gente vuole parlare di questa realtà e i saggi indù, con la loro caratteristica inclinazione per il mito, hanno raffigurato Brahman come una divinità e ne parlano con il linguaggio mitologico. I vari aspetti del Divino hanno ricevuto i nomi delle diverse divinità venerate dagli Indù, ma i testi sacri indicano chiaramente che tutte queste divinità non sono altro che riflessi dell’unica realtà ultima:
« Allorché si dice: “Sacrifica a tale divinità, sacrifica a tale altra divinità!” e così per tutte le divinità singolarmente, si indica una creazione particolare di lui [Brahman]: egli è, in verità, tutti gli dèi ».3
La manifestazione di Brahman nell’anima umana è chiamata Ātman e l’idea che Ātman e Brahman, la realtà individuale e la realtà ultima, siano una sola cosa è
l’essenza delle Upanisad:
« Per quanto si riferisce all”essenza sottile, invece, è da questa che tutte sono animate; essa è lunica realtà, è L’Ātman, e tu stesso lo sei »
Il tema fondamentale ricorrente in tutta la mitologia indù, è la creazione del mondo mediante il sacrificio che Dio fa di se stesso – « sacrificio » nel senso originale di « rendersi sacro » – per mezzo del quale Dio diviene il mondo, che alla fine ridiventa Dio. Questa attività creativa del Divino è chiamata līlā, il gioco di Dio, e il mondo è considerato lo scenario nel quale si svolge il gioco divino. Come la maggior parte della mitologia indù, il mito di līlā ha un forte sapore magico. Brahman è il grande mago che si trasforma nel mondo, compiendo tale impresa con la sua « magica potenza creativa »; questo è anche il significato originario di māyā secondo il Rg-veda. La parola māyā, uno dei termini più importanti della filosofia indiana, ha mutato il suo significato attraverso i secoli. Da « potere » — o « potenza » — dell’attore e mago divino, è giunta a significare lo stato psicologico di chiunque si trovi sotto l’incantesimo di questo gioco magico. Fintanto che confondiamo la miriade di forme della divina līlā con la realtà, senza percepire l’unità di Brahman che sta alla base di tutte queste forme, siamo sotto l’incantesimo della māyā.
Māyā, perciò, non significa che il mondo è un’illusione, come spesso viene erroneamente affermato. L’illusione, semplicemente, si trova nel nostro punto di vista, se pensiamo che le forme e le strutture, le cose e gli eventi attorno a noi siano realtà della natura, invece di comprendere che sono concetti della nostra mente la quale misura e classifica. Māyā è l’illusione che deriva dallo scambiare questi concetti per realtà, dal confondere la mappa con il territorio.
Nella concezione indù della natura, quindi, tutte le forme sono relative, maya fluida e continuamente mutevole, evocata dal grande mago del gioco divino. Il mondo della māyā cambia continuamente, perché la divina līlā è un gioco ritmico, dinamico. La forza dinamica di questo gioco è il karman, un altro importante concetto del pensiero indiano. Karman, che significa « azione », è il principio attivo del gioco, è l’universo intero in azione, dove tutto è dinamicamente connesso con tutto il resto. Per usare le parole della Gītā « Karman è la forza creatrice che dà origine all’esistenza degli esseri ».
Tutte le azioni avvengono per l’intrecciarsi delle forze della natura; (ma) colui che è traviato dal sentimento del proprio ego pensa: “sono io colui che fa”.
« Ma colui che conosce il rapporto fra le forze della natura e le azioni vede come certe forze della natura agiscono su altre, e non ne diviene schiavo ».1
Essere liberi dall’incantesimo della maya, spezzare i legami del karman, significa comprendere che tutti i fenomeni che percepiamo con i nostri sensi sono parte della medesima realtà. Significa provare concretamente e personalmente che tutto, compreso il nostro stesso io, è Brahman. Questa esperienza è chiamata moksa, o « liberazione », nella filosofia indù ed è la vera essenza del- l’Induismo.
L’Induismo ritiene che esistono innumerevoli vie per la liberazione. Non si aspetta affatto che tutti i suoi seguaci siano in grado di avvicinarsi al Divino nella stessa maniera, e perciò propone concetti, rituali ed esercizi spirituali differenti per differenti modi di consapevolezza. Il fatto che molti di questi concetti o di questi esercizi siano in contraddizione fra di loro non turba minimamente gli Indù, perché essi sanno che Brahman trascende in ogni caso concetti e immagini. Da questo atteggiamento deriva la grande tolleranza e la capacità di assimilazione che caratterizzano l’Induismo.
Un altro metodo di liberazione importante e autorevole è noto come yoga, termine che significa « mettere il giogo », « unire », e che indica l’unione dell’anima individuale con il Brahman. Vi sono numerose scuole, o vie », di yoga che comportano alcuni esercizi fisici fondamentali e varie pratiche mentali, destinate a persone di tipo diverso e di differenti livelli spirituali.
Per l’indù comune, il modo più diffuso di avvicinarsi al Divino consiste nel venerarlo nella forma di una divinità personale. La fertile immaginazione indiana ha creato letteralmente migliaia di divinità che compaiono in innumerevoli sembianze. Attualmente, le tre divinità più venerate nell’India sono Śiva, Visnu e la Madre Divina. Siva è uno degli dèi indiani più antichi e può assumere molte forme. E chiamato Maheśvara, il Grande Signore, quando viene rappresentato come la personificazione della pienezza del Brahman, e può anche impersonare molti singoli aspetti del Divino; la sua manifestazione più famosa è quella in cui compare come Natārāja, il Re dei Danzatori. Come Danzatore Cosmico, Siva è il dio della creazione e della distruzione, che con la sua danza sostiene il ritmo senza fine dell’universo.
Anche Visnu appare sotto numerose forme, una delle quali è il dio Krsna della Bhagavad Gita. In generale, la funzione di Visnu è quella di conservare l’universo. La terza divinità della triade è Sakti, la Madre Divina, l’archetipo delle divinità femminili, che nelle sue numerose forme rappresenta l’energia femminile dell’universo.,
Sakti appare anche come moglie di Śiva e i due sono spesso rappresentati in appassionati amplessi nelle splendide sculture dei templi sacri che irradiano una sensualità straordinaria, di un livello totalmente sconosciuto nell’arte religiosa occidentale. Contrariamente alla maggior parte delle religioni occidentali, nell’Induismo non è mai stato represso il piacere sensuale, perché il corpo è sempre stato considerato parte integrante dell’essere umano, non separato dallo spirito. L’indù, pertanto non cerca di controllare i desideri del corpo con la volontà cosciente, ma cerca di realizzarsi con tutto il suo essere, corpo e mente. L’Induismo ha addirittura prodotto una scuola, il Tantrismo medioevale, secondo la quale si cerca l’illuminazione attraverso una profonda esperienza di amore sensuale « in cui ciascuno è entrambi », in armonia con le parole delle Upanisad:
« Come un uomo tra le braccia della donna amata non è più cosciente né del mondo interiore né di quello esteriore, egualmente questo Purusa [spirito], abbracciato dallo Atman spirituale, non sa più nulla né del mondo esteriore né di quello interiore ».1
Siva fu strettamente associato a questa forma medioevale di misticismo erotico, e così pure Sakti e numerose altre divinità femminili presenti in gran numero nella mitologia indù. Questa abbondanza di dee mostra di nuovo che nell’Induismo l’aspetto fisico e sensuale della natura umana, che è sempre stato associato al femminile, è una parte pienamente integrata del Divino. Le dee indù non sono presentate come vergini sacre, ma in amplessi sensuali di meravigliosa bellezza.
La mente occidentale si disorienta facilmente di fronte al numero favoloso di divinità che popolano la mitologia indù nelle loro varie manifestazioni e incarnazioni. Per comprendere come gli Indù riescano a tener conto di una tale massa di dèi dobbiamo essere consapevoli dell’atteggiamento di fondo dell’Induismo secondo cui nella sostanza tutte queste divinità sono identiche. Esse sono tutte manifestazioni della stessa realtà divina, che riflette aspetti differenti dell’infinito, onnipresente e, in definitiva, incomprensibile Brahman.
Tratto da: Fritjof Capra, Il Tao delle fisica