IL POLLICE VERDE
In treno avevo dormicchiato, e così avevo per metà la sensazione di sognare. Quando sentii il nome della mia stazione, scesi precipitosamente. Nell’aria pungente dell’inverno, il marciapiede sembrava ghiacciato. Mi strinsi bene la sciarpa e uscii dal controllo biglietti.
Salita in taxi, chiesi all’autista di portarmi all’albergo, ma lui disse di non conoscerlo. Ricordai che si trattava di un albergo nuovo, piccolo, probabilmente poco pubblicizzato, e così mi feci lasciare in una zona da cui avrei potuto facilmente raggiungerlo.
Tutt’intorno non c’erano altro che campi, e in lontananza si vedeva il profilo dolce delle montagne. Quando trovai una piccola insegna che indicava l’albergo, la seguii inerpicandomi per una stretta salita.
Ora che mi ero abituata al freddo, assaporavo con gioia l’aria pulita. Ero sempre più sveglia, e stavo cominciando a sudare un po’ quando davanti a me percepii la presenza di qualcuno che conoscevo.
Era stato durante l’inverno precedente che era venuto fuori il discorso dell’aloe nella stradina davanti casa, cresciuto troppo e diventato di intralcio.
Mio padre, mia madre e io avevamo completamente dimenticato l’aloe che mia sorella più piccola aveva comprato per trecento yen e che, per mancanza di spazio in giardino, avevamo piantato accanto alla porta d’ingresso. Anche lei che, sotto l’influenza di una rivista o non so cosa, ci aveva continuamente ripetuto che “l’aloe cura tutto! Bisogna berlo, applicarlo sui brufoli”, alla fine era guarita da questa fissazione e aveva smesso persino di occuparsene. Ma anche se non veniva innaffiato regolarmente e l’esposizione al sole non era molto buona, l’aloe era cresciuto. Anzi, era cresciuto anche troppo, fino a diventare in breve tempo una specie di albero che sporgeva invadendo parte della strada, e in più ricoperto di fiori rossi dalla forma sgradevole.
Ricordo bene quella volta. Mio padre, mia sorella e io eravamo intorno al piccolo tavolo di cucina nella casa dove eravamo nate e cresciute. Stava per cominciare una sera come tutte le altre.
Quando eravamo piccole, era quello il luogo della casa dove tutto si svolgeva. Lì cenavamo, litigavamo, guardavamo la tivù, mangiavamo i dolci che io e mia sorella avevamo comprato con i soldi di entrambe. Capitava che sul tavolo ci fossero la busta dei grandi magazzini con la biancheria intima della mamma e il pesce secco che avremmo mangiato quella sera per cena. Era lì che una volta il babbo era crollato addormentato per i postumi di una sbornia, lì che mia sorella ai tempi delle medie, per la sua prima delusione d’amore aveva bevuto del vino tutto d’un fiato, si era ubriacata ed era scivolata dalla sedia battendo la testa. Quel piccolo rettangolo era il simbolo della nostra famiglia. Era un luogo che odorava di vita, tiepido, morbido, caldo. Da poco tempo mia sorella si è sposata ed è andata via, e il tavolo è sempre lì ma è raro che la famiglia vi si riunisca al completo. Adesso la mamma ci si siede spesso per lavorare a maglia guardando la televisione. E così, piano piano, il paesaggio si trasforma.
Quella sera mio padre disse: “L’aloe è cresciuto troppo, ho paura che dia fastidio al vicino quando va a prendere la macchina dal garage”. Io e mia sorella facemmo finta di non sentire, che seccatura sarebbe stata doverlo trapiantare da qualche altra parte! “Se non ve ne occupate voi lo strappo e lo butto via” minacciò mio padre, ma noi rispondemmo: “Fai pure” e seppellimmo il naso nelle riviste.
Mentre si svolgeva questa scena, rientrò la mamma carica di sacchetti con la spesa fatta al supermercato vicino casa. Io e mia sorella la salutammo come al solito, senza neanche guardarla bene in faccia. Poiché non ci rispose, alzammo gli occhi e ci accorgemmo che era molto pallida. “Che hai?” chiese mia sorella.
“La nonna si era fatta ricoverare per una lombalgia, ma in ospedale le hanno trovato un cancro all’utero in uno stadio molto avanzato. Pare che da tempo soffrisse parecchio, ma non aveva detto nulla. Dicono che non si può nemmeno operare.”
La nonna viveva da sola in un appartamento nelle vicinanze. Due giorni prima aveva detto di avere una lombalgia, e così mia sorella aveva tirato fuori l’automobile e l’aveva portata in ospedale.
I miei genitori sono entrambi figli unici, quindi abbiamo pochi parenti, e questo ci rende molto uniti. Così tutti, incluso mio padre, andavamo ogni giorno a turno in ospedale. Non era certo più il caso di stare a pensare all’aloe. La nonna fu dimessa dall’ospedale una volta, poi di nuovo ricoverata.
Un giorno preparai dei dorayaki di cui la nonna era golosa e glieli portai, ma la trovai che dormiva serena. Ne fui sollevata, dato che la mamma mi aveva detto che il giorno prima le aveva fatto una gran pena vederla piangere lamentandosi per i dolori alla pancia.
Quando vado in ospedale, nel momento stesso in cui entro nel portone avverto un disagio, un senso di agitazione, e vorrei subito andarmene via, ma dopo un po’ che ci sto mi abituo. E quando ne esco, il mondo di fuori mi sembra troppo intenso. Mi stupisco delle auto che avanzano tutte insieme a un incrocio, del tono alto con cui parlano le persone, convinte che vivranno in eterno, del diluvio di colori. Poi, il tempo di arrivare a casa e mi ci sono abituata di nuovo. Mi rendo conto che questo andirivieni dall’ospedale mi fa sentire in una posizione particolare. Mi torna in mente la storia di Orfeo che lessi quando ero bambina. Non era riuscito a riportare indietro sua moglie che era diventata un’abitante del regno dei morti. L’odore era diverso. L’odore intenso che sprigiona la vita in quell’altro mondo si trasforma in un odore penetrante, nauseabondo, acuto. Viceversa, gli uomini detestano l’odore della morte. L’odore di morte che sprigionano le persone indebolite al sole si dissolve subito, come neve, eppure quel lieve odore, come muschio, lo si riesce a distinguere anche da lontano. Gli uomini hanno paura dei loro simili indeboliti. Suggestionati, credono sia la loro stessa vita che si va spegnendo. Anche se, quando ci si abitua, tra gli uni e gli altri non c’è nessuna differenza.
Mentre sistemavo i fiori nel vaso, mia nonna aprì gli occhi e disse:
“Chissà se le piante a casa mia staranno bene?”
Andavo a innaffiarle ogni giorno: la nonna amava le piante e ci teneva moltissimo. A vederle non è che avessero un aspetto molto attraente. Non erano bonsai, e non erano particolarmente pregiate. Gelsomini, cycas, un alberello con delle specie di fagioli, mimose e altre piante di poco prezzo … eppure ogni giorno, quando le innaffiavo, avevo la sensazione che cercassero spasmodicamente la nonna. Forse era solo la mia immaginazione: prima che nascesse mia sorella i miei genitori, che lavoravano entrambi, mi avevano affidato alla nonna e mi ero attaccata a lei in modo spudorato. La sua morte era per me inaccettabile. La nonna alla quale dormivo incollata quando mi sentivo sola. La nonna che si accorgeva prima di me quando qualche piccola ombra sfiorava il mio cuore e mi preparava il tenpura di patate dolci di cui andavo matta. Giorno dopo giorno, l’interesse della nonna si allontanava sempre più da questo mondo e da me. Il mio stato d’animo era simile a quello delle piante, che si sentivano abbandonate. Forse era per questo che avevo avuto quella sensazione. E mentre le innaffiavo, mi dissi, come per convincermi: È arrivato il momento in cui la persona che si è sempre occupata di voialtre e di me più che se stessa, pensi finalmente a sé.
La nonna parlò un poco ma subito si addormentò. Quando le persone cominciano a dormire così ogni giorno, di colpo la loro presenza si assottiglia. Rendermene conto mi stringeva il cuore. E così anch’io prendevo parte a un evento che si ripeteva da sempre nella vita delle persone. Con la strana sensazione di guardarlo da lontano.
Ero ormai abituata a questa routine quando un pomeriggio, entrando nella stanza della nonna con delle pietanze che aveva cucinato mia madre, la trovai inaspettatamente sveglia.
“Sai, un tempo odiavo i ciclamini” disse.
“Si, lo dicevi spesso. Anche a me non piacciono molto. Non so, danno una sensazione di umidiccio.”
“Tu capisci le piante, ne sono sicura. Saresti portata per un lavoro che ha a che fare con le piante. Smettila di fare la hostess.”[*]
La nonna era sempre stata contraria al fatto che io mi dedicassi a quel genere di lavoro. Le avevo spiegato che io non facevo la hostess, ma lavoravo al banco nel bar di mio padre, però era inutile: lei non ci vedeva nessuna differenza
“Se lo dici tu, nonna, ci rifletterò. Ma perché parlavi dei ciclamini?”
“Vedi che lì ci sono dei ciclamini, vicino alla finestra? Adesso sono rimaste solo le foglie. Fino a poco tempo fa i fiori spuntavano in continuazione. Me li ha portati la Nakahara. All’inizio mi sembravano fiori tristi. Non mi sono mai piaciuti, se sbagliavo a dargli l’acqua si afflosciavano subito e quei grossi gambi simili a vermi li trovavo orribili. Ma dopo essere venuta qui, avendo più tempo a disposizione, ho cambiato idea. Quei gambi servono per assorbire l’acqua. A vedere come, dopo averli innaffiati, i fiori sollevano la testa con tutte le loro forze per ricevere il sole, penso: Siete vivi, eh, voialtri! A guardarli non ci si annoia. È questa la bellezza di avere del tempo. Adesso che ho fatto amicizia con i ciclamini, sento che sarò capace di curarli anche quando sarò da quell’altra parte.”
“Non dire così.”
Ci sarà un posto dove si va solo dopo che le cose che abbiamo detestato hanno cominciato a piacerci? Questo pensiero mi stringeva il cuore.
Fu in primavera che la nonna perse quasi del tutto conoscenza. Circa una volta ogni tre giorni ritornava in sé ma riusciva a parlare orami pochissimo. Ci salutava, dicendo i nostri nomi.
Quella sera, le tenevo stretta la mano. Era fredda. L’ago della flebo le aveva procurato un livido, e io continuavo a fissare quello strano colore bluastro. Provavo tenerezza perfino per la saliva che le si era seccata bianca agli angoli della bocca. Tutt’a un tratto la nonna disse:
“L’aloe…dice… di non tagliarlo”.
La sua voce era flebile e spezzata, e all’inizio non capii cosa volesse dire.
“L’aloe… all’ombra del parcheggio… è schiacciato dalle macchine… soffre… dice…”
E poi:
“Guarisce i brufoli, le ferite, fa crescere i fiori, perciò non tagliatelo”.
La nonna disse queste frasi un poco alla volta, tra sogno e realtà, come se stesse ripetendo le parole pronunciate da qualcuno. Ebbi un brivido. Perché l’ho sentita solo io? Mi chiesi.
“E poi, sai, io penso che tu capisca questa sensibilità. Le piante sono così. Se aiuti una sola pianta di aloe, da quel momento in poi, in qualunque posto andrai, tutte le piante di aloe che vedrai ti avranno in simpatia. Le piante sono in contatto tra di loro, sono tutte compagne.”
La nonna disse questo in un unico filo di voce, quindi si addormentò.
Subito dopo arrivarono mia madre e mia sorella per darmi il cambio, ma io non riuscii a raccontare ciò che era avvenuto. Non mi uscivano le parole, come se avessi la gola bloccata. “Allora io vado” dissi, e lasciai l’ospedale. Fuori il cielo era limpido, ed era spuntata la luna. Le persone si affrettavano verso casa con un’espressione gentile sul viso. I fari delle auto illuminavano le strade buie come in un paesaggio visto in sogno. Arrivai in silenzio a casa della nonna, dissi: “Scusate, ho fatto tardi” e mi misi a innaffiare le piante. Quando accesi la luce, tutta la piccola esistenza della nonna, che era iscritta in ogni angolo della sua casa, affiorò alla luce bianca della lampada al neon. I soffici cuscini per terra, un vasetto di cristallo. Il pennello e la vaschetta per sciogliere l’inchiostro, un grembiule bianco accuratamente piegato. La teca di vetro con allineati i souvenir comprati durante i viaggi all’estero, carichi delle emozioni di paesi stranieri, gli occhiali, i libri in edizione economica, un piccolo orologio d’oro. L’odore della nonna, come di vecchia carta. Straziata, spensi la luce. E in quel momento vidi che le piante dall’altra parte del vetro respiravano. Erano di un verde vivo, che sembrava incorniciato dalla luce della luna. Le goccioline d’acqua dell’innaffiatura di poco prima brillavano. Nel buio rimasi seduta immobile sul tatami a guardarle, e gradualmente cominciai a sentirmi un po’ meglio. Quelle erano le semplici tracce di una persona che aveva vissuto, e mi ero resa conto che non erano né tristi né dolorose ma anzi buone, felici. Mi sembrò che le piante mi avessero comunicato che non si deve giudicare in base alla prima impressione, quella ricevuta guardando con occhi annebbiati dalla tristezza. Belle creature che vivono semplicemente cercando il sole, l’acqua, l’amore.
Tornata a casa, invece di passare dalla porta principale, aprii con la chiave il cancello del giardino, andai nel ripostiglio e tirai fuori vanga e carriola. Poi tornai all’ingresso e con cura sradicai dalla terra la pianta di aloe. Con tutte le radici era diventata di una grandezza enorme, e le spine mi ungevano le mani nude, ma riuscii a trasportarla e la piantai in un punto del giardino che di giorno era ben esposto al sole. Illuminato dalla luce vaga della grande luna di primavera, l’aloe, che si era sporcato di terra bagnata nel corso del trapianto, emanava energia vitale. Vorrei poter dire che la pianta, diventata umana, esclamò “Grazie”, ma non fu così: era semplicemente viva e piena di energia, tendeva le radici in diverse direzioni, e aveva allargato le foglie. E io ancora una volta ebbi la sensazione di avere ricevuto un po’ di forza.
La nonna morì, ci fu il funerale, e io decisi, continuando a lavorare, di frequentare una scuola specializzata per aprire un negozio di fiori. Era il futuro che avevo immaginato, giudicando un po’ difficile per me riuscire ad aprire un vivaio. Volevo diventare una fiorista di quelle che danno un tocco di colore alla vita normale di case normali. La nonna diceva sempre che per comprare i fiori non ci voleva disponibilità di denaro ma di spirito. Quando riferii a mio padre quali erano state le ultime volontà della nonna, mi promise: “Siccome prima o poi mi ritirerò dal lavoro e ti lascerò il bar, tu potrai trasformarlo in un negozio di fiori”. Nel frattempo però avrei dovuto lasciare il lavoro attuale, fare un po’ di tirocinio presso qualche fioraio e imparare la disposizione dei fiori. A cambiare lavoro di punto in bianco si incontrano un bel po’ di difficoltà, ma pensai che avendo una base avrei potuto darmi da fare, e così decisi di procedere. Se uno si impegna assiduamente ogni giorno, le strade si aprono. Non c’era altro da fare se non riprendere i ritmi di quando avevo studiato per diventare barista. Ma le ultime parole della nonna continuavano a risuonarmi nelle orecchie. Per quanto mi voltassi indietro, la persona che ero stata prima, quella infantile e carina che oziando senza pensieri intorno al tavolo di casa aveva trattato con indifferenza la vita della pianta di aloe, non poteva più tornare. Quando un giorno fossi morta, avrei voluto lasciare anch’io una stanza pulita come quella della nonna, non importava se sarebbe stata piccola e se ci sarei stata da sola. La stanza di mia nonna quella sera, abitata da piante che avevano ricevuto tanto amore, non abbandonava più la mia mente.
Io e mia sorella saremmo dovute partire insieme per una vacanza a lungo attesa, ma lei aveva dovuto rinunciare perché al marito era venuta la febbre, e così mi misi in viaggio da sola. E adesso ero lì, su quella montagna, e percepivo una presenza. Era il primo inverno dopo la morte della nonna, ma sembrava un fatto lontano, come se fossero passati anni. La luce arancione del tramonto invernale era così intensa da fare quasi male, e mi guardavo intorno con gli occhi socchiusi. Avevo la sensazione di essere avvolta da qualcosa di caldo e familiare, da uno sguardo dolce.
Quasi mi aspettavo di vedere da un momento all’altro il fantasma di mia nonna. Avrei tanto voluto incontrarla, fosse stato pure in forma di fantasma. Ma quello che vidi, nel giardino di una piccola casa rurale, furono soltanto innumerevoli piante di aloe, talmente tante da lasciare senza fiato, che crescevano fitte come in una giungla.
Ricevevano il sole e sembrava volessero dirmi qualcosa. Alte, aprivano le loro foglie carnose e acuminate nel cielo invernale, sovrapponendosi l’una all’altra, piene di fiori rossi e ruvidi, come volessero trasmettere la loro gioia di vivere. Avvolta nell’affetto dell’aloe, ebbi la sensazione di essere stata riscaldata nella luce del sole. È così? pensai, è così dunque che si crea il contatto? Per quanto mi riguarda, ogni volta che avessi visto un aloe, dovunque fosse stato, mi avrebbe certamente messo in contatto con qualcosa di caldo e di dolce. Ogni aloe era amico dell’aloe che avevo trapiantato quella notte. Pensai che in questo modo avrei comunicato con tante piante, stringendo legami come si fa con le persone. Ciò che avevo ereditato dalla nonna, quella energia utile che potrebbe anche sembrare una sorta di fede senza fondamento, era quella che in genere chiamano “il pollice verde”. Se avevo questo talento, le piante avrebbero fatto brillare la loro vita nel mio braccio in tutta la sua forza. E cos’ anch’io e le persone che facevano questo lavoro saremmo stati tutti collegati.
Mi tolsi il guanto e accarezzai dolcemente quelle foglie che, acuminate com’erano, un tempo detestavo e che trattavo con indifferenza utilizzandole solo per l’abbronzatura. Il loro verde brillava come pietre preziose, e le foglie erano morbide e fresche come seta. Rinvigorita come se avessi stretto la mano a una persona, mi avviai su per il sentiero di montagna.
[+] La hostess intrattiene i clienti di bar, night-club ecc., chiacchierando e versando loro da bere. Le sue mansioni, a seconda dei casi, oscillano tra quelle della cameriera e quelle della entraîneuse. [N.d.T.]
tratto da: Banana Yoshimoto, Il corpo sa tutto, trad. it. Giorgio Amitrano, Milano 2004.
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