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LESSICO NATURALE

Saadi di Shiraz

20 Ottobre 2021

“Son membra d’un corpo solo i figli di Adamo, da un’unica essenza quel giorno creati. E se uno tra essi a sventura conduca il destino, per le altre membra non resterà riparo. A te, che per l’altrui sciagura non provi dolore, non può esser dato nome di Uomo”.

(Saadi di Shiraz, Shiraz , Iran,1203 – 1291)

Archiviato in:Divenire, Il cerchio non ha più centro, IL CODICE DEL MONDO, Incontri alla fine del mondo, Paesaggi letterari Contrassegnato con: Divenire, Iran, Saadi di Shiraz, Shiraz

Degenerazione della civiltà

16 Ottobre 2021

Hermann Muthesius, al quale dobbiamo una serie di libri istruttivi sul modo di vivere e di abitare degli Inglesi, ha illustrato le finalità del Deutscher Werkbund e ha cercato di giustificarne l’esistenza. Le finalità sono buone. Ma il fatto è che il Deutscher Werkbund non le raggiungerà mai.

Proprio il Deutscher Werkbund. I membri di questa associazione sono persone che cercano di sostituire la nostra civiltà attuale con un’altra. Perché essi lo facciano, non lo so. Ma so che essi falliranno. Non c’è stato ancora nessuno che abbia tentato di inserire goffamente la mano nella ruota veloce del tempo senza che essa non gli venisse strappata via.

Noi abbiamo la nostra civiltà, le nostre forme nelle quali si rispecchia la nostra vita e abbiamo gli oggetti d’uso che ci consentono di vivere questa vita. Nessun uomo e nessuna associazione hanno creato i nostri mobili, i nostri portasigarette e i nostri gioielli. Li ha creati il tempo. Essi cambiano di anno in anno, di giorno in giorno, di ora in ora. Perché noi stessi cambiamo di ora in ora, modifichiamo il nostro modo di vedere, le nostre abitudini. E di conseguenza cambia anche la nostra civiltà. Ma la gente del Werkbund confonde causa ed effetto. Noi non ci sediamo così perché il falegname ha fatto la sedia in questo o in quel modo, ma, poiché noi vogliamo sederci in questo modo, il falegname ha fatto così la sedia. Di conseguenza – con la soddisfazione di tutti coloro che amano la nostra civiltà – l’attività del Werkbund non ha alcun effetto.

Secondo Muthesius gli obiettivi del Deutscher Werkbund si possono riassumere in due parole: buon lavoro, creazione dello stile del nostro tempo. Questi obiettivi coincidono. In quanto chi lavora nello stile del nostro tempo lavora bene. E chi non lavora nello stile del nostro tempo lavora in modo impreciso e male. Ed è giusto che sia così. Perché una cattiva forma – definisco così la forma che non corrisponde al nostro tempo – può anche essere accettata, se dà la sensazione di durare per poco. Quando invece questa robaccia ha l’intenzione di valere per l’eternità, allora essa produce un effetto doppiamente antiestetico.

L’associazione vuol fare delle cose che non sono nello stile del nostro tempo, vuole lavorare per l’eternità. Questo non va. Ma Muthesius dice anche che attraverso la collaborazione all’interno del Deutscher Werkbund si riuscirà a trovare lo stile del nostro tempo.

Questo lavoro è inutile. Lo stile del nostro tempo lo possediamo già. Lo abbiamo dovunque l’artista, vale a dire ogni membro di quell’associazione, non è ancora andato a ficcare il naso. Dieci anni or sono questi artisti andarono in cerca di nuove conquiste e tentarono, dopo aver già guastato l’industria dei mobili, di impadronirsi di quella dell’abbigliamento. I membri dell’associazione, che a quel tempo non esisteva ancora, appartenevano alla Secession, indossavano redingotes in stoffe scozzesi con risvolti di velluto – marca Ver Sacrum – che, rivestito di seta nera, faceva l’effetto di una cravatta annodata tre volte attorno al collo. Alcuni miei energici saggi su questi problemi servirono a cacciare fuori questi signori dal laboratorio del sarto e da quello del calzolaio e a salvare da un’invasione non richiesta anche altre attività non ancora contaminate dagli ‘artisti’. Quel sarto che si era dimostrato tanto compiacente nei confronti di queste aspirazioni civili e artistiche fu abbandonato e gli stessi signori di cui si è detto andarono ad accrescere la lista dei clienti di un rinomato sarto viennese.

Si può negare che i nostri articoli in cuoio siano nello stile del nostro tempo?! E le nostre posate e i nostri oggetti di vetro?! E le nostre vasche da bagno e i lavabi americani?! E i nostri strumenti e le macchine?! E tutto, tutto – diciamolo ancora –, quando non è caduto fra le mani degli artisti!

Queste cose sono belle? Non mi pongo questa domanda. Sono nello stile del nostro tempo, e di conseguenza giuste. Non si sarebbero adattate a nessun’altra epoca e nessun altro popolo le avrebbe potute utilizzare. Di conseguenza sono nello stile del nostro tempo. E noi austriaci possiamo cullarci nell’orgogliosa consapevolezza che queste cose, fatta eccezione per l’Inghilterra, non vengono realizzate altrettanto bene in nessun altro paese della terra.

Ma dirò di più. Francamente, io trovo bello il mio portasigarette liscio, lievemente ricurvo, lavorato con precisione, che mi procura un intimo piacere estetico, mentre trovo orribile quello realizzato da un laboratorio affiliato al Werkbund (progettato dal professor tal dei tali). E chi usa il bastone con impugnatura d’argento prodotto dallo stesso laboratorio per me non è un gentleman.

Gli oggetti che presso i popoli civili vengono prodotti secondo lo stile del nostro tempo – quello che il Deutscher Werkbund intende ancora scoprire – ammontano a circa il novanta per cento. Il dieci per cento – in questo rientra anche la nostra produzione di mobili – è da considerarsi perduto per colpa degli artisti. Indubbiamente vale la pena di riconquistare questo dieci per cento. Occorre soltanto che noi sentiamo e pensiamo nello stile del nostro tempo. Il resto verrà da sé. Per gli uomini moderni possiamo modificare il detto di Hans Sachs: il tempo ha cantato per loro.

Dieci anni or sono, al tempo del Café Museum, Josef Hoffmann, che rappresenta il Deutscher Werkbund a Vienna, fece l’arredamento del negozio sulla piazza am Hof della fabbrica di candele Apollo. L’opera fu elogiata come espressione del nostro tempo. Oggi non lo direbbe più nessuno. A distanza di dieci anni ci accorgiamo che era un errore. E allo stesso modo fra dieci anni si vedrà chiaramente che quanto viene prodotto oggi in questa direzione non ha nulla in comune con lo stile del nostro tempo. Certo, Hoffmann, dopo il Café Museum, ha rinunciato al traforo e, per quanto concerne le costruzioni, si è avvicinato a quanto io stesso faccio. Ma ancor oggi egli crede di poter abbellire i suoi mobili con strani ceselli, con ornamenti applicati e intarsiati. Tuttavia l’uomo moderno trova che un volto non tatuato è più bello di uno tatuato, anche se il tatuaggio fosse opera dello stesso Michelangelo. E lo stesso pensa del comodino.

Per riuscire a trovare lo stile del nostro tempo occorre essere una persona moderna. Ma le persone che vogliono cambiare quelle cose che già sono nello stile del nostro tempo o che vogliono sostituirle con forme diverse – come per esempio avviene per le posate – dimostrano di non saper riconoscere lo stile del nostro tempo. E seguiteranno a cercarlo invano.

Se c’è una cosa che l’uomo moderno riconosce con chiarezza è che la confusione dell’arte con l’oggetto d’uso è l’umiliazione più grande cui questa può essere sottoposta. Goethe era un uomo moderno. Noto che sulle pareti dell’Esposizione, dove si vedono citazioni da lui, da Bacon, da Ruskin e dal re Salomone, mancano certe sue parole che proprio là non dovrebbero mancare, dato che contengono un’indicazione talmente precisa: «L’arte, che ha pavimentato agli antichi la terra e ha restituito ai cristiani la volta del cielo nelle loro chiese, viene oggi dissipata fra vasetti e monili. Questi tempi sono assai peggiori di quanto si creda».

(1908)

Tratto da:  Adolf Loos, Parole nel vuoto, Traduzione di Sonia Gessner, Adelphi

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LE CORBUSIER

11 Ottobre 2021

Lʹarchitettura non ha nulla a che vedere con gli stili.

(…) Lʹarchitettura consiste, mediante lʹuso di materiali grezzi, nello stabilire rapporti emotivi. La architettura è al di là dei fatti utilitari. Lʹarchitettura è un fatto plastico.(…) Lʹarchitettura è il gioco sapiente, corretto, magnifico dei volumi sotto la luce. (…) Non ha il solo significato e il solo compito di rispecchiare la costruzione e di assolvere una funzione, se come funzione si intende quella dellʹutilità pura e semplice, del comfort e dellʹeleganza pratica. Lʹarchitettura è arte nel senso più elevato, è ordine matematico, è teoria pura, armonia compiuta grazie allʹesatta proporzione di tutti i rapporti: questa è la «funzione» dellʹarchitettura. (…)

(da Vers une Architecture, 1923; da Les tendances de lʹarchitecture rationaliste, 1937; e da Manière de penser lʹurbanisme, 1946)

Archiviato in:Architettura, LE CORBUSIER, Lʹarchitettura non ha nulla a che vedere con gli stili. Contrassegnato con: 1923; da Les tendances de lʹarchitecture rationaliste, 1937; e da Manière de penser lʹurbanisme, 1946, LE CORBUSIER, Vers une Architecture

Mishima o La visione del vuoto

10 Ottobre 2021

L’Energia è piacere eterno.

WILLIAM BLAKE, Il matrimonio del cielo e dell’inferno

Se il sale perde sapore, come renderglielo?

Vangelo secondo San Matteo, V, 13

Morite col pensiero ogni mattina, e non avrete più paura di morire.

HAGAKURE, trattato giapponese del XVIII sec.

……..

Se mi sono tanto dilungata su questo film, che costituisce in un certo senso una sorta d’anteprima, è perché il paragone con il seppuku di Mishima stesso ci permette di definire meglio la distanza fra la perfezione dell’arte, che riflette, in una splendente o cupa luce di eternità, l’essenziale, e la vita con le sue assurdità, i suoi colpi a vuoto, i suoi malintesi sconcertanti, indubbiamente dovuti alla nostra incapacità di penetrare, quando lo si dovrebbe, nell’animo degli esseri e nel cuore delle cose, ma anche, e proprio per questo, a quell’incalcolabile estraneità della vita “vera,” e che si potrebbe chiamare, con parola già forse un po’ logora, esistenziale. Come nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, in cui Giuda, correndo a precipizio verso la sua fine, non è più un uomo ma un turbine, così dagli ultimi momenti della vita di Mishima emana l’odore di ozono dell’energia pura.

Circa due anni prima della fine, si produce per Mishima uno di quegli eventi insperati che sembrano manifestarsi puntualmente non appena la vita acquista una certa precipitazione e un certo ritmo. Un personaggio nuovo fa il suo ingresso, Morita, ventun anni, provinciale educato in un collegio cattolico, bello, un po’ tarchiato, infiammato della stessa passione lealista che arde in colui che egli ben presto chiamerà maestro (Sensei), termine onorifico dato dagli studenti ai loro istruttori. Si è detto che, in Mishima, l’inclinazione verso l’avventura politica è cresciuta in proporzione alla foga del giovane; tuttavia, nel 1969, in occasione di un progetto terroristico, l’abbiamo visto dissuadere il giovane allievo. Si vorrebbe quasi credere che alcuni aspetti sgradevoli del seppuku dei due uomini28 derivassero dalla fantasia del più giovane, dalla testa probabilmente imbottita di film e romanzi violenti, benché Mishima non avesse davvero bisogno, da parte sua, di essere sollecitato in tal senso. Si può al massimo pensare a un ritorno di ardore, da parte dello scrittore, trovando finalmente (Morita fu l’ultimo a iscriversi alla Società dello Scudo) il compagno e forse il fanatico che aveva sempre cercato. Questo giovane ci viene descritto come estremamente risoluto, così spartano da partecipare senz’altro alle esercitazioni del Tatenokai pur avendo una gamba ingessata per un incidente sportivo, e sempre appresso a Mishima, “seguendolo dappertutto come una fidanzata,” frase che assume un preciso valore quando si pensi che la parola fidanzamento indica il fatto di impegnare la propria fedeltà, e non si può impegnarla più indissolubilmente che promettendo di morire. Un biografo che basa la sua interpretazione di Mishima su dati quasi esclusivamente erotici, ha insistito molto sull’aspetto sensuale, d’altronde ipotetico, di questo attaccamento; qualcuno si è servito di questa chiave interpretativa per cercare di fare del seppuku uno shinju, il suicidio a due così frequente nei drammi del Kabuki, compiuto perlopiù sotto forma di annegamento da una fanciulla del quartiere proibito e da un giovane troppo povero per riscattare o mantenere la sua amante.29 Non è pensabile che Mishima, che da sei anni preparava la sua morte rituale, abbia montato tutta quella complicata messinscena di appello all’esercito e di protesta pubblica che precede la morte nella sola intenzione di fornire uno scenario a una dipartita a due. Più semplicemente, e su questo punto si era spiegato nel corso del dibattito con gli studenti comunisti, era arrivato a pensare che l’amore stesso fosse diventato impossibile in un mondo privo di fede. Egli paragonava gli amanti ai due angoli di base di un triangolo, e l’imperatore, che essi venerano, al vertice; sostituite la parola imperatore con la parola causa, o Dio, e arriverete a quel concetto di un sostrato di trascendenza necessario all’amore, di cui una volta ho disputato in altra sede. Col suo lealismo quasi ingenuo, Morita rispondeva a quell’esigenza. E tutto quanto si può dire; resta comunque da osservare che, probabilmente, è del tutto ovvio che due esseri che hanno deciso di morire insieme, e uno per mano dell’altro, vogliano prima, almeno una volta, incontrarsi in un letto, e l’antico spirito samurai non avrebbe certo disapprovato.

Tutto è pronto. Il seppuku è fissato per il 25 novembre 1970, giorno per il quale l’ultimo volume della tetralogia è promesso all’editore. Per quanto intensamente compenetrato dell’evento, Mishima regola ancora la propria vita in base ai suoi impegni di scrittore: si vanta di non aver mai mancato di consegnare un manoscritto alla data stabilita. Tutto è previsto, perfino, estrema cortesia nei confronti dei presenti, o desiderio supremo di conservare al corpo la sua dignità fino all’ultimo, i tamponi di ovatta che serviranno a impedire la fuoruscita degli escrementi durante le convulsioni dell’agonia. Mishima, che il 24 novembre ha cenato al ristorante con i suoi quattro proseliti, si ritira come tutte le sere per lavorare, termina il suo manoscritto o vi appone gli ultimi ritocchi, lo firma, lo infila in una busta che un fattorino dell’editore verrà a ritirare nel corso della mattina seguente. Spuntato il giorno, fa una doccia, si rade con cura, indossa l’uniforme dello Scudo su uno slip di cotone bianco e sulla pelle nuda. Gesti quotidiani, ma che assumono la solennità di ciò che non si ripeterà più. Prima di uscire dallo studio, lascia sulla scrivania un appunto: “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere sempre.” Frase caratteristica di tutti gli esseri tanto ardenti da essere insaziabili. A pensarvi bene, non c’è contraddizione fra il fatto che quelle poche parole siano state scritte all’alba, e il fatto che l’uomo che le ha scritte sarà morto prima della fine della mattinata.

Lascia il manoscritto in evidenza sul tavolino dell’anticamera. I quattro compagni lo aspettano in un’automobile nuova acquistata da Morita; Mishima ha con sé la cartella di cuoio che contiene una preziosa sciabola del XVII secolo, uno dei suoi beni più cari; la borsa contiene anche una daga. Strada facendo, passano davanti alla scuola in cui si trova in quel momento la maggiore dei due figli dello scrittore, una ragazzina di undici anni, Noriko: “È il momento in cui, in un film, si sentirebbe una musica patetica,” ironizza Mishima. Prova d’insensibilità? Forse è il contrario. A volte, è più facile scherzare su ciò che sta a cuore che non parlarne affatto. E certo ride, di quel riso breve e fragoroso che gli si attribuisce, e che è tipico di coloro che non ridono fino in fondo. Poi, i cinque uomini cantano.

Eccoli giunti alla meta, l’edificio del ministero della Difesa. Quest’uomo che entro due ore sarà morto, e che, a ogni modo, si propone di esserlo, ha tuttavia un ultimo desiderio: parlare alle truppe, denunciare davanti a loro lo stato nefasto in cui ritiene sia caduto il paese. Questo scrittore che ha constatato l’insipidezza delle parole crede forse che l’eloquenza avrà maggior potere? Indubbiamente, egli desidera moltiplicare le occasioni di esprimere pubblicamente le ragioni della sua morte, affinché non si cerchi, più tardi, di distorcerle o negarle. Due lettere scritte a dei giornalisti, ai quali chiede di trovarsi sul posto al momento stabilito, senza del resto indicarne le ragioni, mostrano come egli temesse, d’altronde a ragione, quella specie di “maquillage” postumo. E, forse, essendo riuscito a infondere un po’ del suo fervore ai seguaci dello Scudo, crede ancora possibile fare altrettanto con le poche centinaia di uomini colà acquartierati. Ma solo il generale comandante in capo può dargli l’autorizzazione necessaria. Col pretesto di fare ammirare al generale la splendida sciabola firmata da un armaiolo famoso, i cinque hanno ottenuto un appuntamento. Mishima giustifica la presenza dei giovani in uniforme con una riunione di gruppo alla quale egli deve successivamente recarsi. Mentre il generale ammira i fregi delicati, quasi invisibili, che solcano l’acciaio levigato, due degli affiliati lo legano saldamente per le braccia e le gambe alla poltrona. Gli altri due e lo stesso Mishima si precipitano a chiudere a chiave o comunque bloccare le porte. I congiurati parlamentano con l’esterno. Mishima esige l’adunata delle truppe cui intende rivolgersi dal balcone. Se il generale rifiuta di dare l’ordine, sarà giustiziato. Si ritiene più prudente accondiscendere, ma durante un tentativo di resistenza, manifestatosi comunque troppo tardi, Mishima e Morita, che tenevano la porta ancora socchiusa, hanno ferito sette subalterni. Sistemi terroristici, e tanto più detestabili per noi che troppo li abbiamo visti in atto, un po’ ovunque, nei dieci anni che ci separano da quell’evento. Ma Mishima vuole approfittare fino in fondo della sua ultima occasione.

Giù, i soldati si radunano, ottocento uomini circa, pochissimo soddisfatti d’esser distolti dalla loro routine o dal loro riposo per quell’inattesa corvé. Il generale attende paziente. Mishima apre la porta-finestra, esce sul balcone, balza, da buon sportivo, sulla balaustra: “Vediamo il Giappone sprofondare nel più assoluto silenzio dello spirito: la prosperità gli ha dato alla testa… Noi stiamo per restituirgli la sua immagine e moriremo facendolo. È possibile che vi accontentiate di vivere accettando un mondo in cui lo spirito è morto?… L’esercito difende quello stesso trattato30 che gli nega il diritto di esistere… Il 21 ottobre 1969, l’esercito avrebbe dovuto impadronirsi del potere e chiedere la revisione della Costituzione… I nostri valori fondamentali, i nostri valori autenticamente giapponesi, sono minacciati… In Giappone, l’Imperatore non ha più il posto che gli spetta…”

Improperi e parolacce salgono verso di lui. Le ultime fotografie lo mostrano con i pugni contratti e la bocca aperta, brutto di quella bruttezza tipica dell’uomo che urla o sbraita, espressione alterata che denota soprattutto uno sforzo disperato per farsi sentire, ma che ricorda penosamente le immagini di quei dittatori o demagoghi, a qualunque fazione o partito appartengano, che da mezzo secolo circa hanno avvelenato la nostra vita. Alle grida ostili si aggiunge ben presto un tipico rumore del mondo moderno: un elicottero, che è stato subito chiamato sul posto, volteggia sopra il cortile, annichilendo ogni cosa con il suo assordante frullare di eliche.

Con un altro balzo, Mishima riguadagna il balcone; riapre la porta-finestra, seguito da Morita che inalbera uno striscione con le stesse proteste e le stesse rivendicazioni, siede a terra, a un metro di distanza dal generale, e compie punto per punto, con assoluto sangue freddo, i gesti che gli abbiamo visto fare nella parte del luogotenente Takeyama. L’atroce dolore fu quello che aveva previsto, quello che aveva cercato di prefigurarsi quando aveva mimato la morte? Aveva chiesto a Morita di non lasciarlo soffrire troppo a lungo. Il giovane cala la sua spada, ma le lacrime gli velano gli occhi, le mani tremano. Non riesce a infliggere all’agonizzante che due o tre orrende ferite alla nuca e alla spalla. “Da’ qua!” Furu-Koga afferra con sicurezza la spada e, con un solo colpo, fa quel che deve. Nel frattempo, Morita si è seduto a terra a sua volta, ma gli manca la forza di farsi, con la daga che è stata ripresa dalle mani di Mishima, qualcosa di più di un brutto graffio. Nel codice samurai, il caso era previsto: il suicida troppo giovane o troppo vecchio, troppo debole o troppo fuori di sé per portare a termine l’operazione, doveva essere decapitato seduta stante. “Colpisci!” E Furu-Koga esegue. Il generale si china quanto glielo permettono le corde che lo stringono e mormora la preghiera buddista per i morti: “Namu Amida, Butsu!” Questo generale, da cui non ci aspettavamo niente, si comporta con grande dignità davanti all’atroce e imprevisto dramma di cui è testimone. “Non continuate questa carneficina; è inutile.” I tre giovani rispondono a una voce che hanno promesso di non morire. “Piangete a sazietà, ma dominatevi quando si riapriranno le porte.” Riprensione un po’ aspra, ma più opportuna, di fronte a quei singhiozzi, dell’ordine brutale di non piangere. “Coprite pietosamente i corpi.” I giovani ricoprono la parte inferiore dei corpi con la giubba dell’uniforme, e sistemano, sempre piangendo, le due teste mozze. Infine, domanda più che comprensibile da parte di un capo: “Volete che mi faccia vedere dai miei subalterni legato a questo modo?” Il generale viene slegato; si aprono le porte; i giornalisti si precipitano nella stanza in cui aleggia un acre odore di carneficina… Lasciamoli fare il loro lavoro.

Volgiamoci dalla parte del pubblico. “Era pazzo,” dice il primo ministro, interrogato seduta stante. Il padre ha appreso le prime notizie, relative all’arringa alle truppe, ascoltando il comunicato radio di mezzogiorno; la sua reazione è stata quella, tipica, di tutte le famiglie: “Quante seccature mi procurerà questa storia! Bisognerà fare delle scuse alle autorità…” La moglie, Yoko, è stata raggiunta dalla notizia della morte a mezzogiorno e venti, nel tassì che la portava a una colazione. Interrogata più tardi, risponderà che il suicidio del marito non la coglieva di sorpresa, ma che se lo sarebbe aspettato uno o due anni più tardi. (“Yoko non ha fantasia,” aveva detto un giorno Mishima.) Le uniche parole commosse vengono pronunciate dalla madre, quando riceve i visitatori venuti a rendere omaggio. “Non compiangetelo. Per la prima volta in vita sua, ha fatto ciò che desiderava fare.” Esagerava, certo, ma Mishima stesso aveva scritto, nel luglio 1969: “Se rivivo col pensiero gli ultimi venticinque anni, il loro vuoto mi riempie di orrore. Posso appena dire di aver vissuto.” Anche nel corso della vita più eccezionale e gratificante, ciò che si vuole realmente fare di rado viene compiuto, e, dagli abissi o dalle sommità del Vuoto, ciò che è stato, e ciò che non è stato, sembra ugualmente sogno o miraggio.

C’è una fotografia della famiglia seduta su una fila di sedie durante la cerimonia di commemorazione funebre che, nonostante una quasi generale disapprovazione del seppuku, attirò migliaia di persone. (Sembra che quel gesto violento avesse profondamente sconcertato certa gente passivamente uniformata a un mondo che le appariva senza problemi. Prenderlo sul serio, sarebbe stato rinnegare una supina acquiescenza alla sconfitta e al progresso della modernizzazione, così come alla prosperità che era seguita. Meglio non vedere in quel gesto che un misto assurdo ed eroico di letteratura, teatro e bisogno di far parlare di sé.) Azusa, il padre, Shizue, la madre, Yoko, la moglie, avevano certamente ciascuno il proprio giudizio e la propria interpretazione. Li si vede di profilo, la madre con la tésta un po’ china, le mani giunte e un’espressione che il dolore fa sembrare imbronciata; il padre ben dritto, in atteggiamento signorile e composto, probabilmente consapevole d’esser fotografato; Yoko, graziosa e impenetrabile come sempre; e, più vicino a chi guarda, sulla stessa fila, Kawabata, il vecchio romanziere che aveva ricevuto il Nobel l’anno prima, amico e maestro del defunto. Quel volto emaciato di vecchio è di un’estrema purezza; la tristezza vi si legge come sotto un foglio traslucido. Un anno dopo Kawabata si suicidava, senza alcun rito eroico (si accontentò di girare la chiavetta del gas), e qualcuno lo sentì dire, durante l’anno, di aver visto il fantasma di Mishima.

E ora, tenuta in serbo per la fine, l’ultima immagine e la più traumatizzante; così sconvolgente che è stata raramente riprodotta. Due teste sul tappeto sicuramente in acrilico dell’ufficio del generale, messe una accanto all’altra come birilli, così vicine che quasi si toccano. Due teste, due bocce inerti, due cervelli che il sangue più non irrora, due computer bloccati, che non selezionano e non decodificano più il flusso ininterrotto di immagini, impressioni, sollecitazioni e risposte che ogni giorno a milioni investono un essere, formando tutte insieme quella che si chiama la vita dello spirito, e anche quella dei sensi, e motivando e dirigendo i movimenti del resto del corpo. Due teste mozzate, passate ormai in altri mondi in cui regna un’altra legge, e che a guardarle suscitano sbigottimento più che orrore. Ogni giudizio di valore, sia esso morale, politico o estetico, in loro presenza, momentaneamente almeno, è ridotto al silenzio. La nozione che s’impone è più sconcertante e più semplice: fra le miriadi di cose che sono, e che sono state, queste due teste sono state; e sono. Ciò che riempie quegli occhi senza sguardo non è più lo sventolante vessillo della protesta politica, né alcun’altra immagine intellettuale o materiale, e neppure il Vuoto contemplato da Honda, e che appare, improvvisamente, solo come un concetto o un simbolo tutto sommato troppo umano. Due oggetti, relitti già quasi inorganici di annientate strutture, che anch’essi, una volta passati attraverso il fuoco, saranno ridotti a residui minerali e cenere; neppure soggetti di meditazione, perché ci mancano i dati per meditare su di essi. Due relitti, sospinti dal Fiume dell’Azione, e che l’immensa ondata ha lasciato per un attimo in secca sulla sabbia, e poi trascina via.

Tratto da:  Marguerite Yourcenar, Mishima o La visione del vuoto

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8 Ottobre 2021

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The Way of All Flesh

8 Ottobre 2021

“We know that all things work together for good to them that love God.”—ROM. viii. 28

 

 

Talking of music reminds me of a little passage that took place between Ernest and Miss Skinner, Dr Skinner’s eldest daughter, not so very long ago.  Dr Skinner had long left Roughborough, and had become Dean of a Cathedral in one of our Midland counties—a position which exactly suited him.  Finding himself once in the neighbourhood Ernest called, for old acquaintance sake, and was hospitably entertained at lunch.

Thirty years had whitened the Doctor’s bushy eyebrows—his hair they could not whiten.  I believe that but for that wig he would have been made a bishop.

His voice and manner were unchanged, and when Ernest remarking upon a plan of Rome which hung in the hall, spoke inadvertently of the Quirinal, he replied with all his wonted pomp: “Yes, the QuirInal—or as I myself prefer to call it, the QuirInal.”  After this triumph he inhaled a long breath through the corners of his mouth, and flung it back again into the face of Heaven, as in his finest form during his head-mastership.  At lunch he did indeed once say, “next to impossible to think of anything else,” but he immediately corrected himself and substituted the words, “next to impossible to entertain irrelevant ideas,” after which he seemed to feel a good deal more comfortable.  Ernest saw the familiar volumes of Dr Skinner’s works upon the bookshelves in the Deanery dining-room, but he saw no copy of “Rome or the Bible—Which?”

“And are you still as fond of music as ever, Mr Pontifex?” said Miss Skinner to Ernest during the course of lunch.

“Of some kinds of music, yes, Miss Skinner, but you know I never did like modern music.”

“Isn’t that rather dreadful?—Don’t you think you rather”—she was going to have added, “ought to?” but she left it unsaid, feeling doubtless that she had sufficiently conveyed her meaning.

“I would like modern music, if I could; I have been trying all my life to like it, but I succeed less and less the older I grow.”

“And pray, where do you consider modern music to begin?”

“With Sebastian Bach.”

“And don’t you like Beethoven?”

“No, I used to think I did, when I was younger, but I know now that I never really liked him.”

“Ah! how can you say so?  You cannot understand him, you never could say this if you understood him.  For me a simple chord of Beethoven is enough.  This is happiness.”

Ernest was amused at her strong family likeness to her father—a likeness which had grown upon her as she had become older, and which extended even to voice and manner of speaking.  He remembered how he had heard me describe the game of chess I had played with the doctor in days gone by, and with his mind’s ear seemed to hear Miss Skinner saying, as though it were an epitaph:—

“Stay:

I may presently take

A simple chord of Beethoven,

Or a small semiquaver

From one of Mendelssohn’s Songs without Words.”

After luncheon when Ernest was left alone for half an hour or so with the Dean he plied him so well with compliments that the old gentleman was pleased and flattered beyond his wont.  He rose and bowed.  “These expressions,” he said, voce suâ, “are very valuable to me.”  “They are but a small part, Sir,” rejoined Ernest, “of what anyone of your old pupils must feel towards you,” and the pair danced as it were a minuet at the end of the dining-room table in front of the old bay window that looked upon the smooth shaven lawn.  On this Ernest departed; but a few days afterwards, the Doctor wrote him a letter and told him that his critics were a σκληροι και αντιτυποι, and at the same time ανεκπληκτοι.  Ernest remembered σκληροι, and knew that the other words were something of like nature, so it was all right.  A month or two afterwards, Dr Skinner was gathered to his fathers.

“He was an old fool, Ernest,” said I, “and you should not relent towards him.”

“I could not help it,” he replied, “he was so old that it was almost like playing with a child.”

Sometimes, like all whose minds are active, Ernest overworks himself, and then occasionally he has fierce and reproachful encounters with Dr Skinner or Theobald in his sleep—but beyond this neither of these two worthies can now molest him further.

To myself he has been a son and more than a son; at times I am half afraid—as for example when I talk to him about his books—that I may have been to him more like a father than I ought; if I have, I trust he has forgiven me.  His books are the only bone of contention between us.  I want him to write like other people, and not to offend so many of his readers; he says he can no more change his manner of writing than the colour of his hair, and that he must write as he does or not at all.

With the public generally he is not a favourite.  He is admitted to have talent, but it is considered generally to be of a queer unpractical kind, and no matter how serious he is, he is always accused of being in jest.  His first book was a success for reasons which I have already explained, but none of his others have been more than creditable failures.  He is one of those unfortunate men, each one of whose books is sneered at by literary critics as soon as it comes out, but becomes “excellent reading” as soon as it has been followed by a later work which may in its turn be condemned.

He never asked a reviewer to dinner in his life.  I have told him over and over again that this is madness, and find that this is the only thing I can say to him which makes him angry with me.

“What can it matter to me,” he says, “whether people read my books or not?  It may matter to them—but I have too much money to want more, and if the books have any stuff in them it will work by-and-by.  I do not know nor greatly care whether they are good or not.  What opinion can any sane man form about his own work?  Some people must write stupid books just as there must be junior ops and third class poll men.  Why should I complain of being among the mediocrities?  If a man is not absolutely below mediocrity let him be thankful—besides, the books will have to stand by themselves some day, so the sooner they begin the better.”

I spoke to his publisher about him not long since.  “Mr Pontifex,” he said, “is a homo unius libri, but it doesn’t do to tell him so.”

I could see the publisher, who ought to know, had lost all faith in Ernest’s literary position, and looked upon him as a man whose failure was all the more hopeless for the fact of his having once made a coup.  “He is in a very solitary position, Mr Overton,” continued the publisher.  “He has formed no alliances, and has made enemies not only of the religious world but of the literary and scientific brotherhood as well.  This will not do nowadays.  If a man wishes to get on he must belong to a set, and Mr Pontifex belongs to no set—not even to a club.”

I replied, “Mr Pontifex is the exact likeness of Othello, but with a difference—he hates not wisely but too well.  He would dislike the literary and scientific swells if he were to come to know them and they him; there is no natural solidarity between him and them, and if he were brought into contact with them his last state would be worse than his first.  His instinct tells him this, so he keeps clear of them, and attacks them whenever he thinks they deserve it—in the hope, perhaps, that a younger generation will listen to him more willingly than the present.”

“Can anything,”’ said the publisher, “be conceived more impracticable and imprudent?”

To all this Ernest replies with one word only—“Wait.”

Such is my friend’s latest development.  He would not, it is true, run much chance at present of trying to found a College of Spiritual Pathology, but I must leave the reader to determine whether there is not a strong family likeness between the Ernest of the College of Spiritual Pathology and the Ernest who will insist on addressing the next generation rather than his own.  He says he trusts that there is not, and takes the sacrament duly once a year as a sop to Nemesis lest he should again feel strongly upon any subject.  It rather fatigues him, but “no man’s opinions,” he sometimes says, “can be worth holding unless he knows how to deny them easily and gracefully upon occasion in the cause of charity.”  In politics he is a Conservative so far as his vote and interest are concerned.  In all other respects he is an advanced Radical.  His father and grandfather could probably no more understand his state of mind than they could understand Chinese, but those who know him intimately do not know that they wish him greatly different from what he actually is.

 

From: Samuel Butler, The Way of All Flesh

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In the same boat

6 Ottobre 2021

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In the same boat, un film di Rudy Gnutti

Conversazione con Rudy Gnutti di Sara Beltrame

A Barcellona sta succedendo qualcosa di sorprendente, da due mesi a questa parte.
Ogni giovedì, verso le 21.30, la gente inizia a mettersi in fila davanti al cinema Texas e lo fa non per vedere La La Land, bensì per assistere ad una proiezione più dibattito di un… documentario.
Titolo: In the Same Boat.
Regia: Rudy Gnutti.
Nazionalità: Italiana.
“No, no… In Italia sto cercando di distribuirlo almeno in qualche sala, ma è complicato. Speriamo che le cose si smuovano.”
Sorride. Sorrido. Speriamo.
Incontro Rudy all’Ateneu Barcelones, uno dei templi della cultura a Barcellona, perché anche qui il suo lavoro è stato messo in programma.
Niente coda per entrare ma la sala è comunque piena.
Catalano di adozione, ma romanissimo di nascita, Rudy dice di fare il musicista ma di non saper bene cosa questo significhi. “Perché… vediamo: si considera musicista uno che suona? Uno che compone? Uno che interpreta? Non ne ho idea. Qui comunque, per questo progetto intendo, ho fatto il regista e composto le musiche.”
Si improvvisa regista per una necessità personale. Da tempo ha un’idea che gli frulla per la testa: vuole capire come mai continuiamo a lavorare tutti così tanto, anche se l’innovazione tecnologica ci permetterebbe di organizzarci diversamente, rendendo le nostre vite decisamente più leggere per dedicarci infine a quello che veramente ci piacerebbe fare, senza lo stress dell’affitto da pagare a fine mese, per esempio.
“Tra 100 anni l’economia smetterà di essere un problema per l’umanità”, diceva John Maynard Keynes a Madrid in una calda e lontana estate del 1930. Allora Keynes aveva 47 anni e credeva fermamente che nel XXI secolo, gli essere umani del futuro sarebbero stati aiutati dalla tecnologia nei loro compiti quotidiani e la giornata lavorativa sarebbe stata al massimo di 15 ore settimanali.
Ma le cose non sono andate esattamente così.
Come mai?
Per rispondere a questa domanda Rudy Gnutti inizia a documentarsi e quando finalmente ha le idee chiare stila una lista di persone che vorrebbe incontrare (quasi tutti uomini a parte una sola donna; N.d.R.), cerca di entrare in contatto con loro a partire dal più interessante: il sociologo polacco Zygmunt Bauman.
“Gli ho scritto per chiedergli se potevo fargli qualche domanda sull’argomento e mi ha risposto entusiasta dopo una decina di giorni appena, invitandomi a casa sua.”
Rudy è probabilmente l’ultima persona ad aver intervistato Bauman prima che ci lasciasse ed è proprio grazie al suo sì che il progetto di In the Same Boat inizia a prendere il largo.

“Ovviamente mi mancava un produttore e devo dire che mi sentivo piuttosto scomodo a chiedere a qualcuno, visto che come regista non avevo nessuna esperienza. Non avevo però pensato a Pere Portabella. Quando gli ho presentato la sinossi mi ha dato subito dato carta bianca, convinto che per il fatto che fossi musicista e compositore, sarei riuscito a dare a questo racconto un ritmo diverso, insolito.” Il documentario, supportato dal governo spagnolo e dal progetto Media, viene girato e montato in appena tre anni.
Il tema è così attuale ed urgente che Rudy riesce a catturare l’attenzione di quasi tutti i personaggi che aveva in mente di intervistare: gli economisti Mauro Gallegati, Mariana Mazzuccato, Serge Latouche e Sir Tony Atkinson, Erik Brynjolffson (uno dei massimi rappresentanti del MIT) fino ad arrivare all’ex presidente dell’Uruguay Jose Mujica.
“L’unica grande assente è la Cina. Sono arrivato fino a lì convinto di poter intervistare uno degli economisti più in voga del Paese. Sembrava tutto deciso ma dopo tre domande ci hanno liquidato senza darci nessuna motivazione. Il governo ci ha poi controllato per una settimana e nonostante questo un paio di domande a degli spagnoli che abitano lì sono riuscito a farle per capire come stavano andando le cose. La Cina è uno dei paesi più avanzati a livello tecnologico e sicuramente ci sarebbero state molte risposte interessanti ad alcune delle domande fondamentali della mia ricerca.”
In the Same Boat racconta di come l’umanità – che viaggia su una stessa barca, per l’appunto – stia attraversando una fase critica e le risposte che darà ad alcune domande fondamentali la porteranno ad un cambiamento radicale. Le nuove tecnologie potrebbero essere la chiave per vivere in un mondo migliore e più giusto ma se non ridirigiamo il timone di questo vascello, il futuro potrebbe essere minaccioso.
“E poi c’è un’altra questione fondamentale, come sostiene Bauman, da tenere a conto: se anche a livello mondiale riuscissimo a riorganizzarci e a far sì che le nostre vite non ruotino tutte attorno alla produzione, se riuscissimo insomma a rallentare il motore della nostra barca, poi… che cosa faremo? Saremo in grado di stare senza fare niente?”
Le risposte e i punti di vista qui si dividono. Da un lato c’è chi pensa che stabilire un salario universale minimo garantito e avere più tempo libero, rallenterebbe l’economia, salverebbe il pianeta dall’autodistruzione e ci consentirebbe di esprimerci al meglio come essere umani e dall’altra chi invece crede – come Mujica – che senza prima un cambiamento culturale, educativo e personale trovare una nuova rotta sarà veramente complicato. •

link riferimento

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Qui suis-je?

2 Ottobre 2021

« Je considère un livre, même le plus personnel, comme une œuvre en partie collective : tout ce qui est en nous y entre, mais aussi tout ce que nous avons entrevu ou deviné, les livres lus et les voyages faits, l’observation d’autrui autant que les expériences traversées par l’écrivain lui-même, les notes marginales du correcteur d’épreuves, les lecteurs, les amis ou hostiles. Nous sommes tous trop pauvres pour vivre uniquement des produits de ce lopin d’abord inculte que nous appelons moi. » Cette œuvre de haute exigence est un retour à l’essentiel : l’humain. Elle s’accommode d’un peu d’austérité, de dépouillement ; elle s’enrichit de culture et de réflexion. Elle sollicite, et s’édifie sur le refus de la médiocrité, de la lâcheté et de nos limites et faiblesses. Comment ne pas entendre sa haute voix ?

 

Marguerite Yourcenar

 

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Origine della disuguaglianza

2 Ottobre 2021

“Non in depravatis, sed in his quae bene secundum naturam se habent, considerandum est quid sit naturale.”

ARISTOTELE, Politica, lib. I, cap. II

 

Alla Repubblica di Ginevra

Magnifici, onorevolissimi e sovrani Signori, convinto che soltanto al cittadino virtuoso si conviene fare alla propria patria degli onori che essa possa accettare, da trent’anni lavoro per meritare di potervi offrire un pubblico omaggio; e poiché quest’occasione fortunata supplisce in parte a ciò che i miei sforzi non hanno potuto ottenere, ho creduto che mi sarebbe stato permesso di dare ascolto allo zelo che mi anima più che al diritto che dovrebbe autorizzarmi. Avendo avuto la fortuna di nascere fra voi, come potrei meditare sulla uguaglianza che la natura ha posto fra gli uomini e sulla disuguaglianza che questi vi hanno istituita, senza pensare alla profonda sapienza con la quale l’una e l’altra, felicemente combinate in codesto Stato, concorrono, nel modo più vicino alla legge naturale e più favorevole alla società, al mantenimento dell’ordine pubblico e al benessere dei singoli? Ricercando le regole migliori che il buon senso possa dettare sulla costituzione di un governo, sono stato tanto colpito nel vederle tutte messe in pratica nel vostro, che, se anche non fossi nato entro le vostre mura, non avrei creduto di poter fare a meno di offrire questo quadro della società umana a quel popolo che più di tutti mi sembra possedere i maggiori benefici e meglio averne evitati gli abusi.

 

Tratto da: Jean-Jacques Rousseau, Origini della disuguaglianza

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Smemorata Atene

1 Ottobre 2021

In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.); quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dèi (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele, perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e piú tardi l’iniziativa culturale, ma finí col perdere anche ogni memoria di se stessa.
Noi spesso, travolti da un facile classicismo di scuola, pensiamo a un’Atene immobile per secoli nel biancore dei suoi marmi e rifiorita a nuovo splendore, quasi si fosse destata dal sonno, con l’indipendenza politica della Grecia nel 1827. Ma non è cosí: quando verso la fine del XII secolo il dottissimo Michele Coniate, che veniva da Costantinopoli, divenne vescovo di Atene, restò sbalordito davanti alla terribile ignoranza degli Ateniesi, che non sapevano piú nulla delle glorie della propria città, non sapevano dire ai forestieri che cosa mai fossero i templi ancora intatti, né sapevano indicare dove avessero insegnato Socrate, Platone, Aristotele.

In quella smemorata Atene di un lunghissimo Medio Evo, il Partenone era diventato una chiesa, con le pareti coperte da icone e altri dipinti sacri, e vi aleggiavano canti liturgici e profumo d’incenso. Fu piú tardi cattedrale latina (dopo la crociata del 1204), ripetutamente spogliata da veneziani e fiorentini, senza che gli abitanti alzassero mai un dito a difenderla, senza che si levasse una voce a ricordarne la storia e la gloria. Quando Atene fu occupata dai Turchi nel 1456 (e il Partenone-chiesa fu trasformato in moschea), della città si era perso perfino il nome. Quel che restava era un villaggio miserevole con qualche capanna qua e là sparsa tra le rovine, e gli abitanti, ridotti a poche migliaia, lo chiamavano Satiné, Satines, con una storpiatura che (per esempio) il nome di Roma non subí mai. Ma l’oblio di se stessi degli Ateniesi era cominciato molto prima: già verso il 430 dopo Cristo il filosofo neoplatonico Proclo, che abitava vicino all’Acropoli, racconta di aver visto in sogno Atena, la dea del Partenone, che, scacciata dal tempio, gli chiedeva ospitalità nella sua casa. Questo sogno nostalgico esprime molto bene non solo la fine di una religione e dei suoi monumenti, ma il tramonto di una cultura e della sua autoconsapevolezza.

Come accade a chi perde la memoria, anche le città, quando sono colte da amnesia collettiva, tendono a dimenticare la propria dignità. Se qualcosa resta del loro spirito antico, deve cercar rifugio altrove (per esempio, nel caso di Atene, a Costantinopoli, e di qui a Mosca, o nell’umanesimo italiano). Noi, oggi, abbiamo a nostra volta dimenticato che perfino Atene giunse a dimenticare se stessa; ma è bene richiamare alla nostra mente il buio di quella smemoratezza, se non vogliamo che lo stesso morbo colpisca anche noi. Le tenebre dell’oblio non piombano all’improvviso sulle comunità, ma vi calano sopra, lente e malferme, come un esitante sipario. Perché il sipario scenda fino in fondo, perché avvolga ogni cosa in una notte indistinta, non c’è bisogno di complicità: basta l’indifferenza. Per questo è importante, come lo è per la salute mentale e fisica di ognuno di noi, cogliere il piú presto possibile ogni sintomo di smemoratezza, correre rapidamente ai ripari.

È diventato di moda, in questi anni rovinosi e guasti, ripetere come una giaculatoria che «la bellezza salverà il mondo». Sono parole che Dostoevskij mette in bocca al principe Myškin, il protagonista dell’Idiota, e che in Italia si citano ormai spessissimo come un mantra consolatorio (e autoassolutorio), ma sempre fuori contesto. «Ma quale bellezza salverà il mondo?» chiede a Myškin il giovane Ippolit, e soggiunge che «idee cosí frivole sono dovute al fatto che il principe è innamorato». Perché «la bellezza è un enigma», anche se quella di Aglaja Ivanovna «può mettere il mondo sottosopra». Per Myškin la bellezza è uno stato di grazia, «uno straordinario rafforzamento dell’autocoscienza», fatto di «bellezza e preghiera», uno stato di alterazione che egli sperimenta subito prima di ogni attacco epilettico («Sí, per questo momento si può dare tutta la vita»). La bellezza di cui parla Myškin è dunque sopra di noi, qualcosa a cui ci si abbandona, innamoramento o preghiera, «acquietamento e trepida fusione con la suprema sintesi della vita».

Altra cosa è la bellezza delle città e dei paesaggi: tangibile orizzonte e non vagheggiamento visionario; patrimonio non dell’individuo ma delle comunità; fatto non di subitanee illuminazioni, ma di una trama continua di progetti, di sguardi, di gesti, di saperi, di memorie. Non sta al di sopra di noi perché – anzi – noi stessi ne siamo parte essenziale, perché una stessa aria e uno stesso sangue accomunano i monumenti dell’arte, della natura e della storia a chi li ha creati e a chi li custodisce e li abita: viva esperienza di uomini e donne del nostro tempo, che sono – che siamo – tramite e cerniera fra le generazioni passate e quelle che verranno. La suprema bellezza di Atene non la salvò dall’oblio di se stessa, né dalle spoliazioni e distruzioni che ne seguirono. Non impedí ai fiorentini Acciaiuoli, duchi di Atene, di trasformare i Propilei in una residenza fortificata (intorno al 1403), non impedí ai Turchi di usare il Partenone come un deposito di polveri da sparo, non impedí al veneziano Francesco Morosini di cannoneggiarlo facendone saltare per aria una gran parte (26 settembre 1687: piú di 700 tracce di palle di cannone sono ancora visibili sui marmi di Pericle e di Fidia). Se appena ci guardiamo intorno, nei nostri paesaggi, nelle nostre città, abbandonarsi alla bellezza non basta (non è bastato mai), non basta chiedere a essa una miracolosa salvazione in automatico, assolvendo noi stessi da ogni responsabilità. Al contrario, la bellezza va coltivata dai vivi ogni giorno se vogliamo che qualcosa ne resti, per noi stessi e dopo la nostra morte. La bellezza non salverà nulla e nessuno, se noi non sapremo salvare la bellezza. E con la bellezza la cultura, la storia, la memoria, l’economia. Insomma, la vita.

Tratto da: Salvatore Settis, Se Venezia muore, Giulio Einaudi Editore

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Jung e l’I Ching: Archetipi e Processo d’individuazione

27 Settembre 2021

“Perché non tentare un dialogo con un antico libro che pretende di essere animato?”

Ẻ inevitabile! Si parla del Libro dei Mutamenti e sempre si finisce per parlare di Jung.
Eppure l’I Ching non ne avrebbe bisogno, visto che gode di ottima longevità. Ma è grazie a Jung se l’oracolo può esibire una seconda giovinezza passando dal mondo delle cosiddette superstizioni a quello civilissimo della ragione occidentale. Non varrebbe la pena dilungarsi troppo su Jung nell’esclusiva relazione con l’ I Ching, pena un certo snaturamento della natura spirituale di questo come degli altri oracoli. Eppure è indubbio che tutti noi, adepti dei Mutamenti, abbiamo un debito con lo psicanalista. Anzi molti debiti, primo fra tutti l’aver deviato il corso della psicoanalisi verso la china troppo scientista che pretenderebbero i freudiani e non solo; così come aver insegnato agli europei a non porre la propria civiltà al di sopra delle altre, poiché la madre di tutte le civiltà è inconsciamente collettiva.

Il Libro dei Mutamenti è un libro affascinante e misterioso come ben pochi pervenutici dall’antichità. Per chi ha fede il testo sarebbe animato da uno spirito, lo shen. Tuttavia coloro che in Occidente sono stati chiamati dal destino a confrontarsi con il Libro dei Mutamenti, oltre a se stessi e al Libro, dichiarano di sperimentare, con il continuo uso, l’effettiva presenza di una terza entità definibile come paranormale: lo spirito sopracitato. Molti che abitualmente lo consultano possono confermare le stesse parole tratte dal Ta Chuan: “I Mutamenti sono un libro dal quale non si può stare lontani”. Non pensiate che queste siano affermazioni frutto di bizzarre suggestioni dovute ad un delirio collettivo, anche lo psicoanalista Jung giunse alla stessa nostra conclusione. Si potrebbe dire allora che basterebbe evitare di farsi coinvolgere da un approccio al testo di natura fantasiosa e limitarsi alla razionalità; ciò però non è possibile in quanto nel passaggio dalla teoria all’applicazione pratica il testo si configura come un perfetto oracolo. Esso come tale ci impone di buttare a mare i nostri pregiudizi occidentali e di sospendere il nostro modo di pensare esclusivamente causalistico. Solo con queste premesse l’utilizzo dell’I Ching acquista il senso e la logica che l’ha reso un best-seller in tutto il mondo, come autentica guida spirituale (similmente alla lettura qabalistica del Vecchio Testamento in cui l’albero delle Sephiroth è paragonabile all’esagramma dell’I Ching).

“Il senso (Tao) si oscura se si considerano soltanto piccoli settori finiti dell’esistenza”

Nella prefazione al testo Jung afferma che: “Questo modo di procedere, pur rientrando nell’ambito della filosofia taoista, può sembrare a noi oltremodo bizzarro. Ma la stranezza delle allucinazioni dei dementi o delle superstizioni primitive non mi ha mai sgomentato. Ho sempre tentato di rimanere imparziale e curioso. Perché non tentare un dialogo con un antico libro che pretende di essere animato?”

Dialogo è la parola che si impone: dialogo interculturale, dialogo fra filosofia e religione, tra scienza ed esperienza, tra l’uomo e l’anima; aprire un dialogo con l’oracolo del Libro dei Mutamenti equivale ad approfondire il proprio dialogo interiore. Un dialogo non limitato al benessere del raggiungimento di uno scopo (i piccoli settori finiti dell’esistenza) bensì alla conoscenza di sé nel personale iter esistenziale inserito nel vasto contesto delle trasformazioni operate dalle leggi che regolano l’armonica struttura dell’universo. Un altrettanto famoso oracolo, quello di Delfi, similmente recita: Conosci te stesso e conoscerai la saggezza degli dei e dell’universo. Il passaggio dalla sfera delle applicazioni psicologiche, attraverso l’analisi del complesso gioco di “proiezioni simboliche” contenute negli esagrammi, fino a giungere alla sfera spirituale, la conoscenza delle leggi che regolano l’Unità nella dinamica degli opposti: la Coniunctio oppositorum junghiana, è concepibile solo a patto che quel dialogo personale venga sacralizzato. Sacralizzato vuol dire proiettarlo “oltre” gli angusti confini dell’Io.

“Lo stato in cui Io e non-Io non formano più alcun contrasto si chiama perno del Tao (senso)” afferma Chuang Tze. Animato – come afferma Jung – non vuol dire solo che è vivo, ma anche che è vivo grazie all’attivazione di quell’entità, superiore alla psiche, che comunemente chiamiamo anima. Solo in questa prospettiva l’interrogante, ponendosi nel mezzo delle dinamiche di Cielo e Terra, yin e yang, può coglierne gli effetti su di sé: i mutamenti.

I Mutamenti sono un libro vasto e grande, nel quale ogni cosa è contenuta compiutamente: In esso è il Senso del Cielo, in esso è il Senso della Terra e in esso è il Senso dell’uomo. Esso riunisce queste tre potenze fondamentali (Shuo Kua 375).

Nulla può escludere, come accadde a Jung, di considerare le dinamiche di Cielo e Terra nell’ottica della teoria della sincronicità di Tempo e Spazio, tanto cara allo psicoanalista.

Seppur animato l’I Ching non ama far sfoggio di sé, il Libro appare nella nostra esistenza quando, in nome di una nostra necessità evolutiva, il suo spirito si è sentito chiamato o attratto dal nostro spirito interiore. A ben vedere l’I Ching non pone selezioni di sorta, men che mai di tipo culturale. Chiunque ben animato vi può accedere. Che ne faccia un uso psicologico, o spirituale o semplicemente per interesse filosofico non ha importanza, quel che conta è che sempre si creerà una perfetta sintonia sulle finalità dell’uso.

Dopo dialogo, “attrazione” è la seconda parola chiave che animò la ricerca junghiana.

Al di là delle mode e al di là di certi ambienti sempre attenti alle tematiche esoteriche, alcune domande sorgono spontanee: perché mai noi, così come Jung (uomo di cultura occidentale) dovremmo sentire la necessità di essere attratti dal dialogo con un testo considerato dai più alla stregua di una superstizione? E perché Jung fu attratto da questo testo ermetico e misteriosissimo per la sua epoca? Che tipo di risposte si aspettava (e ottenne) per lanciarsi in una ricerca così complessa tanto da allargare l’orizzonte su altri due testi complicati: Il Mistero del Fiore d’ oro e Il libro tibetano dei morti? Cosa accomunava queste tre opere nella mente di Jung?

Leggendo anche gli altri due testi, ci si accorge subito che si tratta dei tre pilastri fondamentali per comprendere gli strumenti psicodinamici, teorici e pratici, della psicologia sino-tibetana e di come l’Oriente abbia continuamente dato risalto a quel processo di sviluppo psicologico, e insieme di crescita spirituale, che lo psicoanalista vuol far corrispondere alla sua teoria del Processo d’individuazione. Con l’aiuto del sinologo e traduttore R. Wilhelm, Jung intuì che nell’I Ching era contenuto l’intero impianto filosofico che i cinesi avevano edificato intorno alla concezione del mondo visto come macrocosmo, e dell’uomo come microcosmo, quindi della relazione fisica e psichica allo stesso tempo che lega queste dimensioni, attraverso l’esperienza della Sincronicità, visto che per i cinesi l’universo sarebbe governato da una mente cibernetica (secondo l’attuale definizione cui si è giunti in Occidente con le teorie di G. Bateson) attraverso reti energetiche integrate psico-fisiche. Quale strumento migliore quindi dell’oracolo dell’I Ching per studiare sul campo, a partire da se stessi, la teoria della Sincronicità deve essersi chiesto Jung?

Nel Mistero del fiore d’oro egli deve aver ravvisato le dinamiche psico-fisiologiche che si generano nella pratica di individuazione dello yoga cinese detto Qi Gong, attraverso gli esercizi psico-fisiologici di questa tecnica, detti della Piccola e Grande Rotazione Celeste. Modificazioni di cui solo ora con l’utilizzo della risonanza magnetica ci sono le prove scientifiche. Se il libro dell’I Ching è il classico dei Mutamenti, nel Libro tibetano dei morti vengono descritte le modalità di conduzione delle trasformazioni dei propri stati di coscienza, a partire dal momento della morte che coinvolge l’essere umano nella rete delle energie cosmiche, coinvolgendo le dinamiche psicologiche del defunto (in particolare i meccanismi di difesa operanti contro il cambiamento) frutto del desiderio di ritornare, regredire, alla passata condizione esistenziale. Paura della morte intesa come paura del cambiamento, esattamente simile ai meccanismi di difesa tipici di ogni nostra trasformazione psicologica durante l’evoluzione della personalità, così come scoperti dallo stesso Freud. In realtà Jung concentrò gli sforzi principalmente sull’I Ching, in quanto della pratica del Qi Gong contenuta nel Mistero del fiore d’oro, all’epoca non se ne sapeva molto in Europa, tanto da confonderla con lo Yoga indiano, di cui Jung aveva avuto diretta conoscenza in India, ma di cui i gesuiti, che erano già stati in Cina, conoscevano e utilizzarono i principi per i loro esercizi spirituali.

Processo d’individuazione e archetipi

Oltre alla Sincronicità, come vedremo in seguito, crediamo che Jung sia rimasto affascinato dall’enorme interesse dei cinesi per gli archetipi, casualmente concepiti nella stessa ottica junghiana, intesi come accumulatori di energia psichica, rappresentati negli esagrammi (simboli composti da 6 linee intere o spezzate tipici dell’I Ching) a partire dalle immagini naturalistiche degli 8 trigrammi (simboli composti da 3 linee) e dei 5 elementi contenuti nelle due ruote del re Wen e di Fu Xi. Straordinaria coincidenza con la stessa teoria dell’Inconscio Collettivo, tanto straordinaria quanto è collettiva la stessa simile produzione archetipica tra l’Alchimia cinese e quella europea medioevale, tra quella greca del Tutto scorre di Eraclito e quella simbolica del percorso di ricerca di Iside con Osiride, dell’antico Egitto (vedi Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche,1947-1954). Purtroppo in quegli anni non era molto conosciuta in Europa la medicina cinese così come descritta nel testo classico, Il canone dell’imperatore Giallo, Huangdi Neijing Lingshu, dove nella seconda parte: il Lingshu, all’ottavo capitolo, Ben Shen, viene trattata la parte concernente la psicologia e il ruolo delle emozioni. Se Jung infatti l’avesse letto, avrebbe scoperto il ruolo energetico degli archetipi nella mente umana e in relazione alla mente universale ugualmente agita dagli stessi archetipi in una sorta di inconscio collettivo universale. Leggi che si intuiscono ugualmente anche dall’I Ching stesso, come il testo recita nello Shuo Kua (e che porremmo a confronto con la stessa definizione junghiana di archetipo):

“Quando Pao Hsi governava il mondo nella più remota antichità, egli innalzò lo sguardo e contemplò le immagini nel cielo, abbassò lo sguardo e contemplò gli avvenimenti sulla terra. Egli contemplò i disegni degli uccelli e degli animali e l’adattamento ai luoghi. Direttamente egli partì da se stesso, indirettamente egli partì dalle cose. Così inventò gli otto trigrammi per entrare in comunicazione con le virtù degli dei luminosi e per mettere ordine nelle condizioni di tutti gli esseri. (354)

Nel II capitolo viene spiegato come tutte le conquiste della civiltà siano nate come riproduzioni di ideali immagini primigenie. Ogni invenzione nasce come immagine nella mente dell’inventore prima di comparire quale cosa compiuta, poi come strumento. Dai 64 esagrammi si possono far derivare le invenzioni umane che hanno condotto allo sviluppo della civiltà. Il processo d’individuazione junghiano altro non è che una continua e personale rielaborazione evoluta del principio di piacere in principio di realtà. Come afferma Freud: sublimare il piacere, sospendendone l’immediata soddisfazione, per convogliarlo in creatività del pensiero, immaginando così lo sviluppo successivo di scoperte maggiormente soddisfacenti: la nascita della civiltà ordinata dalla regole e dalla morale. Nella filosofia indiana ciò corrisponde al passaggio dal secondo al sesto chakra e nell’I Ching dalla seconda alla quinta linea dell’esagramma, la linea del principe. Il Pai Hu T’ung descrive lo stato primordiale della società umana:

Nei tempi primitivi non esisteva ancora nessun ordinamento morale e sociale. Gli uomini conoscevano soltanto la propria madre, non il loro padre. Affamati, ricercavano cibo; sazi, buttavano via i resti… Allora venne Fu Hsi e guardò in alto e contemplò le immagini nel cielo, guardò in basso e contemplò gli eventi sulla terra… Egli tracciò gli otto segni [trigrammi] per governare il mondo. (355)

Per questo motivo Lao Tze afferma che: Il Tao veste e nutre tutti gli esseri e non si atteggia a loro signore.

Proviamo a fare un confronto con la stessa definizione di Jung:

É affermazione unanime di tutti i platonici che, come nel mondo degli archetipi tutto è in tutto, così anche in questo mondo corporeo tutto è in tutto, ma in maniera diversa a seconda della natura degli esseri o delle cose che accolgono. Così pure gli elementi non sono solo in questo mondo inferiore, ma anche in cielo, nelle stelle, nei demoni, negli angeli e infine (anche) nel creatore e archetipo del tutto.

Cos’altro deve essergli sembrata la tavola dei 64 esagrammi dell’I Ching se non una guida logica alle coincidenze significative che determinano i mutamenti che rendono l’uomo un essere individuale (principium individuationis)?

L’Oriente ci apre invece una via diversa di comprensione, più ampia, più profonda legata all’esperienza: la comprensione attraverso la consapevolezza della vita.

Sempre da Jung ci proviene una pietra miliare della nostra cultura psicologica occidentale. Libido: simboli di trasformazione, un testo indispensabile per un occidentale affinché meglio possa comprendere lo spirito mercuriale contenuto nella libido, Qi o della Kundalini, che sempre lega le opposte dimensioni di Cielo e Terra, il tempo e lo spazio degli accadimenti sincronici. L’uomo, la creatura, è sempre al centro vivificata dallo spirito come avvolto da un serpente di Luce, il serpente della vera conoscenza degli opposti archetipi: del Bene e del Male, propizio e sciagura.

La Sincronicità e l’Alchimia: Come in alto così in basso
Un’altra intuizione di Jung riguardo alle pratiche psicofisiche taoiste fu di aver constatato che l’I Ching rappresentava la possibilità concreta di poter applicare all’essere umano gli stessi procedimenti della scomparsa Alchimia europea come trasmutazione psicologica. Jung non era interessato alla diffusione pratica dello yoga indiano o cinese che considerava culturalmente inutili, impossibili e fuorvianti per gli occidentali, per cui, animato soltanto da scopi intellettuali, cercava unicamente il confronto possibile con approcci culturali lontani ma riconducibili alle sue stesse teorie e al suo modo intuitivo di fare ricerca in campi come quello psicologico dove il metodo scientifico non può essere esaustivo di tutto l’orizzonte psichico umano.
Proponendo con successo in Europa l’interesse per le filosofie orientali, Jung compì quell’operazione di re-suscitare con linfa ancora vitale (vedi: il Crogiuolo, nella prefazione all’I Ching), l’interesse per l’alchimia europea medioevale in quella parte almeno dove occulto è sinonimo di inconscio, che come sappiamo costituisce le fondamenta esoteriche della psicologia analitica junghiana.

La scienza è lo strumento dello spirito occidentale, e con essa si possono aprire più porte che con le sole mani. L’Oriente ci apre invece una via diversa di comprensione, più ampia, più profonda ed elevata: la comprensione attraverso la vita. L’imitazione occidentale si riduce ad una tragica incomprensione della psicologia orientale ed è inoltre sempre così sterile… Non di questo si deve trattare, non di imitare in modo disorganico un mondo straniero, ma piuttosto di riedificare nella sede sua propria la cultura occidentale e condurvi il vero europeo, nella sua quotidianità occidentale, con i suoi problemi coniugali, con le sue nevrosi, i vaneggiamenti sociali e politici, e con le sue sbigottite incertezze riguardo a una visione del mondo. Per questo è così penoso vedere l’europeo rinunciare a sé stesso e imitare in modo affettato l’Oriente. Il mero intelletto non è in grado di comprendere l’importanza pratica che per noi potrebbero assumere le idee orientali e perciò riesce (soltanto) a classificarle tra le curiosità filosofiche ed etnologiche. L’incomprensione giunge a un punto tale che persino dotti sinologi non hanno inteso l’applicazione pratica dello I Ching (Yi Jing) e considerano questo testo null’altro che una raccolta di astruse formule magiche.
Per quanto Jung possa essere considerato un padre della New Age, si può affermare che egli fu un precursore nel modo di fare ricerca a tutto campo, interdisciplinariamente, e questo modo di pensare lo riprese certamente dal fare ricerca come concepito dagli alchimisti, creando un legame diretto tra quel virtute et conoscenza di dantesca memoria. Ecco alcune risposte al motivo di tanto interesse per il pensiero cinese direttamente dal Saggio sulla Sincronicità come principio di nessi acausali, edito da Jung nel 1952.

Per noi i particolari contano sempre in sé e per sé; per lo spirito orientale essi integrano sempre un quadro generale. Ora in questa totalità sono comprese, come lo erano già nella psicologia primitiva o nella nostra psicologia medioevale prescientifica (e tale lo è ancora in parte), cose il cui rapporto con le altre cose non può ancora essere inteso che come casuale, cioè come coincidenza la cui significatività sembra arbitraria. In questo quadro rientra la teoria medioevale della filosofia naturale sulla Correspondentia, in particolare la concezione già propria degli antichi della simpatia di tutte le cose. Ippocrate dice: “Un unico confluire, un unico cospirare (conflatio), sentendo tutto insieme. Tutto in rapporto alla totalità, ma in rapporto alla parte le parti (presenti) in ogni parte con intenzione all’effetto. Il grande principio va fino alla parte estrema, dalla parte estrema al grande principio: un’unica natura, l’Essere e il Non-Essere. Ma il principio universale si trova anche nella più piccola parte, la quale perciò coincide con il tutto”.

Sempre riguardo all’incessante bisogno di ricercare leggi supreme alla base della comunicazione all’interno dell’universo, da cui ricavare leggi sul principio di sincronicità, egli afferma che: Fino ad oggi non sappiamo che questo: deve esistere un principio che sta alla base di tutti i fenomeni del genere, e che potrebbe spiegarli. Sia la concezione primitiva sia la concezione antica e medioevale della natura presuppongono l’esistenza, accanto alla casusalità, di un simile principio. Fino a Leibniz la causalità non è né unica né predominante. Nel corso del diciottesimo secolo essa è poi diventata il principio esclusivo delle scienze naturali. Con l’ascesa delle scienze naturali nel diciannovesimo secolo la correspondentia è tuttavia scomparsa dal quadro, e di conseguenza il mondo magico di epoche precedenti, sembrò definitivamente tramontato, finché verso la fine del secolo i fondatori della Society for Psychical Research tornarono a mettere sul tavolo il problema in via indiretta, cioè tramite l’indagine del cosiddetto fenomeno telepatico. I cinesi però fecero quel qualcosa in più che destò l’interesse di Jung, poiché egli stesso afferma che: É ovvio che a livello primitivo la sincronicità sembri non un concetto a sé, ma una causalità magica. Questa rappresenta la forma primitiva del nostro classico concetto di causalità, mentre l’evoluzione della filosofia cinese ha sviluppato dalla significanza del magico il concetto di Tao, della coincidenza significativa, ma non una scienza naturale fondata sulla causalità.

Prendendo spunto dalla citata Bussola d’oro, è doveroso aggiungere che dopo aver iniziato con Ippocrate, Jung nel suo saggio, ci descrive minuziosamente lo sviluppo sia del concetto di Legge Universale, la quale per simpatia sostiene tutte le leggi del particolare, che di scienza del “generale” da cui dipendono le scienze specialistiche. Egli ci ripropone anche tutti i sistemi dell’Ars combinatoria, costituiti da ruote e macchine, ideate nel medioevo da Raimondo Lullo, fino all’Horologium vitae di Leibniz, e che corrispondono nei principi alle due ruote taoiste del Re Wen e di Fu Xi. L’obiettivo dell’arte combinatoria era il corretto uso dell’intelligenza attraverso apparecchi logici, vere e proprie macchine inferenziali capaci di dimostrare la verità o la falsità di un’asserzione.
L’intelligenza – affermava Lullo – chiede imperiosamente una scienza generale applicabile a tutte le conoscenze, ed è quasi inevitabile vedere in lui un precursore delle moderne ricerche relative all’intelligenza artificiale, anche perché il filosofo non si accontentò di indagini teoriche, ma passò decisamente alla costruzione concreta delle macchine combinatorie. La sua idea era quella di disporre su un circolo gli elementi fondamentali, simboli, che formano una nozione (per esempio, relativamente all’idea di Dio: bontà, grandezza, onnipotenza e così via).

Queste caselle concettuali vanno poi messe in relazione fra loro da particolari schemi grafici che si possono disegnare al centro delle ruote. Poiché ogni ragionamento è una forma di collegamento fra nozioni, diventa così possibile una rappresentazione della conoscenza e dei suoi procedimenti secondo moduli geometrici.
Nella terminologia moderna il lullismo consiste in una descrizione topologica delle operazioni mentali, in cui cioè i rapporti tra le nozioni che formano il discorso sono espresse da collegamenti di tipo spaziale. Questi diagrammi dovrebbero permettere di scoprire le leggi del pensiero associativo; Lullo dimostrò che nelle ruote dedicate a problemi naturali prevale sempre lo schema del quadrato degli opposti: terra e acqua opposte ad aria e fuoco, primavera ed estate opposte ad autunno e inverno, e così via.
Moltiplicando il numero delle ruote concettuali e ponendole in rotazione attorno al centro, diventava possibile creare nuove ed inusitate associazioni mentali. In questo modo la Ars demostrandi(capacità di dimostrare ) perseguita da Lullo tendeva a trasformarsi in Ars inveniendi (possibilità di far scoperte). Ma R. Lullo (1232-1315) è preceduto nella descrizione di Jung da Filone ( 25 a.C.- 42 d.C. ) del quale cita: Avendo Dio voluto far accordare sotto di sé inizio e fine del divenuto, così che le cose siano legate da necessità ad amicizia, ha fatto come inizio il cielo, ma come fine ha fatto l’uomo; il cielo lo creò come la più perfetta delle cose percepibili imperiture, l’uomo come il migliore degli esseri perituri nati dalla terra, come – se dobbiamo dire la verità – un piccolo cielo che reca in sé le immagini delle molte nature simili alle stelle… Ora poiché ciò che é perituro e ciò che è imperituro sono contrapposti, egli ha dato a entrambi, al principio e alla fine, la più splendida forma: all’inizio come abbiamo detto quella del cielo, alla fine quella dell’ uomo.

Sempre continuando sulla relazione tra macro e micro-dimensioni, Jung cita anche Teofrasto (371-288 a. C. ) e Plotino: Secondo Teofrasto ciò che è sovrasensoriale e ciò che è sensoriale sono legati insieme da un legame di comunanza. Questo legame non può essere la matematica, ma presumibilmente solo la divinità. Analogamente le anime individuali che in Plotino nascono da una sola anima universale sono simpatiche o antipatiche in rapporto reciproco, e la distanza non ha importanza alcuna. L’excursus junghiano della storia (e utilità) della casualità, continua con citazioni da Pico della Mirandola: In primo luogo c’è nelle cose la unità, grazie alla quale ogni cosa è una con se stessa, consiste di sé stessa ed è in rapporto con sé stessa. In secondo luogo e grazie ad essa (unità) che una creatura viene unita alle altre e infine tutte le parti del mondo formano un solo mondo.

Per rafforzare il concetto, e anche perché citati in altri testi da Jung, riportiamo anche Nicola Cusano, Giordano Bruno e Marsilio Ficino.
Fu Cusano che per primo parlò della Coincidentia oppositorum a proposito di eventi che secondo la causalità appaiono come insanabilmente contraddittori per la mente umana a meno di non ricorrere ad un altro modo di pensare, tipo per congetture e analogie geometriche, come nel caso dell’infinità di Dio. Per esempio la retta e il cerchio sono figure diverse (finite), ma se si estende un cerchio all’infinito, diventa impossibile distinguerlo da una retta.
Marsilio Ficino ripropose inconsapevolmente il concetto taoista di equidistanza dell’uomo, microcosmo, sia dal cielo superiore che dalla terra inferiore, sintetizzando il concetto di uomo copula mundi: esso è il centro di simmetria fra il mondo superiore e inferiore.
Il termine medio in cui è posto l’uomo per Ficino, che corrisponde alla linea di mezzo dei trigrammi dell’I Ching, fa sì che l’individuo, al pari della concezione taoista, possa liberamente tendere verso l’alto della spirito o verso il basso della materia. Di analogo significato è l’uomo camaleonte proposto da Pico della Mirandola. L’effetto continuo del panpsichismo sull’individuo i cinesi lo rilevano sul corpo come energia sostanziale, che scorre nei meridiani, e sulla mente (diremo noi occidentali ) sotto forma di immagini archetipiche; questo concetto verrà affrontato nei successivi articoli sulla relazione energetica tra: floriterapia secondo Kramer e meridiani dell’agopuntura, e chakraterapia indiana.

Dopo aver affrontato questo lungo percorso sull’evoluzione del pensiero sincronistico, e avendolo paragonato con quello cinese, e avendo constatato quanto Jung lo considerasse sufficientemente già compiuto prima di quello europeo, ci siamo chiesti quale poteva esser stato per Jung l’utilizzo pratico dell’I Ching, e a questo punto non solo teorico.
Tutto ciò che sappiamo, e che abbiamo ricavato direttamente dal saggio sulla sincronicità e dalla prefazione al testo di Wilhelm, ci dice che Jung aveva un duplice rapporto con il testo. Il primo, quello del ricercatore che avendo trovato una miniera di un metallo sconosciuto si apprestava allo sfruttamento tanto atteso, costituito dalla dimostrazione pratica e sperimentale di un evento sincronistico, quale è quello che avviene durante l’operazione oracolare, in cui si ha la rivelazione, nel qui ed ora, della coincidenza dei due fattori psichico e fisico.
Sappiamo dalla Prefazione e da Sogni, ricordi e riflessioni che Jung sapeva interrogare e interpretare l’I Ching come un esperto taoista, ma ovviamente il suo intento era di trovare il modo di compiere un esperimento dimostrabile scientificamente e non solo a se stesso. Pur tuttavia osservava Jung, questi esperimenti, avevano conferito al fenomeno della sincronicità una base almeno statistica, ma non sufficiente, vista l’impossibilità di controllare in laboratorio le variabili di un fenomeno, dalle variabili appunto infinite, poiché fuori dalla causalità; che fare allora?
Questo fatto mi ha indotto a chiedermi se non esiste un metodo che da un lato provi il fenomeno della sincronicità e dall’altro permetta di riconoscere contenuti psichici in maniera che si possano almeno ricavare determinati punti fermi sulla natura del fattore psichico coinvolto. Mi sono domandato se non esiste un metodo che renda possibili risultati misurabili o numerabili, e che al tempo stesso ci sia modo di penetrare nei retroscena psichici della sincronicità. Partendo sempre dalla totalità, il metodo dell’ I Ching sembrava essere il migliore disponibile.

“L’uomo continua la creazione del mondo in quanto restituisce al cosmo in idee ciò che a lui viene offerto in fenomeni. Grazie a questo suo ruolo l’uomo è cittadino dei due mondi”. (Goethe)

Tratto da Lino Carriero, www.linocarriero.com

 

Bibliografia junghiana: Libido: simboli di trasformazione. Sogni, ricordi e riflessioni. Opere n.:11, 13 e 14.
Elisa Rossi: Shen, Casa editrice Ambrosiana, 2002
E. Rochat De La Vallèe: Ligshu, la psiche nella tradizione cinese, Jaca Book
Giulia Boschi: La radice e i fiori, Erga Edizioni
I testi degli articoli sono adattamenti dell’autore dalla tesi di laurea in Psicologia IL TAO E LA PSICOLOGIA, Teorie comparate sul processo d’individuazione: C.G.Jung e l’I Ching taoista. Lino Carriero

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Paola Molteni

26 Settembre 2021

“Knotted to the net. It had happened a little by chance and a little out of curiosity. Big, branched, extended, intricate, attractive, intriguing. Those who passed could not fail to realize what power it had. It was like a magnetic light in able to bewitch everyone’s eyes. The little girl was immediately fascinated by it and trotting into it she fell into it, finding herself everywhere, while remaining sitting cross-legged. She could not resist the temptation to create continuous streams of questions and curiosities that flowed faster In exchange, he absorbed words, images, music and emotions like sap from the clicking of the keys. By spreading the meshes of that dense weave, made up of meridians and parallels with his fingers, he could look very far away. Traveling in balance on an invisible thread from a continent to the other, in a few moments. Find the answer and lose the question. Look for order in disorder. To tie one’s thoughts to those of another. See the life of the people who f iltra through screens and pages and eyes and mouths and bodies, congested by overwhelmingly human traffic. “

Paola Molteni, Nets

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La cerimonia del Tè e lo Zen

26 Settembre 2021

Narra una leggenda giapponese che a creare la pianta del tè sia stato il monaco indiano buddista del VI secolo, Bodhidharma. Egli, per evitare di addormentarsi durante i 9 lunghi anni di meditazione e di conseguenza venir meno al suo impegno, si tagliò le palpebre, le quali cadendo sulla terra diedero vita alla pianta del tè.
In realtà la pianta del tè, sappiamo essere originaria dell’Asia meridionale ed è stata importata in Giappone dalla Cina intorno al VI secolo insieme al buddismo.
All’inizio il tè veniva consumato nei monasteri ed era riservato ai monaci che lo usavano durante le cerimonie religiose. Man mano si diffuse dapprima tra l’aristocrazia che ne faceva uso nelle occasioni mondane, poi, fra il il XIV e il XV secolo, tra la classe mercantile allora emergente e ancora tra i samurai che, della cerimonia del tè, fecero un elemento importante del Bushido ovvero della “Via”, letteralmente “morale del guerriero” un codice di condotta e di modalità di vita che i samurai si erano dati e, infine, il tè si diffuse nel resto della popolazione.

Zen è la pronuncia nipponica della parola cinese Chan, termine a sua volta utilizzato all’inizio del buddismo in Cina. Zen sta a significare i graduali stati di coscienza nella meditazione ed è questa pratica a trasformare in rito il semplice incontro tra amici dove si consumava tè .
L’artefice di questo cambiamento fu Murata Shukō che propose un tipo di cerimonia del tè da celebrare in una piccola stanza, in maniera intima tra il solo padrone di casa e i suoi ospiti.
Portata avanti dal monaco buddista zen Sen no Rikyu la cerimonia si basava su quattro principi basilari atti a purificare lo spirito in rapporto con la Natura ed erano: Armonia, Rispetto, Purezza e Tranquillità.
Armonia significa essere incamminati sulla “Via di mezzo” e cioè essere moderati nell’affrontare la vita e quindi essere affrancati da pretese ed estremismi
Rispetto è riconoscere la dignità innata di ogni persona e tale riconoscimento permette di entrare in comunione con l’essenza di quanto ci circonda.
Purezza è liberare la propria mente da preoccupazioni e vincoli in modo da accogliere la bellezza e permetterle di esprimersi. Si riordina la mente allo stesso modo con cui si riordina la stanza del tè.
Tranquillità. Soshistsu Sen la definisce così «Seduto lontano dal mondo, all’unisono con i ritmi della natura, liberato dai vincoli del mondo materiale e dalle comodità corporali, purificato e sensibile all’essenza sacra di tutto ciò che lo circonda, colui che prepara e beve il tè in contemplazione si avvicina ad uno stadio di sublime serenità.»
E sempre Soshistsu Sen ricorda che la Cerimonia del tè amplifica tale stato di grazia col «Trovare una serenità duratura in noi stessi in compagnia d’altri: questo è il paradosso.»
Ne consegue che il significato profondo della pratica della Cerimonia del Tè è il raggiungimento dell’illuminazione e le forme d’arte che ne scaturiscono.
Scrisse Lu-T’ung
“La prima tazza mi bagna le labbra e la gola
La seconda mi libera dalla solitudine e la terza entra nella mia anima inaridita, scoprendovi cinquemila volumi di meravigliosi ideogrammi.
La quarta tazza eccita in me un lieve sudore, che dileguandosi dai pori fa svanire le tristezze della vita.
La quinta tazza mi purifica e la sesta mi chiama nel regno dell’immortalità…”

Testo di: Lina Lombardo

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Grigorij Jakovlevič Perel’man

23 Settembre 2021

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LE ARCHITETTURE DI MUSSOLINI

20 Settembre 2021

Offro questo aliante muschio filosofico, libero da ogni prepuzio, al caro amico Fellini: lo sosterrà certamente nella sua degenza. Il riferimento a Mussolini è quasi casuale: si tratta di architetture ideali, tra le quali non mancano mai i punti d’incontro.

Lo dedico speciali modo a Fellini come Lampada Perenne del mio Teatro dei Sensibili, da lui sostanziosamente beneficato. Gesto esemplare, che merita di trovare imitatori tra i suoi infiniti ammiratori, perché gli iscritti all’albo d’onore come Lampade Perenni sono finora pochissimi.

Entrambi, per diversi cammini, abbiamo trovato ristoro e pace nelle Arti Magiche: è provato che tradiscono meno dei Santi.

La luce di Amitabha sulle sue mani, la sua mente e il suo cuore.

Ah immergersi sprofondare navigare colare a picco trasvolare dissolversi dentro le architetture di Mussolini!

Mistiche ogive quadrate, odalistici colonnati, sudoripare mammelle di carrarino e traboccanti testicoli di pariolino – architetture di un giorno, architetture di Mussolini!

Archi, stadi, piscine, città nuove senza zanzare, acquedotti d’oltregiuba, fasci tricolori di binari, scali azzurri e bianchi, lastricati oceanici, pizzi di Balbo, frantumi di Nuvolari!

Con quel tanto di crepuscolare italico che i polmoni appena purgati di vigliacca TBC premussoliniana ossigenava carezzevolmente.

Sonori i nomi della banda musicale tra le alberate in fondo alle quali l’Architettura, anche la Penitenziaria, si rigenerava: Ildebrando Pizzetti, Ottorino Respighi, Luigi Dallapiccola, mentre le Vestali attizzavano il fuoco perenne nei tripodi. Architetture di Mussolini! E anche mobili, pavimenti, tubi, becchi a gas, suppellettili di Mussolini…

Là dove l’Operaio, in statue al di là di ogni Grecia, appare sempre più alto di un piano del Lingotto; dove un Alpino (di Cuneo o di Trento, in media di m 1,70, ma accettato dai distretti anche di 1,60) non è mai inferiore ai Cinque Metri; dove la figura rude della Madre proletaria, fiume di latte come la Vacca cosmica himalayana, allatta lupe di Romolo grosse come la balena di Melville!

Architetture, architetture di Mussolini! Inforchiamo la Realtà Virtuale per ritrovarle e al dondolarsi sui loro fondali con l’abbandono salace di flore sottomarine l’occhio si dilata e scopre che il naso dell’Alpino è corroso dal morbo gallico e cascherà tra poco nel lago artificiale di un immenso bacino idroelettrico dove nessuno l’andrà a cercare; scopre che il seno della Madre, dopo aver allattato per sessanta e più anni, da prima che i Caproni volassero su Madrid, è diventato letamico.

Ed ecco lo Studium Urbis, grande come un oceano! Un Polipo lo regge e pesci senza numero provano il piacere di trovarsi avvolti da reti senza fine, dopo aver deposto sui sedili d’anfiteatro dell’Aula Magna le loro uova, speranza dei Tempi Futuri, e io sono uno di loro, e nel groviglio di reti troverò – pensate! – il diploma che mi proclama, di fronte a tutto il mondo esterrefatto, Dottore!

Dottori siamo, perdutamente; dottori tra le architetture di Mussolini!

Viene la Donna e sarà mia sposa dentro le architetture di Mussolini, odorose di bianca vernice fresca. Prima che il gallo apra il becco, avrà già concepito! Non so che dire, sto cascando di sonno sui tasti pigri di una giganteggiante portatile dov’è quasi secco l’inchiostro. Vengono gli archeologi di Mussolini, che hanno scavato tra le rovine dell’Accademia d’Italia, e mi portano, freschi come fichi, quadrimillenari reperti di Ungarit.

A mezzogiorno, su uno scalino all’ombra di un paracadute, consumiamo il rancio nelle gavette: pollame scelto, baccalà con piselli, anguilla Marinetti, vino dell’Amba Alagi.

Impensabile, tra le architetture di Mussolini, il suicidio. Il deltaplano del Dovere spipistrella tra i colonnati che nulla, mai, potrà liquefàcere. Non si è mai soli, tra i ronzii di telegrafo delle architetture di Mussolini.

Non è anoressica la Sposa! Non è disappetente! Appeso il velo alle giberne dell’Alpino, macina bocconi grossi come il pugno.

Fuori da quegli spazi ideali sopravvive un piccolo albergo polveroso, non di Mussolini, con balcone in ferro, da cui si possono ammirare e fotografare, con poca spesa, le Architetture. Ma questo è il modesto piacere di chi non è in grado di vorticare nel loro interno.

Quando penso a una frase discretamente sublime, da lasciare allo stupore di quelli che mi saranno accanto con l’orecchio teso, perché la ripetano, la scrivano, la diffondano – una frase densa e laconica, degna di un Laureato dello Studium Urbis –, mi viene di mormorare con chiaro balbettio queste diritte sillabe estreme: «Oh! Come sono belle, le architetture di Mussolini!».

1993

Tratto da: Guido Ceronetti, Cara incertezza, Adelphi

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Karen Blixen

15 Settembre 2021

Il campo del dolore

Il basso e ondulato paesaggio danese era silenzioso e sereno, misteriosamente desto nell’ora che precede il levar del sole. Non c’era una nube nel cielo pallido, non un’ombra nel perlaceo crepuscolo che avvolgeva i prati, le colline e i boschi. La bruma si stava alzando dalle valli e dalle gole, l’aria era fresca, l’erba e le foglie stillanti di rugiada. Non guardata dagli occhi dell’uomo, e non disturbata dalla sua attività, la campagna respirava una vita senza tempo, per la quale le parole erano inadeguate.

Eppure da mille anni, su quella terra, viveva una razza umana che era stata formata da quel suolo e da quel clima, e che quella terra aveva segnata con i propri pensieri, al punto che nessuno ormai avrebbe potuto dire dove finisse l’esistenza dell’una e cominciasse quella dell’altra. Il sottile nastro grigio di una strada che serpeggiava lungo la pianura e su e giù per i colli era la materializzazione concreta del desiderio umano, e dell’umana certezza, che è meglio stare in un posto anziché in un altro.

Chi fosse nato in quei luoghi avrebbe letto quel vasto paesaggio come un libro. Il mosaico irregolare dei prati e dei campi di cereali era un – screziato di tenui pennellate gialle e verdi – della lotta che la gente sosteneva per il pane quotidiano; i secoli le avevano insegnato ad arare e a seminare in quel modo. Su una collina lontana le ali immobili di un mulino a vento, una piccola croce azzurra contro il cielo, segnavano una delle tappe successive dell’evoluzione del pane. Il profilo confuso dei tetti di paglia – una bassa, bruna escrescenza della terra – là dove si accalcavano le casupole del villaggio, raccontava dalla culla alla tomba la storia del contadino, la creatura più vicina alla terra e che più ne dipende, prospero in un anno fertile e alle soglie della morte negli anni di siccità e di calamitosi flagelli.

Un po’ più in alto, circondata dalla tenue linea orizzontale del muro calcinato del cimitero, e con al fianco il susseguirsi verticale degli alti pioppi, la chiesa dal tetto di tegole rosse testimoniava, fin dove giungeva lo sguardo, che quello era un paese cristiano. Chi era nato in quei luoghi la conosceva come una strana casa, abitata soltanto per poche ore ogni sette giorni, ma dotata di una voce forte e limpida per annunciare le gioie e i dolori della terra: una semplice, squadrata rappresentazione della fiducia del paese nella giustizia e nella misericordia del cielo. Ma nel punto in cui, tra boschetti e macchie tondeggianti, svettava nell’aria l’altera siluetta piramidale dei filari di tigli, là c’era un grande maniero.

Chi era nato in quei luoghi avrebbe letto molte cose in quegli eleganti simboli geometrici che spiccavano sull’azzurro brumoso. Parlavano di potere, quei tigli schierati intorno a una fortezza. Là era stato deciso il destino della terra circostante e degli uomini e delle bestie che la abitavano, e il contadino alzava gli occhi con timoroso rispetto verso quelle verdi piramidi. Esse parlavano di dignità, di decoro e di gusto. Il suolo danese non produsse mai fiore più bello della signorile dimora alla quale portava il lungo viale alberato. Nelle sue stanze maestose la vita e la morte si portavano con grazia imponente. Il maniero non guardava verso l’alto, come la chiesa, né teneva lo sguardo al suolo come le casupole; aveva sulla terra un più ampio orizzonte, ed era imparentato con gran parte dell’architettura aristocratica di tutta l’Europa. A ornarlo di pannelli e di stucchi erano stati chiamati artigiani stranieri, e i suoi abitanti giravano il mondo in lungo e in largo e ne riportavano idee, mode e oggetti d’arte. Quadri, arazzi, argenti e cristalli di lontani paesi avevano finito con l’acclimatarsi, e ormai facevano parte della vita di campagna danese.

La grande casa era solidamente radicata nel suolo della Danimarca quanto le casupole dei contadini, e non meno di loro fedelmente alleata ai quattro venti e alle mutevoli stagioni del paese, alla vita dei suoi animali, ai suoi alberi e ai suoi fiori. Ma gli interessi del maniero erano su un piano più alto. Entro il dominio dei tigli, i pensieri e i discorsi non si aggiravano più sulle mucche, le pecore e i maiali, ma sui cavalli e sui segugi. La fauna allo stato brado, la selvaggina del paese, contro la quale il contadino agitava il pugno al solo vederla nel suo campo di segale ancora verde o tra le sue spighe di grano che cominciavano a germogliare, per i residenti dei manieri era la principale occupazione e la vera gioia della vita.

Ciò che era scritto nel cielo proclamava solennemente la continuità, una immortalità sulla terra. I grandi manieri tenevano duro da molte generazioni. Le famiglie che vivevano tra quelle mura nutrivano per il passato lo stesso rispetto che avevano per la propria stirpe, perché la storia della Danimarca era la loro storia.

Fin dove la gente riusciva a ricordare, a Rosenholm c’era sempre stato un Rosenkrantz, a Hverringe un Juel, a Gammel-Estrup uno Skeel. Costoro avevano visto succedersi case regnanti e stili accademici, e – con orgoglio e umiltà – avevano anteposto l’esistenza della loro terra alla propria esistenza personale, sicché tra i loro pari e presso i contadini erano conosciuti col nome dei loro possedimenti: Rosenholm, Hverringe, Gammel-Estrup. Per il re e per il paese, per la famiglia e per lo stesso castellano era del tutto secondario sapere quale particolare Rosenkrantz, Juel o Skeel, di una lunga serie di padri e di figli, incarnasse in quel momento nella propria persona i campi e i boschi, i contadini, il bestiame e la selvaggina della tenuta. Molti doveri gravavano sulle spalle dei grandi proprietari terrieri – verso Dio onnipotente, verso il re, verso i vicini e verso se stessi – e tutti armonicamente radicati nella convinzione del dovere verso la terra. Sommo tra tutti gli altri era il dovere di perpetuate la sacra continuità della schiatta, e di dar vita a un nuovo Rosenkrantz, Juel o Skeel che si prodigasse per Rosenholm, Hverringe e Gammel- Estrup.

La grazia femminile era molto apprezzata nei castelli feudali. Insieme con la buona caccia e il vino pregiato, era la gemma e l’emblema della nobile esistenza che si svolgeva in quei luoghi, e sotto molti aspetti le famiglie andavano orgogliose più delle figlie che dei figli maschi.

Le dame che passeggiavano lungo i viali di tigli, o li percorrevano su grandi carrozze tirate da due pariglie di cavalli, portavano nel grembo il futuro di quegli aristocratici nomi, e sostenevano i loro casati come dignitose, bonarie cariatidi. Erano anch’esse consapevoli del proprio valore, tenevano alto il proprio prezzo, e si muovevano in un nimbo di leggiadra adorazione, che ricevevano dagli altri e tributavano a se stesse. Si poteva persino supporre che vi aggiungessero, di propria iniziativa, un’aggraziata, maliziosa, paradossale arroganza. A qual punto erano libere, infatti, e a qual punto potenti! I loro signori potevano governare il paese e concedersi molti privilegi, ma quando si arrivava alla suprema questione della legittima discendenza, che era il principio vitale del loro mondo, su di loro, le dame, poggiava il centro di gravità.

I tigli erano in fiore. Ma in quel primo accenno di luce soltanto una tenue fragranza fluttuava nel giardino, un aereo messaggio, un’eco profumata dei sogni trascorsi nella breve notte estiva.

In un lungo viale che partiva dalla casa e attraversava tutto il giardino, raggiungendo poi, laggiù in fondo, un piccolo padiglione bianco di stile classico di dove si godeva un’ampia vista sui campi, passeggiava un giovane. Era vestito semplicemente, di marrone rischiarato da bei lini e merletti, la testa nuda coi capelli legati da un nastro. Era bruno, con una figura robusta e vigorosa, begli occhi e belle mani; zoppicava leggermente.

Il grande maniero in cima al viale, il giardino e i campi, erano stati il paradiso della sua infanzia. Ma lui aveva viaggiato molto, era vissuto fuori della Danimarca, a Roma e a Parigi, e attualmente era incaricato presso la Legazione Danese alla corte di Re Giorgio, il fratello della giovane e sventurata regina di Danimarca morta poco tempo prima. Da nove anni non vedeva la dimora dei suoi avi e gli veniva un po’ da ridere nel constatare che tutto era tanto più piccolo di come lo ricordava, ma insieme si sentiva stranamente commosso da quel nuovo incontro. I morti venivano ad accoglierlo sorridendo; un bambino con un gran colletto lo sorpassò di corsa reggendo un cerchio e l’aquilone, e nel passare lo guardò con occhi limpidi, domandandogli con uno scoppio di risa: « Vorresti dire che tu sei me? ». Lui Cercò di rincorrerlo per rispondergli: « Sì, ti assicuro che sono te », ma la figurina svelta non aspettò la risposta.

Il giovane, che si chiamava Adam, era in un rapporto particolare col maniero e con la terra. Per sei mesi era stato l’erede di tutto; nominalmente lo era ancora. Era stata questa circostanza a farlo tornare dall’Inghilterra, e mentre lentamente percorreva il viale, proprio su quei fatti si soffermavano i suoi pensieri.

Il vecchio signore del castello, fratello di suo padre, aveva avuto una vita familiare molto infelice. Sua moglie era morta giovane, e due dei suoi figli erano spirati nella prima infanzia. L’unico figlio rimastogli, il compagno di giochi del cugino, era un ragazzo malaticcio e malinconico. Per dieci anni il padre non aveva fatto che trasferirsi da una stazione climatica all’altra, in Germania e in Italia, quasi sempre senz’altra compagnia che quella del suo taciturno figliolo moribondo, difendendo con ambo le mani la tenue fiamma della sua vita, perché a tempo debito potesse dar vita a un nuovo discendente della loro stirpe. E nello Stesso periodo lo aveva colpito un’altra sventura: era caduto in disgrazia a Corte, dove fino a quel momento aveva goduto del massimo favore. Proprio quando stava per ristabilire il prestigio della famiglia, grazie al matrimonio che aveva combinato per il figliolo, il fidanzato, non ancora ventenne, era morto prima che le nozze potessero aver luogo.

Adam era in Inghilterra quando fu informato della morte del cugino, e delle proprie mutate fortune, dalla sua ambiziosa e trionfante madre. Rimase a lungo con la sua lettera in mano, domandandosi che valore avesse per lui tutto ciò.

Se quegli avvenimenti fossero accaduti quando era ancora bambino in Danimarca, rifletteva, per lui avrebbero avuto un’enorme importanza. E se i suoi amici e i suoi compagni di scuola si fossero trovati al suo posto, sarebbe stato così anche per loro, e in quel preciso momento si sarebbero di certo congratulati con lui o gli avrebbero invidiato la sua fortuna. Ma lui, per indole, non era né avido né vanitoso; aveva fiducia nelle proprie doti, e la consapevolezza di dover contare sulle proprie capacità per riuscire nella vita lo rallegrava. La sua lieve imperfezione fisica lo aveva sempre tenuto un po’ in disparte dagli altri ragazzi; forse, di fronte a molte cose della vita, gli aveva dato una sensibilità più affinata, tanto che adesso non gli sembrava del tutto giusto che ha rappresentare la casata ci fosse un uomo con una gamba zoppa. E neppure le sue prospettive gli apparivano nella stessa luce in cui le vedeva la sua famiglia in Danimarca. In Inghilterra aveva conosciuto un fasto e un’opulenza che loro nemmeno si sognavano; aveva avuto una fortunata e felice relazione con una dama inglese di così alti natali e così immense ricchezze che la più bella proprietà terriera di Danimarca, ne era certo, le sarebbe sembrata una fattoria giocattolo.

E in Inghilterra aveva avuto la possibilità di conoscere le nuove grandi idee dell’epoca: sulla natura, i diritti e la libertà dell’uomo, sulla giustizia e la bellezza. Grazie a quelle idee, l’universo era diventato per lui infinitamente più vasto; voleva scoprirne ancora di più, e aveva in animo di andare in America, nel nuovo mondo. Per un istante si era sentito preso in trappola e imprigionato, come se i morti della sua stirpe tendessero dalla cripta di famiglia le loro braccia mummificate per afferrarlo.

Ma al tempo stesso, di notte, aveva cominciato a sognare la vecchia casa e il giardino. In sogno camminava per quei viali, e sentiva il profumo dei tigli fioriti. Quando, a Ranelagh, una vecchia zingara gli aveva letto la mano predicendogli che un figlio suo si sarebbe installato nella dimora dei suoi avi, egli aveva provato tutt’a un tratto una profonda soddisfazione, molto bizzarra in un giovane che sino a quel momento non si era mai dato pensiero dei propri figli futuri.

Poi, se mesi dopo, sua madre gli aveva scritto di nuovo per comunicargli che lo zio aveva sposato lui stesso la fanciulla destinata al figliolo morto. Il capo del loro casata era ancora vegeto, non aveva superato i sessant’ anni, e sebbene Adam lo ricordasse piccolo e mingherlino nella persona, era un uomo vigoroso; era probabile che la giovane sposa gli desse dei figli.

La madre di Adam, accecata dalla delusione, aveva addossato a lui tutta la colpa. Se fosse tornato in Danimarca, l’aveva rimproverato, forse lo zio avrebbe finito col considerarlo come un figlio e non si sarebbe deciso a quel passo; anzi, non era escluso che potesse offrire a lui la mano della fanciulla. Adam non ne era affatto convinto. I possedimenti familiari, a differenza delle proprietà vicine, si erano trasmessi di padre in figlio sin da quando il capostipite della loro famiglia si era insediato. La tradizione della successione diretta era l’orgoglio del clan e, per suo zio, un dogma consacrato; egli avrebbe sicuramente voluto un figlio della sua carne e del suo sangue.

Ma a quella notizia il giovane era stato colto da uno strano, profondo, accorato rimorso nei confronti della sua casa avita in Danimarca. Era come se avesse preso alla leggera un gesto amichevole e generoso, e si fosse dimostrato sleale con qualcuno che era stato verso di lui di una lealtà incrollabile. Sarebbe stato più che giusto, pensava, se d’ora in avanti quei luoghi lo avessero ripudiato, dimenticandolo completamente. Fu preso dalla nostalgia, un sentimento che non aveva mai conosciuto; per la prima volta si aggirava per le strade e per i parchi di Londra come uno straniero.

Scrisse allo zio per chiedergli se poteva andare a soggiornare da lui, prese congedo dalla Legazione e s’imbarcò per la Danimarca. Era venuto nel maniero per fare la pace con lui; aveva dormito poco, quella notte, e si era alzato così presto e stava passeggiando nel giardino per spiegare le proprie ragioni ed essere perdonato.

Mentre lui camminava, il giardino silenzioso riprendeva a poco a poco le sue occupazioni giornaliere. Un grosso serpente, della specie che suo nonno aveva portato dalla Francia e che quando lui era bambino, ricordava, veniva a mangiare in casa, stava già tracciando con grande dignità un’orma argentea lungo il viale. Gli uccelli cominciarono a cantare; egli si fermò sotto un albero tra le cui fronde molti di loro stavano tormentando un gufo: il regno della notte era finito.

Si fermò alla fine del viale e vide che il cielo si schiariva. Una luminosità estatica riempiva il mondo; di lì a mezz’ora sarebbe spuntato il sole. Su un lato del giardino si stendeva un campo di segale; due caprioli vi sì aggiravano, rosei nel chiarore dell’alba. Lasciò spaziare lo sguardo sui campi, dove da bambino aveva cavalcato il suo pony, e verso il bosco dove aveva ucciso il suo primo cervo. Ricordava i vecchi domestici che lo avevano addestrato nella caccia; alcuni di loro erano ormai nella tomba.

I vincoli che lo legavano a quei luoghi, pensò, erano di natura mistica. Poteva anche non tornarvi mai più, non avrebbe fatto differenza. Fino a quando un uomo del suo stesso sangue e del suo stesso antico nome avesse dimorato in quella casa, fosse andato a caccia in quei campi e fosse stato obbedito dai contadini delle casupole, lui, dovunque vagabondasse, in Inghilterra o tra i pellirosse dell’America, sarebbe stato ancora salvo, avrebbe ancora avuto una casa, e il proprio valore nel mondo.

Il suo sguardo si soffermò sulla chiesa. In epoche lontane, prima del tempo di Martin Lutero, i cadetti delle grandi famiglie entravano nella Chiesa di Roma e rinunciavano alla ricchezza e alla felicità personale per servire ideali più alti. Anch’essi avevano dato lustro alle loro case ed erano ricordati negli archivi ecclesiastici. Nella solitudine del mattino, quasi per gioco, lasciò che la sua mente si sbizzarrisse a suo piacere; gli pareva di poter parlare alla terra come a una persona, come alla progenitrice della sua stirpe. « Vuoi forse soltanto il mio corpo », le disse « mentre respingi la mia immaginazione, la mia energia e le mie emozioni? Se si potesse convincere il mondo a riconoscere che il valore del nostro nome non appartiene soltanto al passato, non ne saresti soddisfatta? ». Il paesaggio era così quieto che lui non avrebbe saputo dire se la terra gli rispondesse o no.

Dopo un poco riprese a camminare, e giunse al nuovo roseto alla francese progettato per la giovane padrona di casa. In Inghilterra i suoi gusti in fatto di giardini erano diventati meno convenzionali, e si domandò se sarebbe riuscito a liberare quei vividi prigionieri per farli fiorire al di fuori delle loro spalliere ben cimate. Forse, meditò, quel giardino dall’eleganza così formale era il ritratto floreale della sua giovane zia che veniva dalla Corte, e che lui non aveva ancora conosciuta.

Quando raggiunse di nuovo il padiglione in fondo al viale, il suo sguardo fu attratto da un bouquet di colori tenui che non poteva certo esser fiorito al sole estivo di quel mattino danese. E si trattava infatti di suo zio, coi capelli incipriati e le calze di seta, ma ancora avvolto in una veste da camera di broccato, e palesemente immerso in profondi pensieri. « E quali faccende, o quali meditazioni », si domandò Adam « spingono un uomo che di certo ama la bellezza, ed è da soli tre mesi sposato a una fanciulla di diciannove anni, ad abbandonare il suo letto prima dell’alba per venirsene in giardino? ». Si avvicinò alla piccola figura smilza ed eretta.

Lo zio, dal canto suo, non mostrò la minima sorpresa nel vederlo, ma del resto molto di rado si mostrava stupito di qualche cosa. Lo salutò, complimentandolo di essere così mattiniero, con la stessa benevolenza con cui lo aveva accolto la sera prima, al suo arrivo. Dopo un attimo guardò il cielo e dichiarò solennemente: « Oggi farà molto caldo ». Da bambino, Adam era stato spesso colpito dal tono greve e pomposo con cui il vecchio signore constatava gli eventi quotidiani dell’esistenza; si sarebbe detto che là nulla fosse cambiato, che tutto fosse proprio come un tempo.

Lo zio offrì al nipote una presa di tabacco. « No, zio », disse Adam « grazie, ma il mio naso non potrebbe più percepire il profumo del vostro giardino, che è fresco come il Giardino dell’Eden appena creato » « E di ogni suo albero », disse lo zio sorridendo « voi, mio Adam, potete liberamente mangiare i frutti ». E, l’uno accanto all’altro, s’incamminarono pian piano lungo il viale.

Il sole ancora invisibile stava già dorando la cima degli alberi più alti. Adam decantò le bellezze della natura, e la grandiosità del paesaggio nordico, meno segnato che quello d’Italia dalla mano dell’uomo. Lo zio prese quell’elogio del paesaggio come un complimento personale, e si congratulò con lui perché dai suoi viaggi all’estero non aveva imparato, come tanti altri giovani, a disprezzare la sua patria. No, disse Adam, da ultimo, in Inghilterra, aveva provato un’acuta nostalgia dei campi e delle foreste danesi. E proprio in Inghilterra, anzi, gli era capitato di leggere un poeta danese che lo aveva affascinato più di qualunque opera inglese o francese. Nominò l’autore, Johannes Ewald, e citò alcune delle sue possenti, tumultuose strofe.

« E mentre leggevo » continuò dopo una pausa, ancora commosso dai versi che aveva appena declamati « mi sono stupito che da noi non si sia ancora compreso quanto la nostra mitologia nordica superi, per nobiltà morale, quella greca e romana. Non fosse per la bellezza fisica degli dèi antichi, che immortalata nel marmo è giunta sino a noi, nessuna mente moderna potrebbe ritenerli degni di adorazione. Erano meschini, capricciosi e traditori. I nostri dèi ancestrali sono tanto più divini di quelli mediterranei quanto i Druidi sono più nobili degli Àuguri. Perché i biondi dèi di Asgaard possedevano le sublimi virtù umane: erano giusti, leali, benevoli e persino, nei limiti di un’età barbarica, cavallereschi ». A questo punto, per la prima volta, suo zio parve interessarsi veramente alla conversazione. Si fermò, col nobile naso un po’ all’aria. « Ah, ma per loro era più facile » disse.

« Cosa intendete dire, zio? » domandò Adam. « Essere, come voi sostenete, giusti e benevoli » rispose lo zio « era molto più facile per gli dèi nordici che per quelli della Grecia. A mio parere, che i nostri antichi danesi abbiano accettano di adorare simili divinità rivela una certa loro debolezza d’animo ». « Mio caro zio », disse Adam sorridendo « avevo sempre sospettato che le costumanze dell’Olimpo non dovessero esservi troppo estranee. Però adesso, ve ne prego, mettetemi a parte della vostra scienza, e spiegatemi perché la virtù dovrebbe essere più facile per i nostri dèi danesi che per quelli di climi più miti ». « Essi non erano potenti quanto gli dèi dell’Olimpo » disse lo zio.

« E il potere » insistette Adam « è forse un ostacolo alla virtù? ». « No » disse gravemente lo zio. « No, il potere è di per sé la virtù suprema. Ma gli dèi di cui voi parlate non furono mai onnipotenti. Avevano sempre al loro fianco quelle forze più oscure che essi chiamavano Jotun, e che provocavano le sofferenze, le calamità, la rovina del nostro mondo. Potevano abbandonarsi senza pericoli alla temperanza e alla benevolenza. Gli dèi onnipotenti » continuò « non hanno questa facilitazione. Essendo onnipotenti, prendono sulle proprie spalle il dolore dell’universo ».

Avevano risalito il viale ed erano giunti in vista della casa. Il vecchio gentiluomo si fermò e lasciò scorrere lo sguardo sull’imponente edificio, che non aveva subìto mutamenti di sorta; Adam sapeva che dietro le due alte finestre sulla facciata c’era adesso la stanza della giovane zia. Lo zio si volse e tornò sui propri passi.

« La cavalleria », disse « questa cavalleria di cui stavate parlando, non è la virtù di un onnipotente. Perché esista la cavalleria, debbono per forza esistere validi e valorosi rivali che il cavaliere possa sfidare. Con un drago meno forte di lui, che figura farebbe san Giorgio? Il cavaliere che non si trovi a portata di mano nemici a lui superiori deve inventarseli, e combattere contro i mulini a vento; la sua stessa dignità di cavaliere esige che egli sia circondato di pericoli, di infamia e di tenebre. No, credetemi, caro nipote, nonostante il suo valore morale il vostro cavalleresco Odino di Asgaard, come un Reggente, deve stare uno scalino al di sotto di Giove, che riconobbe la propria sovranità e accettò il mondo che dominava. Ma voi siete giovane », soggiunse « e l’esperienza dei vecchi vi’sembrerà pedantesca ».

Rimase immobile per un istante e poi, con, profonda gravità, proclamò: « È spuntato il sole ».

Il sole era infatti apparso all’orizzonte. Il vasto paesaggio fu improvvisamente animato dal suo splendore, e l’erba ru-giadosa balenò di mille sprazzi di luce.

« Vi ho ascoltato con grande interesse, zio » disse Adam. « Ma mentre parlavamo ho avuto l’impressione che foste in ansia; non avete mai staccato gli occhi da quel campo oltre il giardino, come se là stesse accadendo qualcosa di molto importante, addirittura una questione di vita o di morte. Ora che è sorto il sole, vedo i mietitori tra la segale e li sento affilare le loro falci. Se ricordo bene, mi avete detto che è il primo giorno della mietitura. É una grande giornata per un proprietario terriero, e basta da sola a distogliere la sua mente dagli dèi. Il tempo è bellissimo, e vi auguro di colmare i vostri granai ».

L’uomo più anziano rimase immobile, con le mani incrociate sul pomo del bastone. « È vero » disse infine « che in quel campo sta accadendo qualcosa, una questione di vita o di morte. Venite, sediamoci qui, e vi racconterò tutta la storia ». Si sedettero sulla panca che correva lungo tutta la parete del padiglione e neanche per un istante, mentre parlava, il vecchio possidente stornò lo sguardo dal campo di segale.

« Una settimana fa, nella notte di giovedì », disse « qualcuno ha dato fuoco al mio granaio di Rødmosegaard – conoscete il posto, nei pressi della brughiera – distruggendolo da cima a fondo. Per due o tre giorni non siamo riusciti ad acciuffare il criminale. Poi, lunedì mattina. è venuto da me il guardiacaccia di Rødmose col carrettiere del posto; trascinavano a viva forza un ragazzo, Goske Piil, il figlio di una vedova, giurando sulla Bibbia che il colpevole era lui; al tramonto di giovedì, l’avevano visto coi loro occhi aggirarsi intorno al granaio. Alla fattoria Goske non ha buona fama; il guardiacaccia cova contro di lui un cerro malanimo per una vecchia questione di bracconaggio, e il carrettiere non lo ha cerro in simpatia, perché deve sospettare che se la intenda con la sua giovane moglie. Il ragazzo, quando gli ho parlato, continuava a giurare d’essere innocente, ma non è riuscito a difendersi dalle accuse dei due vecchi. Così l’ho fatto mettere sotto chiave, per poi mandarlo, con una mia lettera, davanti al giudice del nostro distretto.

« Il giudice è uno sciocco, e naturalmente fa soltanto quello che ritiene conforme ai miei desideri. Come niente potrebbe mandare il ragazzo ai lavori forzati condannandolo per incendio doloso, o farlo arruolare col pretesto che è un cattivo soggetto e un bracconiere. Se ritenesse che questo è il mio desiderio, sarebbe persino capace di rimetterlo in libertà.

« Stavo cavalcando nei campi, e guardavo il grano che era ormai quasi maturo per la mietitura, quando mi sono visto fermare da una donna, la vedova, la madre di Goske, la quale mi ha pregato di ascoltarla. Si chiama Anne-Marie. Voi la ricorderete, credo; vive nella casupola a est del villaggio. Anche lei, da queste parti, non ha una buona reputazione. Si dice che da ragazza abbia avuto un figlio di cui poi si è disfatta.

« Piangeva dirottamente da cinque giorni, e la sua voce era diventata così rauca che stentavo a capire le sue parole. Era vero, mi ha spiegato infine, che quel giovedì suo figlio era stato a Rødmose, ma non aveva fatto niente di male; ci era andato perché doveva vedere una persona. Era il suo unico figlio, lei invocava Dio onnipotente a testimone della sua innocenza, e si torceva le mani supplicandomi di salvarlo.

« Eravamo nel campo di segale che stiamo guardando adesso. È stato così che mi è venuta l’idea. Ho detto alla vedova: “Se in una sola giornata, dall’alba al tramonto, riuscite con le vostre mani a mietere questo campo, e il lavoro sarà ben fatto, io lascerò cadere l’accusa e voi riavrete vostro figlio. Ma se non ci riuscite, lui dovrà andarsene, e sarà ben difficile che possiate rivederlo”.

« Lei allora si è rialzata e ha misurato il campo con lo sguardo. Poi ha baciato il mio stivale in segno di gratitudine per la benevolenza che le avevo dimostrata ».

A questo punto il vecchio gentiluomo fece una pausa, e Adam gli domandò: « Quel ragazzo significava molto per lei? ». « È il suo unico figlio » disse lo zio. « Per lei significa il pane quotidiano e il bastone della sua vecchiaia. Si può ben dire che le è caro come la sua stessa vita. Come », soggiunse « in un ambiente più elevato, un figlio per suo padre significa il nome e la stirpe, e gli è caro quanto la vita eterna. Sì, quel figlio significa molto per lei. Perché la mietitura di quel campo rappresenta una giornata di lavoro per tre uomini, o tre giornate di lavoro per un uomo solo. Oggi, quando è sorto il sole, ha affrontato l’impresa. E adesso la potete vedere laggiù, in fondo al campo, con un fazzoletto azzurro sulla testa, con accanto l’uomo che ho incaricato di seguirla per accertarsi che faccia il lavoro senza alcun aiuto, e due o tre dei suoi amici che la stanno confortando ».

Adam guardò, e infatti vide tra le spighe una donna con un fazzoletto azzurro, e alcune altre figure.

Rimasero per un poco in silenzio. « Voi personalmente » disse infine Adam « credete che il ragazzo sia innocente? ». « Non sono in grado di dirlo » rispose lo zio. « Non ci sono prove. C’è soltanto la parola del guardacaccia e del carrettiere contro la parola del ragazzo. Se credessi all’una o all’altra versione, sarebbe sol tanto per un scelta casuale, o per simpatia. Il ragazzo » disse dopo un momento « era compagno di giochi di mio figlio, e, a quanto ne so io, di tutti i bambini era l’unico che gli piacesse o col quale andasse d’accordo ». « E secondo voi » domandò ancora Adam « lei può riuscire a soddisfare la vostra condizione? ». « Questo non sono in grado di dirlo » rispose il gentiluomo. « Una persona normale non ci riuscirebbe. Ma una persona normale non avrebbe mai accettato una condizione simile. Sono stato io a volere così . Non stiamo cavillando con la legge, Anne-Marie ed io ».

Per qualche minuto Adam seguì con lo sguardo i movimenti del gruppetto tra la segale. « Tornate a casa? » domandò. « No », rispose lo zio « credo che rimarrò qui finché non avrò visto la conclusione della faccenda ». « Fino al tramonto? » domandò Adam con stupore. « Sì » disse il vecchio gentiluomo. Adam disse: « Sarà una giornata lunga ». « Sì », disse lo zio « una giornata lunga. Ma » soggiunse mentre Adam si alzava per andarsene « se, come avete detto, avete con voi quella tragedia di cui parlavate, sarei contento se me la lasciaste, così mi terrebbe compagnia ». Adam gli porse il libro.

Lungo il viale incontrò due domestici che portavano al padiglione, su grandi vassoi d’argento, la cioccolata mattutina del vecchio gentiluomo.

Il sole adesso si levava nel cielo, e man mano che il caldo si faceva più intenso i tigli spandevano la loro dovizia di profumo, e il giardino era colmo di un’insuperata, inimmaginabile fragranza. Verso mezzogiorno, l’ora più tranquilla, il lungo viale risonava come una cassa armonica di un cupo, incessante sussurro: il ronzio di milioni di api che si tenevano aggrappate ai penduli, gremiti grappoli di fiori e si ubriacavano di beatitudine.

In tutta la breve vita dell’estate danese, non c’è momento più sontuoso o piú fragrante della settimana in cui fioriscono i tigli. Il profumo celestiale va alla testa e al cuore; sembra congiungere i campi della Danimarca ai campi elisi; se al tempo stesso di fieno, di miele e d’incenso, e per metà ricorda il paese delle fate, per metà lo scaffale di una farmacia. Il viale si trasformava in un edificio mistico, una cattedrale delle driadi, profusamente adorna, fuori, di innumerevoli fronzoli, carica dalla sommità alla base e dorata dal sole. Ma dietro le pareti, le volte erano piacevolmente oscure e fresche, come santuari d’ambrosia in un mondo igneo e abbacinante, e lì, dentro, il terreno era ancora umido.

Su nel maniero, dietro le seriche tende delle due finestre sulla facciata, la giovane signora della tenuta lasciò penzolare i piedi dall’ampio letto e li infilò in due pantofoline dal tacco alto. La camicia adorna di merletti era un po’ a sghimbescio, le lasciava scoperti un ginocchio e la spalla; sui capelli, attorcigliati per la notte sui diavoletti, c’era ancora la brina della cipria di ieri, e il suo viso rotondo era arrossato dal sonno. Andò sino al centro della stanza e là ristette, con un’espressione estremamente seria e meditabonda; eppure non pensava a nulla. Ma nella sua mente stava passando una lunga processione di immagini, e senza nemmeno rendersene conto lei si sforzava di metterle in ordine, come sempre in ordine erano state le immagini della sua esistenza.

Era cresciuta a Corte; era quello il suo mondo, e probabilmente non c’era in tutto il paese una creaturina più squisitamente e innocentemente addestrata alla misura superba di un palazzo. Per concessione della vecchia Regina Madre, portava il suo nome e quello della sorella del Re, la Regina di Svezia: Sophie Magdalena. Proprio tenendo conto di tutto questo il marito, quando si era proposto di riconquistare la propria posizione nelle alte sfere, aveva scelto lei come sposa, prima per il figlio e poi per sé. Ai suoi tempi, invece, il padre della fanciulla, che aveva un incarico presso la Famiglia Reale e faceva parte della nuova aristocrazia di Corte, aveva fatto la stessa cosa ma al contrario, sposando una gentildonna di campagna per inserirsi nell’antica nobiltà di Danimarca. La fanciulla aveva il sangue di sua madre nelle vene. La campagna era stata per lei una grande sorpresa e una immensa gioia.

Per entrare nel cortile del suo castello doveva attraversare l’aia, poi il massiccio androne di pietra che dava nel granaio, dove per alcuni secondi le ruote della sua carrozza destavano un rimbombo di tuono. Doveva rasentare le stalle e il cavallo finto – dal quale talvolta un furfante condannato alla berlina la guardava con occhi tristi – e poteva capitarle di spaventare una lunga fila di oche schiamazzanti, o di passare accanto al grosso toro minaccioso, tirato per un anello tra le nari, che in muto furore pestava il suolo con gli zoccoli. Per lei, all’inizio, era ogni volta una piccola emozione e una specie di gioco. Ma dopo un po’ tutti questi esseri e questi oggetti, che le appartenevano, le parvero diventare una parte di lei. Le sue ave, le vecchie gentildonne di campagna della Danimarca, erano donne robuste che non si lasciavano certo spaventare dalle condizioni atmosferiche; ora anche lei camminava sotto la pioggia, e nel suo abbraccio rideva e scintillava come un albero verde.

Aveva preso possesso della sua nuova, grande casa in un periodo in cui tutto il mondo sbocciava, si accoppiava e si riproduceva. I fiori, che finora aveva visti soltanto raccolti in mazzi e festoni, spuntavano dalla terra tutt’intorno a lei; gli uccelli cantavano su tutti gli alberi. Gli agnellini appena nati le sembravano più incantevoli delle sue bambole di un tempo. Dalla scuderia di cavalli prussiani del marito le portavano i puledri perché desse loro il nome; e lei ristava a guardarli mentre premevano il tenero muso contro il ventre della madre per succhiare il latte. Fino allora, di tutte queste strane vicende aveva avuto soltanto un vago sentore. Adesso le era accaduto di vedere, da un sentiero nel parco, lo stallone impennato e nitrente sulla giumenta. Tutta questa esuberanza, tutta questa voglia sensuale e questa fecondità si dispiegavano davanti ai suoi occhi come per compiacerla.

E in tutto quel rigoglio, a lei era toccato un marito anziano che la trattava con cerimonioso rispetto perché doveva dargli un erede. Questo era il patto; lei lo aveva saputo sin dal principio. Suo marito, se ne rendeva conto, stava facendo del suo meglio per adempiere la sua parte dell’ accordo, e per quanto la riguardava, lei era molto leale di indole, ed educata in modo severo. Non si sarebbe sottratta al suo obbligo. Aveva però la sensazione che nella sua vita così dignitosa ci fosse una discordanza, o una certa incompatibilità, e questo le impediva di essere felice come aveva sperato.

Dopo un certo tempo la sua contrarietà prese una strana forma: quasi la consapevolezza di un’assenza. Con lei ci sarebbe dovuto essere qualcuno che invece non c’era. Ella non era affatto brava ad analizzare i propri sentimenti; a Corte non si aveva mai il tempo per queste cose. Ora che le succedeva più spesso di restare sola, tentava un po’ incerta di esplorare la propria mente. Cercò di mettere suo padre in quel posto vuoto, poi le sue sorelle, il suo maestro di musica, un cantante italiano che aveva ammirato; ma le sembrava che nessuno di loro lo colmasse. Qualche volta si sentiva più sollevata, e si convinceva che la sventura doveva essersi allontanata da lei. E poi succedeva di nuovo, se le capitava di essere sola, o anche in compagnia del marito, e persino tra le sue braccia; ecco che tutto intorno a lei prorompeva: Dove? Dove? ed ella volgeva gli occhi angosciati per la stanza in cerca della persona che ci sarebbe dovuta essere e che non era venuta.

Quando. sei mesi prima le avevano detto che il suo giovane fidanzato era morto e che al suo posto lei avrebbe sposato il padre, quella notizia non l’aveva rattristata. Il giovane corteggiatore, quell’unica volta che lo aveva visto, le era parso infantile e scialbo; il padre sarebbe stato un marito più autorevole. Ora, alle volte, le era accaduto di pensare al ragazzo morto e di domandarsi se con lui la vita sarebbe stata più lieta. Ma ben presto aveva cancellato la sua immagine, e quelle. per lo sventurato fanciullo, furono le ultime chiamate sul proscenio di questo mondo.

Su una parete della sua stanza c’era un lungo specchio. Mentre si guardava, nuove immagini affioravano. Il giorno prima. mentre era in carrozza col marito. aveva visto in lontananza un gruppo di ragazze del villaggio che facevano il bagno nel fiume, e il sole splendeva su di loro. Per tutta la vita lei si era aggirata tra ignude divinità di marmo, ma sino allora non le era mai venuto in mente che le persone di sua conoscenza erano anch’esse nude sotto i loro corsetti c strascichi, panciotti e calzoni di raso, che in realtà lei stessa si sentiva nuda sotto le vesti. Ora, davanti allo specchio, con mosse esitanti slegò i nastri della camicia e la lasciò cadere sul pavimento.

La stanza era in penombra dietro le tende chiuse. Nello specchio il suo corpo era argenteo come una rosa bianca; soltanto le guance e la bocca e le punte delle dita e dei seni avevano un lieve tocco di carminio. Il suo torso snello era stato modellato dalle stecche di balena che lo avevano rigidamente stretto sin dalla fanciullezza; sopra il ginocchio esile e ben tornito un leggero incavo segnava il punto della giarrettiera. Le sue membra erano così rotonde da dare l’impressione che a tagliarle in un ‘punto qualunque con un coltello affilato si sarebbe ottenuta un’incisione trasversale perfettamente circolare. I fianchi e il ventre erano tanto lisci che il suo stesso sguardo vi scivolò sopra cercando un appiglio. Scoprì che non era affatto come una statua, e alzò le braccia al di sopra del capo. Si volse per vedersi di spalle, le curve sotto il punto della vita erano ancora arrossate dalla pressione del Ietto. Richiamò alla mente certe storie di ninfe e di dee, ma le parvero tutte cose remotissime, e allora pensò di nuovo alle contadinotte nel fiume. Per qualche minuto le idealizzò trasformandole in compagne di giochi, addirittura in sorelle, visto che le appartenevano come il prato e il fiume stesso. E subito dopo tornò ad invaderla quel senso di desolazione, un horror vacui che era come un dolore fisico. Ma sì, ma sì, ora qualcuno sarebbe dovuto essere lì con lei, l’altra se stessa, come l’immagine nello specchio, ma più vicina, più forte, viva. Non c’era nessuno, intorno a lei l’universo era vuoto.

Un improvviso, acutissimo bruciore sotto il ginocchio la strappò alle sue fantasticherie, e ridestò in lei gli istinti venatori della sua stirpe. Si inumidì la punta di un dito sulla lingua, abbassò lentamente la mano e poi, con mossa rapida, colpì il punto dolente. Sentì contro la pelle serica il piccolo corpo duro dell’insetto, lo premette col pollice e poi, trionfalmente, raccolse tra le punte delle dita il minuscolo prigioniero. Rimase immobile, come se meditasse sul fatto che l’unica creatura pronta a rischiare la propria vita per la levigatezza della sua pelle e il suo sangue dolce era una pulce.

La sua cameriera aprì la porta ed entrò nella stanza con una bracciata di indumenti che lei avrebbe indossati quel giorno – camicia, busto, crinolina e sottovesti. Ricordò che in casa c’era un ospite, il nuovo nipote appena giunto dall’Inghilterra. Il marito le aveva raccomandato di essere gentile con quel giovane parente, diseredato, per così dire, dalla sua presenza nella casa. Avrebbero cavalcato insieme per la tenuta.

Nel pomeriggio il cielo non era più azzurro come al mattino. Enormi nuvole vi si accumularono lentamente, e tutta l’ampia volta celeste divenne incolore, come se si fosse dispersa in vapori intorno al disco incandescente del sole allo zenit. Verso occidente, un brontolio di tuono corse lungo tutto l’orizzonte; una o due volte la polvere delle strade si sollevò in alti turbini. Ma i campi, le colline e i boschi erano immobili come un paesaggio dipinto.

Adam percorse il viale sino al padiglione, e là trovò lo zio, vestito di tutto punto, con le mani sul bastone e gli occhi sul campo di segale. Accanto a lui c’era il libro che gli aveva dato. Adesso il campo brulicava di gente. Gruppetti di persone sostavano qua e là, e una lunga fila di uomini e di donne avanzava lentamente verso il giardino lungo la linea della segale falciata.

Il vecchio gentiluomo salutò il nipote con un cenno del capo, ma non disse parola né mutò posizione. Adam rimase in piedi al suo fianco, immobile come lo zio.

Quello per lui era scaro un giorno stranamente inquietante. Non appena aveva rivisto i vecchi luoghi, le dolci melodie dei campi lontani avevano colmato i suoi sensi e la sua memoria, e si erano mescolate con i nuovi, ammalianti motivi del presente. Era tornato in Danimarca, non più bambino ma giovanotto, con un più acuto senso del bello, con tante cose da dire di altri paesi, ma ancora vero e autentico figlio di quella terra e incantato dalla sua bellezza come mai prima di allora.

Ma fra tante queste armonie, la tragica e crudele storia che quel mattino il vecchio gentiluomo gli aveva raccontata, e la triste gara che, come sapeva, si stava svolgendo a pochi passi da loro, giù nel campo di segale, avevano fatto risonare, come il battito sordo e intermittente di un tamburo felpato, un’eco sgomentante. E lui tornava a sentirla di continuo, tanto che si era accorto di cambiar colore e di rispondere con aria assente. Quell’eco portava in sé un senso di pietà per tutti coloro che vivevano, una pietà così profonda come non l’aveva mai provata prima. Quando era uscito a cavallo con la giovane zia, e il loro percorso rasentava la scena del dramma, aveva avuto cura di galoppare tra lei e il campo per non farle vedere quello che vi stava accadendo, evitando così che ella gli domandasse qualche cosa in proposito. E per la stessa ragione, al ritorno, aveva scelto la strada che si inoltrava nel bosco verde e fitto.

Per tutto il giorno gli tenne compagnia la figura del vecchio gentiluomo come gli era apparsa al levar del sole, più dominante ancora che la figura della donna che si destreggiava col falcetto per la vita del figlio. E giunse a meditare sulla parte che quella figura solitaria e decisa aveva avuta nella sua vita. Da quando era morto suo padre, essa aveva rappresentato per il fanciullo la legge e l’ordine, saggezza di vita e benevola protezione. Che cosa avrebbe fatto, pensò, se dopo diciotto anni questi sentimenti filiali si fossero dovuti mutare e la figura del suo secondo padre avesse preso ai suoi occhi un aspetto orribile, diventando quasi il simbolo della tirannia e dell’oppressione del mondo? Che cosa avrebbe fatto se fossero finiti su posizioni opposte, come due avversari?

Ma insieme si sentiva invadere da un inesplicabile allarme, un timore sinistro per il vecchio. Perché la dea Nemesi non poteva davvero essere molto lontana. Quell’uomo governava il mondo intorno a lui da molti più anni di quanti ne contasse la vita stessa di Adam, e nessuno lo aveva mai contraddetto. Nel corso di quegli anni in cui aveva girato l’Europa con la sola compagnia di un fanciullo del suo stesso sangue, e ammalato, aveva imparato a distaccarsi dall’ambiente che lo circondava e a chiudersi ermeticamente alla vita esterna, ed era diventato tetragono alle idee e ai sentimenti degli altri esseri umani. Strane fantasie potevano essergli passate per la mente, tanto che aveva forse finito col vedersi come l’unica persona dotata di un’esistenza reale, mentre il mondo gli era apparso come un povero e vano gioco d’ombre senza alcuna sostanza.

Ora, per caparbietà senile, teneva in pugno la vita di creature più semplici e più deboli di lui, la vita di una donna, servendosene per i suoi fini, e non temeva minimamente la legge del contrappasso. Possibile che non sapesse, pensava il giovane, che al mondo c’erano potenze molto diverse dal breve potere di un despota, e ben più formidabili?

Via via che il caldo si faceva più afoso, anche nel suo animo andava crescendo quel presagio di un disastro imminente, al puma che egli finì col sentire che la catastrofe minacciava non soltanto il vecchio gentiluomo ma anche la casa, il loro nome e lui stesso. E gli parve di dover gridare un avvertimento, prima che fosse troppo tardi, all’uomo che gli era stato caro.

Ma adesso che era di nuovo accanto allo zio, la verde serenità del giardino era così profonda che egli non trovò la voce per gridare. Invece continuava a ronzargli nella testa un’aria francese che la zia gli aveva cantata in casa – « C’est un trop doux effòrt … ». Adam conosceva piuttosto bene la musica; aveva già sentito quell’aria, a Parigi, ma non cantata così soavemente.

Dopo qualche minuto domandò: « Quella donna riuscirà a farcela? ». Lo zio aprì le mani. « È incredibile », rispose con animazione « ma si direbbe proprio che possa farcela. Se contate le ore trascorse dall’ alba sino a questo momento, e quelle che devono ancora passare sino al tramonto, vedrete che le resta la metà del tempo che è già trascorso. E guardate! ha falciato due terzi del campo. Certo, dobbiamo tener conto che più il lavoro va avanti e più le sue forze si logorano. E in fondo, sarebbe davvero inutile che voi o io scommettessimo sull’esito di questa faccenda; dobbiamo soltanto stare a vedere. Sedetevi, e fatemi compagnia in questa mia attesa ». Adam, non senza un po’ di riluttanza, si sedette.

« Ed ecco il vostro libro », disse lo zio, prendendo il volume dalla panca « che mi ha fatto passare benissimo il tempo. È grande poesia, ambrosia per l’orecchio e per il cuore. E insieme col nostro discorso di stamane sulla divinità, mi ha dato molti argomenti di meditazione. Ho riflettuto sulla legge del contrappasso ». Fiutò una presa di tabacco, poi prosegui. « Una nuova epoca » disse « si è fatta un dio a propria immagine e somiglianza, un dio emotivo. E adesso state già scrivendo una tragedia su di lui ».

Adam non aveva nessuna voglia di imbarcarsi con lo zio in una discussione sulla poesia, tuttavia temeva in certo qual modo anche il silenzio, sicché disse: « Ma può anche darsi, allora, che a noi la tragedia appaia, nello schema della vita, come un nobile e divino fenomeno ».

« Oh, sì », disse lo zio con tono solenne « un fenomeno nobile, il più nobile che vi sia sulla terra. Ma soltanto della terra, mai divino. La tragedia è il privilegio dell’uomo, il suo più alto privilegio. Lo stesso Dio della Chiesa Cristiana, quando volle vivere la tragedia, dovette assumere un corpo umano. E anche così », aggiunse in tono pensieroso « la tragedia non fu del tutto valida, come sarebbe divenuta se l’eroe fosse stato, nel vero senso della parola, un uomo. La divinità di Cristo, le diede una nota divina, il momento della commedia. Per la natura stessa delle cose, la vera parte tragica toccò agli esecutori, non alla vittima. No, nipote mio, non dovremmo adulterare i puri sentimenti del cosmo. La tragedia dovrebbe continuare a essere il diritto delle creature umane, soggette, per loro condizione o per loro natura, all’atroce legge della necessità. Per loro la tragedia è salvezza e beatificazione. Ma gli dèi, che noi dobbiamo ritenere ignari della necessità e impossibilitati a capirla, non possono conoscere il tragico. Secondo la mia esperienza, quando se lo trovano sotto gli occhi hanno il buon gusto e il decoro di starsene fermi e di non interferire.

« No », disse dopo una pausa « la vera arte degli dèi è il comico. Il comico è una condiscendenza del divino verso il mondo dell’uomo; è la visione sublime, che non può essere studiata, ma deve essere sempre celestialmente concessa. Nel comico gli dèi vedono la loro natura riflessa come in uno specchio, e mentre il poeta tragico è vincolato da leggi severe, all’artista comico essi concedono una libertà illimitata quanto la loro. Non sottraggono ai suoi lazzi nemmeno la loro stessa esistenza. Giove può ben favorire Luciano di Samosata. Finché la derisione è di gusto genuinamente divino, si può anche deridere gli dèi e restare un vero devoto. Ma quando ci si fa prendere dalla compassione e si soffre col proprio dio, lo si nega e lo si annienta, e questa è la più orribile forma di ateismo.

« E anche qui sulla terra », continuò « noi, che siamo i delegati degli dèi e ci siamo affrancati dalla tirannia della necessità, dovremmo lasciare il monopolio della tragedia ai nostri vassalli, e per noi accennare con grazia il comico. Soltanto un padrone rozzo e crudele – un arricchito, insomma – si farà beffe della necessità dei suoi servi o li obbligherà a subire il comico. Soltanto un padrone pavido e pesante, un petit-maître, può aver paura del ridicolo. Infatti », disse, concludendo il suo lungo discorso « quella stessa fatalità che quando colpisce un borghese o un contadino diventa tragedia, con l’aristocratico si sublima nel comico. Proprio per la grazia e lo spirito di questa nostra capacità di accettare, si distingue la nostra aristocrazia ».

Adam non poté trattenere un lieve sorriso, nell’ascoltare l’apoteosi del comico dalle labbra di quell’impettito e cerimonioso profeta. Con quel sorriso ironico, e per la prima volta, lui si stava distaccando dal capo della sua casata.

Un’ombra cadde sul paesaggio. Una nuvola aveva coperto il sole; la campagna, sotto di essa, mutò colore, sbiadì e si fece tutta scialba, e per ‘un minuto perfino i suoi parvero cancellarsi.

« Ah », esclamò il vecchio gentiluomo « se adesso si mette a piovere e la segale si bagna, Anne-Marie non riuscirà a finire in tempo. Ma chi sta arrivando, ora? » soggiunse, e girò un poco la testa.

Preceduto da un lacchè, veniva giù per il viale un uomo in stivali da caccia, con un panciotto a righe adorno di bottoni d’argento e il cappello in mano. Fece un profondo inchino, prima al vecchio gentiluomo, poi ad Adam.

« Il mio castaldo » disse il vecchio gentiluomo. « Buongiorno, castaldo. Che notizie mi portate? ». Il castaldo fece un gesto di sconforto. « Soltanto brutte notizie, mio signore » rispose. « E quali sarebbero? » domandò il suo padrone. « Nei campi » disse il castaldo con aria d’importanza « nessuno fa niente, e l’unica falce al lavoro è quella di Anne-Marie in questo campo di segale. La mietitura si è arrestata; sono tutti lì a far codazzo alla donna. Per essere il primo giorno della mietitura, non c’è proprio da stare allegri ». « Sì, lo vedo anch’io » disse il vecchio gentiluomo. Il castaldo continuò: « Li ho presi con le buone », disse « e li ho presi con le cattive; ma non c’è niente da fare. Come se fossero tutti sordi ».

« Mio buon castaldo », disse il vecchio gentiluomo « lasciateli in pace; che facciano come gli pare. Può anche darsi che, in fin dei conti, questa giornata sia per loro più proficua di tante altre. Dov’è il ragazzo, Goske, il figlio di Anne-Marie? ». « L’abbiamo messo nella stanzetta accanto al granaio » disse il castaldo. « No, fatelo portare qui », disse il vecchio gentiluomo « che veda sua madre al lavoro. Ma voi che cosa ne dite, Anne-Marie ce la farà a finire il campo all’ora dovuta? ». « Se volere che ve lo dica, mio signore », rispose il castaldo « io credo che ce la farà. Chi l’avrebbe mai detto? È una donna così minuta! E oggi è una giornata calda come … be’, come non ne ricordo altre. Nemmeno io, nemmeno voi, mio signore, saremmo riusciti a fare quello che ha fatto oggi Anne-Marie ». « No, no, noi non ci saremmo riusciti, castaldo » disse il vecchio gentiluomo.

Il castaldo tirò fuori un fazzoletto rosso e si asciugò la fronte, un po’ più calmo dopo aver dato sfogo alla sua collera. « Se tutti lavorassero come sta lavorando la vedova », osservò con amarezza « la terra ci darebbe un buon guadagno ». « Sì » disse il vecchio gentiluomo, e cadde in una sorta di meditazione, come se stesse calcolando il guadagno che avrebbe potuto trarne. « Tuttavia », disse « per quanto riguarda profitti e perdite, la faccenda è più complicata di quanto non sembri. Voglio dirvi una cosa che forse voi non sapete: la più famosa tela che sia mai stata tessuta veniva disfatta ogni notte. Ma venite, » soggiunse « ormai Anne-Marie è molto vicina. Andiamo a dare un’occhiata al suo lavoro ». E, dette queste parole, si alzò e si mise il cappello.

« La nuvola si era allontanata; i raggi del sole bruciavano di nuovo l’ampia distesa dei campi, e quando il gruppetto di uomini usci dall’ombra degli alberi, l’afa era opprimente come una cappa di piombo; i loro visi erano madidi di sudore, le loro palpebre dolevano. Lungo il sentiero angusto dovettero procedere in fila indiana, il vecchio gentiluomo per primo, tutto vestito di nero, e il lacchè, con la sua livrea di colore acceso, per ultimo.

Era proprio vero che il campo formicolava di gente come un mercato; ci saranno state più di cento persone. Ad Adam quella scena richiamò alla mente le illustrazioni della sua Bibbia: l’incontro tra Esaù e Giacobbe nell’Idumea, o i mieti tori nel campo d’orzo di Boaz vicino a Betlemme. Alcuni sostavano lungo il margine del campo, altri facevano ressa in piccoli gruppi intorno alla donna che falciava, e altri ancora la seguivano passo passo, legando i covoni là dove lei aveva tagliato le spighe, come se con questo pensassero di aiutarla, o come se volessero a tutti i costi partecipare al suo lavoro. Una donna più giovane, con un secchio sul capo, si teneva sempre al suo fianco, e con lei una frotta di ragazzetti. Uno di questi fu il primo a scorgere il signore del feudo e il suo seguito, e tese la mano a indicarlo. Quelli che stavano legando i covoni lasciarono cadere tutto al suolo, e quando il vecchio si fermò, parecchi dei presenti gli si strinsero intorno.

La donna sulla quale sino a quel momento si erano fissati tutti gli sguardi – una figura minuscola su quel grande palcoscenico – avanzava con passo lento e malfermo, piegata in due come se stesse camminando sulle ginocchia, e incespicando di continuo. Il fazzoletto azzurro che portava in testa le era scivolato all’indietro; il sudore le aveva appiccicato sul cranio i capelli grigi, impiastrati di polvere e di fuscelli. Si vedeva chiaro che per lei la folla assiepata tutt’intorno non esisteva nemmeno, e all’arrivo di quei nuovi spettatori non girò una sola volta né la resta né lo sguardo.

Tutta assorta nel suo lavoro, continuava a protendere la mano sinistra per afferrare una manciata di spighe, e la mano destra armata di falce per tagliarle rasente al suolo, a strappi vacillanti e incerti, come le bracciate di un nuotatore stanco. Il suo percorso la portò così vicino ai piedi del vecchio gentiluomo che la sua ombra cadde su di lei. In quell’istante ella ebbe uno sbandamento che la fece piegare da una parte, e la donna che la seguiva si tolse il secchio dal capo e glielo accostò alle labbra. Anne-Marie bevve senza allentare la stretta della mano sul manico della falce, e l’acqua le scorse giù dagli angoli della bocca. Un bambino accanto a lei si piegò di scatto su un ginocchio, le afferrò le mani nelle sue, e tenendogliele ferme e guidandole, falciò una manciata di segale. « No, no », disse il vecchio gentiluomo « non devi farlo, ragazzo; lascia che Anne-Marie faccia in pace il suo lavoro ». Al suono della sua voce la donna, barcollando, alzò la faccia verso di lui.

La faccia ossuta e bruciata dal sole era striata di sudore e di polvere; gli occhi erano offuscati. Ma nell’espressione di quel viso non c’era la minima traccia di paura o di sofferenza. In realtà, tra tutti i volti gravi e preoccupati intorno a lei, il suo era l’unico perfettamente calmo, sereno e mite. La bocca era serrata a formare una linea sottile, un lieve sorriso un po’ sdegnoso, arguto, paziente, come quello che si può vedere sulla faccia di una vecchia intenta a filare o a far la maglia, alacre nel suo lavoro, e contenta di farlo. E non appena la donna più giovane si rimise sul capo il secchio, lei subito riprese a falciare, con una bramosia tenera e ardente, come quella di una madre che si stringa il suo bambino al seno. Come un insetto che si arrabatta nell’erba alta, o come un piccolo vascello nel mare in tempesta, lei avanzava come dando di cozzo, il viso tranquillo di nuovo intento al suo compito.

La folla degli spettatori, e con essa il piccolo gruppo venuto dal padiglione, tutti avanzavano di pari passo con lei, lentamente, come tirati da una corda. Il castaldo, che si sentiva pesare addosso quel silenzio profondo del campo, disse al vecchio gentiluomo: « Quest’anno la segale sarà più abbondante dell’anno scorso » e non ottenne risposta. Ripeté quella frase ad Adam, e infine al lacchè, il quale non ritenne degno di lui uno scambio di idee sui problemi agricoli e si limitò a schiarirsi la voce. Dopo un poco il castaldo tornò a rompete il silenzio. « C’è il ragazzo » disse, e lo indicò col pollice « L’hanno portato qui ». In quell’istante la donna cadde a faccia avanti, e le persone più vicine la risollevarono.

Tutt’a un tratto Adam si fermò, e si coprì gli occhi con la mano. Senza voltarsi, il vecchio gentiluomo gli domandò se il gran caldo lo infastidisse. « No », disse Adam « ma aspetta te un momento. Lasciate che vi parli ». Lo zio si fermò, con la mano sul bastone e gli occhi fissi davanti a sé, come se gli rincrescesse di doversi fermare.

« In nome di Dio », proruppe il giovane in francese « non costringete quella donna a continuare ». Ci fu una breve pausa. « Ma io non la costringo, amico mio » disse lo zio nella stessa lingua. « Ella è libera di smettere quando vuole ». « A costo della vita del figlio, però » tornò a gridare Adam. « Non vedete che sta per morire? Voi non sapete quello che state facendo, e nemmeno quello che una cosa simile può attirarvi sul capo ».

Il vecchio gentiluomo, stupito da quell’inaspettato rimprovero, dopo un attimo si volse a fronteggiare il nipote, e i suoi pallidi, limpidi occhi ne cercarono il viso con espressione di altera meraviglia. La sua lunga faccia di cera, incorniciata da due riccioli simmetrici, ricordava un poco, idealizzato e nobile, il muso di una vecchia pecora o di un montone. Egli fece segno al castaldo di proseguire. Anche il lacchè si allontanò di qualche passo, e lo zio e il nipote rimasero, per così dire, soli sul sentiero. Per un minuto nessuno dei due parlò.

« Qui, proprio nel punto dove siamo adesso », disse poi, con alterigia, il vecchio gentiluomo « ho dato ad Anne-Marie la mia parola ».

« Ma zio! » proruppe Adam. « Una vita è molto più importante persino della parola data. Ve ne supplico, ritirate quella parola, che è stata data per capriccio, come un estro. Vi sto pregando più nel vostro interesse che nel mio, però vi sarò grato per tutta la vita se acconsentirete alla mia preghiera ».

« A scuola », disse lo zio « avrete pure imparato che in principio ci fu la parola. Può anche darsi che sia stata pronunciata per capriccio, come un estro, di questo le Sacre Scritture non ci dicono nulla. Tuttavia è il principio del nostro mondo, la sua legge di gravitazione. Per un periodo della vita umana, la mia umile parola è stata il principio della terra sulla quale stiamo. E così fu, prima del mio tempo, la parola di mio padre ».

« Vi sbagliate » esclamò Adam. « La parola è creativa – è immaginazione, audacia e passione. Fu la parola a dare origine al mondo. Quanto sono più grandi di ogni legge repressiva o coercitiva queste forze che infondono la vita! Voi desiderate che la terra che stiamo guardando produca o dia frutti; non dovreste scacciarne le forze che promuovono e conservano la vita, né trasformarla in un deserto per mezzo della legge. E quando guardate i contadini, che sono più semplici di noi e più vicini al cuore della natura, che non analizzano i propri sentimenti, e la cui vita è tutt’uno con la vita della terra, non vi ispirano forse tenerezza, rispetto, persino reverenza? Questa donna è pronta a morire per suo figlio; accadrà mai, a voi o a me, che una donna sia disposta a dare la vita per noi? E se questo accadesse, ci sembrerebbe forse una tale inezia da non sentirei pronti a rinunciare, a nostra volta, a un dogma? ».

« Voi siete giovane » disse il vecchio gentiluomo. « Una nuova epoca sarà senza dubbio disposta ad applaudirvi. Io sono della vecchia scuola, vi ho citato testi che hanno mille anni. Noi, forse, non ci capiamo del tutto. Ma tra me e la mia gente, ne sono convinto, c’è un’ottima intesa. Anne-Marie potrebbe giustamente pensare che considero un’inezia la sua impresa, se adesso, all’undicesima ora, la annullassi con una seconda parola. Al suo posto lo penserei anch’io. Sì, nipote mio, se acconsentissi alla vostra preghiera e concedessi questa grazia, potrei forse anche accorgermi che la sua fede è tale da rendere vacuo il provvedimento, e non è escluso che la vedremmo ancora al lavoro, incapace di smettere, come una spola nel campo di segale, finché non l’avesse falciato tutto. Ma allora lei offrirebbe alla vista uno spettacolo orribile, sconvolgente, sarebbe una figura di indecorosa comicità, come un piccolo pianeta che corresse impazzito nel cielo dopo che fosse stata abolita la legge di gravitazione ».

« E se questo sforzo dovesse ucciderla, » esclamò Adam « la sua morte, e le conseguenze di quella morte, ricadranno sulla vostra testa ».

Il vecchio gentiluomo si tolse il cappello e, con delicatezza, si passò la mano sui capelli incipriati. « Sulla mia testa? » disse. « Sono stato a testa alta sotto molti uragani. Persino » aggiunse con orgoglio « contro le gelide bufere dei potenti. In che modo tutto ciò ricadrà sulla mia testa, caro nipote? ». « Io non ne so nulla » disse Adam, profondamente abbattuto. « Ho parlato per avvertirvi. Lo sa soltanto Dio ». « Amen » disse il vecchio gentiluomo con un sorrisi no soave. « Venite, continuiamo a camminare ». Adam trasse un profondo respiro.

« No » disse in danese. « Non posso venire con voi. Questo campo è vostro; qui accadrà quello che voi avete deciso. Ma io devo andarmene. Stasera vi prego di mettermi a disposizione una carrozza per andare in città. Perché non potrei dormire ancora una notte sotto il vostro tetto, che ho rispettato più che qualsiasi altro tetto sulla terra ». Tanti erano i sentimenti contrastanti suscitati da quelle parole nel suo animo che gli sarebbe stato impossibile esprimerli.

Il vecchio gentiluomo, che aveva già ripreso a camminare, si fermò di colpo, subito imitato dal lacchè. Per un minuto non disse parola, come se volesse dare ad Adam il tempo di padroneggiare le proprie emozioni. Ma le emozioni del giovane erano in tumulto e non volevano lasciarsi padroneggiare.

« Allora » disse il vecchio gentiluomo, parlando anche lui in danese « dobbiamo accomiatarci qui, nel campo di segale? Mi siete sempre stato caro, quasi quanto mio figlio. Ho seguito di anno in anno i progressi che facevate nella vita, e mi sono sentito orgoglioso di voi. Sono stato felice quando mi avete scritto che sareste tornato. Se adesso valete andarvene, vi faccio i miei auguri ». Passò il bastone dalla mano destra a quella sinistra e con espressione grave guardò il nipote dritto in viso.

Adam non incontrò i suoi occhi. Il suo sguardo era fisso sul paesaggio. Nel tardo e splendido pomeriggio stava riprendendo i suoi colori, come fa un dipinto quando lo si guarda con la luce giusta; nei prati i mucchietti neri di torba spiccavano ad uno ad uno, nitidi sull’ erba verde. Proprio quella mattina lui aveva salutato tutto questo con gioia, come un bambino che corra ridendo ad abbracciare la mamma; ora doveva già staccarsene, in disaccordo, e per sempre. E al momento del commiato tutto gli parve infinitamente più caro di quanto gli fosse mai stato, reso tanto più bello e solenne dalla prossima separazione da apparire come un luogo di sogno, un paesaggio del paradiso, al punto che lui si domandò se fosse veramente lo stesso. Ma sì – davanti a lui, ancora una volta, c’era il terreno di caccia dei tempi lontani. E là c’era la strada lungo la quale aveva galoppato quella mattina stessa.

« Ma una volta partito da qui, ditemi dove vi proponete di andare » domandò lentamente il vecchio gentiluomo. « Anch’io ho viaggiato molto, ai miei tempi. Conosco la parola commiato, il desiderio di andar via. Ma ho imparato per esperienza che, in realtà, quella parola ha un significato soltanto per il luogo e per le persone che uno lascia. Quando voi avrete lasciato la mia casa, e la faccenda sarà finita e conclusa, per lei – anche se sarà rattristata di vedervi andar via. Ma per chi va via è una cosa diversa, e non altrettanto semplice. Nel momento stesso in cui lascia un luogo, chi va via è già, per legge della vita, diretto verso un altro luogo di questa terra. Vi prego dunque di dirmi, in nome della nostra vecchia amicizia, in quale luogo vi proponete di andare quando partirete da qui. In Inghilterra? ».

« No » disse Adam. Sentiva in cuor suo che non sarebbe mai più potuto tornare in Inghilterra e alla vita piacevole e serena che vi aveva vissuto. L’Inghilterra non era abbastanza lontana; acque più profonde del Mare del Nord dovevano ormai separarlo dalla Danimarca. « No, in Inghilterra no » disse. « Andrò in America, nel nuovo mondo ». Per un istante chiuse gli occhi, cercando di raffigurarsi come sarebbe stata l’esistenza in America, col grigio Atlantico a dividerlo da questi campi e da questi boschi.

« In America?» disse lo zio, inarcando le sopracciglia. « Sì, ho sentito parlare dell’ America. Laggiù hanno la libertà, una grande cascata, selvaggi pellirosse. Sparano ai tacchini, ho letto, come noi spariamo alle pernici. Beh, se questo è il vostro desiderio, Adam, andate in America, e siate felice nel nuovo mondo ».

Per un poco rimase immobile, immerso nei suoi pensieri, come se avesse già spedito il giovanotto in America e lo avesse cancellato dalla propria vita. Quando infine parlò, le sue parole sonarono come il soliloquio della persona che osserva l’andirivieni delle cose, restando ferma.

« Laggiù » disse « mettetevi al servizio del potere, che vi offrirà qualcosa di meglio della possibilità di comprare, con la vostra vita, la vita di vostro figlio ».

Adam non aveva ascoltato i commenti dello zio sull’America, ma quell’epilogo tanto solenne destò la sua attenzione, Alzò gli occhi, Come se lo vedesse per la prima volta nella sua vita, la figura del vecchio gli apparve nella sua interezza, ed egli constatò quanto fosse piccolo, tanto più piccolo di lui, pallido, un esile, nero anacoreta sulla propria terra. Un pensiero gli attraversò la mente: « Che cosa terribile essere vecchi! ». L’orrore per il tiranno, e la sinistra sua paura per la sua sorte, che l’avevano ossessionato tutto il giorno, parvero svanire, e la sua compassione per tutto il creato si allargò ad includere anche la cupa figura che gli stava davanti.

Tutto il suo essere aveva invocato l’armonia. Ora, con la possibilità del perdono, di una riconciliazione, si sentì invadere da un senso di sollievo; ricordò confusamente Anne-Marie che beveva dal secchio che le avevano avvicinato alle labbra. Si tolse il cappello, come suo zio aveva fatto un momento prima – chi avesse visto di lontano quei due gentiluomini vestiti di scuro fermi sul sentiero, avrebbe pensato che stessero ripetutamente e rispettosamente salutandosi – e con un rapido gesto si liberò la fronte dai capelli. Di nuovo gli tornò alla mente il motivo udito nella serra:

Mourir pour ce qu ‘on aime

C’est un trop doux effort…

Rimase a lungo immobile e muro, strappò alcune spighe di segale, le tenne strette nel pugno e le guardò.

I sentieri della vita, pensò, gli apparivano come un viluppo ingarbugliato, un disegno complesso e tortuoso; né lui né alcun altro essere umano aveva il potere di dominarlo o di dirigerlo, In quell’arabesco si intrecciavano la vita e la morte, la felicità e il dolore, il passato e il presente. Tuttavia l’iniziato avrebbe potuto decifrarlo con la stessa facilità con cui lo scolaro decifra i nostri numeri – che al selvaggio devono apparire confusi e incomprensibili. E da questi elementi contrastanti nasceva la concordia. Tutto ciò che viveva era destinato a soffrire; il vecchio, che lui aveva giudicato severamente, aveva sofferto, mentre guardava morire il figlio e temeva l’estinzione del proprio essere. Anche lui sarebbe arrivato a conoscere il dolore, le lacrime e il rimorso, e, proprio grazie a loro, la pienezza della vita. Allo stesso modo, quella impresa disumana poteva essere, per la donna nel campo di segale, un corteo trionfale. Perché morire per la persona che si ama era una fatica così dolce che non ci sono parole per spiegarla.

Ora, pensandoci, capì che aveva cercato per tutta la vita l’unità delle cose, il segreto che collega i fenomeni dell’esistenza. Era stato proprio questo conflitto, quest’oscuro presagio, a paralizzarlo talvolta, immobile ed inerte, mentre giocava coi suoi compagni, o in altri momenti – nelle notti di luna, o in mare nella sua piccola imbarcazione – a rapirlo in un’estasi gioiosa. Mentre altri giovani, nei loro piaceri o nei loro amori, avevano cercato il contrasto e la varietà, lui aveva desiderato soltanto di comprendere appieno l’unicità del mondo. Se per lui le cose fossero andate diversamente, se il suo giovane cugino non fosse morto, e gli eventi accaduti dopo quella morte non lo avessero ricondotto in Danimarca, la sua ricerca della comprensione e dell’armonia lo avrebbe forse portato in America, e là forse le avrebbe infine trovate, nelle foreste vergini, di un nuovo mondo. E invece gli si erano rivelate proprio quel giorno, nel luogo dove aveva giocato da bambino. Come il canto è tutt’uno con la voce che lo modula, come la strada è tutt’uno con la meta, come gli amanti diventano una cosa sola nel loro amplesso, così l’uomo è una cosa sola col proprio destino, e deve amarlo come ama se stesso.

Alzò di nuovo lo sguardo verso l’orizzonte. Sentiva che, volendolo, avrebbe potuto scoprire che cosa mai, in quel luogo, avesse fatto nascere nel suo animo l’improvvisa concezione dell’universo. Ne aveva avuto il primo barlume quella mattina, quando aveva filoso-feggiato, con leggerezza e nel proprio interesse, su quella sua sensazione di appartenere a quel paese e a quella terra. Ma poi quel sentimento era cresciuto; era divenuto qualcosa di più possente, una rivelazione per la sua anima. Un giorno avrebbe indagato a fondo, perché la legge di causa ed effetto era uno studio meraviglioso ed affascinante. Ma non adesso. Quell’ora era consacrata a emozioni più intense, a una resa al fato e al volere della vita.

« No » disse infine. « Se lo desiderate, non me ne andrò. Resterò qui ».

In quel momento un lungo e forte rombo di tuono ruppe la quiete pomeridiana. Rimbombò per un poco tra le basse colline, e il giovane se ne sentì squassare il petto come se qualcuno lo avesse afferrato e scrollato tra le mani. Il paesaggio aveva parlato. Egli ricordò che dodici ore prima gli aveva fatto una domanda, quasi per gioco, senza saperne il perché. E adesso aveva avuto la risposta.

Che cosa ci fosse in quella risposta non lo sapeva; né volle approfondire. Con quella promessa fatta allo zio si era consegnato alle più possenti forze del mondo. Ora accadesse pure quel che doveva accadere.

« Grazie » disse il vecchio gentiluomo, e fece con la mano un piccolo gesto affettato. « Sono felice di sentirvelo dire. Non dobbiamo permettere che la differenza di età o di punti di vista ci divida. Nella nostra famiglia siamo stati sempre abituati a mantenere tra noi la fiducia e l’armonia. Mi avete dato una consolazione ».

Qualcosa nelle parole dello zio, ridestò vagamente nel cuore di Adam i presentimenti del pomeriggio. Egli li respinse; non voleva che turbassero la nuova, deliziosa felicità suscitata in lui dalla decisione di rimanere.

« Ora devo andare » disse il vecchio gentiluomo. « Ma non occorre che veniate con me. Domani vi racconterò com’è finita la faccenda », « No » disse Adam. « Tornerò al tramonto per assistere di persona alla sua conclusione ».

E tuttavia non tornò. Non perse mai di vista l’ora, e per tutto il pomeriggio la consapevolezza del dramma che si stava svolgendo, e la profonda angoscia e compassione con cui, nei suoi pensieri, lui lo seguiva, diedero al suo eloquio, ad ogni suo sguardo e gesto, un che di grave e di patetico. Ma anche nelle sale del castello, e persino seduto all’arpicordo sul quale accompagnava la zia nell’aria dell’Alceste, egli sentiva di essere al centro degli eventi come se stesse nel campo di segale, vicino a quegli esseri umani di cui adesso, in quel campo, si decideva la sorte. Anne-Marie e lui erano entrambi nelle mani del destino, e il destino, per strade diverse, avrebbe portato ciascuno di loro alla fine prestabilita.

In seguito ebbe modo di ricordare ciò che aveva pensato quella sera.

Ma il vecchio gentiluomo rimase. E nel tardo pomeriggio ebbe un’idea; fece venire al padiglione il suo cameriere personale, con l’aiuto del quale si cambiò d’abito, indossando un vestito di broccato che portava a Corte. Si fece infilare una camicia adorna di trina e protese le gambe sottili per farsi mettere le calze di seta e le scarpe con le fibbie. Così maestosamente abbigliato, cenò da solo – una cena frugale – ma accompagnò il pasto con una bottiglia di vino del Reno, per sostenere le proprie forze. Rimase per qualche tempo nel padiglione, un po’ abbandonato sulla sedia; poi, mentre il sole si avvicinava all’orizzonte, raddrizzò le spalle e si mise ancora una volta in cammino verso il campo.

Le ombre ora si stavano allungando, sfumate di azzurro lungo tutti i declivi all’est. Piccole chiazze azzurre si allargavano ai piedi degli alberi isolati in mezzo alle spighe, come a segnarne la collocazione, e mentre il vecchio percorreva il sentiero, lo seguiva un’ombra sottile e straordinariamente allungata. Una volta si fermò di colpo; gli era parso di sentir cantare un’allodola sul suo capo, un suono primaverile; la sua mente stanca non aveva una percezione chiara della stagione; gli sembrava di procedere, e di ristare, in una sorta di eternità.

La gente nel campo non era più silenziosa come nel pomeriggio. Molti parlavano tra loro ad alta voce, e una donna un po’ in disparte dagli altri piangeva.

Nel vedere il padrone, il castaldo gli si avvicinò. In preda a un grande turbamento, gli disse che con ogni probabilità la vedova avrebbe finito di mietere il campo in un quarto d’ora.

« Il guardiacaccia e il carrettiere sono qui? » gli domandò il vecchio gentiluomo. « Sono venuti cinque volte », disse il castaldo « e cinque volte sono andati via. E ogni volta hanno detto che non sarebbero tornati. Ma sono sempre tornati, e ora sono qui ». « E il ragazzo dov’è » domandò ancora il vecchio gentiluomo. « È con lei » disse il castaldo. « Gli ho dato il per messo di seguirla. Ha camminato accanto alla madre per tutto il pomeriggio, e adesso potete vederlo al suo fianco, laggiù ».

Ora Anne-Marie avanzava verso di loro in modo più uniforme, ma con estrema lentezza, come se ad ogni passo fosse lì lì per arrestarsi. Quella eccessiva languidezza, rifletté il vecchio gentiluomo, se ottenuta di proposito sarebbe stata un vero esempio di arte sopraffina – inimitabile e pieno di dignità; ci si poteva immaginare che avanzasse a quel modo, nel corso di una processione o di un rito religioso, l’Imperatore della Cina. Si fece ombra con la mano, perché il sole era ormai tramontato, e i suoi ultimi raggi da dietro l’orizzonte facevano danzare davanti ai suoi occhi una miriade di lievi, sfrenate scintille multicolori. Il tramonto inondava la terra e l’aria di un tale splendore che il paesaggio si era trasformato in un crogiolo di gloriosi metalli. I prati e i pascoli erano diventati d’oro puro; il campo d’orzo lì vicino, con le sue lunghe spighe, era un lago fluttuante di vivido argento.

Nel campo di segale non rimaneva che una piccola chiazza di spighe, quando la donna, messa in allarme dalIa luce mutata, volse leggermente il capo per guardare il sole. Ma non interruppe il suo lavoro: continuava ad afferrare e a falciare manciate di segale, l’una dopo l’altra, l’una dopo l’altra. Una grande agitazione, e un suono che pareva un sospiro profondo e ingigantito, percorsero la folla. Il campo adesso era mietuto da un capo all’altro. Soltanto la mietitrice non se n’era ancora resa conto; protese di nuovo la mano, e quando la vide vuota sembrò perplessa o delusa. Allora lasciò cadere le braccia lungo il corpo, e lentamente cadde in ginocchio.

Molte delle donne scoppiarono in lacrime, e tutti le si affollarono intorno, lasciando solo un piccolo spazio libero dalla parte dove era fermo il vecchio gentiluomo. Quel trovarseli tutt’a un tratto così vicini spaventò Anne-Marie, che ebbe un piccolo gesto d’inquietudine, come se temesse che le mettessero le mani addosso.

Il ragazzo, che le era rimasto accanto tutto il giorno, ora cadde in ginocchio vicino a lei. Nemmeno lui osava toccarla; stava lì con un braccio proteso dietro la schiena della madre e l’altro davanti, all’altezza delle clavicole, per esser pronto ad afferrarla se fosse caduta, e continuava a piangere forte. In quel momento il sole sparì all’orizzonte.

Il vecchio gentiluomo si fece avanti e con gesto solenne si tolse il cappello. La folla tacque, in attesa che dicesse qualcosa. Ma per un minuto o due lui rimase in silenzio. Poi, parlando molto lentamente, si rivolse alla donna.

« Vostro figlio è libero, Anne Marie » disse. Dopo una breve pausa, soggiunse: « Avete fatto un’ottima giornata di lavoro, che sarà ricordata per un pezzo ».

Anne-Marie alzò lo sguardo, ma non oltre le ginocchia del vecchio, ed egli capì che non aveva sentito le sue parole. Si volse al ragazzo. « Goske », disse gentilmente « riferisci a tua madre quello che ho detto ».

Il ragazzo aveva continuato a piangere dirottamente, tra accorati e rauchi singhiozzi. Dovette fare uno sforzo per frenarsi e riacquistare un ceno dominio di sé. Ma quando finalmente parlò, col viso contro il viso della madre, la sua voce era bassa, quasi impaziente, come se le stesse dando una notizia banale. « Sono libero, mamma » disse. « Hai fatto un’ottima giornata di lavoro che sarà ricordata per un pezzo ».

Al suono della sua voce lei alzò il volto verso di lui. Un lieve, blando stupore passò come un’ombra sui suoi tratti, ma lei non diede segno di aver udito, e la gente intorno cominciò a domandarsi se la stanchezza non l’avesse resa sorda. Ma dopo un attimo ella alzò la mano, lentamente, con gesto malcerto, annaspando nell’aria per arrivare al viso del fìglio, e gli toccò la guancia. La guancia era bagnata di lacrime, che parvero trattenere leggermente le punte delle sue dita, come se lei fosse incapace di vincere quella tenuissima resistenza o di ritrarre la mano. Per un minuto si guardarono in viso. Poi, con un gesto lento ed estenuato, ella si abbandonò in avanti sulla spalla del ragazzo, e lui la strinse tra le braccia.

La tenne così, premuta contro di lui, seppellendo il viso nei suoi capelli e nel fazzoletto, così a lungo che le persone più vicine, spaventate nel vedere il corpo della donna così minuto tra le sue braccia, si accostarono e, chinatesi, la liberarono dalla sua stretta. Il ragazzo le lasciò fare senza una parola né un gesto. Ma la donna che aveva preso Anne-Marie tra le braccia per rialzarla si volse verso il vecchio gentiluomo. « È morta » disse.

Quelli che avevano seguito Anne-Marie per tutto il giorno continuarono ad aggirarsi sul campo per molte ore, finché durò la luce della sera. e anche più a lungo. Molto tempo dopo che alcuni avevano portato via la morta su una barella improvvisata con dei rami d’albero, altri ancora andavano su e giù tra le stoppie, seguendo e misurando il suo percorso da un capo all’altro del campo di segale, e legando le ultime spighe là dove lei aveva concluso il suo lavoro.

Il vecchio gentiluomo rimase a lungo con loro, facendo ogni tanto qualche passo, poi tornando a fermarsi.

In seguito, nel punto dove la donna era morta, il vecchio signore fece piantare una stele con una falce scolpita sopra. Allora i contadini del luogo battezzarono quel campo di segale « Il campo del dolore ». E quando la storia della donna e di suo figlio era già stata dimenticata da molto tempo, quel campo era ancora conosciuto con quel nome.

tratto da Karen Blixen, Racconti d’inverno, trad. it. Adriana Motti, Milano 1981.

Titolo originale della raccolta Winter’s Tales (del racconto Sorrow-Acre); prima edizione New York 1942.

Archiviato in:Danimarca, Karen Blixen, Paesaggi letterari, Paesaggio, Viale di tigli Contrassegnato con: Danimarca, Il campo del dolore, Karen Blixen, paesaggio, Racconti d'inverno, Sorrow-Acre, viale di tigli, Winter’s Tales

Salvatore Settis

15 Settembre 2021

Capitolo primo

Una bomba a orologeria

3. Tre paradossi

Proviamo a elencare, senza troppi commenti, tre dati di fatto che sono nel nostro Paese altrettanti elementi di forte contrasto.

Primo dato di fatto. L’Italia, questo lo sanno tutti, ha da anni il più basso tasso di crescita demografica d’Europa, e uno dei più bassi del mondo. Pochi si rendono conto, invece, che l’Italia ha il più alto tasso di consumo di territorio d’Europa: gli esempi dati sopra bastano a dimostrarlo. Sempre meno italiani, sempre più cemento sul suolo d’Italia: vogliamo riflettere su questo paradosso?

Secondo dato di fatto, secondo contrasto. L’Italia è fra i pochi Paesi al mondo che abbiano la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nella propria Costituzione (vedi sotto, cap. III.5); ha in merito un complesso di leggi organiche che sono fra le migliori del mondo, forse le migliori; eppure continua ogni giorno la selvaggia aggressione al paesaggio, disprezzando le norme o ‘interpretandole’ per piegarle alla speculazione edilizia. Dovremo dunque dire, come già Dante (Purgatorio, XVI, v. 97): «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?»

Terzo dato di fatto e terzo contrasto. L’Italia ha una lunga tradizione civile di riflessione su queste tematiche, produce in merito cospicua bibliografia storica e giuridica, inventa e dispiega ogni anno decine di convegni, seminari, conferenze, corsi di laurea e di master sul paesaggio, sul suo degrado, sulle ipotesi (finora astratte) di ripristinarlo o ‘restaurarlo’. Eppure, nella scuola italiana non si parla quasi mai di paesaggio (da una sommaria inchiesta risulterebbe che alla fine del liceo meno del 5% degli allievi ha mai discusso in aula questo tema). Nella scuola italiana, insomma, il paesaggio è solo quello dipinto dai pittori italiani e stranieri o descritto da poeti e romanzieri. Non è mai quello dentro il quale noi viviamo, che guardiamo dalla finestra, che ogni giorno vediamo deturpato e offeso. La mancanza di ogni tentativo di educazione alla storia e alla tutela del paesaggio non sarà fra le cause del suo veloce degrado?

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004-2008), consacrato da un vasto accordo politico fra governi di centro-destra e centro-sinistra (vedi sotto, cap. VI.6), prevede espressamente (art. 135) misure congiunte Stato-Regioni per la pianificazione paesaggistica, e in particolare per «la conservazione degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni paesaggistici», «il minor consumo del territorio», «la riqualificazione delle aree compromesse o degradate» e «il ripristino dei valori paesaggistici». Come mai questi principî non trovano applicazione? Per colpa di chi la normativa di tutela vigente (il Codice) non sta arrestando il degrado? Sono alcune delle domande a cui questo libro cercherà di dare risposta.

Sia però chiaro da subito che l’intrico normativo e la labirintica segmentazione delle competenze fra Stato, Regioni, Province e Comuni contribuiscono in modo determinante alla mancata tutela del paesaggio. Sono, di fatto, un aiuto al ‘partito del cemento’. Creano un’area grigia sempre più vasta, in cui l’incertezza del diritto non solo genera conflitti di interesse ed estende lo spazio dell’interpretazione (dando molto lavoro agli avvocati), ma legittima e promuove l’arbitrio del singolo regalandogli la sostanziale certezza dell’impunità. Sempre più spesso, Stato e Regioni promulgano leggi accettabili (talora impeccabili), ma con la certezza che verranno disattese nella prassi quotidiana. La norma tende a diventare un esercizio declamatorio privo di ogni effetto pratico, quella che fu la maestà della Legge ne risulta erosa, anzi svilita a basso espediente. Nascondendosi dietro la facile foglia di fico di una normativa più o meno ben fatta, anzi sbandierandola a ogni occasione, amministratori e politici perpetrano manovre e accordi sottobanco, trasformando il paesaggio e le città, corpo vivo della nostra memoria storica e della nostra identità, in merce di scambio elettoralistica. ‘Chiudono un occhio’ sulle malefatte che li circondano e pretendono che lo chiudiamo anche noi. Davvero ormai, in Italia come altrove, «la nostra esistenza dipende dalle decisioni di uomini che disprezziamo. Tutti gli osceni palazzinari di cui ci lamentiamo da anni, i comuni annaspanti nella corruzione, i costruttori senza regole e i politici imbroglioni sono stati prodotti da noi, sono parte di noi, e il nostro disprezzo non ci ha minimamente protetto dalle loro malefatte» (Orhan Pamuk).

Capitolo terzo

Cultura ed etica della tutela: una storia italiana

1. 2010: quantità e qualità.

«Secondo le stime dell’Unesco, l’Italia possiede fra il 60 e il 70% dei beni culturali mondiali» (rapporto Eurispes 2006). «L’Italia possiede il 60% delle ricchezze di tutto il mondo» (dichiarazione di un alto funzionario ministeriale)[1], «da sola vale il 55-60% del patrimonio culturale mondiale» (dichiarazione del sottosegretario Andrea Marcucci)[2]. «Il nostro Paese, notoriamente, possiede la maggior parte delle opere d’arte presenti nel mondo» (Sandro Bondi,  «Il Giornale», 22 novembre 2008). «Il 72% del patrimonio culturale in Europa si trova in Italia e ben il 50% di quello mondiale sta nel nostro Paese» (Silvio Berlusconi, conferenza stampa a Londra, 10 settembre 2008)[3].

Affermazioni come queste si rincorrono dai discorsi e interviste dei politici a Facebook, al blog di Beppe Grillo. Le percentuali cambiano sempre (i più modesti si accontentano del 40%), ma sono ritenute talmente solide e sicure (sotto l’usbergo dei ‘dati Unesco’) che le Regioni entrano in lizza fra loro. in questa Italia dei primati, ci saranno più beni culturali in Sicilia o in Toscana? «Il Ministro richiama i risultati di un’indagine svolta dall’Unesco, secondo cui il 60% dei beni culturali mondiali ha sede in Italia e, fra questi, il 60% in Magna Grecia e, fra questi ultimi ancora, il 60% in Sicilia» (dichiarazione del ministro La Loggia al Senato, 28 novembre 2001). Da un assessore toscano ho sentito dire non soltanto che l’Italia ha da sola il 60% dei beni culturali del mondo, ma che il 50% dei beni culturali italiani è concentrato in Toscana (che dunque avrebbe da sola il 30% del patrimonio culturale mondiale). Ma Roma da sola «ha il 30-40% dei beni culturali del mondo» secondo il vicesindaco Mauro Cutrufo («Il Messaggero», 18 agosto 2008). Queste e simili vanterie di ministri e assessori, con le percentuali che essi rivendicano alle proprie città e Regioni, sommiamole fra loro, e avremo un bel risultato: l’Italia da sola supera di gran lunga il 100% dei beni culturali del pianeta. Intorno a noi, il deserto.

Tali dati, o meglio l’insistenza con cui vengono ripetuti, sono sintomo di orgoglio nazionale e di consapevolezza della centralità del patrimonio culturale in Italia. Ma sono anche dimostrazioni, davvero desolanti, di irresponsabile superficialità e approssimazione. Tutti citano a memoria, pochi sembrano accorgersi che la percentuale varia di bocca in bocca come accade nei pettegolezzi, non nelle statistiche. Quasi nessuno dice che questi dati sono inesistenti, che non c’è mai stata «un’indagine svolta dall’Unesco» che abbia quantificato il patrimonio culturale del pianeta, assegnando a ogni Paese la propria quota percentuale. L’Italia svetta, è vero, in cima alle classifiche per il numero di furti d’arte e d’archeologia[4], ma non è poi un dato tanto lusinghiero. Siamo primi anche nella lista dei siti Unisco, ma i 44 siti italiani (su 890) corrispondono solo al 4,9% (la Spagna segue a un’incollatura).

Dov’è dunque il conclamato primato italiano, se proprio vogliamo cercarlo? Non è nella quantità (inafferrabile: i dati non esistono) ma nella qualità. L’Italia davvero si distingue da molti altri Paesi (anche d’Europa) per qualcosa di particolare. Per l’armoniosa integrazione città-campagna, patrimonio culturale–paesaggio, natura-cultura che ha forgiato le caratteristiche più peculiari dell’Italia e degli italiani, e che qua e là ancora resiste. Per la diffusione capillare del patrimonio culturale in ogni città, in ogni villaggio, in ogni valle: tale fu infatti la storia d’Italia da innescare importanti commesse artistiche e notevoli talenti per ogni dove, lasciando fino ad oggi tracce assai cospicue nonostante le depredazioni degli ultimi secoli. Infine, per il tasso medio di continuità d’uso in situ di statue, dipinti, monumenti, che traccia attraverso le generazioni un filo rosso ed è per ogni visitatore una straordinaria ragione di attrazione. Nel nostro Paese, i musei contengono solo una piccola minoranza dei beni culturali, che sono viceversa sparsi in chiese, palazzi, piazze, case, strade, ma anche nelle campagne lì intorno, per valli e colline: questa diffusione capillare fa il carattere speciale del patrimonio culturale italiano, e non essendo riproducibile ne assicura l’assoluta unicità. Inoltre, essa incarna un alto modello di conservazione contestuale. In città come Siena o Venezia, non ha il minimo senso stilare una lista degli edifici ‘importanti’, poiché tutto lo è. Una chiesa, un palazzo, è degno di essere conservato in sé, ma soprattutto in quanto appartiene a una trama fittissima della quale è parte insieme a cento altre chiese e palazzi. In questo insieme coerente e armonioso, che è il prodotto di un accumulo plurisecolare di ricchezza e di civiltà, il totale è maggiore della somma delle sue parti. È proprio dalla forza cogente della trama urbana che ogni singolo monumento, anche il più importante, prende significato e spessore. Se a Venezia si dovessero conservare solo gli edifici intorno a Piazza San Marco e distruggere il resto, anche la basilica di San Marco perderebbe la più gran parte del suo valore. Lo stesso è vero per i più grandi centri storici (come Napoli o Genova), per piccole città (come Feltre, Noto o Assisi), ma anche per l’insieme città-paesaggio, anche per migliaia di piccoli e piccolissimi villaggi, abbazie, castelli, ville di campagna.

Secolare armonia fra l’edificato e il paesaggio, diffusione capillare del patrimonio e dei valori ambientali, continuità d’uso: queste caratteristiche tanto celebrate e visibili non s’intendono se non si tien conto di un quarto fattore, il ‘modello Italia’ nella cultura della conservazione. Molto prima dell’unità nazionale, gli Stati italiani hanno cominciato a darsi regole in questo campo precedendo di molto ogni altro Paese, europeo e non; la cultura giuridica italiana ha introdotto l’idea che la protezione del patrimonio culturale non debba essere affidata solo alla buona volontà dei singoli, ma debba anzi essere regolata da norme e istituzioni pubbliche. L’Italia è stata la prima a considerare tutela del paesaggio e tutela del patrimonio culturale un tutto unico; è stato il primo Paese al mondo a porre questa duplice tutela fra i principî fondamentali della propria Costituzione. È a questa storia di lungo periodo che dobbiamo rifarci, se vogliamo capire perché tanto si è conservato fino ad oggi, e quanto grave sia, oggi e domani, il rischio di distruggerlo.

La diffusione capillare del patrimonio sul nostro territorio e la cultura italiana della tutela non sono due storie parallele che si sono intrecciate per caso. Al contrario, sono due aspetti della stessa storia, due facce della stessa moneta: se il nostro patrimonio è tanto abbondante e diffuso, è perché abbiamo fino a ieri saputo conservarlo; e abbiamo saputo conservarlo perché vi abbiamo riconosciuto il nostro orizzonte di civiltà, la nostra anima. Le regole e le consuetudini della tutela non sarebbero mai nate senza un forte senso civico innescato dalla presenza tanto intensa del nostro patrimonio culturale; né tale presenza sarebbe tanto densa e duratura, se non fosse stata garantita da regole efficaci nel lungo corso dei secoli. Che vi siano norme pubbliche per la tutela è tutt’altro che ovvio, e infatti non è accaduto per molto tempo nella più gran parte dei Paesi. Nel secolo XX, e in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, le leggi di tutela si sono moltiplicate in vari Paesi (per esempio in America Latina, in Africa, in Asia), seguendo modelli importati dall’Europa; ma i modelli europei, a loro volta, si sono sviluppati seguendo l’esempio che veniva dall’Italia. È di questa tradizione secolare di tutela e del suo apparato istituzionale che dovremmo e potremmo esser fieri, e non di statistiche inventate, di ‘numeri’ che vogliono presentarsi come dati obiettivi, e nascondono (anzi, rivelano) il vuoto culturale di chi li sbandiera.

Capitolo settimo

Noi, i cittadini

1. Fuori luogo.

«Una quercia che cade fa molto rumore; ma una grande foresta cresce in silenzio». Questo proverbio cinese descrive bene lo scenario italiano che stiamo attraversando. Guardiamo increduli il crescente degrado delle nostre città e del nostro paesaggio, e ci sdegniamo ogni giorno per il cinismo dei (pochi) colpevoli, per l’indifferenza dei (molti) spettatori, per le alleanze e compromissioni di fatto fra chi devasta i nostri orizzonti di vita e amministratori pubblici di ogni livello e di ogni partito. E chi manifesta la propria indignazione viene spesso accolto da commenti infastiditi, accusato di inutile pessimismo, invitato a rassegnarsi e a pensare ad altro. È vero il contrario: «sa indignarsi solo chi è capace di speranza» (Seneca). Ma se talora abbiamo la trista impressione d’esser rimasti soli a difendere i valori del paesaggio (e della Costituzione), è perché non sappiamo ascoltare l’inarrestabile fruscio della foresta che cresce. Il nostro sdegno è assai più condiviso e diffuso di quel che crediamo, anzi ogni nuovo delitto contro ambiente e paesaggio spinge altri cittadini a prender coscienza dell’abisso entro il quale stiamo rotolando. E se ci pare che non sia così è perché siamo troppo abituati ad attribuire ai media (in particolare, alla televisione) e alle liturgie dei partiti un grado superiore di realtà, rispetto a quella che pur viviamo. Come se i pensieri, le sofferenze, le paure e gli sdegni del cittadino comune (di ciascuno di noi) non contassero proprio nulla.

Il degrado di cui stiamo parlando non riguarda solo la forma del paesaggio o dell’ambiente, e nemmeno solo gli inquinamenti, i veleni, le sofferenze che ne nascono e ci affliggono. Riguarda un complessivo declino della società italiana, della vita politica, delle regole del vivere comune. Riguarda la corruzione diffusa, l’uso disinvolto delle leggi, l’enorme evasione fiscale tollerata (cioè autorizzata) da governi d’ogni segno, il ruolo delle mafie nella vita pubblica e nell’economia. Riguarda la manipolazione delle notizie e la monetizzazione d’ogni valore, il cartellino del prezzo attaccato alle Dolomiti e ai quadri di Caravaggio, riguarda gli slogan perversi sui ‘giacimenti di petrolio’ dell’Italia, sul nostro patrimonio visto come un serbatoio da svuotarsi in fretta per far cassa, senza nulla lasciare alle generazioni future. Riguarda la bassa sicurezza sui luoghi di lavoro, la crisi della Sanità, le differenze sempre più marcate da Regione a Regione che violano l’egual diritto alla salute di tutti i cittadini (art. 32 Cost.). Ma questo vastissimo orizzonte di crisi non è una buona ragione per rinunciare a un discorso specifico sull’ambiente e sul paesaggio, né per metterlo in sordina perché «ci sarebbe ben altro di cui parlare». È vero quello che ha scritto Barbara Spinelli dopo le tragiche frane di Messina:

“è inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni, la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d’omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe. Nella recente storia non sono caduti uccisi solo eroici servitori della Repubblica, che hanno voluto metter fine all’anti-Stato che mina la nazione dagli anni ’60. Muoiono alla fine gli uomini comuni, en masse: abbattuti dalla menzogna, dall’abusivismo, dalla disinvoltura con cui si costruiscono case, scuole, ospedali con materiali di scarto. Non da oggi ma da decenni, destre e sinistre confuse” («La Stampa», 4 ottobre 2009)

È oggi più che mai necessario parlare di paesaggio. Lo è perché ognuno dei problemi che ci affliggono (dunque anche il paesaggio) merita una specifica attenzione. Ma anche perché il paesaggio è «un entre deux fra la sfera dell’individuo e la sfera della vita collettiva» (Massimo Quaini)[5], e dunque rappresenta una straordinaria cartina di tornasole, un test per intendere come il cittadino vive se stesso in relazione all’ambiente che lo circonda e alla comunità in cui vive. Quale importanza annette alla propria salute fisica e mentale, quale ruolo assegna alla storia, alla cultura, all’identità dei propri luoghi e del Paese, in qual modo interpreta la gerarchia fra l’immediato vantaggio del singolo e il pubblico interesse della collettività, fra i tempi corti degli affaristi senza scrupoli e la lungimiranza della Costituzione. Se è in grado di comprendere che i danni al paesaggio ci colpiscono tutti, come cittadinanza ma anche come individui: uno per uno. Come ha scritto Eugenia Albats a proposito del devastato ambiente russo (sostanze tossiche da 6 a 9 volte il massimo livello di guardia), l’apatia dei cittadini è la migliore alleata di chi distrugge l’ambiente. In Russia come in Italia, ieri come oggi, «l’unica possibilità e la condizione pregiudiziale di una ricostruzione stanno in questo: che le persone coscienti ed oneste non restino assenti lasciando libero campo alle rovinose esperienze dei disonesti e degli avventurieri» (Giuseppe Dossetti, 1945).

Il paesaggio è il protagonista di questo libro. È un protagonista che cambia nome volentieri, si chiama talvolta ‘ambiente’, talvolta ‘territorio’: e sotto ogni avatar suscita cupidigia, innesca nuove norme, attrae altri barbari provoca nuove aggressioni. E invece no. Protagonisti di questo libro siamo noi, i cittadini, che nel paesaggio/territorio/ambiente viviamo la nostra vita ogni giorno. Che respiriamo l’aria inquinata dai suoli martoriati, e assistiamo alla morte dell’agricoltura di qualità in favore di prodotti sempre più insapori. Noi, che vediamo spianare dune costiere, abbattere oliveti e pinete, ricoprire di cemento spiagge e prati montani, vediamo boschi che invadono valli già coltivate a vigneto, mentre altri boschi vengono selvaggiamente abbattuti. Noi, che dalle generazioni passate abbiamo avuto in dono un’Italia ricca di valori ambientali, e non sapremo fare altrettanto con le generazioni future; che stiamo tradendo noi stessi e i nostri figli. Noi, che vediamo le nostre città dilagare e dissolversi in anonime periferie-sprawl, e sappiamo che in quell’ambiente senz’anima cresceranno milioni di cittadini, nessuno dei quali saprà davvero che cosa è (meglio: che cosa fu) il paesaggio italiano fino a ieri celebrato.

Siamo, ci sentiamo fuori luogo. Siamo spaesati, in senso sia metaforico che letterale. Non ci riconosciamo negli orizzonti (fisici e politici) che ci circondano. Per quanto aguzziamo lo sguardo, non vediamo un’opposizione degna di questo nome; vediamo una destra nazionalista allearsi per decenni con una Lega separatista, come se fosse la cosa più naturale del mondo; vediamo quella che fu la sinistra cantare all’unisono con la destra le virtù del mercato, crogiolandosi in una strategia per definizione perdente. Vediamo il disgregarsi dello Stato e la morte del pubblico interesse, lo svuotarsi delle istituzioni e la svendita dei beni pubblici, secondo un’economia di rapina pensata per gli amici degli amici. In un Paese sempre più provinciale, non sappiamo più confrontarci con gli altri. In compenso, ci consoliamo inventandoci una realtà fittizia, nella quale a capo delle Regioni non ci sono presidenti, bensì ‘governatori’, carica inesistente che ha il dubbio vantaggio di farci sentire provvisoriamente ‘americani’. In questa realtà di sole parole, ci raccontiamo la favola secondo cui siamo passati dalla Prima alla Seconda Repubblica, per giunta con un sistema ‘bipartitico’ in cui le falle di una legge elettorale iniqua sarebbero recuperabili mediante le ‘primarie’. Non ricordiamo più che in Francia fra l’una e l’altra delle cinque Repubbliche non vi fu solo qualche processo per corruzione e qualche crisi di partito, vi furono imperi e monarchie, guerre e rivoluzioni; e fingiamo di non vedere che la geometria variabile dei dieci o dodici partiti e sub-partiti del 2010, con le loro correnti mascherate da fondazioni e associazioni, non è poi molto diversa da quella del 1985. Persino l’antichissima idea dei beni e degli usi comuni, che dall’antica Roma al Medioevo ad oggi ebbe in Italia vita ininterrotta, viene sempre più spesso rilanciata e travestita, magari con le migliori intenzioni, ribattenzandola in inglese (commons), quasi che in tal modo diventasse più interessante o più credibile.

Siamo, ci sentiamo fuori luogo anche nelle nostre città, nel nostro paesaggio, ridotto a terreno di caccia per chi voglia farvi bottino. Come se non bastasse, ci troviamo istantaneamente d’accordo quando il primo che passa ci spiega che manca in Italia un’architettura moderna, e che il terreno perduto va recuperato velocemente impiantando intorno a Roma, Milano, Torino altrettante cinture di grattacieli; cioè imitando nemmeno più Chicago o New York, ma Singapore o Dubai. I nostri centri storici, eredità preziosa ma fragile, tendono a perdersi entro le periferie che li assediano, capovolgendo ogni gerarchia: piazze medievali, cattedrali e palazzi comunali stanno per diventare una sorta di quartiere dei giochi o di shopping center artificiale, più simile alle evocazioni di cartapesta di Las Vegas che alle città di Dante e di Palladio. Questo processo di disneyficazione era annunciato da molto tempo, ma ora è venuto a maturazione: parve strano a molti, nel 1981, un articolo nella rivista «Urbanistica» secondo cui «la trasformazione di Venezia in una disneyland potrebbe segnare il passaggio a un modo di vivere più creativo, più allegro, più festoso», ma la nomina del suo autore a membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali (2009) indica che il trend è ormai vittorioso[6].

Questi e mille altri disagi sono molto diffusi e condivisi. Eppure, ai più pare ancora fuori luogo esprimerli ad alta voce. Figli di una lunga stagione in cui ogni dissenso e ogni proposta doveva passare attraverso la voce dei partiti, stentiamo ad accorgerci che i partiti di oggi sono intenti a tutt’altro. Sopraffatti dalla complessità dei problemi, aspettiamo che qualcun altro se ne faccia carico, ma non vogliamo vedere che le vittime di questo rimando a ‘qualcun altro’ siamo noi stessi; troppo spesso ci chiudiamo in un imbarazzato silenzio.

Ma è davvero fuori luogo prendere la parola, in quanto cittadini, quando intorno a noi «una minoranza senza principî distrugge un patrimonio che appartiene alle generazioni che verranno» (Theodore Roosevelt: vedi sopra, cap.IV.2)? Siamo tanto smemorati ed estraniati dal nostro ambiente, ci sentiamo tanto fuori luogo da doverci rassegnare al silenzio degli ignavi?

 

tratto da: Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino 2010.

[1] http://borsadellacultura.a4w.it/stampa16.php.

[2] www.repubblica.it, 18 dicembre 2007.

[3] www.governo.it/Notizie/Palazzo%20Chigi/dettaglio.asp?d=40196.

[4] F. Isman, I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia, Skira, Milano 2009.

[5] Quaini, Il ruolo dei paesaggi storici cit.

[6] M. Romano, in «Urbanistica», n. 71 (aprile 1981), pp. 77 e 84.

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Cinchona Officinalis

14 Settembre 2021

Ha guarito re, regine e rivoluzionari. Ha fatto la fortuna di quanti hanno saputo penetrare i suoi misteri ed è stata la rovina dei molti che hanno tentato senza successo di svelarne i segreti. Ha sostenuto imperi, sopratutto quello della regina britannica Vittoria, e ha facilitato l’imbarco di ben 20 milioni di persone verso una schiavitù di fatto, creando un malcontento sociale che ancora oggi ha risonanza in tutto il mondo.

“ Zona d’origine: Bolivia Settentrionale e Perù.”

“Mi dicevano ch’ero tutto io. E’ una menzogna: io non so resistere a un attacco  di febbre quartana….” dichiara re Lear nell’omonimo dramma di Shakespeare. La “febbre quartana” uccise molte rispettabili celebrità storiche, tra i quali Alessandro Magno e Oliver Cromwell. Forse la casa reale britannica non sarebbe mai tornata al potere se Cromwell non fosse stato sconfitto dalla puntura fatale di una zanzara irlandese. Si stima che metà delle popolazione mondiale rischi ancora di contrarre la febbre quartana, o malaria, come è meglio nota ( da mal d’aria, ovvero “aria cattiva” ), una malattia che ha ucciso più persone di quanto abbia fatto insieme tutte le guerre e le pestilenze del mondo. Fino alla fine degli anni Trenta c’era una sola cura per la malaria: il chinino, un rimedio ottenuto dalla corteggia dell’albero di cincona.

La Lungimiranza di Banks.

L’inglese Sir Joseph Banks, figlio di un uomo molto facoltoso, nutriva una passione sfrenata per la botanica. Nel 1771 tornò dalle sue spedizioni in Terranova e Labrador, nonché dalle avventure nel Pacifico in compagnia del capitano Cook, con moltissime piante importanti. Banks era uomo di potere, in qualità di presidente della Royal Society, e anche influente come consigliere del re Giorgio III, eppure nessuno lo ascoltò quando si dichiarò a favore del trasporto degli esemplari di Cincona a Londra per sperimentarli nei Kew Gardens. Doveva trascorrere quasi un secolo prima che la sua idea fosse adottata.

 

 

Bill Laws, 50 Piante che hanno cambiato il corso della Storia, Roma 2012

 

 

 

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Da un oceano all’altro

13 Settembre 2021

Dall’isola di Mount Desert a Montreal, in auto, attraverso la foresta del Maine e la pianura canadese; poi da Montreal a Vancouver, con un treno che attraversa in quattro giorni il continente, si passa dall’Atlantico al Pacifico. Corre voce che questo servizio passeggeri verrà presto soppresso per lasciar circolare su binari unicamente le merci. L’“operazione viaggiatori”, a quanto pare, non è più “redditizia”, per usare questo termine che esce dal gergo del nostro tempo. Sarà un peccato. Con la Transiberiana, questo treno è il solo che colleghi due mondi. La linea divide dapprima la zona boschiva in due parti: i villaggi e i grossi borghi isolati, i paesini in cui abbondano quelle specie di vagoni senza ruote che sono le abitazioni semimobili, trasportabili altrove quando si presenta un impiego più rimunerativo, si susseguono, sparsi qua e là, separati gli uni dagli altri da ore di strada ferrata, ma ravvicinati oggi dall’aereo. Le case di legno, più o meno grezze, non sono affatto meglio delle abitazioni mobili; un’assenza di proporzioni dovuta al fatto che è facile aggiungervi una camera, affiancarvi un garage o farvi crescere un piano a mansarda, finisce per conferire loro l’aspetto di una serie di scatole dipinte di bianco-grigio. (Gli Stati Uniti rurali soffrono dello stesso male.) Villaggi insignificanti, dominati soltanto da una chiesa pesante e imperiosa. Si sente che questa terra aspra, colonizzata troppo tardi perché le sue foreste fossero, come in Europa, il rifugio degli eremiti e il regno delle fate, non è mai stata amata teneramente né appassionatamente.

“Ci sono posti della terra così belli che si vorrebbe stringerli al petto.” Nessuno sembra aver avuto voglia di stringere al petto la terra canadese. I cacciatori l’hanno percorsa per procurarsi le pellicce destinate a foderare il manto del cancelliere d’Inghilterra o a ornare la scollatura delle dame di Versailles; immigranti, che custodivano nel cuore la loro Bretagna o la loro Normandia natale, hanno dissodato e coltivato con fatica questa terra difficile. Da nessuna parte si ha la sensazione di un paesaggio umano che affondi amichevolmente nel terreno le proprie radici, congiunto a esso come lo sono i più piccoli villaggi italiani alle loro vigne, o le fattorie scandinave ai loro campi fiancheggiati da abetaie. Nessuno ha ornato l’esterno delle case per il piacere degli occhi, né riempito di fiori i giardini, né tracciato dei sentierini sul limitare dei boschi solo per il gusto di farlo. La vita dura in un clima duro ha consigliato all’uomo soltanto l’aggressione e lo sfruttamento. I prototipi virili sono rimasti il cacciatore di pelli, quello di grossa selvaggina, il massacratore di foche e il taglialegna. So bene che questi scarsi modelli umani non rappresentano tutto il Canada. Comunque, pochi di questi villaggi visti dal finestrino di un vagone ispirano la voglia improvvisa di scendere, come lo si farebbe in un borgo della Provenza o dell’Inghilterra, con l’intenzione di trascorrervi la vita. Luoghi, al tempo stesso, aperti e chiusi.

Ma le confidenze talvolta aprono spiragli in queste case troppo chiuse. Il treno si ferma a lungo in una stazione deserta dell’Abitibi o dell’Ontario del Nord, dove, in mancanza di meglio, faccio amicizia con un cane bianco. Penso ai ricordi di uno dei miei amici canadesi la cui infanzia e la cui giovinezza sono trascorse in qualche località simile a questa. Il padre, ricco imprenditore, cui non passò mai per il capo di uscire dal proprio borgo natio (quando suo figlio, al rientro dall’Italia, mostrò una sera delle diapositive di Firenze o di Roma, lo si sentì dire, affermazione che non è senza scabra grandezza: “Non sono altro che terra e pietre”); la solida casa di famiglia situata di fronte alla chiesa, e il libero pensatore, comodamente seduto con i piccoli sulla veranda, che guardava la mamma entrare tutta agghindata nel luogo santo dove lui non aveva mai messo piede e che ripeteva di tanto in tanto con compiacimento ai bambini: “Vostra madre è una bella donna”; sempre lo stesso che, avendo perduto le chiavi della sua auto, la demoliva a colpi di accetta (non si è stati boscaioli per niente), impaziente di riprendere gli oggetti che vi si trovavano; la sorella, per trent’anni suora in Congo, che era ritornata moribonda e un po’ amareggiata, lamentandosi sommessamente delle implacabili abitudini del suo ordine, ma che il fratello non aveva voluto rivedere, “perché lei non è più dei nostri”; le libertà prese dagli uomini nelle capanne della foresta, lontano dalla famiglia e dalle donne; gli sposati che dividevano tra la casa e la chiesa una vita che, forse a torto, ci sembra grigia; la brama di vivere dei figli che sognavano la grande città. L’universo umano come dappertutto. Una certa nobiltà primitiva; ancora maggior durezza e anche maggior generosità, talvolta, che nei contadini francesi; una bruma di oscurantismo (sia esso religioso o ateo) e un materialismo quasi irrespirabile.

Durante una traversata simile, circa sette anni fa, avevo osservato quasi giorno e notte dal finestrino del mio scompartimento gli animali selvatici; mi ricordo, tra gli altri, un alce che attraversava un fiume e si scrollava sull’altra riva. Questa volta, non ho visto che pochi cervi al pascolo sul limitare dei boschi, forse perché in questi primi giorni di settembre, meno caldi di quelli di giugno, le possenti bestie della foresta non si tuffano più nei laghi e nei fiumi per proteggersi dai tafani. Non ho sentito menzionare nemmeno gli incidenti dell’autunno, quando, si dice, degli alci ingannati dal muggito del treno si gettano tra i binari, credendosi sulle tracce di femmine in calore, ma probabilmente è ancora troppo presto per questi drammi nuziali. In capo a due giorni, la regione boschiva lascia il posto alla pianura già mietuta dai trattori; e, di nuovo, quei campi smisurati, il cui prodotto è quotato in Borsa, si umanizzano ai miei occhi quando l’amico che mi accompagna mi racconta che una volta, all’età di quindici anni, è salito dagli Stati Uniti fin qui per il raccolto. Ancora più in là, sorge una città selvaggiamente americanizzata, che sembra nata dall’unione di un silos e di una pompa di benzina, benedetta da un computer. I segni dell’intervento umano diminuiscono man mano che le dirupate Montagne Rocciose vengono verso di noi. Ma questa volta non vedrò i grandi parchi: niente orsi bruni, avidi degli avanzi del picnic dei turisti, e nemmeno, lungo i binari, per ragioni stagionali o altre, i cani della prateria: quegli scoiattoli terricoli dell’Ovest, schierati a distanza appena rispettosa dalla strada ferrata, che se ne stanno ritti sui posteriori come se fossero dei cani da salotto, dondolando le loro zampette anteriori. Il ricordo dello stesso tragitto compiuto sette anni prima con un’amica malata riappare a tratti in filigrana dietro a questo. Ma è caratteristico della filigrana l’essere visibile solo quando si mette il foglio in controluce. Il resto del tempo, non ci si accorge che c’è.

tratto da Marguerite Yourcenar, Il giro della prigione, trad. it. Fabrizio Ascari, Milano 1999.

 

 

Titolo originale Le tour de la prison, Parigi 1991.

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Konrad Lorenz

12 Settembre 2021

“I rapporti interattivi nel complesso delle molte specie di animali, piante o funghi che coabitano nello stesso spazio vitale, formando una comunità biotica o biocenosi, sono numerosi e molto complessi. L’adattamento delle diverse specie viventi ha richiesto tempi che rispondono all’ordine delle ere geologiche, non a quelle della storia dell’uomo, e ha raggiunto uno stadio di equilibrio tanto ammirevole quanto delicato. Molti meccanismi regolatori proteggono tale equilibrio contro le inevitabili perturbazioni dovute a ragioni climatiche e di altro genere. Tutte le modificazioni che si instaurano lentamente, come quelle provocate dalla evoluzione della specie o da graduali alterazioni del clima, non costituiscono un pericolo per l’equilibrio di uno spazio vitale. Una modificazione improvvisa, invece, per quanto possa sembrare di scarso rilievo, può produrre effetti sbalorditivi e anche catastrofici. L’introduzione di una specie animale apparentemente del tutto innocua può provocare la letterale devastazione di ampie zone di terra, come è avvenuto in Australia in seguito al diffondersi dei conigli. In questo caso l’intervento nell’equilibrio di un biotipo è avvenuto per opera dell’uomo; gli stessi effetti sono tuttavia teoricamente possibili anche senza il suo intervento, sebbene si tratti di una eventualità più rara. L’ecologia dell’uomo è soggetta a cambiamenti di gran lunga più rapidi  di quella degli altri esseri viventi. I tempi ne sono dettati dal progresso della sua tecnologia, che è continuo e la cui accelerazione cresce in proporzione geometrica. L’uomo, quindi, non può non provocare alterazioni radicali e, troppo spesso, la rovina totale delle biocenosi nelle quali e delle quali vive. Fanno eccezione a questa regola soltanto pochissime tribù “selvagge”, come ad esempio certi indios della foresta sudamericana, che vivono raccogliendo cibo o cacciando la selvaggina, oppure gli abitanti di alcune isole dell’Oceania che coltivano un poco la terra e vivono soprattutto di noci di cocco e di pesca. Tali culture influiscono sul biotipo in maniera non diversa dalle popolazioni di una specie animale. Questo è uno dei modi in cui l’uomo teoricamente dispone per vivere in armonia con il suo biotipo; l’altro consiste nel crearsi, servendosi dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame, una biocenosi completamente nuova che corrisponda in tutto e per tutto alle sue esigenze e che potrebbe anche, in linea di principio, dimostrarsi altrettanto duratura di quella che fosse sorta senza il suo intervento. Questo vale per alcune antiche civiltà contadine che abitano da molte generazioni sulla stessa terra, che amano, e alla quale, grazie alle conoscenze ecologiche acquistate attraverso la pratica, restituiscono ciò che da essa hanno ricevuto. Il contadino, infatti, sa qualcosa che l’intera umanità civilizzata sembra aver dimenticato: cioè che le fonti di vita del nostro pianeta non sono inesauribili. Da quando in vaste zone dell’America l’erosione causata dallo sfruttamento insensato ha trasformato in deserto terreni un tempo fertili, da quando grandi territori si sono inariditi in seguito al disboscamento e innumerevoli specie animali utili si sono estinte, si è cominciato, a poco a poco, a far di nuovo conoscenza con questa realtà. E ciò soprattutto per il fatto che le grandi imprese industriali che agivano nell’ambito dell’agricoltura, della pesca e della caccia alla balena hanno risentito gravemente, sotto l’aspetto commerciale, di tali effetti. E tuttavia questi fatti non vengono generalmente riconosciuti e non sono ancora penetrati nella coscienza pubblica! La fretta affannosa del nostro tempo non lascia il tempo agli uomini di vagliare le circostanze e di riflettere prima di agire. Ci si vanta anzi, da veri incoscienti, di essere dei “doers”, della gente che agisce, mentre si agisce a danno della natura e di se stessi. Veri misfatti vengono oggi compiuti dovunque con l’uso di prodotti chimici, per esempio nell’agricoltura e nella frutticoltura dove servono a distruggere gli insetti; ma in modo quasi altrettanto irresponsabile si agisce con i farmaci. Gli immunologi manifestano serie preoccupazioni anche per quel che riguarda l’uso di farmaci molto diffusi. Il bisogno psicologico di avere tutto subito, fa sì che alcune branche dell’indistria chimica diffondano con delittuosa leggerezza dei medicamenti il cui effetto a lungo termine è assolutamente imprevedibile. Sia per quanto concerne il futuro ecologico dell’agricoltura, sia in campo medico, vige una quasi incredibile superficialità. Chi ha cercato di mettere in guardia contro l’uso indiscriminato di sostanze tossiche è stato screditato e messo a tacere nel modo più infame. Devastando in maniera cieca e vandalica la natura che la circonda e da cui trae il suo nutrimento, l’umanità civilizzata attira su di sé la minaccia della rovina ecologica. Forse riconoscerà i propri errori quando comincerà a sentirne le conseguenze sul piano economico, ma allora, molto probabilmente, sarà troppo tardi. Ciò che in questo barbaro processo l’uomo avverte di meno è tuttavia il danno che esso arreca alla sua anima. L’alienazione generale, e sempre più diffusa, dalla natura vivente è in larga  misura responsabile dell’abbrutimento estetico e morale dell’uomo civilizzato. Come  può un individuo in fase di sviluppo imparare ad avere rispetto di qualche cosa, quando tutto ciò che lo circonda è opera, per giunta estremamente brutta e banale, dell’uomo? In una grande città i grattacieli e l’atmosfera inquinata dai prodotti chimici non permettono nemmeno più di vedere il cielo stellato. Non c’è perciò da stupirsi se il diffondersi della civilizzazione va di pari passo con un così deplorevole deturpamento delle città e delle campagne. Basta confrontare con occhi spassionati il vecchio centro di una qualsiasi città con la sua periferia moderna, oppure quest’ultima, vera lebbra che rapidamente aggredisce le campagne circostanti, con i piccoli paesi ancora intatti. Si confronti poi il quadro istologico di un tessuto organico normale con quello di un tumore maligno, e si troveranno sorprendenti analogie! Se consideriamo, obiettivamente queste differenze e le esprimiamo in forma numerica anziché estetica, constateremo che si tratta essenzialmente di una perdita di informazione. La cellula neoplastica si distingue da quella normale principalmente per aver perduto l’informazione genetica necessaria a fare di essa un membro utile alla comunità di interessi rappresentata dal corpo. Essa si comporta perciò come un animale unicellulare o, meglio ancora,come una giovane cellula embrionale: è priva di strutture specifiche e si riproduce senza misura e senza ritegni, con la conseguenza che il tessuto tumorale si infiltra nei tessuti vicini ancora sani e li distrugge.  Tra l’immagine della periferia urbana e quella del tumore esistono evidenti analogie: in entrambi i casi vi era uno spazio ancora sano in cui sono state realizzate una molteplicità di strutture molto diverse, anche se sottilmente differenziate fra loro e reciprocamente complementari, il cui saggio equilibrio poggiava su un bagaglio di informazioni raccolte nel corso di un lungo sviluppo storico; laddove nelle zone devastate dal tumore o dalla tecnologia moderna il quadro è dominato da un esiguo numero di strutture estremamente semplificate. Il panorama istologico delle cellule cancerogene, uniformi e poco strutturate, presenta una somiglianza disperante con la veduta aerea di un sobborgo moderno con le sue case standardizzate, frettolosamente disegnate in concorsi lampo da architetti privi ormai di ogni cultura. Gli sviluppi di questa competizione dell’umanità con se stessa esercitano sull’edilizia un effetto distruttivo. Non soltanto il principio economico secondo il quale è più conveniente produrre in serie gli elementi costruttivi, ma anche il fattore livellatore della moda, fanno sì che ai margini dei centri urbani di tutti i paesi civilizzati sorgano centinaia di migliaia di abitazioni di massa che si distinguono tra loro solo per i loro numeri civici; esse infatti non meritano il nome di “case” dal momento che, tutt’al più, si tratta di batterie di stalle per “uomini da lavoro”, chiamati così proprio per  analogia con i cosiddetti “animali da lavoro”. L’allevamento di galline livornesi in batterie viene giustamente considerato una tortura per gli animali e una vergogna della nostra civiltà. L’applicazione di metodi analoghi all’uomo è invece considerata del tutto lecita, anche se proprio l’uomo sopporta meno di tutti questo trattamento che è disumano nel vero senso della parola. La coscienza del proprio valore da parte dell’uomo normale favorisce a giusto titolo l’affermazione della sua personalità. L’uomo non è stato costruito nel corso della filogenesi per essere trattato come una formica o una termite, elementi anonimi e intercambiabili di una collettività di milioni di individui assolutamente uguali tra loro. Basta guardare un gruppo di orticelli di periferia per capire quali effetti può produrre l’impulso dell’uomo a esprimere la propria individualità. A chi abita nelle batterie degli  “uomini da lavoro” resta una sola via per conservare la stima di sé: essa consiste nel rimuovere dalla coscienza l’esistenza dei molti compagni di sventura e nel rinchiudersi in assoluto isolamento. In molte abitazioni di massa i balconi dei singoli appartamenti sono separati da tramezzi che nascondono la vista del vicino. Non si può né si vuole stabilire con lui un contatto sociale “attraverso la grata” perché si ha troppa paura di vedere riflessa nel suo volto la propria immagine disperata. Anche per questa via gli agglomerati umani conducono alla solitudine e all’indifferenza verso il prossimo. Il senso estetico e quello morale sono evidentemente strettamente collegati, e gli uomini che sono costretti a vivere nelle condizioni sopra descritte vanno chiaramente incontro all’atrofia di entrambi.  Sia la bellezza della natura sia quella dell’ambiente culturale creato dall’uomo sono manifestamente necessarie per mantenere l’uomo psichicamente e spiritualmente sano. La totale cecità psichica di fronte alla bellezza in tutte le sue forme, che oggi dilaga ovunque così rapidamente, costituisce una malattia mentale che non va sottovalutata, se non altro, perché va di pari passo con l’insensibilità verso tutto ciò che è moralmente condannabile. Coloro cui spetta la decisione di costruire una strada, o una centrale elettrica o una fabbrica che deturperà per sempre la bellezza di una vasta zona sono del tutto insensibili alle istanze estetiche. Dal sindaco di un piccolo paese al ministro dell’economia di una grande nazione, tutti sono d’accordo nel ritenere che non valga la pena di fare sacrifici economici, e tanto meno politici, per difendere la bellezza del paesaggio. I pochi scienziati e difensori della natura che vedono lucidamente approssimarsi la tragedia sono totalmente impotenti. Avviene infatti che un comune che possiede piccoli appezzamenti di terreno sul limitare di un bosco scopra che questi aumenteranno di valore se saranno collegati da una strada; e ciò basta perché il grazioso ruscello che attraversa il paese venga deviato, incanalato e ricoperto di cemento, e perché un bel viottolo di campagna venga immediatamente trasformato in una orrenda strada di periferia.(………….). Il mio maestro Oskar Heinroth diceva, nel suo solito moto drastico: “Dopo lo sbatter d’ali del fagiano argo, il ritmo di lavoro dell’umanità moderna costituisce il più stupido prodotto della selezione intraspecifica”. Per l’argo, come per molti altri animali con sviluppo analogo, le influenze ambientali impediscono che la specie proceda, per effetto della selezione intraspecifica, su strade evolutive mostruose e infine verso la catastrofe. Ma nessuna forza esercita un salutare effetto regolatore di questo tipo sullo sviluppo culturale dell’umanità; per sua sventura essa ha imparato a dominare tutte le potenze dell’ambiente estranee alla sua specie, e tuttavia sa così poco di se stessa da trovarsi inerme in balia delle conseguenze diaboliche della selezione intraspecifica. “Homo homini lupus”: anche questo detto, come la frase di Heinroth, è ormai divenuto un understatement. L’uomo, che è l’unico fattore selettivo a determinare l’ulteriore sviluppo della propria specie, è, ahimé, di gran lunga più pericoloso del più feroce predatore. La competizione fra uomo e uomo agisce, come nessun fattore biologico ha mai agito, in senso direttamente opposto a quella “potenza eternamente attiva, beneficamente creatrice” e così distrugge con fredda e diabolica brutalità tutti i valori che ha creato, mossa esclusivamente dalle più cieche considerazioni utilitaristiche…Ogni mezzo che serve a questo fine viene considerato, a torto, un valore in sé. L’errore dell’utilitarismo, gravido di conseguenze deleterie, sta proprio in questo: nel confondere il fine con i mezzi. Il denaro era in origine un mezzo, e infatti nel linguaggio di tutti i giorni si dice ancora:”è una persona con molti mezzi”. Ma quanta gente è oggi in grado di capirci quando cerchiamo di spiegare che il denaro in sé non ha valore alcuno? Lo stesso si può dire del tempo: Time is money significa, per coloro i quali attribuiscono al denaro un valore assoluto, che essi apprezzano in egual misura ogni secondo risparmiato. Se è possibile costruire un aereo in grado di sorvolare l’Atlantico in un tempo leggermente inferiore a quello attuale, nessuno si chiede quale sia la contropartita nel necessario prolungamento delle piste degli aereoporti, nella maggiore velocità di atterraggio e di decollo che comporta rischi maggiori, nell’aumento del rumore, ecc. La mezz’ora guadagnata rappresenta agli occhi di tutti un valore intrinseco per il quale nessun sacrificio è troppo grande. Ogni fabbrica di automobili deve cercare di produrre un nuovo tipo di vettura che sia più veloce di quello precedente, tutte le strade vanno allargate, tutte le curve rettificate…Sorge spontaneo il quesito se all’anima dell’uomo odierno procuri maggiore danno l’accecante sete di denaro oppure la fretta logorante. Qualunque sia la risposta, coloro che detengono il potere, indipendentemente dall’orientamento politico, hanno interesse a favorire entrambi questi fattori e a ingigantire le motivazioni che spingono l’individuo alla competizione. Non mi risulta che esista finora una analisi psicologica profonda di queste motivazioni; ritengo tuttavia molto probabile che, oltre alla brama del possesso e all’ambizione, un ruolo molto importante sia svolto in entrambe dalla paura: paura di essere superati dai concorrenti, paura di diventare poveri, paura di prendere decisioni sbagliate e di non essere all’altezza di una situazione estenuante. L’angoscia in tutte le sue forme è certamente il fattore determinante nel minare la salute dell’uomo moderno, ed è causa di ipertensioni arteriose, di nefrosclerosi, di infarti cardiaci precoci e di altri malanni del genere. L’uomo che ha perpetuamente fretta non insegue solo il possesso, poiché la meta più allettante non potrebbe indurlo ad essere tanto autolesionista: egli è spinto da qualcosa, e ciò che lo spinge è solamente l’angoscia. La fretta, l’angoscia, inscindibili come sono l’una dall’altra, contribuiscono a privare l’uomo delle sua qualità essenziali: Una di queste è la riflessione. Un essere che non riflette più corre il rischio di perdere tutte le qualità e attività specificamente umane.”

Tratto da: Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà. Adelphi, 1974

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For the new year

10 Settembre 2021

– Do you want to live together for many years, loving each other, without having children? I approve of you with all my heart. Tell me the reasons.
– To have no remorse …
– Good. Specify better.
– Not to add to the pain and shame of the world. So that there isn’t someone more to do evil or suffer from it.
– Very well. But especially the present distresses you, I suppose, and I can well understand you. We are in 1987 and the domination of certain dark forces, at work for a long time, has become almost absolute.
– Yes, and we see it and know it. Our answer is: at least, the demons will not have our children.
– What do you fear, materially and spiritually, for them?
– All… The infected air, the radioactive and chemical leaks (more normal walks than escapes), the distorted food, the water, the inexorable expansion of the desert, of civilization as a desert, desert without borders, the newspapers they would read .. . We would lay clipped feathers in a space barred on all sides, the harrowing eyes of a rabbit from experiments would look at us. But yes, everything, everything is to be feared, and it is not cowardice to fear it, because this everything is without cracks … The violence, the dispossession of homeland, the organs legally torn from dead young people to use them in experiments, the looming of the Gulag, the enslavement to the industrial economy … And the ugly, demeaning clothes they would wear, the sight of trees that no longer breathe … and the love they would no longer know how to give or receive … The sense of poetry would escape him, of poetry as revelation and thought … We would not know how to explain to him: look that this is divine, that this is not cultural …
– Oh yes. Of course… Who would dare to tell you something that was not inspired by the same evil from which you want to protect your unborn, very active in persuading anything? The earth has always been an inhospitable and terrible place, but seeing it treated like this, with such brutality, by endless legions of cannibals … Is there anything else that distresses you?
– There is school, school as an obligation, as a mental prison. This would be enough. How to tolerate sending us defenseless beings, knowing them locked in there, their confused mind frying in those filthy pans … Because we know how cowardly those books, those mouths, that science would corrupt them. And how to take them away? Everywhere is school, the school prison follows you like an ambush everywhere. And then the University, a concentrate of delusions, a Mint of false books, an antechamber of technical hell, a hammer of blind horizons … No, we will give up having children, but we will love and care for the victims of man as we can: animals, trees, children. To the last free born flowers, we will teach the latest Latin.
– I kneel in front of you and get up to bless you. You will never be sterile, never alone, and a “gracious and merciful” God will only be able to forgive you for not complying with the mitzvah of procreation. Barren of soul today are those who consciously procreate, arid those who give creatures to a desert far more cruel than that of the Semitic nomads, which could still miraculously flourish. And inhumane and guilty are those who consign their children to the violence that is the School, with the truly ignoble pretext that, otherwise, they would not know where to put them and what to occupy them. Surely you will enter among the Righteous.

Taken from: Guido Ceronetti, Pensieri del Tè

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Per il nuovo Anno

10 Settembre 2021

– Volete vivere insieme molti anni, amandovi, senza avere figli? Vi approvo con tutto il cuore. Ditemi le ragioni.
– Per non avere rimorsi…
– Bene. Precisate meglio.
– Per non accrescere il dolore e la vergogna del mondo. Perché non ci sia qualcuno in più a fare il male o a patirlo.
– Benissimo. Ma specialmente vi angoscia il presente, immagino, e posso ben capirvi. Siamo nel 1987 e il dominio di certe oscure forze, al lavoro da molto tempo, è diventato quasi assoluto.
– Sì, e noi lo vediamo e sappiamo. La nostra risposta è: almeno, i demoni non avranno i nostri figli.
– Che cosa temete, materialmente e spiritualmente, per loro?
– Tutto… L’aria infettata, le fughe radioattive e chimiche (più normali passeggiate, che fughe), l’alimentazione stravolta, l’acqua, l’allargarsi inesorabile del deserto, della civiltà come deserto, deserto senza confini, i giornali che leggerebbero… Deporremmo piumosità tarpate in uno spazio da ogni parte sbarrato, ci guarderebbero occhi strazianti di coniglio da esperimenti. Ma sì, tutto, tutto è da temere, e non è viltà temerlo, perché questo tutto è privo di crepe… Le violenze, il dispoglio di patria, gli organi strappati legalmente in giovani morti per utilizzarli in esperimenti, l’incombere del Gulag, l’asservimento all’economia industriale… E i brutti, avvilenti abiti che indosserebbero, la vista di alberi che non respirano più… e l’amore che non saprebbero più né dare né ricevere… Gli sfuggirebbe il senso della poesia, della poesia come rivelazione e pensiero… Non sapremmo come fare a spiegargli: guarda che questo è divino, che questo non è culturale…
– Oh sì. Certo… Chi oserebbe replicarvi qualcosa, che non fosse ispirato dallo stesso male da cui voi volete proteggere i vostri non nascituri, molto attivo nel persuadere qualsiasi cosa? La terra è sempre stata un luogo inospitale e terribile, ma vederla trattare così, con tanta brutalità, da sterminate legioni di cannibali… C’è altro, ancora, che vi angoscia?
– C’è la scuola, la scuola come obbligo, come prigione mentale. Basterebbe questo. Come tollerare di mandarci degli esseri indifesi, di saperli chiusi là dentro, la loro mente confusa messa a friggere in quelle sudicie padelle… Perché sappiamo quanto vigliaccamente li corromperebbero quei libri, quelle bocche, quella scienza. E come sottrarli? Dappertutto è scuola, il carcere scolastico ti segue come un agguato in qualunque posto. E poi l’Università, un concentrato di deliri, Zecca di libri falsi, anticamera dell’inferno tecnico, martello di orizzonti ciechi… No, rinunceremo ad aver figli, ma ameremo e cureremo come potremo le vittime dell’uomo: animali, alberi, bambini. Agli ultimi fiori nati liberi, insegneremo l’ultimo latino.
– M’inginocchio davanti a voi e mi alzo per benedirvi. Non sarete mai sterili, mai soli, e un Dio «clemente e misericordioso» non potrà che perdonarvi di non aver ottemperato alla mitzvà della procreazione. Sterile d’anima è oggi chi coscientemente procrea, arido chi dà creature a un deserto ben più crudele di quello dei nomadi semiti, che poteva ancora miracolosamente fiorire. E disumano e colpevole è chi consegna i suoi figli alla violenza che è la Scuola, col pretesto veramente ignobile che, in caso contrario, non saprebbe dove metterli e in che cosa occuparli. Sicuramente voi entrerete tra i Giusti.

Tratto da: Guido Ceronetti, Pensieri del Tè

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Taoismo

7 Settembre 2021

Delle due principali tendenze del pensiero cinese, il Confucianesimo e il Taoismo, il secondo è quello orientato in senso mistico e quindi è quello che serve di più per il nostro confronto con la fisica moderna. Come l’Induismo e il Buddhismo, il Taoismo è interessato più alla saggezza intuitiva che alla conoscenza razionale. Riconoscendo i limiti e la relatività del mondo del pen- siero razionale, il Taoismo è, fondamentalmente, una via di liberazione da questo mondo, ed è paragonabile, sotto questo punto di vista, alle vie dello Yoga o del Vedanta nell’Induismo, o all’Ottuplice Sentiero del Buddha. Nel contesto della cultura cinese, la liberazione taoista significò, più specificamente, una liberazione dalle rigide regole delle convenzioni.

La diffidenza per la conoscenza e per il ragionamento convenzionali è più forte nel Taoismo che in qualsiasi altra scuola di filosofia orientale, e si basa sulla ferma convinzione che l’intelletto umano non può mai comprendere il Tao. Secondo Chuang-tzu:

« … per comprenderlo perfettamente non ci vuol sapienza, per discernerlo non ci vuoi intelligenza: il Santo ne fa a meno ».1

Il libro di Chuang-tzu è pieno di passi che riflettono il disprezzo dei Taoisti per il ragionamento e l’argomentazione logica. Ad esempio, egli dice:

« Un cane non viene considerato valente perché è bravo ad abbaiare, un uomo non viene considerato eccellente perché è bravo a parlare ».

« Chi discute dimostra di non avere chiarezza di idee »

I Taoisti consideravano il ragionamento logico come parte del mondo artificiale dell’uomo, insieme con le convenzioni sociali e con le regole morali. Essi non erano affatto interessati a questo mondo, ma concentravano totalmente la loro attenzione sull’osservazione della natura al fine di riconoscere le « caratteristiche del Tao »; acquisirono perciò un atteggiamento che era sostanzialmente scientifico e solo la loro profonda diffidenza per il metodo analitico impedì loro di costruire teorie scientifiche corrette. Ciononostante, l’accurata osservazione della natura, unita a una forte capacità di penetrazione mistica, portò i saggi taoisti a intuizioni profonde che sono confermate dalle teorie scientifiche moderne.

L’aver compreso che la trasformazione e il mutamento sono caratteristiche essenziali della natura fu una delle intuizioni più importanti dei Taoisti. Un passo del Chuang-tzu illustra chiaramente come si percepì l’importanza fondamentale del mutamento osservando il mondo organico:

« Nel trasformarsi e sorgere delle creature i germogli hanno una forma secondo la specie, una gradualità di rigoglio e di decadenza, un flusso di cambiamenti e di trasformazioni ».1

I Taoisti interpretarono tutti i mutamenti della natura come manifestazioni dell’interazione dinamica tra i poli opposti yin e yang, e giunsero quindi a ritenere che ogni coppia di opposti costituisce una relazione polare in cui ciascuno dei due poli è legato dinamicamente all’altro. Per la mente occidentale, questa idea dell’implicita unità di tutti gli opposti è estremamente difficile da accettare. Ci sembra del tutto paradossale l’idea che esperienze e valori che avevamo sempre creduto contrari siano, in definitiva, aspetti differenti della medesima cosa. In Oriente, tuttavia, si è sempre considerato essenziale per arrivare all’illuminazione il consiglio dato ad Arjuna nella Bhagavad Gita di andare « al di là delle opposizioni terrene »,2 e in Cina la relazione polare tra tutti gli opposti è la base stessa del pensiero taoista. Chuang-tzu per esempio afferma:

« L ” i o ” è anche l'”altro”, l'”altro” è anche l'”io”…
Che l”`io” e l”altro” non siano più in contrapposizione è la vera essenza del Tao. Solo questa essenza, che appariva come un asse, è il centro del cerchio che risponde ai mutamenti perenni ».3

Dall’idea che i movimenti del Tao sono una continua interazione tra opposti, i Taoisti dedussero due regole fondamentali per la condotta umana. Ogni volta che si vuol ottenere una cosa, essi dicevano, bisogna iniziare dal suo opposto. Ecco che cosa dice Lao-tzu:

Se si vuole restringere, bisogna (innanzitutto) estendere.
Se si vuole indebolire, bisogna (innanzitutto) rafforzare. Se si vuole far perire, bisogna (innanzitutto) far fiorire. Se si vuole prender possesso, bisogna (innanzitutto) offrire. Questo è ciò che si chiama una visione sottile »

D’altro canto, ogni volta che si vuoi tenere una cosa, bisogna accettare che in essa ci sia qualche cosa del suo opposto:
Ciò che è tortuoso diventa diritto. Ciò che è vuoto diventa pieno. Ciò che è consumato diventa nuovo.’

Questo è il modo di vivere del saggio che ha raggiunto un punto di vista superiore, una prospettiva dalla quale vengono percepite chiaramente la relatività e la relazione polare di tutti gli opposti. Fra questi opposti ci sono anzitutto, i concetti di buono e di cattivo che sono interconnessi nello stesso modo in cui lo sono yin e yang. Essendosi reso conto della relatività di buono e cattivo, e quindi di tutte le norme morali, il saggio taoista non lotta per il buono ma cerca piuttosto di mantenere un equilibrio dinamico tra buono e cattivo. Su questo punto, Chuang-tzu è molto esplicito:

« Perciò dire: “Seguire e onorare il bene ed evitare il male” e “seguire e onorare il buongoverno ed evitare il malgoverno” significa non capire i principi del Cielo e della Terra e le qualità naturali delle creature. Sarebbe come seguire e onorare il Cielo e non tener conto della Terra, seguire e onorare lo yin e non tener conto dello yang: è chiaro che non si può fare ».3

È sorprendente che, nello stesso periodo in cui Laotzu e i suoi discepoli elaboravano la loro concezione del mondo, gli aspetti essenziali di questa visione taoista furono insegnati anche in Grecia, da un uomo i cui insegnamenti ci sono noti solo da pochi frammenti e che fu ed è ancora molto spesso frainteso. Questo « taoista » greco era Eraclito di Efeso. Il suo pensiero ha in comune con quello di Lao-tzu non solo l’importanza data al mutamento continuo, espresso nel famoso detto « tutto fluisce », ma anche l’idea che tutti i mutamenti sono ciclici. Egli paragonò l’ordine del mondo a « un fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure »,’ un’immagine che in realtà è molto simile all’idea cinese del Tao, il quale si manifesta nel- l’interazione ciclica tra yin e yang.

È facile vedere in quale modo il concetto di mutamento, inteso come interazione dinamica degli opposti, abbia portato Eraclito, analogamente a Lao-tzu, alla scoperta che tutti gli opposti sono polari e quindi formano un tutto unico. « La strada all’in su e all’in giù è una sola e la medesima » disse il filosofo greco, e ancora: « il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame ».2 Come i Taoisti, egli vedeva ogni coppia di opposti come un’unità ed era ben consapevole della relatività di tutti questi concetti. Ancora una volta le parole di Eraclito: « Le cose fredde si riscaldano, il caldo si raffredda, l’umido si dissecca, il riarso si inumidisce »3 ci ricordano quelle di Lao- tzu: « Il difficile e il facile si completano l’un l’altro… i suoni e la voce si armonizzano l’un l’altro; il prima e il dopo si seguono l’un l’altro ».4

E strano che la grande somiglianza tra le concezioni del mondo di questi due saggi del sesto secolo a.C. non sia in genere conosciuta. Eraclito viene spesso menzionato in rapporto alla fisica moderna, ma quasi mai in rapporto al Taoismo. Eppure proprio questa connessione col Taoismo mostra nel modo più chiaro che la sua concezione del mondo era quella di un mistico e in tal modo, a mio giudizio, colloca nella giusta prospettiva le corrispondenze tra le sue idee e quelle della fisica moderna.

Quando parliamo del concetto taoista di mutamento, è importante rendersi conto che il mutamento è considerato non come la conseguenza di una qualche forza, ma piuttosto come una tendenza innata in tutte le cose e in tutte le situazioni. I movimenti del Tao non vengono imposti a esso, ma si verificano naturalmente e spontaneamente. La spontaneità è il principio di attività del Tao, e poiché la condotta umana dovrebbe essere modellata sull’operare del Tao, la spontaneità dovrebbe caratterizzare anche tutte le azioni umane. Per i Taoisti, dunque, agire in armonia con la natura significa agire spontaneamente e secondo la propria vera natura. Si- gnifica aver fiducia nella propria intelligenza intuitiva, che è innata nella mente umana, così come le leggi del mutamento sono innate in tutte le cose che ci circondano.

Le azioni del saggio taoista scaturiscono quindi dalla sua saggezza intuitiva, spontaneamente e in armonia con il suo ambiente. Egli non ha bisogno di forzare se stesso, né alcunché attorno a lui, ma deve soltanto adattare le sue azioni ai movimenti del Tao. Per usare le parole di Huai Nan-tzu:

« Colui che segue l’ordine naturale fluisce nella corrente del Tao ».’

Nella filosofia taoista, un modo di agire di questo genere è chiamato wu-wei, un termine che letteralmente significa « non- azione » e che Joseph Needham traduce con « astenersi da attività in contrasto con la natura », giustificando questa interpretazione con una citazione da un commentario del Chuang-tzu:

« Non-azione non significa non fare nulla e stare in silenzio, ma lasciare che ogni cosa possa fare ciò che fa naturalmente, in modo che la sua natura sia soddisfatta ».2

Se ci asteniamo dall’agire in modo contrario alla natura o, come dice Needham, dall’o andare contro la naturale inclinazione delle cose », siamo in armonia con il Tao e quindi le nostre azioni saranno coronate da successo. Questo è il significato delle parole di Lao-tzu, apparentemente così enigmatiche: « Non agendo; non esiste niente che non si faccia ».1

Il contrasto tra yin e yang non è solo il fondamentale principio ordinatore di tutta la cultura cinese, ma si riflette anche nelle due tendenze dominanti del pensiero cinese. Il Confucianesimo era razionale, maschile, attivo e dominatore; il Taoismo, viceversa, dava importanza a tutto ciò che era intuitivo, femminile, mistico e arrendevole. « Somma cosa è non sapere di sapere » dice Lao-tzu, e « Il Santo fa ciò che deve fare senza azioni, comunica i suoi insegnamenti senza parole ».2 I Taoisti erano convinti che, mettendo in primo piano le caratteristiche femminili, arrendevoli della natura umana, fosse facilissimo condurre una vita perfettamente equilibrata in armonia con il T a o . Il loro ideale è riassunto nel modo migliore in un brano del Chuang-tzu che descrive una specie di paradiso taoista:

« Quando ancora non si era usciti dal caos, gli uomini antichi erano partecipi della placida indifferenza che permeava tutto il mondo. A quell’epoca lo yin e lo yang erano armoniosi e calmi, il loro riposo e il loro movimento non erano disturbati, le quattro stagioni giungevano a tempo debito, le diecimila creature non erano danneggiate, gli esseri viventi non morivano prematuramente. Anche se qualcuno aveva la capacità di conoscere, non la usava mai. Questo era lo stato della somma unità. A quell’epoca nessuno agiva, ma tutti seguivano sempre la spontaneità »

Tratto da:  Fritjof Capra, Il Tao delle fisica

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I tre giardini

6 Settembre 2021

«Questa casa era una vera meraviglia ecologica: non tanto grande, posta sul lato d’un giardino abbastanza vasto, sembrava un modellino in legno (tanto dolce era il grigio slavato delle sue persiane). Con la modestia d’uno chalet, ma piena di porte, di basse finestre, di scalinate laterali, come un castello da romanzo. Senza soluzione di continuità, il giardino conteneva tre spazi simbolicamente differenti (e oltrepassare il limite d’ogni spazio era un atto importante). Si attraversava il primo giardino per arrivare alla casa; era il giardino mondano, lungo cui si riaccompagnavano le signore bayonnesi, a piccoli passi, con grandi soste. Il secondo giardino, proprio davanti alla casa, era fatto di piccoli vialetti che giravano intorno a due aiuole verdi identiche; vi spuntavano rose, ortensie (fiore ingrato del sud-ovest), lunigiana, rabarbaro, erbe casalinghe in vecchie cassette, una grande magnolia i cui fiori bianchi arrivavano all’altezza della camera del primo piano; ed è là che, durante l’estate, impavide tra le zanzare, le signore e signorine B. si sedevano su sedie basse a fare dei complicati lavori a maglia. In fondo, il terzo giardino, a parte un piccolo orto con peschi e cespugli di lamponi, era indefinito, a volte incolto, a volte seminato con legumi ordinari; vi si andava raramente, e soltanto nel viale di mezzo». Il mondano, il casalingo, il selvaggio: non è la tripartizione stessa del desiderio sociale? Da questo giardino bayonnese, passo senza stupirmi agli spazi romanzeschi e utopici di Jules Verne e di Fourier.
(Questa casa oggi è scomparsa, distrutta dall’Immobiliare bayonnese.)


Tratto da: Barthes di Roland Barthes

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Il tempo è fuori squadra

6 Settembre 2021

“Il tempo è fuori squadra” è il titolo che Gregory Bateson assegna ad un memorandum del 1978, come monito ed invito per chi ha la responsabilità di formare le giovani generazioni. Si tratta, a suo avviso, di una missione che implica la presa di coscienza dello stato di obsolescenza dei presupposti del pensiero più comuni e consolidati. L‟antropologo di Grantchester, che in quello stesso anno sta completando Mente e natura, l‟opera che racchiude gli esiti del suo multiforme percorso intellettuale, annuncia l‟inattualità di alcune nozioni particolarmente diffuse come il dualismo cartesiano che separa la mente dalla materia o l‟assunto che tutti i fenomeni (anche quelli mentali) debbano essere studiati e considerati in termini quantitativi. Le modalità conoscitive lineari e deterministiche si rivelano, infatti, inadeguate alla comprensione non solo dei fenomeni propriamente fisici, ma anche dei fenomeni viventi che rispondono ad esigenze primariamente “creaturali” e vanno perciò compresi con linguaggi inediti, ancora da inventare. Linguaggi che non seguono contrapposizioni dualistiche (natura-cultura, mente-corpo, individuo-società, io-tu, etc.), ma si esprimono nella “danza” interattiva della relazione, che si nutre del contributo di tutti i suoi componenti.

La mente stessa, oggetto primario della sua riflessione in questa opera della piena maturità, viene assunta come un aggregato di parti interagenti, un insieme interconnesso, un plot policentrico ed interattivo i cui elementi sono costitutivamente in relazione reciproca. La sua è una teoria della mente olistica e, «come ogni olismo serio, si basa sulla premessa della differenziazione e dell‟interazione delle parti» (Bateson 2008, p. 128). Quella teorizzata da Bateson è, infatti, una nozione di mente inedita e innovativa che oltrepassa il tradizionale dualismo cartesiano, nonché la contrapposizione fra principi antitetici e si presenta come processo interattivo, non collocabile in nessuna singola componente dell‟organismo (scatola cranica, anima, personalità), ma in una unità più ampia strettamente connessa all‟ambiente. Come afferma Mauro Ceruti (1998), oggi è iniziato un percorso di riformulazione delle identità tradizionali all‟interno di ecologie concettuali unitarie: per ciascuna delle polarità, delle dicotomie, delle coppie concettuali, onnipresenti nelle nostre narrazioni e teorie della storia naturale e del tempo profondo, perde di senso sia la metafora dello „scontro frontale‟ fra le due polarità, che dovrebbe condurre alla vittoria e alla scelta di una delle due, sia la ricerca di un punto di vista sintetico, a metà strada nell‟angusta linea che le interconnette.

L‟idea di mente come processo interattivo, autocorrettivo ed evolutivo rimanda ad un‟impostazione ecologica alla quale i vari elementi contribuiscono secondo nessi di relazione e scambio reciproci. Mentre la tradizione oggettivista riteneva che l‟individuo fosse un‟entità fissa e determinata, dotata di una mente delimitata e circoscritta, per Bateson «la relazione viene per prima, precede» (p. 179). Al posto di un mondo popolato da “io” isolati e ben definiti, egli annuncia comunità circolari e comunicanti di soggetti che esistono in quanto sono, per definizione, in relazione con altri soggetti. Il “cogito ergo sum” cartesiano viene così sostituito dal “penso dunque siamo” di Heinz von Fœrster, per il quale la formulazione di ogni pensiero, pur appartenendo al singolo individuo, deriva dall‟interazione con un meccanismo mentale più vasto. Del resto Bateson, prendendo le distanze da Sigmund Freud che apriva la mente verso l‟interno riportando tutti i processi all‟interno del corpo, estende invece la mente al mondo esterno. Come affermava già in Verso un‟ecologia della mente, la mente può essere considerata come un processo ecologico simile a quello attivato da un individuo che stia abbattendo un albero con un‟ascia, che deve correggere ogni colpo a seconda dell‟intaccatura lasciata dal colpo precedente. Il complesso “albero-occhi-cervello-muscoli- ascia-colpo-albero” si configura come un sistema totale che ha le stesse caratteristiche del processo mentale. Come sostiene Tim Ingold, a partire dalla metafora dell‟uomo cieco il cui bastone rappresenta una vera e propria estensione del corpo secondo una linea di continuità che non ci permette di sapere se la mente sia collocata nella testa oppure fuori dal corpo, nel mondo toccato dalla canna, Bateson spiega come la mente sia «unfolding of the whole system of relations constituted by the multi-sensory involvement of the perceiver in his or her environment» (Ingold 2000, p. 18). Criticando l‟identificazione della mente con il cervello come punto fisso ed immutabile a cui arrivano i dati dall‟esterno, egli ritiene possibile l‟informazione solo se questa viene intesa come interazione del soggetto con il suo contesto ambientale. Ogni immagine o raffigurazione di un oggetto resta impercettibile se non ci poniamo in relazione con esso. Come l‟uomo cieco costruisce configurazioni del mondo muovendo il bastone sul terreno, così l‟uomo vedente realizza lo stesso processo attraverso i suoi occhi. Per Bateson «the world opens out to the mind through a process of revelation»
Questa impostazione ecologico-relazionale comporta che parole ed azioni assumano significato solo entro quadri più generali di riferimento, ovvero – per dirla con Bateson – contesti: Prive di contesto, le parole e le azioni non hanno alcun significato. Ciò vale non solo per la comunicazione verbale umana ma per qualunque comunicazione, per tutti i processi mentali, per tutta la mente, compreso ciò che dice all‟anemone di mare come deve crescere e all‟ameba cosa fare il momento successivo.

È solo definendo il significato di un contesto che un‟azione assume valenza positiva o negativa, un pensiero diviene corretto o inefficace, un gesto adeguato o sbagliato. La mente si configura quindi come un aggregato simile ad un vero e proprio sistema in senso ecologico.
Anche nel caso di patologie schizofreniche Bateson attribuisce un ruolo non secondario ai circuiti interattivi che coinvolgono tutti gli attori di una relazione, aprendo un filone di studi seguito poi da molti psicoterapeuti. L‟individuo deve essere inserito in un contesto più ampio della sua singolarità, secondo un criterio ecologico, poiché «solo mantenendo ben saldi il primato e la priorità della relazione si potranno evitare spiegazioni dormitive» (p. 179). Infatti, «non ha senso parlare di „dipendenza‟, di „aggressività‟ o di „orgoglio‟ e così via. Tutte queste parole affondano le loro radici in ciò che accade tra una persona e l‟altra, non in qualcosa che sta dentro una sola persona
Definendo l‟ecologia della mente come un nuovo modo di pensare la natura dell‟ordine e dell‟organizzazione nei sistemi viventi Bateson inaugura un‟inedita analogia tra il mondo della mente e il complesso dei viventi, tra il processo dell‟apprendimento e i meccanismi biologico-evolutivi del sistema naturale. Come spiega egli stesso, «stavo superando quel confine che si suppone racchiuda l‟essere umano. In altre parole, mentre scrivevo, la mente diventò, per me, un riflesso di vaste e numerose porzioni del mondo naturale esterno all‟essere pensante» (p. 17). Inizia così la sua presa di coscienza non soltanto di un metodo di comprensione dei processi cognitivi e mentali, ma di un «più ampio sapere che è la colla che tiene insieme le stelle e gli anemoni di mare, le foreste di sequoie e le commissioni e i consigli umani»
Se ogni atto di conoscenza ci mette in relazione con il mondo intero, questo significa che la mente si configura come un processo immanente il cosmo, mediante una continua interazione con l‟insieme complessivo dei viventi. Secondo l‟interpretazione di Brian Goodwin, la biologia risulta finalmente aggiornata con la concezione di Bateson sulla creatività organica e naturale, che giunge alla conclusione che i membri di una specie «make meaning of their inherited text by generating a form (a distinctive morphology and behaviour pattern) that is dependent on both genetic text and external context»

Siamo di fronte all‟intuizione batesoniana dell‟unità del tutto che ha messo in discussione paradigmi e riduzionismi del passato e che rappresenta, ancora oggi, una imprescindibile categoria di analisi della nostra condizione umana. Esortando a pensare in maniera unitaria mente e natura e a stimare la conoscenza non come la rappresentazione dell‟oggetto da parte di un pensiero o di uno spirito indipendente, Bateson ci restituisce una visione creativa e non deterministica del sapere, come pure un‟inedita e innovativa ecologia della vita. Se, come scrivono Humberto Maturana e Francisco Varela, «ogni atto di conoscenza ci porta un mondo fra le mani» (Maturana e Varela 1999, p. 45), quello avviato da Bateson è un processo di rifondazione epistemologica e anche di ricollocazione dell‟uomo in un tutto interconnesso. La stessa parola “animale” nel suo significato di «dotato di mente o di spirito» (p. 18), traducendo il complesso intreccio di componenti cui è sottoposto l‟essere umano, lo posiziona in una cornice sistemica che riconosce «il nostro essere parte di come condizione ineludibile della nostra esistenza» (Manghi 2004, p. 93).

Rilettura – Mente e natura 263 BIBLIOGRAFIA
Bateson, G. (1976). Verso un‟ecologia della mente. (trad. it. di G. Longo). Milano: Adelphi. [1972]
Bateson, G. (2008). Mente e natura. Un‟unità necessaria. (trad. it. di G. Longo). Milano: Adelphi. [1979]
Bertrando, P., & Bianciardi, M. (a cura di) (2009). La natura sistemica dell‟uomo. Attualità del pensiero di Gregory Bateson. Milano: Raffaello Cortina.
Ceruti, M. (1998). Ecologia della contingenza. In S. Manghi (a cura di), Attraverso Bateson. Ecologia della mente e relazioni sociali (pp. 227- 235). Milano: Raffaello Cortina.
Charlton, N. G. (2008). Understanding Gregory Bateson: mind, beauty and the sacred earth. Albany: State University of New York Press.
De Biasi, R. (a cura di) (1992). Bateson: dove gli angeli esitano. Aut aut, 251.
De Biasi, R. (1996). Gregory Bateson. Milano: Raffaello Cortina.
Goodwin, B. (2008). Bateson: Biology with Meaning. In J. Hoffmeyer, A Legacy for Living Systems. New York: Springer.
Ingold, T. (2000). The Perception of the Environment: essays on livelihood, dwelling & skill. London-New York: Routledge.
Lipset, D. (1980). Gregory Bateson. The Legacy of a Scientist. Englewood Cliffs: Prentice-Hall.
Manghi, S. (a cura di) (1998). Attraverso Bateson. Ecologia della mente e relazioni sociali. Milano: Raffaello Cortina.
Manghi, S. (2004). La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson. Milano: Raffaello Cortina.
Maturana, H., & Varela, F. (1999). L‟albero della conoscenza. (trad. it. di G. Melone). Milano: Garzanti. [1984]
Zoletto, D. (1995). Le bucce di Bateson. Aut aut, 269.

Tratto da: Mary Malucchi, Rilettura, Mente e natura, Gregory Bateson Adelphi, Milano, 2008

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