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LESSICO NATURALE

L’insostenibile piacere del suicidio

28 Maggio 2022

New York “Ma come si dice, Mishìma o Mìshima?”. “Mìshima. Accento tonico sulla prima i. Anche lui non capiva perché in Europa lo chiamassero Mishìma”. Donald Keene sorride, ha un gesto come per dire: non ha importanza. Siamo nella sua casa di Riverside Drive, a Manhattan, che si affaccia sul fiume Hudson e su un panorama dei più limpidi della città. Keene, che insegna Letteratura giapponese alla Columbia University, è il massimo esperto americano delle opere di Mishima, del quale ha anche tradotto alcuni libri. Sta per partire per Napoli. “Ci conoscemmo nel 1954, a Tokyo”, dice Keene, “e non ci perdemmo più di vista. Io abitavo a Kyoto, a quell’ epoca. Andai a vedere un suo lavoro teatrale, una cosa tratta da una pièce del sedicesimo secolo, e volli conoscerlo. Poi sono andato spesso a casa sua, dove c’ erano sua moglie e i figli. Aveva due figli, una femmina, nata prima, e un maschio. Era una casa incredibile, di stile spagnolo, una di quelle case che oggi si trovano in Costa Rica. Non c’ era un solo oggetto giapponese in nessuna stanza. Aveva perfino un tavolo di marmo con pietre dure incastonate, opera di uno scultore italiano”. Era veramente così occidentalizzato come si dice? “Sì e no. Era attento alla cultura occidentale. Conosceva il tedesco e l’ inglese; il tedesco meglio dell’ inglese, che aveva imparato nella versione colloquiale. A volte si infatuava di un’ espressione e la usava dappertutto. Una parola che gli piaceva era monumental. Diceva monumental di ogni cosa. Ma leggeva anche il francese. Questo però non significa che fosse veramente occidentalizzato. A mio parere rimase sempre profondamente giapponese”. Non sentiva nessuna influenza particolare? “Non gli piacevano i francesi. Mauriac, per esempio, lo trovava troppo in gamba. Aveva più affinità con i tedeschi, Thomas Mann in particolare. La sua ultima opera, la tetralogia, Hojo no umi (Il mare della fertilità), ha il respiro de La montagna incantata. Però, avendo il gusto della lingua, traduceva, o meglio rivedeva certe traduzioni dal francese. Ripulì anche un lavoro in francese di D’ Annunzio, Le martyre de Saint Sebastien. E una cosa di Racine. Naturalmente conosceva Bataille, e per un poco prestò attenzione a Oscar Wilde. Qualcosa dell’ Europa, sì, filtrava anche nei suoi scritti”. Ma non nel teatro. “No, per il teatro si rifaceva alla tradizione giapponese. Al teatro dei pupazzi. E ovviamente i suoi Noh sono ricavati da riflessioni sul passato.
Mishima aveva questi due canali che gli davano ispirazione: il palcoscenico classico e la cronaca contemporanea. Uno dei suoi primi viaggi negli Stati Uniti fu l’ indomani della pubblicazione di cinque suoi Noh. Sembrava che si dovessero realizzare; poi mancarono i quattrini e Mishima ripartì”. Perché ha menzionato la cronaca? “Perché i suoi romanzi e racconti partono da fatti accaduti e riportati dalla cronaca. Gogo no eigo (Il sapore della gloria) sappiamo subito come va a finire. E così gli altri. Anche il primo romanzo”. Era ugualmente attratto dal teatro e dalla narrativa fin dall’ inizio? “Direi di sì. Il teatro forse racchiudeva le sue prime speranze, ma a 19 anni gli pubblicarono il primo libro, e poco dopo abbandonò l’ idea di diventare avvocato (era laureato in legge) e decise che avrebbe fatto soltanto lo scrittore. Una volta mi disse che per lui la letteratura era la moglie, il teatro era l’ amante.
Quando in Germania misero in scena il suo Madame de Sade, provò una delle più grandi soddisfazioni”. La sua opera maggiore è teatrale? “No. Mishima è al suo massimo in Kinkakuji (Il padiglione d’ oro). E’ un libro coraggioso. Non è facile sottopporre il lettore moderno a un’ apparente divagazione sulla filosofia Zen e non perderlo. Mishima ci riesce perché la materia fa parte della sua concezione di romanzo.
E’ forse il suo libro più colto; e anche quello in cui il vento dell’ Occidente si fa più sentire (Freud, per esempio). Ma rimane romanzo – un romanzo di Mishima, che è come dire qualcosa che va con la tradizione e insieme l’ avversa”. E’ per questo che non sopportava Dazai? “Osamu Dazai era il suo nemico. Sospetto che in parte fosse perché erano molto simili, ma Mishima diceva che era perché Dazai scriveva troppo di se stesso. Non bisogna scrivere di se stessi, diceva. Naturalmente, era una maschera. Mishima amava nascondersi”.
In Kinkakuji non si nasconde troppo. Non trova che la distruzione del tempio avvenga perché altrimenti il tempo ne sciupa la bellezza – che è il leit motif della sua vita? “Esatto. Il tempio è parallelo al suo corpo. Mishima, come sappiamo, aveva la massima cura del suo corpo.
Faceva esercizi, si irrobustiva i muscoli. Era un continuo. In piscina, ricordo, non entrava mai nell’ acqua: gli bastava farsi vedere in costume da bagno”. E’ così che si spiega la sua morte? “Mishima non voleva invecchiare, forse per la stessa ragione che lo addolorava il pensiero di un tempio che va in rovina. Non voleva che il suo corpo andasse in rovina. Gli dicevamo: ‘Ma da vecchio assapori altre cose. Forse scrivi tutto quello che non puoi scrivere da giovane’ . Non ci dava ascolto. Aveva deciso: sarebbe morto giovane”.
Non le sembra che, almeno da un punto di vista occidentale, questo indica una mente distorta? “Sì, ma non possiamo dimenticare che fin da ragazzo Mishima si nutriva di storie di samurai. Che cosa c’ è al centro di questa tradizione? Il samurai parte per vendicare l’ offesa subita dal suo signore, ma quando l’ ha vendicata (e non importa quanto tempo gli occorre, la vendica sempre) non ha altro da fare: fa hara-kiri. Mishima non aveva nessuna onta da lavare, però aveva in mente di scrivere un certo numero di libri (ne scrisse per 36 volumi), dopodiché era certo che si sarebbe dato la morte”. Lei non dà quindi molto peso all’ elemento politico? “Quasi nessun peso. La Società dello Scudo era composta di cento persone che avevano deciso di suicidarsi. Ma non erano una forza politica. Non erano niente. La sera prima della sua morte ero con Mishima. In tassì passammo davanti all’ edificio dove stavano discutendo il rinnovo del trattato di sicurezza Usa-Giappone. Mishima si aspettava una folla di protestatari. Ma non c’ era nessuno. Nessuno! Solo qualche poliziotto annoiato. Gli parve un affronto”. Lei non ebbe il presentimento che il giorno dopo… “No, tranne che per una cosa. Mishima andò a dormire a mezzanotte. Ci salutammo. Il mio aereo partiva alle 7 del giorno dopo. Mishima si alzò alle 6 e venne all’ aeroporto a vedermi partire. Era trasandato, non si era rasato. Se ebbi il presentimento della fine, fu allora: era venuto a salutarmi per l’ ultima volta”.
Era deluso? “No. Nel 1968 si aspettava il Nobel e lo dettero a Kawabata, e questo forse lo avvilì. Ma nel 1970 aveva deciso. Mi dette da leggere il quarto volume di Hojo no umi e io non volevo leggerlo perché non avevo letto i primi tre. Lui insisté. Era inferiore agli altri, scritto in fretta; ma era evidentemente il suo punto d’ arrivo. Mishima non sopportava di non poter dire nient’ altro”. Del resto l’ idea della morte dietro la maschera c’ è anche in un altro libro. “Sì, Kamen non kokuhaku (Confessioni di una maschera). Ma tutto il suo comportamento diceva morte. Nell’ estate del 1970 portò me e un altro amico a mangiare aragosta. Ordinò un pranzo per nove persone: come se ci volesse dare tutta l’ aragosta che poteva perché non aveva più molto tempo. E il giorno che venne a salutarmi (ho saputo dopo) entrò in un bar e disse ad alta voce: ‘Io non credo che si debba avere una morte stupida!, e se ne andò’ “. La sua opera reggerà al tempo? “Penso di sì. Ci fu un momento dopo la sua morte, almeno in America, in cui la sua politica lo mise in ombra. Ma oggi la gente lo legge di nuovo. La politica è stata sfrondata, e quello che rimane è un fior di scrittore. Avrei voluto dirlo al suo funerale. Mi dissero di non farlo. Ma è una cosa di cui mi pento. Forse lo dico a Napoli”.

“UN INCONTRO A NAPOLI E UNO SPETTACOLO A ROMA “Tra ironia e tragedia: ipotesi su Mishima Yukio”, è il titolo di un convegno organizzato dall’ Istituto Orientale di Napoli che si terrà lunedì prossimo, 28 aprile, a Palazzo Corigliano. Mishima, pseudonimo di Hiraoka Kimitake (Tokyo, 1925-‘ 70), si suicidò nella maniera tradizionale giapponese, il seppuku. Oltre a Donald Keene, intervistato in questa pagina, del controverso autore parleranno Bettina Knapp, docente della City University of New York, Giorgio Amitrano, della Sapienza di Roma, Franco Mazzei e Emanuele Ciccarella, dell’ Istituto Orientale di Napoli. Coordinerà i lavori Paolo Calvetti, che all’ Orientale insegna Lingua e letteratura giapponese. Tra i titoli più noti di Mishima: La foresta in fiore e La voce delle onde (Feltrinelli), Lo specchio degli inganni e Il tempio dell’ alba (Bompiani). Alla figura ambigua e affascinante dello scrittore Marguerite Yourcenar ha dedicato un saggio dal titolo Mishima o la visione del vuoto (Bompiani). Di Mishima è inoltre in programma questa sera al Teatro Vascello di Roma la prima messinscena italiana di Il mio amico Hitler, per la regia di Tito Piscitelli.”

Tratto da: Romano Giachetti, 26 aprile 1997

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Noam Chomsky

27 Maggio 2022

La democrazia è una scatola vuota “La macchina da indottrinamento al servizio di potentissimi, e occulti, poteri finanziari è per Noam Chomsky il vero Grande Fratello della società americana e occidentale. Un sistema di propaganda perfetto che si regge su due pilastri. Il primo sforna fiction, soap, reality show e sport per distrarre gli interessi della gente dai problemi reali e dispensare l’impressione di vivere nel “migliore dei mondi possibili”. Il secondo indirizza le opinioni dei lettori e spettatori, formando convenientemente le nuove classi dirigenti. il risultato è quello di assopire le coscienze e impedire una reale partecipazione. Per rendere la democrazia una luccicante scatola vuota.

Tratto da: Noam Chomsky, Prefazione da “La democrazia del Grande Fratello” 

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Uncontacted

26 Maggio 2022

Uncontacted tribes are the most vulnerable peoples on the planet. They have made a choice to remain isolated. This is their right and it must be respected.

But outsiders are encroaching on their lands and forcing contact. Whole populations are being wiped out by genocidal violence, and by diseases like flu and measles to which they have no resistance.

Join the global call for governments to protect uncontacted tribes’ lands and prevent forced contact. Only when tribal peoples’ rights are respected can they determine their own futures.

https://www.survivalinternational.org/petitions/uncontacted-tribes-declaration

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Panciatichi Ximenes d’Aragona Paulucci Marianna

24 Maggio 2022

La marchesa Marianna Panciatichi Ximenes d’Aragona Paulucci nacque il 3 febbraio 1835 in una famiglia della vecchia aristocrazia toscana. La madre fu Giulia De Saint Seigne e il padre marchese Ferdinando Panciatichi. Fin dal 1644 esistono testimonianze degli interessi naturalistici coltivati nella villa della famiglia dei Panciatichi a Novoli. Del Settecento è l’Hortus Panciaticus di Villa La Loggia: infatti suo padre, il marchese Ferdinando Panciatichi, si distinse per l’introduzione di numerose piante esotiche, fra le quali la prima sequoia, in Italia. A diciotto anni, dopo gli studi al collegio Ripoli di Firenze, Marianna sposò il marchese Alessandro Anafesto Paulucci che, grazie a lei, iniziò ad appassionarsi alla botanica. Dopo la morte del marito, nel 1887, e dieci anni più tardi anche del padre, fu costretta ad abbandonare quasi del tutto i suoi studi e le sue raccolte per dedicarsi all’amministrazione del patrimonio familiare. Donò le sue collezioni malacologiche al Museo di storia naturale dell’Università di Firenze, quelle ornitologiche al Comune di San Gimignano e quelle botaniche all’Istituto tecnico Galileo Galilei. Morì il 7 dicembre 1919 nella sua villa presso Regello.

Marianna Panciatichi Paulucci fu una delle maggiori collezioniste naturalistiche toscane del suo tempo. La sua collezione di uccelli comprendeva circa 1200 esemplari, integrata anche grazie all’aiuto di Ettore Arrigoni degli Oddi (1867-1952), il marito di sua nipote Marianna di San Giorgio, uno dei maggiori ornitologi italiani. Il suo erbario conteneva 4153 campioni appartenenti a 1492 specie diverse. Il contributo più importante fu quello dato allo studio dei molluschi non-marini italiani. Le prime tracce del suo interesse per le conchiglie d’acqua dolce risalgono al 1862, quando era appena ventisettenne. Nel 1866 diede alle stampe il primo lavoro scientifico sul gasteropode fossile Murex veranyi. Fino al 1886 pubblicò numerosi contributi, principalmente nel «Bullettino della Società malacologica italiana» e nel «Journal de chonchyliologie». Nel 1878 presentò la sua collezione all’Esposizione universale di Parigi, compilando per questo scopo il primo elenco delle specie della malacofauna non-marina italiana. Seguirono altri cataloghi, come quello stilato per l’Esposizione internazionale della pesca di Berlino (1880), e l’edizione di tre faune regionali (Calabria, Abruzzo, Sardegna) e del Monte Argentario. Il suo progetto di una Fauna malacologica italiana non si realizzò.In un periodo di progressiva professionalizzazione delle scienze naturali, Marianna rappresentò un personaggio di spicco delle ricerche amatoriali, particolarmente ricche e vivaci nella Toscana dell’epoca. Ella non fu solo raccoglitrice di materiale naturalistico, ma seppe anche inserirsi abilmente in alcuni dei maggiori dibattiti del suo tempo: il darwinismo e il concetto di specie. Mostrando sempre massima prudenza nelle conclusioni generali e nelle esposizioni teoriche, non rinunciava a ferme prese di posizione rispetto a note autorità sulla base delle proprie approfondite conoscenze. Difese, infatti, la concezione di Charles Darwin della continua e graduale trasformazione delle specie nonostante le evidenti lacune nei reperti fossili. Nella discussione sulla definizione di specie e sul confine tra specie e varietà, combatteva invece, sicura di sé e non di rado con tono duro, le idee del suo famoso collega francese, il malacologo Jules-René Bourguignat (1829-1892), e dei suoi connazionali, Carlo De Stefani e Napoleone Pini.

Il geologo Samuel P. Woodward (1790-1838) giudicò Marianna Paulucci «più erudita di molti uomini» [Ogilvie, Harvey, 2000, II, p. 991]. L’ornitologo Ettore Arrigoni degli Oddi, affezionato parente e ammiratore, le dedicò la sua Ornitologia Italiana (1904). Scrisse anche la sua biografia, sottolineando il carattere romantico e consolatore dei suoi “passatempi” naturalistici [Arrigoni degli Oddi, 1921]. Lo storico Giulio Barsanti, invece, la delinea nella sua recente analisi come naturalista seria, battagliera, spesso controcorrente e quasi sempre con precise, non sempre del tutto congruenti, scelte teoriche e metodologiche [Barsanti, 2002].

Scritti:
Matériaux pour servir à l’étude de la faune malacologique terrestre et fluviatile de l’Italie et de ses îles, Paris, Librarie F. Savy, 1878.Replica alle osservazioni critiche dei signori Pini, De Stefani e Tiberi, in «Bullettino della Società malacologica italiana», 5, 1879, pp. 164-200.

Fonti Bibliografiche
E. Arrigoni degli Oddi, Della vita e delle opere della marchesa M. Paulucci, malacologa italiana, in «Atti del R. Istituto veneto di scienze lettere ed arti», 80, 1921, pp. 59-70.F. Barbagli, S. Lotti, Raccolte e studi botanici di Marianna Paulucci, in IV° Congresso della Società Italiana di Malacologia. Atti della giornata di studi su Marianna Paulucci, a cura di S. Cianfanelli e G. Manganelli, in «Lavori della Società italiana di malacologia», 25, 2002, pp. 35-39.F. Barbagli, A. Nistri, Gli interessi ornitologici di Marianna Paulucci, in IV° Congresso della Società Italiana di Malacologia. Atti della giornata di studi su Marianna Paulucci, a cura di S. Cianfanelli e G. Manganelli, in «Lavori della Società italiana di malacologia», 25, 2002, pp. 31-34.G. Barsanti, Di alcuni orientamenti teorici di Marianna Paulucci, in IV° Congresso della Società Italiana di Malacologia. Atti della giornata di studi su Marianna Paulucci, a cura di S. Cianfanelli e G. Manganelli, in «Lavori della Società italiana di malacologia», 25, 2002, pp. 5-12.S. Cianfanelli, G. Manganelli, A bibliography of Marianna Paulucci (1835-1919), in «Archives of Natural History», 29, 2002, pp. 303-315. G. Manganelli, S. Cianfanelli, E. Talenti, Il contributo di Marianna Paulucci alla conoscenza della malacofauna italiana, in IV° Congresso della Società Italiana di Malacologia. Atti della giornata di studi su Marianna Paulucci, a cura di S. Cianfanelli e G. Manganelli, in «Lavori della Società italiana di malacologia», 25, 2002, pp. 13-30.M. Ogilvie, J. Harvey, eds, The biographical dictionary of women in science. Pioneering lives from ancient times to the mid-20th century, New York-London, Routledge, 2000, p. 991.

Testo di: Ariane Dröscher

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Masanobu Fukuoka

21 Maggio 2022

Masanobu Fukuoka (福岡正信 Fukuoka Masanobu?; 2 febbraio 1913 – 16 agosto 2008) è stato un botanico e filosofo giapponese, pioniere della agricoltura naturale o del non fare, autore di La rivoluzione del filo di paglia e The Natural Way of Farming.

Istruitosi come microbiologo del suolo alla facoltà di Biologia, in Giappone, ha iniziato la sua carriera come scienziato del suolo, specializzandosi nelle patologie delle piante.

A 25 anni cominciò a mettere in dubbio i preconcetti della scienza dell’agricoltura. Quindi, lasciò il suo posto come ricercatore scientifico, tornò nella fattoria della sua famiglia nella isola di Shikoku nel Giappone del sud per coltivare mandarini, iniziando a dedicarsi allo sviluppo di un sistema di agricoltura biologica ed ecocompatibile. L’obiettivo della sua ricerca è stato minimizzare il più possibile gli interventi dell’uomo, che si limita ad accompagnare un processo largamente gestito dalla natura, rifiutando le tecniche agricole tradizionali e moderne.

Da un punto di vista filosofico, il metodo di Fukuoka si ispira al concetto del Mu, approssimativamente tradotto con “senza” o anche “nessuno”, il quale è il nucleo dell’insegnamento del Buddhismo Zen. Fukuoka si riferiva, infatti, alle sue pratiche di coltivazione come “agricoltura del Mu”. Per lo Zen l’Universo è in un costante flusso di cambiamento, in cui ogni cosa avviene spontaneamente. Per questo, si ritiene che il miglior modo di agire sia “senza” agire, lasciando libero il campo a quel “meccanismo di autoregolazione che può manifestarsi soltanto se non gli si fa violenza”, come si può ben notare in particolare nell’agricoltura, la quale obbedisce a orologi interni ed esterni, atmosferici, e il cui vero motore è la Natura.

Nell’essenza, il metodo di Fukuoka tenta di riprodurre quanto più fedelmente le condizioni naturali. Il terreno non viene arato e la germinazione avviene direttamente in superficie, dopo aver mescolato i semi, se necessario, con argilla e fertilizzante (questo consente di ridurre il numero di semi necessari). Nel terreno intatto, dove idealmente sono state fatte crescere piante poco invadenti che fissano l’azoto (es. trifoglio), che trattengono il terreno e impediscono lo sviluppo di infestanti, viene coltivata simultaneamente la coltivazione voluta. Animali antagonisti vengono introdotti per combattere infestazioni (ad esempio carpe, insettivoro nelle coltivazioni di riso, o anatre per combattere le lumache). Al terreno deve essere restituito quanto più possibile di ciò che ha prodotto, quindi l’agricoltore deve cogliere esclusivamente i frutti e lasciare sul campo tutti gli scarti e le rimanenze della coltivazione, che fungeranno da pacciamatura. Il terreno rimane sempre coperto, riducendo così l’impoverimento per erosione superficiale, e la parte aerea delle piante annuali, dopo il raccolto, deve essere utilizzata per una pacciamatura. Anche la mancanza di aratura, o comunque di aerazione artificiale del terreno, riduce la necessità di concimazione, in quanto i batteri che fissano l’azoto nel terreno sono anaerobi.

Il suo metodo di coltivazione, che si realizza essenzialmente su piccola scala, è adatto a piccoli possedimenti, avvalendosi più dell’attenzione al dettaglio che del ricorso al lavoro intenso, richiedendo comunque esperienza e una notevole abilità. Il tempo totale di lavoro viene notevolmente ridotto, fino all’80% rispetto ad altri metodi. Secondo le affermazioni dello stesso Fukuoka, il suo metodo di coltivazione è stato in grado di produrre, in Giappone, rese per ettaro simili a quelle medie ottenute con tecniche che si avvalgono della chimica[1].

È stato fatto molto per adattare il suo metodo alle condizioni europee: tra i contributi, va ricordato quello del coltivatore francese Marc Bonfils e della coltivatrice spagnola Emilia Hazelip, da cui nasce l’Agricoltura Sinergica.

Libri:

  • The One-Straw Revolution: An Introduction to Natural Farming, ISBN 0-87857-220-1 | La rivoluzione del filo di paglia, Libreria Editrice Fiorentina ISBN 88-89264-02-0
  • La fattoria biologica, Mediterranee ISBN 88-272-0102-5
  • con Frédéric P. Métreaud, The Natural Way of Farming: The Theory and Practice of Green Philosophy, ISBN 0-87040-613-2
  • Masanobu Fukuoka et al.,The Road Back to Nature: Regaining the Paradise Lost, ISBN 0-87040-673-6
  • Lezioni italiane di Masanobu Fukuoka, (a cura di Giannozzo Pucci) Libreria Editrice Fiorentina, ISBN 978-88-89264-32-4
  • La Rivoluzione di Dio della Natura e dell’Uomo, Libreria Editrice Fiorentina ISBN 978-88-6500-023-6

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Je ne suis pas un artiste, mais j’ai la mémoire des fleurs

16 Maggio 2022

«Scrivere del male è angelico. Ma ci sono fatti, come Auschwitz, per i quali la parola non pareggia il male. Le distruzioni dell’Isis? In Italia non siamo terroristi, ma non vedo che devastazioni, a cominciare dalla nostra lingua. La bellezza bussa alla porta ed è come se in casa non ci fosse nessuno».

Alla soglia dei novant’anni, Guido Ceronetti resta la più anticonformista voce critica e poetica del nostro Paese. È scrittore, traduttore, poeta e drammaturgo; «e marionettista», come tiene a precisare. Non ci tiene per niente, invece, e da sempre, ad apparire politicamente corretto, come testimoniano le polemiche destate dai suoi articoli su «La Stampa», «la Repubblica» e il «Corriere della Sera», come quando si schierò a favore della scarcerazione di Erich Priebke, l’ufficiale nazista che organizzò l’eccidio delle Fosse Ardeatine, colpevole della «miseria di non essere un santo» e di aver ecceduto nell’obbedienza agli ordini; oppure, più recentemente, quando ha osato prendere le distanze dall’esaltazione collettiva e dalla retorica mediatica che hanno accompagnato il soggiorno nello spazio dell’astronauta Samantha Cristoforetti.

I suoi articoli, talora nati da esperienze di viaggio, spaziano da profili di Giacomo Leopardi (magari confrontato con Kafka) o santa Teresa d’Avila all’Italsider o alla chiusura degli ospedali psichiatrici dopo la legge Basaglia e sono raccolti in libri come La vita apparente (Adelphi) o Albergo Italia (Einaudi), un ritratto quest’ultimo, del nostro Paese negli anni Ottanta. Del 2011 è In un amore felice. Romanzo in lingua italiana ancora pubblicato da Adelphi, come il «diario» Per le strade della Vergine (segno zodiacale dell’autore) da poco in libreria. Sono fragile sparo poesia è la sua più recente raccolta di versi, edita da Einaudi.

Quest’uomo che ha esteso i suoi studi alla biblistica e alla traduzione dei classici, dei poeti del ’900, dell’Ecclesiaste e del Cantico dei cantici, ha più volte esplorato le zone d’ombra dell’essere umano. Ciò non gli impedisce di amare la luce d’estate e di contemplare la bellezza di un verso o di un’opera d’arte, né di scoprire che Goya, l’artista capace di evocare la sensualità delle majas o l’incubo delle «Pitture nere», può fare rima con gioia.

Lo incontriamo a Torino, la sua città (cui ha dedicato pagine sempre in bilico tra il disincanto e l’amore, la nostalgia e l’ironia), anche se da tempo vive a Cetona, nel senese.

Guido Ceronetti, i musei traboccano di pubblico, le città d’arte e non tradizionalmente «d’arte» (come la postindustriale Torino) sono travolte dal turismo, si producono mostre a getto continuo. C’è un’inflazione di bellezza, eppure il genere umano non sembra giovarsene. Perché, al contrario di quanto diceva Dostoevskij, la bellezza non salva il mondo?
Perché è vicina a Dio. Se Dio non può farcela e non vuole farcela, neanche la bellezza può salvare il mondo.

C’è il rischio di un’assuefazione alla bellezza, di una visione meramente «cartolinesca» delle opere e delle città d’arte?
Non è detto che mostre siano sinonimo di bellezza e tanta arte non vale il viaggio. Purtroppo ce n’è tanta che il viaggio lo varrebbe eccome, ma che non sono riuscito a vedere. Per fortuna visitai la mostra di Cézanne al Grand Palais di Parigi nel 1995, ma non riuscii, nel 2006, a vedere quelle organizzate per il quarto centenario della nascita di Rembrandt. Sempre a Parigi, il Musée du quai Branly può essere considerato una mostra permanente allestita così bene da definirla un’offerta di bellezza.

Che però, si diceva, non sembra avere effetti positivi.
L’uomo è degenerato. La bellezza gli bussa alla porta ma è come se in casa non ci fosse nessuno. Martin Heidegger, nella sua ultima intervista, dice che solo un dio può salvarci. Ma questo dio potrebbe anche infischiarsene. Ammesso che le sorti del mondo siano in mani divine, se si trattasse di un dio coranico avremmo più di un motivo per dubitare di essere in buone mani. Sono mani che minacciano.

L’Isis distrugge Palmira per iconoclastia religiosa o è un puro e semplice sfregio alla nostra cultura, alla bellezza così com’è stata concepita nell’Occidente classico?
Questa è una buona domanda, che potrebbe essere estesa anche alla distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei talebani. Forse il movente sono tutte e due le cose che lei ipotizza. Ma non dimentichiamo l’abissale ignoranza di costoro. Non c’è bisogno di andare tanto lontano. L’editore Enzo Crea mi ha raccontato che cosa rispose un sindaco della Sardegna quando gli si fece notare quanto fossero deturpanti le costruzioni che lui aveva autorizzato. Disse: «C’è mancata la cultura». Solo che noi in Italia ne abbiamo così poca, di cultura, in alto e in basso. Non siamo talebani, ma sento e leggo che la devastazione di questo Paese è continua. Qui la gente qualche settimana fa non sapeva neanche del referendum sulle trivellazioni petrolifere. Sia l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sia l’attuale presidente del Consiglio Matteo Renzi hanno fatto capire che non era poi così necessario andare a votare. Il voto referendario è un’istituzione di Stato, ma gli stessi rappresentanti dello Stato, come aveva già fatto Berlusconi, invitano i cittadini a non andare a votare e ad andare al mare. Il mare è una pattumiera dove si va per non votare. Ma per restare al tema della cultura, abbiamo una lingua che non è più protetta. Oggi viene richiesto l’inglese, e va bene, ma ormai certi insegnamenti scientifici nelle università vengono impartiti in inglese. È un’enorme fuga dalla nostra stessa lingua madre.

L’arte contemporanea non produce necessariamente bellezza, ma si occupa sovente di politica. Così «Guernica» è sempre più un’icona…
Io amo, mi commuove il Picasso blu e rosa. Ma «Guernica» è un falso, è un quadro che raffigura la morte del toro, storicamente e biograficamente, che Picasso ha cinicamente «venduto» come un’opera sul bombardamento di Guernica, ma di Guernica non c’è proprio niente. Legga che cosa scriveva Buñuel, che di spagnolerie se ne intendeva, nelle sue memorie: di «Guernica» parla come di cosa decisamente brutta. Certo che di quel quadro, aiutato anche da una straordinaria fortuna ideologica, oggi non si può dir male.

Al contrario, lei non ha mai nascosto il suo amore per Mario Sironi, neanche quand’era considerato solo un pittore di regime.
Nell’opera di Sironi ci sono tante frange di regime ma c’è sempre del genio. E poi è uno dei pochi grandi pittori delle montagne. Le sue Dolomiti scoprono l’anima della montagna. Le pare si possa dire lo stesso delle Alpi di Segantini? E chissà se Sironi sarebbe stato ispirato dalle tranquille Alpi svizzere. Lo ispirarono invece le Dolomiti, luoghi di combattimento, dove lui ha anche combattuto. Sono quadri molto malinconici, dove si concentra un’anima in tormento.

Alla disperazione di Sironi dopo il suicidio della figlia lei ha dedicato una delle poesie del libro «Le ballate dell’angelo ferito». Sono versi dai quali trasudano dolore e male, temi molto frequenti nei suoi scritti. Forse perché raccontare il male vuol dire esorcizzarlo?
Non c’è nulla di più angelico che parlare del male; quindi mi considero un angelo. Ma ci sono fatti nei quali il male è oltre il dicibile, la parola non pareggia Auschwitz. Le storie vere raccontate nel libro che lei cita mi hanno tutte sedotto. Ho potuto scrivere sul delitto di Novi Ligure perché s’imparenta col mito greco tragico. In compagnia di un’attrice ho letto «Le ballate dell’«Angelo ferito» in un carcere di Spoleto. Davanti a me erano quasi tutti ergastolani. Avevano delle forti reazioni; specialmente per la ragazza di Novi Ligure non c’era pietà; nel loro applauso al termine della lettura leggevo la loro condanna per l’uccisione così gratuita di una madre e di un fratello. Io sono tutt’ora in corrispondenza, per quanto non così regolare, con un uxoricida che in carcere si è laureato in filosofia con una tesi sul suicidio, un gesto non vissuto astrattamente, perché lui lo ha tentato più di una volta dopo avere ucciso la moglie. Finché ha incontrato una signora che insegnava in carcere e ne è uscito sotto la sua ala. Non so se un giorno potrebbe ritentare la cosa, ma i giudici secondo me hanno avuto ragione. Quei gesti non si ripetono e una volta che si è espiata la pena è inutile infierire.

Il male raccontato dal suo angelo ha diverse facce…
Sono contento di aver sottratto alla polvere degli archivi il caso di Rosa Vercesi (una donna torinese che nel 1930 uccise un’amica, la cui vicenda è ripercorsa da Ceronetti anche in un libro edito da Einaudi, Ndr). C’è il caso di Michele Bonaglia, un pugile che durante una guerra civile commetteva atti di oscena ignoranza dei principi umani. Ma è vero, il male ha diverse facce. Il bombardamento di Dresda fu un’azione malvagia, a guerra ormai vinta. E lo stesso si può dire dell’aviazione italiana, inglese e francese che dopo Vittorio Veneto inseguono l’esercito austriaco in fuga, mitragliando a bassa quota dei poveracci che morivano di fame e tornavano a casa: «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza». Lo conoscevamo a memoria, il bollettino della vittoria. Anche in guerra, che pure è male, senti la presenza di un altro male.

Che cosa le ha lasciato la conoscenza diretta di Emil Cioran?
Un senso molto forte del male dell’uomo e dell’uomo come malattia del pianeta. Ho aderito alla sua filosofia sin dal primo incontro.

E che cosa l’ha avvicinata agli spettacoli di marionette con cui insieme a sua moglie, Erica Tedeschi, animò il Teatro dei Sensibili?
Nel 1970 mia moglie e io volevamo fare domanda per un’adozione. Il nostro scopo era dimostrare alle assistenti sociali che per il nostro ipotetico bambino avremmo allestito degli spettacoli di marionette anziché darlo in pasto a un televisore. Non l’avessimo mai detto! Facemmo una pessima impressione: in una coppia che nega al proprio figlio la televisione c’è qualcosa che non va! Comunque abbiamo continuato con il nostro teatrino, prima in casa e poi fuori, sempre con un bel pubblico. In fondo adesso me ne compiaccio, mi sono sempre ritenuto un marionettista, anche se dal ’91 non è più vero. Ora però sto pensando a una «shakespearata» in marionette; ho messo in scena per tanti anni «Macbeth», ne ho fatte tante versioni. Ma ora non mi chiama più nessuno, mi danno già per morto.

Heinrich von Kleist sosteneva che il sapere e la riflessione determinino nell’uomo una perdita dell’innocenza e della grazia, mentre l’inconsapevolezza della marionetta ha qualcosa di divino.
Molti anni dopo aver creato il teatrino in appartamento, ho pensato alla quarta elegia duinese di Rilke, laddove il poeta spiega come l’attore, una volta terminato lo spettacolo, si spoglia del suo costume, torna a casa e va a dormire. Invece la marionetta anche a scena vuota fa accadere qualcosa.

Il libro «Il silenzio del corpo» è il suo maggiore successo editoriale. Perché oggi prestiamo tanta attenzione al nostro corpo, al nostro benessere fisico, all’apparire?
Abbiamo perso il senso del divino, dell’ultrafanico, del non visibile: così tutto si è concentrato sul corpo. In tal senso, non ci è riuscita neppure l’ultima grande era messianica, quella che per me rimane il 1789, la Rivoluzione Francese fino al Terrore. Degli imbecilli hanno rovinato tutto, perché quella era un’era messianica. Poi è venuto un messia armato, che infatti aveva in sé anche qualcosa del mondo di là. Napoleone Bonaparte non era un Hitler o uno Stalin… Ma concentrava in sé tutto il bene e il male della Rivoluzione. E il male della rivoluzione è tutto dal ’92, dall’era repubblicana, purtroppo. Però in quell’epoca c’erano personaggi illuminati, un grande mistico come Louis-Claude de Saint-Martin. Lo stesso William Blake è un artista messianico. Ma c’erano degli illuminati anche nella tragica Rivoluzione russa. Sa che durante la Rivoluzione francese accadde un episodio commovente che riguarda il teatro di marionette?

No, di che cosa si tratta?
Al Palais Royal c’era un famoso teatro d’ombre. Un giorno vi si recò Fouquier-Tinville, il temuto pubblico accusatore del tribunale della Rivoluzione durante il Terrore. All’uscita dallo spettacolo, due bambine e una donna gli si gettarono ai piedi, chiedendogli di avere pietà del padre e del marito, ormai destinato, come si diceva, alla «carretta», e quindi alla ghigliottina. Ebbene, il grande, terrificante accusatore, intenerito dallo spettacolo, concedette la grazia. La marionetta ha un effetto etico. In teatro non riusciamo più a crearlo… Però con gli attori del Teatro dei Sensibili forse ci siamo riusciti, nel 2014, al Piccolo di Milano, in tre sole recite che hanno ottenuto un grande successo. Abbiamo messo in scena «Quando il tiro si alza. Il sangue d’Europa, 1914-1918», ispirato a un episodio della prima guerra mondiale. Lì producemmo un effetto etico, che sarebbe piaciuto a Sironi e a Céline… Ora sarebbe arrivato il momento della mia passeggiata pomeridiana, ma prima vorrei donare a lei e ai suoi lettori un bel pensiero, proprio di Céline.

Grazie.
In un’intervista, poco prima di morire, disse: «Je ne suis pas un artiste, mais j’ai la mémoire des fleurs». È una frase che ci lascia nel dubbio: la «memoria dei fiori» è ricordare i fiori, ma forse Céline vuole dirci che possiede la memoria che può avere un fiore.

Tratto da: Franco Fanelli, Il Giornale dell’Arte numero 366, luglio 2016

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Nicholas Georgescu-Roegen

15 Maggio 2022

«Il vero “output” del processo economico non è un efflusso fisico di spreco, ma il godimento della vita.»

«Dobbiamo renderci conto che un prerequisito importante per una buona vita è una quantità considerevole di tempo libero trascorso in modo intelligente.»

Nicholas Georgescu-Roegen

Nicholas Georgescu Roegen, uno dei più geniali pensatori del secolo scorso, è considerato a ragione il precursore della moderna economia ecologica, quella disciplina scientifica che persegue l’incorporazione delle variabili ambientali in modelli di gestione delle risorse economiche con implicazioni non solo nella scala economica ma anche nel sociale, politico e ambientale, proponendo un modello di sviluppo che garantisca simultaneamente l’equilibrio economico e ecologico, appropriato, intercambiabile e riproducibile. Georgescu Roegen fu un testimone privilegiato degli avvenimenti del secolo passato, cosa che gli permise di sviluppare la sua personale e pionieristica visione in molti campi della teoria economica e in particolare della bioeconomia, del quale è considerato il padre a tutti gli effetti. Secondo Georgescu Roegen, il processo economico non sarebbe altro che un’estensione dell’evoluzione biologica, che rivisita il ruolo dell’economia nella biosfera. Con il suo lavoro pubblicato nel 1971, dal titolo “la Legge dell’Entropia e il processo economico”, stabiliva con una originalità di pensiero, una correlazione tra i processi economici e il secondo principio della termodinamica. Egli rivisita e corregge in chiave critica la teoria neoclassica. Con una lucidissima analisi mette in risalto quali sono stati gli errori dell’economia classica occidentale, fatti tanto dal capitalismo quanto dal comunismo, errori riconducibili al grosso limite della visione meccanicistica, che con le sue strette implicazioni nella tecnologia e nell’economia, sarebbero alla base della crisi ecologica, sociale e politica del limite della crescita.

Il fatto che la popolazione non raggiunga un grado di soddisfazione adeguato alle sue necessità basilari, genera una continua azione di sfruttamento del mezzo ambiente con un uso e un abuso che va ben oltre la disponibilità del capitale, ma raggiunge i limiti dell’esaurimento delle risorse diventando di fatto un problema di economia globale. E’ in questo senso che la bioeconomia si pone come uno strumento per raggiungere gli obbiettivi di sostenibilità e non come semplice strumento per determinare la direttrice dell’uso delle risorse naturali. Allo stato attuale, i fondamenti della bioeconomia gettata da Georgescu sono di un’attualità sorprendente in un mondo di economia globalizzata, tanto che è rimasta celebre una frase attribuita a Kenneth Boulding : ...Coloro che credono fermamente che la crescita esponenziale può durare in eterno in un mondo finito, o è un pazzo o è un economista…

In questo senso le teorie di Georgescu sono il punto di partenza per tutti coloro che intendono conciliare l’economia con l’ecologia. Per la formulazione della sua teoria, Georgescu Roegen, applica alla teoria economica la seconda legge della termodinamica, la seconda legge che stabilisce i processi nei quali il calore si trasforma in una diversa forma di energia e viceversa e che stabilisce la conservazione quantitativa dell’energia e la sua degradazione in termini qualitativi completando il fenomeno dell’entropia e del disordine progressivo, in altri termini, se un sistema termodinamico compie un processo irreversibile, si ha un aumento dell’entropia del sistema e dell’ambiente che lo circonda considerati nel loro insieme. Poiché l’ambiente che circonda un sistema termodinamico è costituito, al limite, dal resto dell’universo e poiché le trasformazioni naturali sono tutte inevitabilmente irreversibili avremmo che esse provocano un continuo aumento di entropia.

… La rivoluzione è una situazione molto ricorrente nella fisica. La rivoluzione che ci interessa, iniziò quando i fisici riconobbero il fatto elementare che il calore si muove sempre solo in un’unica direzione, dal corpo più caldo, verso quello più freddo, e questo portò a riconoscere l’esistenza di fenomeni che non possono essere riconducibili alla locomozione, né spiegarsi con le leggi della meccanica. In questa maniera apparve un nuovo ramo della fisica, la termodinamica che con la nuova legge dell’entropia trovò la sua giusta collocazione insieme alla legge della meccanica Newtoniana….

Per Georgescu Roegen, l’economia, forgiata nel paradigma meccanicistico di Newton e Laplace, prende in considerazione solo fenomeni atemporali, escludendo le scoperte scientifiche di Carnot, Clausius e Darwin, scoperte che racchiudono inevitabilmente in se stesse il concetto di irrevocabilità. La critica di Georgescu all’economia classica è rivolta alla scarsa considerazione della rivoluzione della termodinamica e della biologia, che ha portato l’economia ad una situazione di stallo antecedente il XX sec.

Da ciò Georgescu si sente autorizzato a formulare una sua personale quarta legge della termodinamica che afferma che la materia, come l’energia sono soggette all’entropia. Secondo questa legge anche la materia si degrada in maniera irreversibile e senza essere totalmente riciclabile. Ciò equivale a dire che le attività umane che si alimentano di bassa entropia, si sviluppano a costo di una sua dissipazione irrevocabile, tracciando il limite fisico delle società industriali e, per il proprio carattere exosomatico della sua esistenza della specie umana nel suo insieme. Il flusso di materie prime e di energia trovano la loro fonte esclusivamente nella natura, da li passa attraverso i procedimenti di produzione industriale per raggiungere infine l’utilizzatore finale. I residui degradati e degradanti, fanno di nuovo ritorno alla Natura. Dall’analisi di tutti i sistemi economici, risulta chiaro che il flusso di natura entropica evolve verso l’irreversibilità. Le economia a forte vocazione industriale, sono dipendenti dalle risorse a bassa Entropia, idrocarburi, minerali, acqua potabile, terra fertile e via dicendo, risorse queste che vengono estratte per la maggior parte da paesi meno sviluppati, generando come contraccolpo esaurimento delle risorse e inquinamento. Queste conseguenze sono attese e prevedibili e non semplici ipotesi come potrebbe lasciar intendere l’economia classica. Le nuove tecnologie idonee al miglioramento della produzione industriale ha i suoi vantaggi solo nell’immediato a discapito del futuro, senza apportare un reale beneficio in termini economici alla popolazione nel medio e lungo termine. La soluzione auspicata da Georgescu Roengen così come si può dedurre dal suo saggio su “Energia e Miti economici” è un programma bioeconomico minimo in otto punti dove fa risaltare la necessità di limitare la corsa agli armamenti, l’inutilità degli acquisti di prodotti alla moda o semplicemente stravaganti, auspica altresì la riduzione dell’incremento demografico fino al limite permesso dall’agricoltura biologica e la collaborazione con i paesi in via di sviluppo idonea al raggiungimento di un livello di vita adeguato per quanto non lussuoso. Ma in queste sue affermazioni sembra essere consapevole del grosso limite connaturato alla natura umana, limite che lo porta a fare una precisazione che rimarca in chiave pessimistica il suo pensiero: … Spesso il destino dell’essere umano è una vita breve, ma intensa, eccitante, febbrile, stravagante, invece di una vita lunga, vegetativa e monotona….

In un articolo apparso nel 2007 sul Financial Times, Martin Wolf scriveva:

… L’economia neoclassica analizzava la crescita economica in termine di capitali, mano d’opera e progresso tecnico. Ma oggi credo che sia più chiarificante concepire i principi propulsori dell’economia in termini di energia e idea….

Si tratta indubbiamente di un forte segnale che rivaluta quelle stesse idee che in passato erano state fortemente osteggiate dalla comunità accademica. Il suo apporto all’economia non furono mai veramente studiate ed analizzate a fondo, tanto che ancora oggi il suo contributo scientifico è ristretto nel campo della bioeconomia, e i suoi meriti gli sono stati riconosciuti più nel campo dell’ecologia che nel campo dell’economia teorica. Georgescu fu il primo a preconizzare la contaminazione dell’ambiente e l’esaurimento delle risorse non rinnovabili, prima ancora della crisi del petrolio e della pubblicazione dei”I Limiti della Crescita” da parte del Club di Roma, tanto che senza alcuna ombra di dubbio, la prospettiva del deterioramento generale delle risorse del pianeta causate dal sistema capitalistico è di un’attualità sorprendente

Nicholas Georgescu Roegen, nacque a Costanza, una piccola città in riva al Mar Nero, in quello che era allora il regno di Romania, il 4 di febbraio del 190. Figlio di un ufficiale dell’esercito rumeno e di un’insegnante di economia domestica, rimase orfano all’età di otto anni, e le condizioni economiche non propriamente floride della famiglia gli imposero grossi sacrifici per proseguire con gli studi. Dotato di una propensione innata per gli studi in generale e per la matematica in particolare, si distinse ben presto tra gli altri studenti e questo gli permise di ottenere alcune borse di studio che consolidarono la sua formazione scientifica fino al conseguimento della laurea in matematica all’università di Bucarest nel 1926. Per il dottorato di ricerca, si recò a Parigi, all’università della Sorbona, dove maturò l’interesse per la statistica e l’economia. La sua tesi di dottorato in statistica pubblicata nel Journal de la Societè de Statistique de Paris, portava il titolo di “Il problema della ricerca dei componenti ciclici di un fenomeno”, in cui osservava che i fenomeni economici non possono essere descritti semplicemente con modelli matematici. L’attribuzione di una nuova borsa di studio gli permise di perfezionarsi con gli studi all’University College di Londra diventando allievo di Karl Pearson, il padre della biostatistica come è considerato universalmente. Per due anni Georgescu ebbe modo di familiarizzare con gli studi di biologia matematica, indirizzando i suoi interessi verso gli studi della genetica delle popolazioni e alla teoria dell’evoluzione. Con Pearson si avvicinò alla filosofia della conoscenza di Ernest Mach, il filosofo celebre per le sue critiche alle pretensioni metafisiche della meccanica newtoniana, ravvisando, di conseguenza, l’incongruenza della mitologia meccanica di cui era permeata tutta l’economia neoclassica.

…La realtà è che, nella misura in cui si manifesta, l’economia è meccanicistica nello stesso senso in cui in linea di massima crediamo che lo sia solo la meccanica classica. In questo senso la meccanica classica è meccanicistica perché non può prendere in considerazione l’esistenza di cambi qualitativi nella Natura di carattere permanente, né accettare questa esistenza come fatto indipendente in se stesso…

Negli anni compresi tra il 1934 e il 1936 fu inviato dalla Rockfeller Fundation all’Università di Howard, dove ebbe la possibilità di approfondire i suoi studi in statistica e in particolare nel meccanismo dei flussi circolari.

Collaborò come matematico con Joseph Schumpeter alla revisione del suo libro sopra i cicli economici, pubblicato nel 1939. Fu ad Howard che si formò come economista, accolto nel gruppo di studio che riuniva economisti del calibro di Wassily Leontief, Oskar Lange, Fritz Machlup, Nicholas Kaldor, Paul Sweezy, nonché Schumpeter stesso. Allacciò una stretta collaborazione con Paul A. Samuelson e Wassily Lentief collaborando con loro allo sviluppo di alcune teorie. Nel periodo di permanenza ad Howard fece quattro pubblicazioni importanti sulla teoria del consumatore, specialmente sopra i problemi della decisione e l’utilità e sulla teoria e analisi della produzione. Un suo articolo “The pure theory of consumer Behaviour” pubblicato nel 1936 nel quale confutava il principio dell’utilità marginale decrescente, sostituendolo con la perseveranza delle direzioni della non preferenza, fu considerato un classico, da Paul Samulson, che lo definì”il più erudito tra gli eruditi, l’economista degli economisti”. Nella prefazione al libro che raccoglieva i migliori articoli di Georgescu Roegen, Analytical Econom, Samuelson si esprime così: …pur essendo uno specialista in matematica, sembra immune dal fascino seduttore di questo strumento, sapendolo usare in maniera obbiettiva… ma per uno strano caso della vita, fu lo stesso Samuelson che dieci anni dopo, nella decima edizione del suo libro “Economics”, mette al bando le idee di Georgescu, perché fortemente embricate con l’ecologia, una disciplina aliena al mondo degli economisti.

Georgescu-Roegen, nutrito delle idee di Alfred lotka e Wladimir Vernadskuy aveva già in precedenza tentato una rivisitazione critica della teoria del consumatore come base più realistica rispetto a quella dell’Homus Economicus, mosso solitamente da un impulso puramente meccanicistico, ma la teoria che più di altre gli scagliò addosso gli anatemi della comunità fu la sua critica alla rappresentazione convenzionale del processo produttivo, che minava alle fondamenta a razionalità economica occidentale eretta a credenza mistico religiosa, disgiunto dalla visione puramente meccanicistica di un’economia isolata dalla natura, in favore di un’economia come parte integrante di un ecosistema che vive ed agisce. Rientrato in Romania, ritornò ad occupare il suo posto di docente presso la l’Università di Bucarest, e animando contemporaneamente la vita intellettuale, sociale ed economica della città. Riferendosi al suo ritorno in patria, Georgescu scrive:

…Alla vigilia della nostra partenza per la Romania, egli [Schumpeter] venne a New York per convincermi a ritornare, in autunno, ad Harvard. Solo molto più tardi compresi quanto offensivo dovette apparirgli il mio rifiuto, sebbene esso fosse motivato dalla circostanza che la Romania, assai più che Harvard, aveva bisogno di un economista…

Rimase in Romania per altri dodici anni, furono quelli anni bui, caratterizzati da forti fermenti sociali che sfoceranno nelle agitazioni politiche prima, all’avvento della dittatura poi e infine alla guerra. Fu proprio la sua partecipazione da protagonista ai problemi della società Rumena, che spinse Georgescu a studiarne a fondo le tematiche economiche per verificare l’attendibilità e l’applicabilità delle sue teorie economiche.

Il suo ruolo di guida come membro del partito nazionale contadino e pertanto difensore dei diritti della Romania nella sua qualità di Segretario Generale della Commissione d’Armistizio, lo mise ben presto in una situazione di pericolo tanto da rischiare di essere arrestato dalle forze staliniane che controllavano il paese. Con Otilia, la donna che aveva sposato nel 1934 si imbarcò da clandestino su una nave diretta ad Istanbul e da li emigrò negli Stati Uniti nel 1948. Negli Stati Uniti, Georgescu, consolidò la sua formazione di Economista all’Università di Howard, e dal 1949 fino al 1976, anno in cui si ritirò dall’insegnamento, ricoprì il ruolo di docente di economia presso l’università di Vanderbilt a Nashville nel Tennesse, la stessa città in cui morirà nel 1994.
In conclusione è necessario riscattare dall’oblio della storia del pensiero economico, le teorie e il pensiero di questo grande economista, ingiustamente marginalizzato nel ruolo di autore di economia ecologista, dimenticando i suoi apporti alla teoria economica. Questa opera di rivalutazione oggi più che mai è sentita in tutti quei paesi dove le risorse economiche giocano un ruolo fondamentale nella struttura economica d’insieme, dove le particolarità dei settori primari basati sulle risorse naturali, agricoltura, pesca, industria estrattiva, idrocarburi, non possono essere compresi e analizzati solo con la teoria economica tradizionale ma integrate in un’analisi economica di più ampio raggio.

Riferimenti bibliografici:

Nicholas Georgescu-Roegen.  Bioeconomia.Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile a cura di Mauro Bonaiuti. Ed.Bollati Boringhieri

Nicholas Georgescu-Roegen. La décroissance. Entropie – Écologie – Économie (1979). A cura di Jacques Grinevald et Ivo Rens. Ed. Sang de la terre, 1995

Donella H. Meadows.Dennis L. Meadows.Jtsrgen Randers William W. Behrens III-The Limits to Growth, A www.Demetra.org

Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind. Ed.Universe Book

Mayumi, K. The Origins of Ecological Economcs:The Bioeconomics of Georgescu-Roegen. Ed. Routledge

Dulbecco, P.-Garrouste O. Théorie de la dynamique économique: une réévaluation de la tentative de Nicholas Georgescu-Roegen en Recherches économiques de Louvain N.70

Link di riferimento

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E i suoi chierici saranno chierici di sinistra

14 Maggio 2022

“Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo. E i suoi chierici saranno chierici di sinistra”

Pier Paolo Pasolini

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PACE PROIBITA

6 Maggio 2022

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Discorso sulla Costituzione

5 Maggio 2022

È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa.

Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai.

E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.

 

Tratto da: Piero Calamandrei,  Discorso sulla Costituzione, 1955.

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Diario Notturno

5 Maggio 2022

Volere è potere: la divisa di questo secolo. Troppa gente che «vuole» piena soltanto di volontà (non la «buona volontà» kantiana, ma la volontà di ambizione); troppi incapaci che debbono affermarsi e ci riescono, senz’altre attitudini che una dura e opaca volontà. E dove la dirigono? Nei campi dell’arte, molto spesso, che sono oggi i più vasti e ambigui, un West dove ognuno si fa la sua legge e la impone agli sceriffi. Qui, la loro sfrenata volontà può esser scambiata per talento, per ingegno, comunque per intelligenza.

Così, questi disperati senza qualità di cuore e di mente, vivono nell’ebbrezza di arrivare, di esibirsi, imparano qualcosa di facile, rifanno magari il verso di qualche loro maestro elettivo, che li disprezza. Amministrano poi con avarizia le loro povere forze, seguono le mode, tenendosi al corrente, sempre spaventati di sbagliare, pronti alle fatiche dell’adulazione, impassibili davanti ad ogni rifiuto, feroci nella vittoria, supplichevoli nella sconfitta. Finché la Fama si decide ad andare a letto con loro per stanchezza, una sola volta: tanto per levarseli dai piedi.

 

Tratto da: Ennio Flaiano, Diario Notturno (Taccuino 1951).

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L’ombra dell’uomo

1 Maggio 2022

ph. Guerin Blask for The New York Times

Sto scrivendo questa nuova introduzione all’Ombra dell’uomo a The Birches, la dimora vittoriana in mattoni rossi nella quale sono cresciuta a Bournemouth. Dalla mia finestra vedo gli alberi su cui mi arrampicavo da piccola, quando sognavo che un giorno sarei andata in Africa a vivere tra gli animali e a scrivere su di loro. I libri che m’ispirarono allora, oltre a molti altri letti in età adulta, sono allineati sui ripiani della mia libreria: dal Dottor Dolittle a Tarzan, da Beatrix Potter al Vento tra i salici, e tanti volumi sulle avventure dei primi esploratori di Darkest Africa.

Di fatto, ogni volta che torno qui, nei brevi intervalli tra i miei numerosi viaggi per sensibilizzare sulle difficili condizioni degli scimpanzé, degli altri animali e degli habitat naturali nel mondo, i ricordi della mia infanzia tornano prepotentemente a galla. Ad esempio, ricordo i giorni in cui ero inseparabile dal mio amico Rusty, l’intelligentissimo bastardino nero che, insieme a mia madre Vanne – diminutivo del gallese Myfanwe e pronunciato “Van” – e al resto della famiglia, giocò un ruolo chiave nel determinare la persona che sarei diventata.

In questo libro, intitolato L’ombra dell’uomo, racconto di come finalmente arrivai in Africa, conobbi il compianto Louis Leakey e, in maniera del tutto inverosimile, visto che non ero neppure andata all’università, mi fu data l’opportunità di vivere non solo con degli animali, ma addirittura con degli scimpanzé, i parenti più prossimi dell’uomo. In queste pagine troverete la descrizione delle originalissime personalità e dell’affascinante comportamento degli scimpanzé del Gombe: da come costruivano utensili, cacciavano e condividevano la preda, a come mostravano emozioni incredibilmente vicine alle nostre. Molti dei loro atteggiamenti e gesti, che appartengono alla comunicazione non verbale, non solo ricordano quelli degli uomini, ma avvengono in situazioni assai simili e hanno più o meno lo stesso valore: baciare, abbracciare, tenersi per mano, fare il solletico, pavoneggiarsi, agitare i pugni, lanciare sassi e brandire bastoni. Descrivo, inoltre, come il mio rapporto personale con alcuni scimpanzé è gradualmente passato dalla paura (da parte loro) a una fiducia reciproca, e come le mie iniziali supposizioni, per lo più basate sull’intuito, hanno trovato conferma in anni di attente osservazioni e analisi del loro comportamento.

Ho cominciato il mio studio nel 1960 e dieci anni più tardi ho iniziato a lavorare all’Ombra dell’uomo. Prima d’allora avevo già scritto un altro libro e un paio di articoli per la National Geographic Society, l’organizzazione che sostenne il mio lavoro quasi dall’inizio e che inviò Hugo van Lawick, che più tardi divenne mio marito, a fotografare e a filmare il comportamento degli scimpanzé. Nel frattempo avevo preso il dottorato in Etologia presso l’Università di Cambridge in Inghilterra. Le fotografie scattate da Hugo avevano già portato le immagini degli scimpanzé del Gombe nelle case degli americani, e le sue riprese erano state utilizzate per realizzare un documentario, intitolato Miss Goodall and the Wild Chimpanzees (‘Miss Goodall e gli scimpanzé selvatici’), commentato da Orson Welles.

Inoltre, insieme a Hugo avevamo raccolto in un libro le nostre osservazioni sugli sciacalli, sui cani da caccia africani e sulle iene delle piane del Serengeti in Tanzania. Gli studenti neolaureati e gli assistenti ricercatori portavano avanti il progetto di ricerca al Gombe, e li sentivamo per radiotelefono tutti i giorni. Noi, però, non vivevamo più nella riserva, bensì sul Serengeti, perché ci era nato un figlio – Hugo Eric Louis, soprannominato allora e ancora oggi Grup – e, sapendo che i cuccioli d’uomo sono predati dagli scimpanzé, non volevamo correre alcun rischio.

Pertanto, fu così che il grosso dell’Ombra dell’uomo fu scritto sul Serengeti, all’interno di un camper che la National Geogra phic Society mi aveva donato per farne il mio “ufficio itinerante”. Non avevo né un computer né una macchina per scrivere elettrica e scrissi tutto pestando sui tasti di una vecchia manuale, utilizzando il bianchetto per camuffare i miei numerosi refusi. Quelle preziose pagine furono spedite al nostro compianto amico Billy Collins (che divenne Sir William) e al mio eccezionale editor, Philip Zeigler.

Tuttavia, il labor limae del libro ebbe luogo qui, a The Birches, e proprio come da bambina avevo letto i temi e le poesie che scrivevo ai miei genitori, lessi loro i capitoli che parlavano delle avventure condivise con mia madre, del cuoco Dominic e del suo debole per l’alcol, di David Graybeard, e di Goliath, di Flo e di Olly con la rispettiva prole. Se il libro è venuto bene, lo devo ai saggi commenti di Vanne.

All’epoca in cui lo scrissi non avrei mai immaginato quanta influenza avrebbe avuto su centinaia, anzi migliaia di persone in tutto il mondo. Un primo sentore lo ebbi subito dopo la sua prima pubblicazione, avvenuta nel 1971. Stava viaggiando in metropolitana a Londra quando inavvertitamente ascoltai una conversazione tra due uomini d’affari nel classico abbigliamento con bombetta e ombrello nero. “Chissà cos’era che rendeva Flo così attraente per i maschi?” si chiedeva uno di loro, passando poi a disquisire sui misteri del sex appeal. In seguito, passarono a descrivere delle personalità mettendole a confronto con quelle di amici e conoscenti. Impiegai vari minuti per capire che, in realtà, stavano parlando dei “miei” scimpanzé! Uno aveva una copia del “Sunday Times”, che aveva pubblicato L’ombra dell’uomo a puntate.

Da quel momento, sono stati in molti, soprattutto in Africa, Asia e America Latina, a dirmi che, dopo aver letto il mio libro, avevano cominciato a vedere tutti gli animali, non solo gli scimpanzé, sotto una luce diversa. Ancora oggi, firmando copie del libro in qualche parte del mondo, capita in continuazione che qualcuno si presenti con una copia molto vecchia, magari appartenuta a un genitore. Alcuni mi raccontano che qualcuno gli aveva letto quel libro quando erano piccoli. A volte il libro che dovevo firmare era un regalo di un compleanno o di un Natale di molti anni prima. Di tanto in tanto mi capita persino di firmare e di rimettere la data su un libro che avevo autografato, dieci, venti o persino trent’anni prima.

Il libro continua a vendere ancora oggi. “L’ho letto da bambina” dice una donna di mezza età “ed è stato così importante per me che ora voglio regalarlo a mia figlia”, o in altri casi a un nipote. Perciò dopo ogni conferenza il numero di copie vendute è ancora oggi piuttosto elevato.

L’ombra dell’uomo è stato tradotto in circa cinquanta lingue. Rainer Hagencord lesse la versione tedesca mentre studiava in un seminario gesuita e, in seguito, mi confessò che il libro aveva profondamente cambiato il suo modo di pensare. “Noi non siamo l’orgoglio della creazione che la teologia a volte proclama, ma possiamo ritrovare le nostre radici nel regno animale. Questa consapevolezza, oltre a rendermi umile, mi dà la forza per prendere ancora più sul serio la mia missione di proteggere il creato. Il tuo libro mi ha spinto a riflettere sulla posizione cristiana in materia di animali, che attualmente non li considera creature di dignità pari alla nostra”.

In seguito Rainer ottenne dal vescovo l’autorizzazione a prendersi un periodo sabbatico per raccogliere testimonianze scritte intorno all’epoca di Cristo, scoprendo che allora l’atteggiamento di san Francesco che, come i nativi americani, considerava gli animali come fratelli e sorelle, era ampiamente diffuso. I risultati di questa ricerca sono consultabili nel suo lavoro intitolato Diesseits von Eden.

Mi commuovo sempre quando, alle mie conferenze, mi chiedono di autografare copie delle prime edizioni uscite nei paesi dell’Est. Ben Nogrady ha letto il libro nella traduzione ungherese. “Ognuno di noi ha un libro che l’ha particolarmente ispirato durante l’infanzia” scrisse. “Per me si è trattato dell’Ombra dell’uomo di Jane Goodall, un libro regalatomi da mio padre per il mio decimo compleanno. Leggendolo, mi sono innamorato dell’Africa e, in quel momento, ho deciso che un giorno ci sarei andato a vivere. Per un ragazzino che viveva in condizione di estrema povertà, sotto il regime comunista in Ungheria, era un sogno utopistico, poiché obiettivi e sogni erano stati azzerati. Tuttavia, grazie al libro della Goodall ho imparato qualcosa che si è rivelato utilissimo anche dopo: mai mollare!”. Quando, alla fine, Ben si trasferì in Sudafrica, portò con sé due libri: “La Bibbia e L’ombra dell’uomo. Se ho bisogno di sentirmi rassicurato, aprendo uno o l’altro trovo sempre la risposta che cerco”.

La prima traduzione cinese del libro ha una storia piuttosto curiosa. David Orr ne trovò una copia mentre era a Hong Kong per conto del Ministero degli Affari Esteri britannico, e me la inviò pensando che potesse farmi piacere vederla. Ha una copertina sottilissima ed è stampata sulla carta più economica che si trovi in commercio, tanto che le fotografie sono quasi illeggibili. Era una traduzione dal russo di un’edizione non autorizzata. Le fotografie erano state riprodotte illegalmente da quelle del libro russo, che a loro volta erano state copiate illegalmente dall’edizione inglese. Ma anche quel libricino, con le sue fotografie completamente sfocate, avrebbe influenzato l’esistenza di tante persone.

A ogni evento legato al libro, c’è sempre almeno una persona che mi dice che L’ombra dell’uomo ha giocato un ruolo decisivo nella scelta d’intraprendere una carriera legata agli animali, ad esempio come biologo, veterinario o altro. In genere, nella stessa fila ci sono più persone che vogliono ringraziarmi per aver influenzato, in un modo o nell’altro, le loro scelte di vita. E in alcuni casi queste testimonianze hanno per me un significato speciale.

Ho conosciuto Fang Minghe circa dieci anni fa, a Shanghai, e in quell’occasione mi raccontò quanto la lettura del libro gli avesse cambiato la vita. “Ha avuto un effetto radicale su di me” mi ha scritto di recente. Aveva scoperto il volume nella biblioteca della scuola e si era reso conto che “questo tipo di carriera, che non avrei mai ritenuto possibile, era anche il mio sogno”. Dopo la laurea ha creato la prima organizzazione senza fini di lucro nella provincia di Zhejiang, tra i cui obiettivi vi è la protezione delle specie selvatiche a rischio di estinzione e la cura degli animali abbandonati.

L’ombra dell’uomo è un libro che, secondo me, ha rappresentato qualcosa di speciale soprattutto per le donne. Sono centinaia, o forse migliaia, quelle che vi hanno tratto la forza per osare ciò che fino a quel momento avevano solo potuto sognare. Spesso mi dicono o mi scrivono frasi come “Mi hai insegnato a credere che, se ce l’hai fatta tu, posso farcela anch’io!”. Di fatto, il consiglio che Vanne mi ripeteva sempre da bambina – “Se t’impegnerai a fondo, saprai cogliere le opportunità che la vita ti offre e non ti arrenderai mai, avrai successo” – è servito a spingere un numero infinito di giovani donne a seguire il proprio sogno. Come lo so? Perché me lo confermano in continuazione.

Alcuni anni fa, mi trovavo alla sede della National Geographic Society a Washington D.C. per motivi di lavoro, quando una giovane donna cinese mi venne incontro nel corridoio. Si fermò davanti a me e, facendo per abbracciarmi, gli occhi le si riempirono di lacrime. Lì per lì rimasi un po’ spiazzata, ma la donna mi disse che voleva soltanto ringraziarmi. Mi raccontò che da bambina aveva sempre sognato di studiare i panda giganti, ma tutti la prendevano in giro e la scoraggiavano dicendole che non erano cose da femmina. “Alle superiori” proseguì “ho letto il tuo libro”, ed esso le aveva fatto capire che ciò che sembrava impossibile poteva, invece, realizzarsi. Si trovava lì per terminare un articolo sui panda giganti, che sarebbe uscito su un numero della rivista con una foto scattata da lei addirittura in copertina! Oggi è direttrice di Conservation International in Cina.

Una delle tante cose che ho imparato dagli scimpanzé è l’importanza delle prime esperienze nello sviluppo dei nostri figli. Il confronto tra i metodi educativi di Flo e Passion mi confermò che, esattamente come nella società umana, anche in quella degli scimpanzé c’erano buone e cattive madri, e che i figli delle buone madri si trovano meglio nella vita. A distanza di cinquant’anni, mi è ancora più chiaro che la qualità della maternità negli scimpanzé svolge davvero un ruolo chiave nella definizione del futuro comportamento della prole. D’altro canto, anche gli psicologi e gli psichiatri infantili non fanno che ripetere tale concetto. Una giovane californiana mi ha detto che L’ombra dell’uomo le ha dato la forza di scegliere di restare a casa con i suoi figli, e la sua è una tra le tante testimonianze del genere.

Ma qual è stata l’accoglienza del libro da parte della comunità scientifica? Quando, nel 1961, fui ammessa all’Università di Cambridge, venni avvertita che, trattando di scimpanzé, non era il caso di parlare di personalità, capacità di pensiero, o di emozioni quali felicità, tristezza, rabbia, disperazione e così via. Tali sentimenti erano attribuibili solo ed esclusivamente all’animale uomo, il che stava a significare che esisteva una netta linea di separazione tra “noi” e “loro”. All’epoca della pubblicazione dell’Ombra dell’uomo, ci furono alcuni scienziati che cominciarono a pensarla diversamente. Nel frattempo, erano stati realizzati diversi studi su animali che vivono in società complesse, tra cui scimpanzé di varie zone dell’Africa, gorilla, babbuini, elefanti e altri. L’enorme quantità di dati ricavati dall’attenta osservazione di questi esemplari aveva costretto alcuni scienziati a rivedere le proprie posizioni nei riguardi di animali altri dall’uomo. Divenne sempre più chiaro che anche noi facciamo parte del più ampio regno animale. Ovviamente, il nostro intelletto si è sviluppato in maniera notevole, forse stimolato dalla capacità del linguaggio, che ci consente di parlare di cose che non sono presenti, fare progetti, raccontare storie o scambiare idee; tuttavia, si tratta di differenze di livello, non di genere.

Il noto e stimato scienziato Stephen Jay Gould, oggi scomparso, ha descritto con chiarezza la propria posizione al riguardo nella prefazione che ha scritto per questo libro. “Spesso consideriamo la scienza come un insieme di attività di manipolazione, sperimentazione e quantificazione condotte da persone in camice bianco, che passano il tempo a girare manopole e a controllare indicatori nei laboratori” scriveva. “Leggendo di una donna che dà nomi buffi a degli scimpanzé e li segue nella foresta, registrando meticolosamente ogni loro singolo grugnito o spulciatura, abbiamo qualche difficoltà a includere tale attività tra quelle di serie A… Viene da chiedersi se lei rappresenti l’avanguardia della scienza o l’ultimo avamposto di un’idea romantica dell’esplorazione ormai destinata a scomparire”. Gould prosegue spiegando perché, a suo avviso, “il lavoro di Jane Goodall con gli scimpanzé rappresenta uno dei più importanti traguardi scientifici del mondo occidentale”. Un complimento non da poco!

Rileggendo il libro di recente, prima di scrivere quest’introduzione, ho constatato quanto siano cambiate le cose. Le foreste che un tempo si estendevano lungo le rive del lago Tanganica e nell’entroterra a est sono praticamente scomparse, lasciando gli scimpanzé del Gombe confinati nei trentacinque chilometri quadrati di parco. Oltre i confini del parco, la terra è stata spogliata degli alberi, e il suolo è divenuto arido a causa di un forte processo erosivo. Dato l’aumento della popolazione globale dal 1960, e a causa dell’afflusso di rifugiati dal Burundi e dalla parte orientale del Congo nell’area intorno al Gombe, ormai vivono lì molte più persone di quante la terra riesca a sostentare, che, pertanto, lottano per sopravvivere. I turisti visitano il parco del Gombe regolarmente, accompagnati dalle guide. Secondo le nuove regole, i visitatori devono mantenersi a una certa distanza dagli scimpanzé per ridurre al minimo il rischio di trasmissione di malattie.

Il cambiamento più grande, tuttavia, ripercorrendo questi cinquant’anni a ritroso fino a quel primo, magico momento al Gombe, in cui entrai in un mondo ancora incontaminato, riguarda il cast dei personaggi di questa storia. Vanne, Hugo, Dominic e Hassan ci hanno lasciato, mentre degli scimpanzé di cui parlo nel libro, che imparai a conoscere così bene, ce n’è uno solo ancora in vita, ovvero Gremlin, il primo figlio sopravvissuto di Melissa, e anche il mio scimpanzé vivente preferito. Suo fratello Goblin, che vidi nel 1964 appena nato, con il cordone ombelicale e la placenta ancora attaccati, si è ammalato ed è morto nel 2004. Fifi, che conoscevo dalla nascita, e che è vissuta per quasi tutti questi cinquant’anni, è scomparsa nel 2004, insieme all’ultimo dei suoi figli. Quante cose ho imparato da loro, e quante ore meravigliose ho trascorso con loro e le loro famiglie nelle foreste del Gombe.

Gli anni descritti in questo libro sono stati, forse, i più felici della mia vita, perché ho vissuto immersa nella natura come sognavo da bambina. Quegli anni, come i loro attori, sono passati per sempre, ma le personalità di Flo e David Graybeard, Olly e Worzle, Passion e Mike, Melissa e il vecchio McGregor, così come degli altri, continuano a vivere dentro di me. Rileggendo L’ombra dell’uomo, ho riassaporato l’atmosfera di quei primi giorni, e ora, chiudendo gli occhi, rivedo Flo che carica uno dei babbuini che le ha minacciato un figlio, con i peli radi arruffati per la furia, coraggiosa nello sfidare creature dotate di denti in grado di infliggere ferite mortali anche a un leopardo! E rivedo Mike mentre raccoglie alcune lattine vuote e le utilizza, calciandole e colpendole, per mettere in fuga un gruppo di maschi dominanti. E ancora, proseguendo il mio viaggio nel passato, mi sembra di sentire, proprio come allora, la delicata pressione delle dita di David Graybeard con cui volle rassicurarmi e dirmi che, pur rifiutando il frutto che gli offrivo, aveva capito che avevo buone intenzioni.

Tratto da: Jane Goodall,  L’ombra dell’uomo, Prefazione di Stephen Jay Gould, A cura di Helena Colombini e Federica Frasca

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Benjamin R. Barber

30 Aprile 2022


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Nessun bambino americano potrà sentirsi al sicuro nel suo letto se i bambini di Karachi o di Bagdad non si sentiranno al sicuro nel loro. Gli europei non potranno vantarsi a lungo della loro libertà se i popoli di altre parti del mondo rimarranno poveri e umiliati.

Benjamin R. Barber
Foto di Gianfranco Mazzocchi

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Un soffio di vita

28 Aprile 2022

Ci sarà un anno in cui ci sarà un mese in cui ci sarà una settimana in cui ci sarà un giorno in cui ci sarà un’ora in cui ci sarà un minuto in cui ci sarà un secondo e dentro a quel secondo ci sarà il non tempo sacro della morte trasfigurata.  C.Lispector

«Voglio scrivere movimento puro» Questo non è un lamento, è un grido di uccello rapace. Iridato e inquieto. Il bacio sul volto morto. Scrivo come se fosse in gioco la vita di qualcuno. Probabilmente la mia stessa vita. Vivere è una specie di follia che la morte commette. Che vivano i morti perché viviamo in loro. D’improvviso le cose non hanno più bisogno di avere un senso. Mi accontento di essere. Tu sei? Sono sicuro di sì. Il non senso delle cose suscita in me un sorriso compiaciuto. Senza dubbio tutto deve continuare a essere quello che è.

Oggi è un giorno da nulla. Oggi è tempo zero. Esiste per caso un numero che non è nulla? Che è meno di zero? Che comincia in ciò che non è mai cominciato perché era da sempre? Ed era prima di sempre? Mi appiglio a questa assenza vitale e ringiovanisco interamente, al contempo contenuto e totale. Rotondo senza inizio né fine, sono il punto prima dello zero e del punto finale. Dallo zero all’infinito camminerò senza fermarmi. Ma allo stesso tempo tutto è così passeggero. Io sono sempre esistito e di colpo non ero più. Il giorno là fuori scorre a caso e ci sono abissi di silenzio in me. L’ombra della mia anima è il corpo. Il corpo è l’ombra della mia anima. Questo libro è l’ombra di me. Chiedo il permesso di passare. Mi sento in colpa se non vi obbedisco. Sono felice nel momento sbagliato. Infelice quando tutti ballano. Mi hanno detto che gli storpi esultano e mi hanno anche detto che i ciechi gioiscono. È che i poveretti si compensano l’un l’altro.

La vita non è mai stata così al presente come oggi: in un batter d’occhio è il futuro. Tempo per me significa disgregazione della materia. L’imputridimento di ciò che è organico, come se il tempo fosse un verme dentro a un frutto e andasse rubandogli l’intera polpa. Il tempo non esiste. Ciò che chiamiamo tempo è il movimento di evoluzione delle cose, ma il tempo in sé non esiste. Oppure esiste, immutabile, e in esso ci trasferiamo. Il tempo passa troppo in fretta e la vita è così corta. Dunque – affinché io non venga inghiottito dalla voracità delle ore e dalle novità che fanno passare il tempo in fretta – coltivo un certo tedio. Mi assaporo così ogni detestabile minuto. E coltivo inoltre il silenzio vuoto dell’eternità della specie. Voglio vivere molti minuti in un solo minuto. Voglio moltiplicarmi per arrivare ad abbracciare territori desertici che diano un’idea di immobilità eterna. Nell’eternità il tempo non esiste. Notte e giorno sono opposti perché sono il tempo e il tempo non si divide. Da ora in avanti il tempo sarà sempre al presente. Oggi è oggi. Nutro meraviglia e insieme sospetto per quanto mi vien dato. E domani avrò nuovamente un oggi. Vivere l’oggi ha qualcosa di doloroso e struggente. Il parossismo della più sottile ed estrema nota di violino insistente. Ma esiste l’abitudine e l’abitudine anestetizza. Il pungiglione d’ape dell’oggi in fiore. Grazie a Dio, ho di che cibarmi. Il nostro pane quotidiano.

Vorrei scrivere un libro. Ma dove sono le parole? I significati si sono svuotati. Come dei sordomuti, comunichiamo con le mani. Vorrei mi si concedesse di scrivere a ritmo arpeggiato e agreste i rottami della parola. E liberarmi dall’essere discorsivo. Così: inquinamento.

Scrivo o non scrivo?

Saper desistere. Abbandonare o non abbandonare – ecco, spesso, il dilemma di un giocatore. L’arte di abbandonare non si insegna. E non è affatto rara la situazione angosciosa in cui devo decidere se ha senso continuare a giocare. Sarò capace di abbandonare nobilmente? O sono di quelli che continuano testardamente a giocare sperando che succeda qualcosa? Per esempio, la fine del mondo? O qualsiasi altra cosa, come la mia morte improvvisa, ipotesi che renderebbe superflua la mia scelta.

Non voglio scommettere su me stesso. Un fatto. Che cos’è che diventa un fatto? Devo interessarmi agli accadimenti? Forse mi abbasserò al punto da riempire la pagina di informazioni sui «fatti»? Devo immaginare una storia o dare libero corso all’ispirazione caotica? Parecchia falsa ispirazione. E se poi arriva quella vera e io non me ne accorgo? Sarà poi così orribile volersi avvicinare, dentro di sé, al limpido io? Solo quando l’io smette di esistere, di rivendicare qualcosa, quando comincia a far parte dell’albero della vita – sì, è per raggiungere questo fine che lotto. Dimenticarsi di sé e tuttavia vivere molto intensamente.

Ho paura di scrivere. È molto pericoloso. Chi ci ha provato, lo sa. Pericolo di interferire con ciò che è nascosto – e il mondo non è in superficie, si trova nascosto nelle sue radici sommerse nelle profondità del mare. Per scrivere devo collocarmi nel vuoto. È in questo vuoto che esisto intuitivamente. Ma è un vuoto terribilmente pericoloso: da esso spremo sangue. Sono uno scrittore che teme le trappole delle parole: le parole che dico ne celano altre – quali sono? Forse le dirò. Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo.

Meditazione leggera e tenera sul nulla. Scrivo come se fossi quasi completamente liberato dal mio corpo. Come se levitasse. Il mio spirito è vuoto a causa di tanta felicità. L’intima libertà che provo si può paragonare solo a una cavalcata senza meta per i campi. Sono libero, senza meta. Sarà forse il raggiungimento della libertà la mia meta? Non c’è una ruga nel mio spirito che non si espanda in spume leggere. Ho smesso di essere tormentato. Questa è la grazia.

Sto ascoltando della musica. Debussy usa la spuma del mare che va a morire sulla sabbia, fluendo e rifluendo. Bach è matematico. Mozart è il divino impersonale. Chopin racconta la sua vita più intima. Schönberg, attraverso il suo io, raggiunge l’io classico di tutti. Beethoven è l’emulsione umana in tempesta che cerca il divino e lo raggiunge solo nella morte. Quanto a me, che non chiedo musica, arrivo alle soglie della parola nuova. Senza il coraggio di rivelarla. Il mio vocabolario è triste e a volte wagneriano-polifonico-paranoico. Scrivo molto semplice e molto nudo. Per questo fa male. Sono un paesaggio grigio e azzurro. Stagliato nella fonte prosciugata e nella luce fredda.

Voglio scrivere in modo squallido e strutturale come il risultato di squadre, compassi e angoli acuti di uno stretto ed enigmatico triangolo.

«Scrivere» esiste di per sé? No. È soltanto il riflesso di qualcosa che pone domande. Io lavoro con l’inatteso. Scrivo come scrivo senza sapere come o perché – per fatalità di voce. Il mio timbro sono io. Scrivere è un’investigazione. È così:

Mi starò forse tradendo? Starò deviando il corso di un fiume? Devo avere fiducia in questo fiume copioso. O starò forse mettendo una barriera nel corso del fiume? Provo ad aprire le chiuse, voglio vedere l’acqua scorrere con impeto. Voglio che ogni frase di questo libro sia un climax.

Devo avere pazienza perché i frutti saranno sorprendenti.

Questo è un libro silenzioso. E parla, parla piano.

Questo è un libro fresco – appena venuto fuori dal nulla. Eseguito al pianoforte delicatamente e con fermezza, e tutte le note sono limpide e perfette, le une ben distinte dalle altre. Questo libro è un piccione viaggiatore. Io scrivo per nulla e per nessuno. Se qualcuno mi leggerà sarà di sua iniziativa e a suo rischio. Io non faccio letteratura: semplicemente vivo nel corso del tempo. Il risultato inevitabile del fatto che vivo è l’atto di scrivere. Mi sono perso di vista da così tanti anni che esito nel cercare di trovarmi. Ho paura di iniziare. Esistere a volte mi dà la tachicardia. Ho così tanta paura di essere io. Sono così pericoloso. Mi hanno dato un nome e mi hanno alienato da me stesso.

Sento che non sto ancora scrivendo. Intuisco e desidero una lingua più fantasiosa, più precisa, con maggior rapimento, in grado di creare spirali per aria.

Ogni nuovo libro è un viaggio. Solo che è un viaggio a occhi bendati per mari mai scoperti prima d’ora – il bavaglio sugli occhi, il terrore dell’oscurità è assoluto. Quando mi coglie un’ispirazione, muoio di paura perché so che viaggerò di nuovo e da solo in un mondo che mi respinge. Ma non ne hanno colpa i miei personaggi e io li tratto meglio che posso. Loro non provengono da nessun luogo. Sono l’ispirazione. E ispirazione non è follia. È Dio. Il mio problema è la paura di impazzire. Devo controllarmi. Esistono leggi che governano la comunicazione. L’impersonalità è una condizione. La separatezza e l’ignoranza sono la pecca in senso generale. E la follia è la tentazione di essere totalmente il potere. Le mie limitazioni sono la materia prima che va lavorata fino a raggiungere l’obiettivo.

Io vivo senza pelle, ecco perché cerco di dare la pelle dura ai miei personaggi. Solo che poi non resisto e li faccio piangere per un nonnulla.

Radici semoventi che non sono piantate o la radice di un dente? Perché anch’io sciolgo i miei ormeggi: uccido ciò che mi turba, e il bene e il male mi turbano, e vado definitivamente incontro a un mondo che è dentro di me, io che scrivo per liberarmi dal peso difficile dell’essere sé stessi.

In ogni parola batte un cuore. Scrivere è ricerca di intima verità della vita. Vita che mi turba e mi fa tremare il cuore, quando soffre per l’incommensurabile dolore che sembra necessario alla mia maturazione – maturazione? Fino ad ora ne sono vissuto senza!

È vero. Ma sembra arrivato il momento di accettare appieno la misteriosa vita di chi un giorno morirà. Devo iniziare ad accettarmi e a non provare l’orrore punitivo che provo ogni volta che cado, poiché quando cado è anche la razza umana a cadere insieme a me. Accettarmi incondizionatamente? È far violenza alla mia vita. Ogni cambiamento, ogni nuovo progetto è causa di stupore: il mio cuore è stupito. È perché ogni mia parola ha un cuore in cui circola il sangue.

Tutto ciò che qui scrivo è forgiato nel silenzio e nella penombra. Ci vedo poco, non sento quasi nulla. In conclusione, mi immergo in me fino al punto in cui nasce lo spirito che mi abita. La mia fonte è oscura. Scrivo perché non so che fare di me. Cioè: non so che fare del mio spirito. Il corpo dice molto, ma le leggi dello spirito le ignoro: esso vaga. Il mio pensiero, quando formula parole nella mente, senza che io poi parli o scriva, questo mio pensiero di parole è preceduto da una fulminea visione del pensiero stesso, senza parole – le parole seguiranno, quasi immediatamente, con uno scarto spaziale di meno di un millimetro. Prima di pensare, quindi, ho già pensato. Supponendo che il compositore di una sinfonia possieda solamente il «pensiero prima del pensiero», ciò che si vede in questa rapidissima idea muta è poco più di un’atmosfera? No. In verità è un’atmosfera che, già colorata dal simbolo, mi fa sentire l’aria dell’atmosfera da dove tutto proviene. Il pre-pensiero è in bianco e nero. Il pensiero con parole ha altri colori. Il pre-pensiero è il pre-istante. Il pre-pensiero è il passato immediato dell’istante. Pensare è la concretizzazione, la materializzazione di ciò che si è prepensato. In verità il pre-pensare è ciò che ci guida, perché è intimamente legato al mio muto inconscio. Il pre-pensare non è razionale. È quasi vergine.

A volte la sensazione di pre-pensare è un’agonia: è la tortuosa creazione che si dibatte nelle tenebre e che si libera solo dopo aver pensato – con parole.

Voi mi obbligate allo sforzo tremendo di scrivere; e dunque, permesso, mio caro, lasciami passare. Sono serio e onesto e se non dico la verità è perché è proibita. Io non adopero il proibito, lo libero. Le cose ubbidiscono al soffio vitale. Si nasce per gioire. E gioire è già nascere. Finché siamo feti, gioiamo del conforto totale del ventre materno. Quanto a me, che ne so. Quello che ho mi entra nella pelle e mi fa agire sensualmente. Voglio la verità che mi viene data soltanto attraverso il suo contrario, la menzogna. E non sopporto il quotidiano. Dev’essere per questo che scrivo. La mia vita è un unico giorno. Ed è così che il passato è per me presente e futuro. Tutto in una sola vertigine. E la dolcezza è così intensa che mi fa un insopportabile solletico nell’anima. Vivere è magico e totalmente inspiegabile. Comprendo meglio la morte. Essere quotidiano è un vizio. Che cosa sono io? Sono un pensiero. Possiedo il soffio? lo possiedo? ma chi è che lo possiede? chi è che parla per me? possiedo un corpo e uno spirito? io sono un io? «È esattamente così, tu sei un io» mi risponde terribilmente il mondo. E ne provo orrore. Dio non deve mai essere pensato, altrimenti Lui fugge o io fuggo. Dio dev’essere ignorato e sentito. Allora Lui agisce. Mi chiedo: perché Dio chiede così tanto di essere amato da noi? Risposta possibile: perché in questo modo amiamo noi stessi, e amandoci ci perdoniamo. E quanto abbiamo bisogno del perdono. Perché la vita stessa arriva già mescolata con l’errore.

Il risultato di tutto ciò è che dovrò creare un personaggio – più o meno come fanno i romanzieri – e attraverso la sua creazione conoscere. Perché da solo non ci riesco: la solitudine, la stessa che esiste in ognuno di noi, mi spinge a inventare. E ci sarà un altro modo di salvarsi? a parte quello di creare le proprie realtà? Ho la forza necessaria, come ce l’hanno tutti – è vero o no che finiamo per creare quella fragile e folle realtà che è la civiltà? Questa civiltà a stento guidata dal sogno. Ogni mia invenzione mi suona come una preghiera laica – è questa l’intensità del mio sentire, scrivo per comprendere. Ho scelto me e il mio personaggio – Ângela Pralini – per tentare, attraverso noi due, di comprendere questa vita che non ha definizione. Vita non ha aggettivo. È una mistura dentro uno strano crogiolo, ma che consiste, in ultima analisi, nel respirare. E a volte nell’ansimare. E a volte nel respirare appena. Sì. Ma a volte c’è anche la profonda boccata d’aria che arriva fino al tenue freddo dello spirito, per il momento ancora legato al corpo.

Vorrei iniziare un’esperienza e non soltanto essere vittima di un’esperienza da me non scelta, semplicemente accaduta. Di qui, la mia invenzione di un personaggio. Inoltre voglio spezzare, oltre all’enigma del personaggio, l’enigma delle cose.

Questo, immagino, sarà un libro che sembrerà composto di detriti di libro. Ma in verità si tratta di raffigurare le mie fulminee visioni e quelle del mio personaggio Ângela. Potrei prendere ogni singola visione e dissertarne per pagine e pagine. Ma accade che l’essenza della cosa a volte si trovi solo nella visione. Ogni appunto, sia nel mio diario sia nel diario che ho fatto scrivere ad Ângela, mi provoca un piccolo spavento. Ogni appunto è scritto al presente. L’istante già è fatto di frammenti.

Non voglio attribuire un falso futuro a ogni visione di un attimo. Tutto accade esattamente nel momento in cui viene scritto o letto. Questo brano qui, in verità, nella sua forma originaria, è stato scritto dopo aver riletto il libro, perché mentre procedevo non avevo ben chiara la nozione del cammino da intraprendere. Nel frattempo, senza dare grandi spiegazioni logiche, mi ostinavo precisamente a mantenere l’aspetto frammentario tanto in Ângela quanto in me.

La mia vita è fatta di frammenti e lo stesso accade ad Ângela. La mia vita possiede un vero intreccio. Ma sarebbe la storia della corteccia di un albero e non dell’albero. Un sacco di fatti che solo la sensazione potrebbe spiegare. Mi accorgo che, senza volere, quello che io scrivo e che Ângela scrive sono dei brani per così dire sparsi, sebbene all’interno di un contesto di…

È così che questa volta prende forma il mio libro. E, siccome provo rispetto per ciò che viene da me a me, è proprio così che scrivo.

Tratto da: Clarice Lispector, Un soffio di vita, Adelphi eBook

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Per salvarci, dedichiamo più tempo al benessere comune

24 Aprile 2022

Non sappiamo che tempo sta arrivando. Non serve a molto pronunciarsi in previsioni. Meglio stare dentro ogni giornata con lucida attenzione e con qualche slancio. Siamo chiamati a fare la nostra parte e può bastare il rispetto dei consigli che ci vengono dalle autorità sanitarie. Non possiamo pensare di essere buoni cittadini limitandoci ad acquisire il green pass. La situazione è veramente grave e richiede comportamenti eccezionali da parte di ogni cittadino. A cominciare dalla capacità di dedicare parte del nostro tempo agli altri. Serve che una quota della nostra giornata sia destinata a una qualche forma di servizio civile. E non c’è bisogno che arrivi qualcuno a darci le istruzioni sul da farsi. Ognuno sa come potrebbe rendersi utile. Già togliere una carta da terra è un buon segno. E poi dobbiamo capire che le premure per gli altri in qualche modo ci tornano e così pure una dedizione alle nostre passioni. Un poco spiace che i governanti sono piuttosto silenti su questi ragionamenti che potremmo definire caldi. E anche nella società c’è una deriva tecnicista, come se fossimo tutti diventati governanti. Di tecnici possono bastare quelli che sono al governo e altri che lo sono di professione. Per il resto è bene ricordarsi che a noi compete dare vita alla vita, più che opinioni: siamo qui per dipingere il quadro, la cornice spetta ad altri. Forse in questo momento è sbagliato parlare del fatto che dobbiamo uscire da questa situazione. Non siamo caduti in un pozzo da cui uscire. Siamo dentro un mondo che si trasforma ogni giorno e tra le trasformazioni ora abbiamo anche quella di un virus che per si può definire uno specialista nelle trasformazioni. In un certo senso dovremmo andare a scuola dal virus e trasformarci anche noi, ma nel senso della clemenza, della gentilezza, della dedizione alle premure più che ai guadagni. Vorrei che la classe politica ricordasse più spesso queste cose. E invece anche nella più grave delle situazioni sembra invischiata nei suoi giochi di Palazzo: tenere in piedi l’ipotesi che Berlusconi diventi presidente della Repubblica prima che un’offesa a una parte degli italiani è un’offesa proprio a Berlusconi e segnala che la politica emana regole sanitarie, ma poi non si prende cura della sua salute e si dedica anima e corpo alle sue malattie. È importante in questa fase che ognuno dia spazio al suo ottimismo della volontà senza illustrarci il suo pessimismo della ragione. Abbiamo capito che non basta l’immunità di gregge, ci vuole la coesione degli intenti, la fermezza nel cambiare direzione, dare e darsi delle speranze e degli orizzonti nuovi più che limitarsi a descriverli. Questa cosa non poteva essere scritta nel Piano di spesa che è stato fatto dal governo. Queste cose le deve fare ognuno di noi e subito. Nei luoghi non devono solo gocciolare monete, ma desideri. Sappiamo bene quanto può essere pericoloso il denaro senza i sogni.

Di Franco Arminio, 23 Dicembre 2021

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Codice della vita italiana

29 Marzo 2022

C’è molta amarezza, in espressioni che han l’aria (soltanto l’aria, purtroppo) del paradosso. Amarezza e, qualche volta, disperazione. Quando si vive in Italia, più d’una volta accade di domandarsi perché non si prende il primo piroscafo che parte per il nuovo mondo, dove, molto lontani, attraverso il velo della poesia, e senza alcun contatto con i cattivi campioni della madre patria, tutto quello che c’è di bello e di sano può tornare in mente e destare persin nostalgia.
Si, siamo ridotti a questo, qualche volta: a prendere idealmente un piroscafo e guardarla da lontano, questa nostra Italia, per poterla amare davvero… A guardarla come posteri; anzi peggio: come stranieri. Del resto i migliori italiani, da Dante a Mazzini, hanno rivolto aspri rimbrotti ai loro compaesani; e si capisce. Chi ha un ideale di patria, vi paragona la realtà e non può fare a meno di trovarla inferiore; onde il suo sforzo perché la luce di quell’ideale, che è tormento e miglioramento, passi negli altri. Ma non vi passa che attraverso lotte. Chi si contenta delle cose come stanno, non ha bisogno di urtare alcuno; e può distendersi nelle lodi.
I dolci educatori, si sa, non sono i migliori.

Tratto da: Giuseppe Prezzolini, Codice della vita italiana

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Costantin Noica

27 Marzo 2022

In questi ultimi vent'anni è accaduto qualcosa, i popoli hanno provato il brivido della morte. “Noi popoli, adesso sappiamo di essere mortali”. Non è quello che potete immaginare in un primo momento, la guerra con le sue conseguenze. Si tratta di una cosa diversa, di un pericolo che la nostra tribù non aveva mai incontrato e che non sa affrontare: il grandioso passaggio, attualmente in atto, dalle società di tipo agricolo a un mondo diverso. Ancora un passo dalle proteine sintetiche ed è la fine della civiltà del villaggio, quel villaggio che dai tempi dei Geti, è l'unica cosa che abbiamo saputo proporre al mondo. In futuro accadranno cose mirabili, la smetteremo con questa agricoltura che da migliaia di anni, pettina e spazzola ridicolmente la natura: l'umanità che fino a ieri paventava l'idea di poter superare la cifra di cinque o sei miliardi, arriverà facilmente a qualche decina; le città si estenderanno a perdita d'occhio, lasciando dovunque alla natura il diritto di ridiventare natura. E cosi fra una Parigi sterminata e una gigantesca Rouer, probabilmente ci sarà la giungla; e l'uomo ritroverà il contatto elementare con il mondo del buon Dio nel momento stesso in cui sarà diventato più intimamente, ossia più artificialmente, uomo.

Tratto da: Emil M. Cioran, Constantin Noica e R. Ferrara, L'amico lontano (15 mar. 1993)

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Mister Smith va a Madrid

24 Marzo 2022

Oriana Fallaci. A esser sinceri, signor Capra, mi sembra quasi impossibile che lei sia Frank Capra. E non già perché la immaginassi diverso. Malgrado ella sia un monumento di gloria cinematografica e uno dei registi più popolari del mondo, la immaginavo proprio così: piccolo e bonario, in maniche di camicia e con la pipa fra i denti, una gran bocca sardonica e due occhietti che paiono due fiammiferi accesi. La immaginavo anche nonno, e infatti lo è già: scusi, sa, se lo dico. Mi sembra impossibile, ecco, che lei sia Frank Capra perché dopo il suo concittadino Orson Welles lei è l’uomo più inafferrabile degli Stati Uniti d’America. La prima volta che la cercai, mi pare a Hollywood, lei era in India. La seconda volta che la cercai, probabilmente in India, lei era in Giappone. La terza volta che la cercai, probabilmente in Giappone, lei era in Cecoslovacchia. La quarta volta che la cercai, probabilmente in Cecoslovacchia, lei era in Italia. Parlarle finalmente in una stanza d’albergo a Madrid ha del miraggio. Ma che ci fa ora a Madrid? Me lo dica senza scherzare: lei ha talmente l’aria di ridere sempre su tutto e su tutti.

Frank Capra. Ci preparo un film per Samuel Bronston: il mio quarantacinquesimo o qualcosa del genere. Un film sul circo, infatti si chiamerà Circus, con John Wayne, lo schermo gigante e i colori. Una cosetta umoristica e spettacolare. In quegli altri posti, a parte la Cecoslovacchia dov’ero per un festival, ci stavo invece per il Dipartimento di stato. Insomma per il governo. In India, ad esempio, dovevo parlare con Nehru: d’un tratto mi sono scoperto doti diplomatiche. E me le sono scoperte perché amo viaggiare. Soprattutto viaggiare gratis. Io vado dovunque mi paghino il viaggio. Presi il vizio durante la Seconda guerra mondiale, quand’ero colonnello dell’esercito americano incaricato di dirigere il servizio fotografico militare. In cambio di farmi rischiare la vita su quei bombardieri, il governo di Washington mi pagò il viaggio in un mucchio di posti: Europa, Africa, Pacifico.

Oriana Fallaci. È a lei dunque che si devono quei meravigliosi documentari bellici dell’ultima guerra?

Frank Capra.Sì, comandavo un gruppetto di colleghi abbastanza bravini: John Huston, George Stevens, Anatole Litvak, Billy Wilder. No, Billy Wilder era in Aviazione. Con John si fece lo sbarco in Sicilia. Però non creda che riesca a viaggiare sempre gratis. In Russia, per esempio, ci andai a mie spese nel 1937. Io e Bob Riskin, uno scrittore mio amico, ci eravamo messi in testa di vedere la parata del Primo Maggio, così comprammo il biglietto dell’aereo e andammo a Mosca: solo per veder la parata. Mio Dio! Che brutto ricordo!

Oriana Fallaci. Perché? L’arrestarono?

Frank Capra. No, no. Peggio.

Oriana Fallaci. Ebbe una discussione con Stalin?

Frank Capra. No, no. Peggio. Ma se glielo racconto, crederà che scherzi. Non mi ha chiesto d’essere serio?

La vedo serissimo, tragico anzi. è diventato perfino bianco.

Frank Capra. Ogni volta che ricordo quella parata divento bianco. Lei non sa cosa fu. Uscimmo dall’albergo alle quattro del mattino… Oh, mio Dio! Bene. Dunque usciamo dall’albergo che sono le quattro del mattino, un gran buio, e dopo esser passati attraverso migliaia di poliziotti raggiungiamo le tribune dove c’è Stalin che si lecca i baffi, serio serio, e dove scopriamo che non c’è posto a sedere. Il colpo è duro in quanto io e Bob non saremmo venuti da Los Angeles a Mosca a veder la parata se ci avessero detto che non c’era posto a sedere, ma poi ci facciamo coraggio e restiamo in piedi: ad aspettare la parata che incomincia alcune ore dopo, con cannoni e cannoni, tutti i cannoni del nuovo impero romano, per non dir le altre cose come i fucili e i soldati. I cannoni stanno dunque passando che Bob esclama: «Mio Dio, permesso permesso, devo andare in un posto», ma gli rispondono: «Fermo, non si può uscire, stanno passando i cannoni». Passano altri cannoni, intanto è mezzogiorno, e anche io esclamo: «Mio Dio, permesso permesso», ma mi rispondono: «Non si può, stanno passando i cannoni». Bob si arrabbia e dice: «Che paese è mai questo dove non si può nemmeno andare in un posto», ma non gli risponde nessuno e continuano a passare cannoni. Viene l’una, vengono le due, vengono le tre, vengono le quattro, io dico: «Bob, bisogna fare qualcosa, forse i russi non fanno pipì ma gli americani la fanno», quando i cannoni finiscono e incominciano le bandiere. Al che si ode un urlo e vedo Bob che scavalca la tribuna e si butta tra le bandiere che son portate da migliaia di operai, migliaia e migliaia di operai, sicché grido: «Bob!», e mi butto dietro di lui. Le assicuro che non è proprio il caso di ridere.

Non rido, mi scusi, non rido. Vada avanti. Che accadde?

Frank Capra. Accadde che io e Bob si agguantò il lembo di una bandiera e ci si mise a marciare con gli operai, cantando sebbene ci mancasse la voce, cercando con gli occhi un piccolo buco ma il buco non c’era, c’era solo quello schieramento di polizia, più duro del ferro, più alto di un muro. «Bob,» dicevo cantando «vedi niente?» «No, niente di niente» diceva Bob, cantando anche lui. E così, vedendo niente, reggendo il lembo della bandiera, cantando, morendo, continuammo per miglia e miglia, finché fummo in aperta campagna, dove le file si ruppero, e tutti, dico tutti, uomini, donne, bambini, si misero a correre, a correre, verso i muri, verso le case, verso gli alberi, verso niente. Mio Dio! Che cattivo ricordo!

Piacerebbe a Krusciov, questa storia. Perché non gliel’ha raccontata quando è stato a Hollywood?

Frank Capra. Non mi è riuscito. Spyros Skouras non mi dette il tempo. Spyros è il capo della 20th Century Fox. Cominciarono a parlare, lui e Krusciov, grassi e rotondi come prosciutti, sicché sembravano gemelli, e Spyros spiegava quanto era grande l’America e più dell’America la 20th Century Fox, Krusciov spiegava quanto era grande la Russia e più della Russia Krusciov, finché litigarono e non riuscii a dire niente a Krusciov. Se mi paga il viaggio vado a Mosca e gliela racconto, la storia.

Potrebbe andarci con la scusa di un film: così le danno anche la diaria. Vero è che lei non ha mai fatto film fuori d’America. Questa è la prima volta, con Circus.

Frank Capra. Sì, ma anche stavolta con personaggi americani e attori americani. Come uomo mi diverto a viaggiare, come regista no. Io ho bisogno di conoscere la gente che racconto in un film. Voglio dire che non me la sento, ad esempio, di fare un film coi francesi o sui francesi perché non capisco i francesi, allo stesso modo in cui non me la sento di fare un film coi russi o sui russi perché non capisco i russi. Forse potrei fare un film sugli italiani o con gli italiani, ma anche loro non son mica sicuro di capirli.

Eppure dovrebbe capirli. Lei è italiano. Insomma: nato in Italia.

Frank Capra. Siciliano. Nato a Bisacquino, provincia di Palermo. Quando mio padre, Salvatore Capra, un povero contadino che coltivava arance e limoni, emigrò nel 1903, io avevo cinque anni. Che ne so in fondo degli italiani? Non sono neppure mai tornato a Bisacquino, non mi dice nulla. Cosa potrei raccontare?

La storia di quella partenza. La storia di questo povero contadino siciliano che coltiva arance e limoni e un giorno parte con la famiglia per andare a coltivare altre arance e altri limoni nel grande paese che chiamano America ma di cui non sa nulla, nemmeno la lingua. È una bella storia.

Frank Capra. Mio Dio se lo è! Io non so dove abbia trovato il coraggio, quel povero omino. Aveva già quarantotto anni, un po’ tardi per cambiare. Ma Benedetto, il mio fratello maggiore, era emigrato in California, non voleva più tornare in Sicilia, e il povero omino volle raggiungerlo. Vendette tutto quello che aveva, ci caricò su un barroccio fino a Palermo, eravamo sei figli, qui ci buttò sulla nave… Più di due settimane di mare impiegammo per arrivare a New York, otto giorni di treno per arrivare a Los Angeles. Per otto giorni, sul treno, non mangiammo che pane e banane perché non si sapeva domandare che quello, banana in inglese si dice banana e pane, in tutte le lingue, si dice portando le dita alla bocca.

Los Angeles allora era piccola: piena di campi con arance e limoni come quelli che avevate lasciato, solo un poco più grandi. Non offriva una corsa all’oro.

Frank Capra. Infatti ci mettemmo subito a fare i mestieri più duri: mia madre a raccogliere olive in una piantagione, mio padre a lavorare in un ranch, io a vender giornali. Di tutta la famiglia fui l’unico a voler andare a scuola, e fu difficile convincerli, in un certo senso per loro era ridicolo andare a scuola, erano venuti lì per far soldi, non per andare a scuola. Ma io volevo qualcosa di meglio di ciò che essi avevano, volevo essere uguale alla gente tra cui ora vivevo. Così mi iscrissi a una scuola scientifica: il Californian Institute of Technology.

Strano che un poeta come lei, un umorista come lei, venga da studi scientifici. Forse l’influenzò il Grande Paese, la sua tecnica.

No. Semplicemente, la matematica mi era facile, la chimica mi affascinava. E poi non volevo diventare un umorista o un poeta. Volevo diventare un buon ingegnere. E così lavorai come un cane per pagarmi gli studi, studiai come un cane per non perdere tempo, e a diciannove anni ero già laureato: in ingegneria chimica.

Dunque nel 1917. Hollywood come industria del cinema era già incominciata: De Mille e Lasky si erano stabiliti tra le arance e i limoni fin dal 1910. Mi piacerebbe sapere la verità su come lei divenne regista. Quando si parla di Frank Capra si pensa sempre al Frank Capra degli anni Trenta e Quaranta: quello di Mr. Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità), per esempio, non quello che inventò buona parte del cinema americano e mondiale.

Frank Capra. La verità è che fu un caso. Conseguita la laurea ero andato soldato: gli Stati Uniti erano entrati in guerra. E, finita la guerra, mi trovai senza lavoro. Così mi misi a fare i mestieri più assurdi e un giorno mi trovai a San Francisco con un conto d’albergo da pagare e i bagagli chiusi a chiave in camera. In mano, soltanto un giornale. Sul giornale era scritto che a Golden Gate Park giravano un film e, chissà perché, non me lo sono mai spiegato, andai a vedere e mi presentai come «Frank Capra di Hollywood». Immediatamente un brav’uomo dall’aria smarrita mi fece un inchino e mi tese la mano. Domandai con sussiego che film intendeva fare, rispose: «Un vero film, con la gente e le cose. Metterò la gente e le cose dinanzi alla macchina e girerò». Io non ero mai stato in un teatro di posa, ne sapevo meno di lui, e la tecnica mi parve giustissima. Però sapevo che la pellicola non durava più di quattro minuti perché avevo fatto il fotografo e, per fargli vedere che ne sapevo moltissimo, ridacchiai che non potevano fare ciò che volevano fare perché la pellicola durava solo quattro minuti. L’informazione lo sconvolse. Mi chiese cosa facevo a San Francisco. Risposi che ero in vacanza. Mi chiese quanto volevo per aiutarlo mentre ero in vacanza. Io feci il conto dei soldi che dovevo all’albergo, erano settantacinque dollari, e risposi settantacinque dollari. Lui mi dette settantacinque dollari e io me ne andai.

Senza nessuna intenzione di ritornare, scommetto.

Nessuna. Infatti andai in albergo, tutto contento, pagai, ritirai i bagagli sequestrati e uscii per recarmi alla stazione. Davanti al treno, però, la coscienza prese a dolermi. Quel brav’uomo mi aveva dato settantacinque dollari, la sua fiducia, non potevo abbandonarlo così. Lasciai la stazione, entrai in un cinema, e ci rimasi tutto il giorno a guardare quella strana faccenda detta “motion picture”. Poi tornai dal brav’uomo e gli chiesi che storia voleva fare. Rispose una storia di Kipling, ambientata a Calcutta. Dio mio! Non ero mai stato a Calcutta ma avevo ciò che in italiano si chiama…

Faccia tosta. Lei non sa l’italiano? Credevo proprio lo sapesse.

No, no. Pocco pocco. Non is very gentile per those who gave me faccia tosta but pocco pocco. Dunque risposi che avrei usato un metodo completamente nuovo: nessun attore professionista, solo gente così.

In Italia questo metodo ha dato nome a uno stile, a una scuola. Pensi che si sta meditando di metterli in Campidoglio i registi che prendono attori dalla strada: quando saranno morti, s’intende.

Frank Capra. Davvero?! Oh! Ah! Strano. Io lo feci perché temevo che gli attori professionisti capissero che non ero un regista. Con una paura che il brav’uomo scoprisse l’imbroglio!… Invece disse: «Bravo, bravo», e così cercai i tipi che avevano una faccia da indiano, poi una chorus girl molto scema, troppo scema per capire qualcosa. Infine telegrafai a un mio amico operatore: «Vieni subito perché devo fare un film stop. Come si fa a fare un film?». Lui venne e non lo sapeva, era un operatore di attualità. Sicché come due ciechi ci mettemmo a fare il film, che fu finito in tre giorni.

Ma questo è il lavoro dei produttori. Sì, quei signori che cercano i tipi con la faccia da indiano, poi una chorus girl molto scema, e infine telegrafano a un amico per chiedere come si fa. Da noi in Italia c’è tutta una mitologia su di loro.

Frank Capra. Davvero?! Oh! Ah! Strano! Comunque quando il film fu finito io non sapevo come metterlo insieme, così andai da un tipo del laboratorio che si chiamava Mister Ball, signor Palla, e gli dissi: «Senta signor Palla, devo confessarle una cosa, non ho mai fatto un film prima d’oggi». Il signor Palla mi guardò in modo insolito, molto insolito, non disse nulla, poi fece un gran sospiro e mi spiegò. Io capii, cucii insieme tutto, poi guardai il tutto ed era un film. Dopodiché il signor Palla disse: «E ora che ne facciamo?». «Lo vendiamo» risposi. Uscii, lo vendetti per tremilacinquecento dollari, il doppio di quello che era costato, e nello stesso momento ebbi la sensazione di aver trovato il mio lavoro. Sì, sì. Mi chiusi nel laboratorio, imparai a sviluppare la pellicola, a stampare la pellicola. Poi andai a Hollywood. Era il 1926. Divenni subito soggettista e sceneggiatore. Poi anche regista. Dirigevo i film con le stesse storie che scrivevo.

Ma questo è quello che fanno oggi i registi-autori. In Italia, e anche in Francia, c’è tutta una leggenda anche su loro. Li paragoniamo a Galileo Galilei, li guardiamo con venerazione, siamo convinti che siano rivoluzionari.

Davvero?! Oh! Ah! Strano.

Sì, sì. Quando poi lanciano i divi o le dive, non sto a dirle cosa succede: io, per esempio, scrivo fiumi di parole. Sì, sì. A proposito: non che lei sia bravo ed eccezionale come son loro, ma di divi e dive ne ha lanciati parecchi, vero? Gary Cooper, Barbara Stanwyck, Clark Gable, James Stewart, Claudette Colbert…

Frank Capra. Gary Cooper, no: non l’ho proprio lanciato. Dio mio, non che gli abbia fatto del male, ma lanciato no. Neanche Jimmy. Gli altri, sì. Prendiamo il caso di Barbara Stanwyck. C’era da fare quel film, The Miracle Woman (La donna del miracolo), e io avevo in testa un’altra attrice. Il capo della Columbia per cui lavoravo mi suggerì Barbara e io dissi: «Fatemela vedere», ma mica volentieri. Barbara a quel tempo aveva vent’anni, era molto difficile, parlava pochissimo. Entrò nel mio ufficio, mi ascoltò cinque secondi, poi si alzò gridando: «Lei non mi vuole!», e andò via. Allora venne il marito, in quel periodo Frank Fay, a gridare: «Cosa ha fatto a mia moglie? Veda almeno il provino». Era così arrabbiato che subito volli vedere il provino che durava tre minuti. Bene. Dopo il primo minuto piangevo, dopo il secondo ero deciso a scritturarla. Barbara non è solo una attrice straordinaria, è una donna straordinaria. Vuol bene a tutti, tutti le vogliono bene. Quando morirà le faranno il funerale più grande che sia mai stato fatto a Hollywood.

Corna facendo. E Clark Gable?

Frank Capra. Clark lo scelsi per It Happened One Night (Accadde una notte). Mio Dio, nessuno voleva interpretare quel film: la gente non sa mai leggere le commedie allegre. Per esempio: volevo Robert Montgomery e lui rifiutò. Clark mi fu mandato dalla MGM perché era stato cattivo e bisognava punirlo. Così venne dai grandi studios della MGM ai piccoli studios della Columbia ed era arrabbiatissimo, ubriaco da morire. «Vuoi che ti racconti la storia? Vuoi leggerla?» gli chiesi. «Me ne frego della sua dannata storia e me ne frego del suo dannato film» disse. Poi si alzò e andò via anche lui. Per la parte della ragazza, idem. Tutte rifiutavano: Mirna Loy, Margaret Sullavan, finché seppi che Claudette Colbert era in vacanza per un mese. Andai da Claudette e per prima cosa fui aggredito dal suo cane lupo che mi morse il didietro e un orecchio, poi da lei in persona che mi disse: «Se ne vada, sono in vacanza». Ma io sapevo che era francese, che la filosofia francese, e soprattutto Claudette, non prescindono dal denaro, strizzai l’occhio e dissi: «E se le raddoppio il compenso?». Rispose: «Ok», e feci il film. Mio Dio! Nessun film ha mai guadagnato tutti e cinque gli Academy Awards come Accadde una notte. Vinse l’Academy Claudette, e lo vinse Clark, e lo vinse Bob Riskin per il miglior soggetto e la migliore sceneggiatura, e lo vinse la Columbia per il miglior film dell’anno, e lo vinsi io per la miglior regia. Così vanno le cose in America e nel mondo.

Per quello, di Academy Awards lei ne ha vinti parecchi. È coperto di medaglie e di statuine come un ex voto. E ha fatto vincere anche parecchi attori. A proposito, mi dica, lei che è così intelligente: ma le piacciono gli attori?

Molto. Li amo. E buona parte del mio successo è dovuta a questo: che li amo. Per l’attore cinematografico il solo pubblico è il regista, e solo se lui sente che il regista lo ama riesce a lavorar bene. Sì, lo so cosa pensa, ma gli attori non devono essere intelligenti o brillanti, you see. Devono solo sentire. Non bisogna aspettarci troppo dagli attori, soprattutto non bisogna aspettarci che siano geni.

Io non mi aspetto che siano geni. Mi aspetto solo che non credano di esser geni. È diverso.

Frank Capra. Mio Dio, essere attori è un tale handicap. Certo, oggi gli attori si fanno vedere troppo in giro, pretendono di far troppe cose, danno troppe interviste. Solo Greta Garbo aveva le idee giuste sul fatto d’essere attrice. Si mostrava solo sullo schermo, non parlava mai, e così riuscì a fare di sé qualcosa di sacro: che non poteva essere criticato e che non deludeva. Fu così fin dall’inizio, non diventò così dopo: per boria. Io lo so perché la conosco bene. Eppure anche con me ha sempre parlato poco.

Oriana Fallaci. E… corna facendo, prevede anche per lei le feste che faranno alla Stanwyck?

La Garbo non è mortale. Sicché, come dicevo, gli attori d’oggi parlano troppo. Anch’io oggi parlo troppo.

Oriana Fallaci. Perché lei, pur essendo così ferocemente americano, è ancora talmente italiano. Questo si capisce anche a vedere i suoi film, mi pare. Alla Tv italiana hanno ridato recentemente alcuni suoi film: It’s A Wonderful Life (La vita è meravigliosa) e Mr. Smith Goes to Washington (Mr. Smith va a Washington)… I soliti padreterni li han definiti pieni di conformismo, e innocui. Secondo me invece erano dettati dall’anticonformismo più individualista. Ciò mi pare assai italiano.

Frank Capra. Lo credo anch’io. Anche questa abitudine a narrare le storie della piccola gente che combatte la gente grossa, le avversità più ciclopiche, è abbastanza italiano: direi. Però il mio modo di trarre le conclusioni è molto americano. La mia piccola gente vince sempre, non cede mai alle avversità. Voi col vostro Neorealismo pessimistico…

Oriana Fallaci. Il Neorealismo è esploso dopo una guerra che avevamo perduta. È nato dalla miseria, dalla paura, dalla fame. Il suo ottimismo nasce da un paese prospero, che si illude d’essere il Paradiso terrestre, che non conosce miseria, paura, fame. Diciamo che è un ottimismo nazionale a carattere storico.

Frank Capra. Non è vero. L’America non è sempre stata prospera, io non sono sempre stato prospero. I miei film di maggiore successo li ho girati dopo il crack del 1929, nel periodo della Depressione. E la Depressione fu una cosa molto seria in America. Provocò povertà, suicidi, banche chiuse. Però gli americani si sollevarono, e lo fecero da soli, nessuno li aiutò, non ci fu un piano Marshall per gli americani. You see: gli americani sono ottimisti perché sono forti e sono forti perché non sono superficiali. E siccome sono forti combattono sempre e non perdono mai: come gli omini dei miei film. Quando qualcosa di brutto gli succede, stringono i denti e dicono non importa, go ahead, vai avanti ragazzo. Questo dico e questo dicevo coi miei film. Né inventavo nulla: essi erano lo specchio della mentalità americana che è la mia mentalità: il mondo è buono, e la gente è buona, e il Bene trionfa.

Oriana Fallaci. Anche lei… Comunque, secondo me, c’era molto di più nei suoi film. C’era questo anelito di libertà e di giustizia. C’era questa critica secca del sistema, questo umorismo senza pietà…

Frank Capra. Gli americani criticano sempre sé stessi, ridono sempre di sé stessi. Io credo che il grande marchio della civiltà sia la capacità di ridere di sé stessi: quando un popolo sa ridere su sé stesso vuol dire che è un popolo libero. I dittatori, per esempio, non sanno ridere di sé stessi. Poverini, oltretutto non possono: i dittatori sono buffi e non lo sanno. Noi sappiamo d’essere buffi perché non conosciamo la dittatura. Questo siamo noi americani e gli altri non lo capiscono: ci dipingono sempre come dei ricconi idioti.

Oriana Fallaci. L’americano è il popolo più incompreso del mondo, il più equivocato. Non che siano sempre Lincoln, Maciste, Leonardo da Vinci o lord Brummel ma…

Frank Capra. E loro lo sanno, e quando non lo sanno lo sentono, e ne sono feriti, e non capiscono perché, e non sanno cosa farci, e non fanno nulla: fuorché continuare a essere americani perché sono americani. Ma lo sa fino a che punto questi cosiddetti ricconi idioti sono liberi? A questo: l’unica difficoltà che riportai col mio film Mr. Smith va a Washington fu la protesta di un senatore che telefonò al proprietario di un cinematografo: «Se non togliete quel dannato film, io non verrò più nel vostro dannato cinema». E il proprietario del cinema: «Oh, sì, senatore. Vorrei toglierlo subito senatore, ma non posso entrare».

Oriana Fallaci. Senta, signor Capra: lei ha mai avuto noie durante il maccartismo?

Frank Capra. Durante che cosa?

Il maccartismo.

Frank Capra. Cosa?!

Oriana Fallaci. Maccartismo, McCarthy, senatore McCarthy. Quel signore che ad esempio mise nei guai i Dieci di Hollywood.

Frank Capra. Il maccartismo: mio Dio! È così poco importante che non lo ricordavo nemmeno, non capivo nemmeno di che cosa parlasse. Sì, McCarthy fu peggiore del peggiore dei comunisti: ma tutto è stato più mitologizzato fuori dell’America che in America. Quei dieci erano comunisti ed ebbero qualche difficoltà.

Oriana Fallaci. Un momento, un momento. Altro che qualche difficoltà. Ai tipi come Arthur Miller fecero un bel processino e i tipi come Dalton Trumbo hanno ripreso solo tre o quattro anni fa a firmare sceneggiature e soggetti.

Frank Capra. Io non sono mai stato coinvolto in quella faccenda. Non solo perché non ho simpatia per i comunisti, non solo perché la politica la faccio nel senso che, se mi piace un uomo, lo voto, non solo perché le campagne elettorali non le faccio a nessuno e voglio esser libero di ridere su tutti, ma perché la mia critica si è sempre espressa in modo umoristico. Il segreto dell’umorismo è che ti permette di dire ciò che non puoi dire con la faccia seria. Io vedo tutto in chiave umoristica, la tragedia non la capisco.

Oriana Fallaci. Allora avrà il suo daffare in Spagna. Questo popolo tragico, che parla sempre della morte, che si diverte solo con la morte, che perfino agli angeli mette la maschera della morte… Quando penso all’angelo di seconda categoria che c’è nella Vita è meravigliosa: quello che deve guadagnarsi le ali…

Frank Capra. Gli angeli di seconda categoria si trovano solo in America: benedetti. Capisce ora perché ho sempre fatto i film in America e basta. E poi io sono un igienista. Vado a letto alle undici, mi alzo alle sei e mezzo per passeggiare, vivo in campagna dove coltivo avocado, sono sposato dal 1932 con una adorabile californiana che è californiana da quattro generazioni, gallese di origine, ho tre figli, uno di ventisette, una di ventiquattro, uno di ventun anni, tra un mese sarò ancora nonno perché mia figlia aspetta due gemelli; non ho mai divorziato. Un semplicione.

Oriana Fallaci. No, no: lasciamo l’imbroglio. Altro che semplicione. Non mi sembra davvero un semplicione uno che fa public relations per il Dipartimento di stato, e scrive storielle come le sue, e si interessa di scienza…

Frank Capra. Ah, quella sì! Lì sono bravo davvero: più bravo che a coltivare avocado. Sono uno dei boarding director del Californian Institute of Technology, se non continuassi a fare il regista potrei benissimo fare l’insegnante di scienze, mi intendo seriamente di cosmonautica… Ero matto di gioia quando quei ragazzi andarono su, se fossi più giovane non so che darei per andar su con la mia cosmonave. Lei no?

Oriana Fallaci. Come no? Se non fossimo afflitti da secolari, anacronistici tabù, direi che viviamo in un’epoca meravigliosa…

Frank Capra. Meravigliosa e interessante. La più interessante perché la più scientifica. Lo spirito dell’uomo sta avanzando così velocemente. L’uomo è un fenomeno straordinario: capace degli scherzi più tremendi. Guardi il cinema, ad esempio. Ai tempi del cinema muto l’uomo era riuscito a farne un’arte. Poi venne il Verbo, come nella Genesi, e lo riportò alle caverne. Si dovette ricominciare daccapo. Mio Dio, il nastro sta per finire. Arrivederci e buon lavoro. Se ha qualche dubbio sulla traduzione mi chiami pure. Scherzavo, sa: l’italiano lo so. Che gliene pare della pronuncia? (Nota della intervistatrice: in perfetto italiano nel testo).

Oriana Fallaci. Signor Capra, lo sa come si dice in italiano? Lei…

Madrid, gennaio 1963

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Traditi

23 Marzo 2022

Prima o poi la guerra arriverà sulle nostre spiagge sul nostro bel paesaggio sulle belle dimore storiche, sui giardini storici da sempre dimenticati e pur sempre belli. Dalle nostre finestre guarderemo le nostre città fantastiche faticosamente sopraggiunte a noi con qualche voragine qui e li ad abbellirle. Da qualche facciata demolita finalmente potremmo ammirare i tesori privati gelosamente ereditati e custoditi, e forse cominceremo a chiederci di chi è la colpa. 

L’ambiente il grande tradito del nostro paese già messo malissimo dall’incuria a nome del profitto e per un’esagerato benessere di pochi. E l’arrivo imminente di tempi funesti  di un clima fuori controllo già presente nei nostri bei cieli turchesi gli daranno il colpo di grazia.

Lo stato italiano ha tradito tutti e prima di tutti ha tradito i suoi figli, gli stessi figli di quelli che oggi vendono e producono armi, gli stessi figli di chi oggi chiede di mandare armi, gli stessi figli di un Zelens’kyj che ha voluto la morte del suo popolo per un’idea di stato confine e sovranità nazionale che credo interessi ben poco ai nostri giovani figli.

Andrea Soriano, 23.03.2022

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Viaggi nello spazio viaggi nel tempo

17 Marzo 2022

Ci sono sempre state molte ragioni per viaggiare, la più semplice delle quali – già complessa – consiste nel farlo per il guadagno e per l’avventura, due motivazioni difficilmente separabili, persino nei mercanti delle Mille e una notte e in Marco Polo. Per convertire a una religione in cui si crede altri uomini, che si troverebbero immersi nella notte dell’ignoranza, come facevano i francescani che si addentravano nell’impero mongolo, Francesco Saverio in Giappone, o anche i monaci indù che evangelizzavano la Cina, o i monaci cinesi in cammino alla volta del Giappone. In altri casi per ritrovare, come Ulisse, una patria perduta, o, come si auguravano, sembra, i grandi navigatori primitivi del Pacifico, per cercare un’isola che offrisse condizioni di vita più favorevoli di quelle dell’isola che si abbandonava. Molto presto, a tali ragioni si aggiunge una nuova motivazione: la ricerca della conoscenza. Ulisse, come ha visto così bene il poeta greco moderno Kavafis, deve trovare negli innumerevoli scali che lo separano da Itaca un’occasione di istruirsi e di godere della vita. I viaggi alla ricerca della conoscenza sono di ogni tempo: conosciamo quelli, sovente leggendari, dei sapienti greci alla volta dell’Egitto, dei romani alla volta della Grecia, dei giapponesi alla volta della Corea o della Cina, dei filosofi occidentali del Medio Evo alla volta del mondo mussulmano e dell’Asia. Il viaggio in regioni lontane è diventato un ingrediente quasi indispensabile della vita dei filosofi, che si tratti di Solone 3 o di Paracelso. In ogni caso, si tratta di istruirsi sul mondo com’è, e di istruirsi, anche, davanti alle vestigia, su come è stato.

Nelle mie opere, si impongono soprattutto due viaggiatori. Uno, l’imperatore Adriano, sembra aver davvero posseduto le caratteristiche più essenziali dei viaggiatori di tutti i tempi; uomo d’affari e uomo di stato mosso da ragioni pragmatiche, che abbracciava nei suoi spostamenti il vasto mondo romano del suo tempo e le sue frontiere barbariche, ma per il quale il viaggio era anche gusto e passione personali e, com’è tipico anche ai nostri giorni di ogni viaggio fatto con intelligenza, una scuola di resistenza, di stupefazione, quasi un’ascesi, un mezzo per perdere i propri pregiudizi, mettendoli in contatto con quelli dello straniero. Adriano il Greco, come lo chiamavano i suoi detrattori a Roma, è uscito dalla routine romana, o piuttosto ha saputo integrarvi dell’altro, grazie alla sua cultura, certamente, ma almeno altrettanto grazie ai suoi viaggi. Sembra che sia stato il primo uomo – il primo uomo noto – a inerpicarsi su una montagna non solo per ragioni religiose, come fece sul monte Cassius in Siria, ma anche, come sull’Etna, per il puro piacere estetico e scientifico di contemplare dall’alto il levarsi del sole. Al tempo stesso organizzatore, pellegrino, osservatore e cultore del bello spettacolo del mondo.

Nella mia isola americana dei “Monts-Déserts”, come la chiamavano i navigatori francesi che l’hanno scoperta nel XVII secolo, si trova una montagna che altrove verrebbe definita piuttosto un’alta collina, ma dal momento che è la sola altura sulla costa atlantica tra il Labrador e l’America Centrale, il suo effetto è maestoso. È anche il punto del territorio degli Stati Uniti che viene sfiorato per primo dai raggi di sole del mattino, e gli indiani che vivevano in tali paraggi portavano per questa ragione il nome di “popolo dell’aurora”. Cinque o sei anni fa, incontrai nella strada del villaggio un viaggiatore giapponese, un uomo d’affari, che era appena salito a piedi su questa montagna per assistere allo spettacolo dell’alba sull’arcipelago che circonda Mount Desert,  ma anche per pregare – preghiera buddista o scintoista – per ottenere ciò di cui abbiamo tutti un gran bisogno, la pace nel mondo. Questo viaggiatore, munito dell’inevitabile macchina fotografica, rientrava nella grande categoria di coloro per i quali il viaggio è al tempo stesso una prodezza fisica – lo è sempre, più o meno – un’esperienza estetica personale e un momento di contatto con il sacro.

Zenone, il secondo grande viaggiatore della mia produzione letteraria, è al tempo stesso motivato dalla necessità di guadagnarsi da vivere – è medico, ma anche, quando vuole, come sempre a quell’epoca, alchimista e astrologo – e dalla persecuzione di ordine religioso, morale e politico, che l’obbliga a fuggire daun paese all’altro, fino al momentoin cui trova rifugio nella morte. Tuttavia, il suo scopo essenziale è di nuovo la distruzione dei pregiudizi e delle consuetudini,che costituisce per un uomod’intelligenza uno dei più chiari profitti del viaggio, e la ricercaappassionata di tutti i modi dellaconoscenza – per lui principalmente metafisica e alchimistica – che i secoli hanno accumulato in certi punti del mondo più che altrove. “Chi vorrebbe morire senza aver fatto almeno il giro della propria prigione?” esclama a vent’anni il giovane Zenone, inebriato dalla sua prima partenza per le strade.  Zenone impiega quasi quarant’anni a compiere, nei limiti del possibile, il giro della sua prigione, prima di morire in un carcere autentico della Fiandra. Assimilando a buon diritto lo studio e il viaggio, ha avuto a tratti l’impressione di camminare sul mondo come su un libro aperto. Come sempre, quando si valontano su questa strada, la nozione stessa di esotismo e il fascino che avvolge da lungi ipaesi sconosciuti si dissolvono. Gli stessi mali e gli stessi errori si trovano dovunque sotto forme differenti. “Non ti parlerò delle attrattive dell’Oriente”, dice Zenone, “non esistono.”7

Suo cugino Enrico-Massimiliano, che durante tutta l’adolescenza ha sognato l’Italia, e ha finito per trascorrervi la vita come soldato di ventura, fa in termini più sommari la constatazione che tutto si equivale: “Il clima è migliore in Italia che in Fiandra, ma vi si mangia peggio.” Ci sono viaggi nel tempo come viaggi nello spazio: “Plutarco”, dice Zenone,“m’insegna che Alessandro si ubriacava come un qualsiasi mercenario… I vostri grandi uomini del passato sono come Costantinopoli e Damasco, che sono belle a distanza: bisogna camminare per le loro strade per vederne le sozzure e i cani famelici.” La conoscenza di mondi stranieri, sia nel tempo che nello spazio, ottiene il risultato didistruggere la ristrettezza di spiritoe i pregiudizi, ma anche l’entusiasmo ingenuo che ci faceva credere nell’esistenza di paradisi, e la stolta opinione cheeravamo qualcuno. “Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là”,“Quanti regni ci ignorano”, dirà più tardi Pascal, che fu dal canto suo un sedentario. E proprio perché hanno superato questi due scogli che Zenone ed Enrico-Massimiliano sono uomini liberi.
Un terzo mio personaggio, Nathanaël, “un uomo oscuro”, non è nemmeno, di sua spontanea volontà, un viaggiatore. A dire il vero, questo contemplativo quasi puro riesce a essere pressappoco senza volizione.

Ma il caso, tra il suo sedicesimo e il suo ventesimo anno, fa di lui un marinaio che va dall’Inghilterra alla Giamaica e alle Barbados, e poi finisce naufrago su una costa scoperta di recente, la futura Nuova Inghilterra, e vi sperimenta per parecchi mesi la solitudine, prima di tornare a passare il resto della sua breve esistenza in Olanda, suo paese d’origine, dove morirà del resto solo come lo era stato in quella che chiamava l’“isola perduta”. I suoi viaggi non sono stati voluti, ma hanno avuto su questo “uomo oscuro” lo stesso effetto esercitato su Adriano o Zenone, benché lo abbiano condotto in regioni del mondo a loro ignote e, d’altronde, a loro inaccessibili. Gli hanno insegnato, da una parte, la diffidenza nei confronti delle opinioni correnti del suo paese e del suo secolo; dall’altra, il fondo comune di tutta l’avventura umana. Si rende conto ormai che l’immensa e rumorosa Amsterdam, traboccante di edifici nuovi, d’oro e di affari, non è stata un tempo che una vasta pianura paludosa, come quelle che gli è capitato di vedere sulla costa orientale del continente americano, e forse un giorno lo ridiventerà, e che gli scalpi dei selvaggi inalberati sulle picche non sono né più né meno orribili delle teste dei decapitati appese a quell’epoca alle porte della città di Londra. Ha scoperto uno dei segreti della vita in ogni luogo e in ogni tempo: l’uniformità sotto la varietà delle apparenze.

Ma sarebbe troppo bello sperare che tutti i viaggiatori riportassero qualcosa dai loro viaggi. I viaggiatori pecoroni sono di tutti itempi. È Hugo che, con genio, ha equiparato la guerra al viaggio: “Idue modi primitivi dell’incontro dei popoli.” I soldati inglesi o francesiinviati a Okinawa non hanno imparato gran che, gli uni sul Vicino Oriente, gli altri sull’Asia. Si è detto spesso, e a ragione, che le crociate per molti partecipanti sono state innanzitutto un viaggio:un viaggio del genere pellegrinaggio, in cui si trattava al tempo stesso di vedere e di riconquistare i luoghi santi, di commuoversi a un passato di pie leggende – poiché le vie dello spazio incrociano sempre quelle del tempo – ma ugualmente di arricchirsi con il saccheggio di Costantinopoli, o di riportare dall’Oriente delle reliquie, spesso false, come faranno i turisti secoli dopo con i ricordini. I pellegrini più pacifici, ma sovente ladruncoli, che si recavano, talvolta a interi villaggi, a Compostella, erano certamente anch’essi in cerca di diversivi quanto di santificazione. Anche la grullaggine appartiene a tutti i tempi. Di Eroda,  piccolo drammaturgo greco, esiste la descrizione di una visita fatta da due donne a un tempio, meta del loro pellegrinaggio, vittime delle ciance del sagrestano che non lascia che ignorino nulla delle curiosità del luogo. La scena, nella sua piattezza così lontana dall’autentica pietas, si è ripetuta o si ripete ai nostri giorni in tutti i luoghi santi del mondo. La devozione ne è assente, e anche la curiosità intelligente.

In realtà, il “viaggio organizzato”dei nostri giorni protegge da ciò che il gergo contemporaneo chiama gli “shock culturali”. Si resta tra sé, sfuggendo almeno in parte alla novità e alla specificitàambientali. L’anno scorso, in Egitto, ho avuto l’occasione di osservare quaranta americani del Tennessee che facevano un viaggio turistico per conoscere la“terra dei faraoni”, cioè il passato, e il colore locale del posto, cioè il presente, in un paese lontano dal loro. In effetti, mangiano cibi preparati, spesso male del resto,per turisti americani, dormono in alberghi che somigliano o si sforzano di somigliare ad alberghi americani, contemplano i grattacieli del Cairo o di Assuan con la rassicurante impressione di trovarsi comunque un po’ a casa  propria, e con la sensazione, ancora più rassicurante, che in quei settori da loro si fa di meglio. Al ritorno dalle escursioni, le signore lavorano a maglia, parlando dei figli rimasti in patria; una di loro si lamenta per aver dovuto respirare “polvere vecchissima”. Gli autobus che li accompagnano in zone selezionate, sterilizzate si potrebbe dire, non offrono loro soltanto l’aria condizionata, ma anche un condizionamento creato dai discorsi della guida e dal programma prestabilito dell’agenzia di viaggi. Persino la danza delle almee, di rigore alla cena di gala dall’ultima sera, assume per i gruppi americani un’aria da film in technicolor, per i francesi un’aria da Folies-Bergère. In tale ottica, quanto c’è in ogni paese di specifico e di insostituibile viene sentito soltanto come una “curiosità”, una serie di grandi gingilli architettonici che bisogna aver visto e che si citeranno – abbastanza raramente, del resto, dato che i viaggi, una volta fatti, vengono presto dimenticati – con un entusiasmo forzato, ma che alla fine occupano uno spazio abbastanza ridotto se paragonati agli acquisti di souvenir, ai ristoranti, al giro in autobus di Paris la nuit, anche meno autentico dei giri di cattedrali.

Questo stato mentale, largamente accresciuto dalla commercializzazione del nostro tempo, per cui il “viaggio di piacere” non è che una derrata come un’altra, non risale solo a ieri. Visitare bene un paeseequivale a cercare di conoscerlo e, fino a un certo punto, a farlo proprio nel suo presente e nel suo passato, a tentare divedere infine ciò che significa per coloro che ci vivono. Pochissimifanno tale sforzo. La maggior parte delle relazioni di viaggio di un tempo ci lasciano insoddisfatti.Montaigne, tipo casalingo, che fu, quando se ne presentava l’occasione, un buon viaggiatore, sempre contento di “trascorrere la propria vita col sedere sulla sella”, descrive con cura le località termali della Germania e dell’Italia dove è andato a farsi curare senza grandi risultati, indica qui un edificio interessante, lì una casa di campagna gradevole, ma l’aria e il colore del tempo sono assenti, o entrano nel suo racconto solo tramite un dettaglio totalmente casuale. Mi si dirà che l’arte della descrizione romantica o impressionista non era stata ancora inventata. Eppure, anche se molto raramente, un uomo di genio supplisce a tale carenza: nel saggio che Giordano Bruno ha intitolato, in modo così tragicamente profetico, La cena delle ceneri, una descrizione della possente e selvaggia Londra del XVI secolo ci sconvolge ancora.

Ho accennato all’eterno viaggio nel tempo che è anche un viaggionello spazio. Bisogna ricordare a questo proposito che ogni epoca“sceglie” il proprio passato,escludendone altri che essadecide di ignorare o di disapprovare. Gli innumerevolipellegrini che si sono recati nellaRoma del Medio Evo hanno vistoraramente le antichità della Città Eterna, che pure erano più numerose e meno rovinate o meno artificiosamente restauratedi quanto lo siano oggi. Il passatoche essi cercavano era quello dei martiri cristiani, e la loro Via Appia quella su cui san Pietro era tornato indietro dopo la richiesta di Cristo. Anche il nostro amico Montaigne, così appassionato dell’antichità dei libri, così felice di aver ricevuto il titolo di cittadino onorario di Roma, si sofferma abbastanza poco sulle pietre. Eppure il vento gira verso questo periodo con Du Bellay, che ha lasciato le più nobili descrizioni possibili delle rovine di Roma:

Mi piace di più la dimora costruita dai miei avi
della facciata audace dei palazzi romani;
più del duro marmo mi piace l’ardesia fine.

Quest’uomo che non amava molto i viaggi, ha sentito sul posto la presenza del tempo antico, come avrebbe fatto in seguito Piranesi. In compenso, i suoi sonetti satirici su Venezia e sulla Roma della sua epoca non recano alcuna traccia delle bellezze di Venezia o di quelle della Roma dei papi. Nel XVIII secolo, Goethe, durante il suo viaggio in Italia, si innamorerà dei ruderi della campagna romana e delle opere d’arte greco-romane della collezione Albani e del Vaticano che, a noi che conosciamo almeno parzialmente l’arte greca, fanno l’effetto di prodotti già imbastarditi, ma non degnerà di un’occhiata Assisi. Bisogna aspettare i romantici perché il viaggio assuma l’aspetto di pellegrinaggi appassionati verso i begli oggetti e i bei siti sotto tutte le loro forme, e i ricordi storici quali che siano.

Per Chateaubriand, che non soloha viaggiato in Italia, ma è vissutoa Roma, tutto, persino la morte di Pauline de Beaumont, è stato maestosamente accompagnatodalle cadenze dell’arte antica e abbellito dalle passate glorie dellaChiesa. Ha descritto Atene, allora caotico borgo, ma l’ha illuminatacon le luci della sera sul Partenone. Arriviamo all’epoca in cui, per il viaggiatore, presente epassato si sovrappongonoincessantemente. Flaubert hatrovato in Egitto il colore locale arabo e turco, la sporcizia, la depravazione, abbelliti dal mistero di un Oriente favoloso che ha introdotto in seguito in Salammbôe nella Tentazione di sant’Antonio,ma l’egittologo era appena nato: ha conosciuto le rovine faraoniche meno di quantoavrebbero potuto farlo i nostrituristi del Tennessee. Verso la finedel secolo, è l’immagine del passato a dominare: Firenze, Venezia, Toledo, l’Italia del Viaggiodel condottiero15 sono diventateper Walter Pater, Barrès e Suarès luoghi mitici in cui sembra che la Bellezza, con la “b” maiuscola,regni incontrastata: tutto ciò chepotrebbe contraddire tale visioneesaltata viene passato sotto silenzio o liquidato in poche parole. Loti faceva lo stesso perl’Asia: la sua descrizione dell’Iran è un arazzo persiano. I prospetti delle agenzie di viaggi dei nostri giorni riprendono, sotto forma volgarizzata, lo stesso atteggiamento [selettivo]. Le immagini che presentano si limitano, secondo i gusti dei clienti,  agli aspetti artistici del passato o ai prodigi della tecnologia moderna; gli squallidi sobborghi e gli agglomerati sordidi vengono esclusi. Il grande cineasta Vittorio de Sica è riuscito ad ambientare a Roma uno dei suoi film più belli, senza mostrare una sola volta uno degli aspetti che per il turista costituiscono Roma.

Che lo sappia o no, il viaggiatore contemporaneo, sforzandosi di sfuggire alla routine del suo ufficio e del suo building, cerca ancora, come il viaggiatore romantico prima di lui, un paese in cui tutto sia solo “ordine e bellezza”, o, come direbbe la terminologia buddistica, una “Terra Pura”. È suppergiù ciò che la Cina è stata per i contemporanei di Voltaire, il Giappone per quelli dei Goncourt.Del resto, la brevità della maggior parte dei viaggi organizzati oggi va nella stessa direzione: il turismo seleziona il mondo; il turista ottuso che ha visitato in otto giorni cinque capitali europee non conserva che  il ricordo confuso di una sorta di documentario, che avrebbe anche potuto vedere nel cinema del suo quartiere; il viaggiatore sensibile alla bellezza dei luoghi, ma che non può dedicare a essi che alcuni brevi momenti, conserva del Taj Mahal o di Nara il ricordo evanescente di un sogno.

Le facilità stesse e gli inconvenienti del viaggio moderno rendono spesso più difficile la conoscenza intima dei paesi, nel loro presente come nel passato. Un turista, che ritrova a Parigi il suo stesso Hilton e la sua stessa muzak,19 sa poche cose della vita domestica dei francesi. La nostra epoca, che al tempo stesso favorisce il viaggio e si difende dalla corrosione del turismo di massa, frappone i suoi parcheggi, i suoi tornelli e i suoi reticolati tra i monumenti e noi, e ci impedisce di sognare liberamente tra le rovine come fecero i contemporanei di Piranesi; per un errore che si è spesso rimproverato agli architetti del XIX secolo, Viollet-le-Duc in testa, gli edifici troppo rifatti assumono il più delle volte l’aspetto di una scena da film. La corda che da qualche anno circonda le rovine di Stonehenge21 potrebbe essere scavalcata senza difficoltà, ma ci impedisce efficacemente di fare un salto di trenta secoli. Per seguire il pellegrinaggio di Bashō nella campagna giapponese, bisogna eliminare mentalmente la moderna autostrada che taglia in due i paesaggi di una volta, sopprimere le grandi città industriali che sorgono al posto delle rustiche barriere dipinte da Hiroshige, e decuplicare o centuplicare il tempo impiegato per il suo pellegrinaggio. Per vedere il Partenone, come l’hanno visto non solo Pericle, che lo conobbe sovraccarico di ornamenti multicolori e di scudi d’oro, che probabilmente ci guasterebbero la purezza della sua architettura, o Byron, che lo vide davvero in rovina, ma anche noi stessi una trentina di anni fa, bisogna eliminare col pensiero l’inquinamento di Atene.

È dall’eccesso di entusiasmo e talvolta di ingenuità, che caratterizzava il viaggio romantico, che sono uscite le grandi proteste post romantiche: Il viaggio di Baudelaire e La città di Kavafis. Flaubert, in una delle sue lettere, parlava già dei barbari di un tempo che abbandonavano il loro paese come per lasciare se stessi. Baudelaire e Kavafis spingono più lontano questa idea di inutile fuga fuori di sé. Baudelaire, certo, non nega gli incanti del viaggio:

II risplendere del sole sul mare violetto,
lo splendore delle città nel sole che tramonta,
ma osa confessare, cosa che un romantico non avrebbe fatto,
che, in quei luoghi lontani,
ci siamo spesso annoiati, come qui.

La noia, indubbiamente, era uno degli atteggiamenti obbligatori del dandismo, ma Baudelaire era qualcosa di più e di meglio di un dandy: non ignora che la propria noia e la propria angoscia sono di natura metafisica, dovute allo spettacolo noioso dell’eterno peccato, lo spettacolo che finisce per perseguitare tutti i lettori della storia, ossessionati dalla violenza e dai crimini del passato, e che ci tormenta ugualmente sulle strade del mondo contemporaneo, in cui si scoprono in maggior o in minor misura le tracce dell’ingiustizia sociale, la scia di menzogne dell’impostura pubblicitaria, i segni spesso irreparabili dell’inquinamento, le cicatrici o le minacce nucleari. Inoltre, noi sappiamo forse meglio dei nostri predecessori che ogni impressione è almeno in parte soggettiva, e che ci ritroviamo dovunque e comunque di fronte a noi stessi. Kavafis, che consigliava così magnificamente a Ulisse di godere delle gioie offerte da tutti i porti prima di fare ritorno a Itaca, ricorda anche al suo viaggiatore che, in realtà, non uscirà mai dal suo luogo d’origine e che, dovunque vada, la sua città gli andrà dietro. L’uomo di Baudelaire, dovunque si rechi, non fa che cullare il proprio infinito sul finito dei mari.

Un simile atteggiamento si presenta forse in modo esageratamente cupo; non tiene abbastanza conto dei benefici del viaggio. Passa quasi sotto silenzio il fatto che sembra esserci nell’uomo, come nell’uccello, un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove. Baudelaire stesso, così spesso spregiatore del viaggio, ha riconosciuto il bisogno quasi irrazionale che dorme in tutti noi:

Ma può dirsi un viaggiatore
solo chi parte per partire: lieve
ha il cuore a somiglianza del pallone,
non si allontana mai dal suo destino,
senza saper perché dice: Partiamo!

Del resto, il poeta ha pur visto bene, con il genio quasi mistico che lo caratterizza, che tante partenze successive non possono culminare che in una partenza finale:

Ci imbarcheremo, con il cuore lieto
del passeggero giovane, sul mare
delle Tenebre. Udite queste voci
che cantano suadenti e insieme funebri:
“Di qui, questa¨ la via, voi che volete
mangiare il loto profumato! I frutti
miracolosi di cui il vostro cuore
ha fame si vendemmian qui; venite
a inebriarvi alla dolcezza strana
di questo pomeriggio senza fine!
Lo spettro, al noto accento, indoviniamo;
laggiù le loro braccia i nostri Piladi
ci tendono. E colei cui baciavamo
una volta i ginocchi, dice: “Nuota
alla tua Elettra, a rinfrescarti il cuore!
O Morte, vecchio capitano, è tempo!
Leviamo l’ancorai Ci tedia questa terra,
o Morte! Verso l’alto, a piene vele”.
Se nero come inchiostro è il mare e il cielo,
sono colmi di raggi i nostri cuori,
e tu lo sai!

Ma se è così, se la nozione di partenza è legata, da una parte, a tante difficoltà e, dall’altra, a tanti malintesi, vale la pena di uscire dal proprio luogo? Quel traduttore geniale che fu Arthur Waley, che meglio di ogni altro fece conoscere all’Europa tanti grandi testi del Giappone e della Cina, ebbe ragione di non venire mai in Asia, di non confrontare mai l’immagine che la sua cultura gli offriva con quelle che gli avrebbero offerto i suoi occhi? Non lo crediamo. Sentiamo che, nonostante tutto, i nostri viaggi, come le nostre letture e i nostri incontri con i nostri simili, sono mezzi di arricchimento che non possiamo rifiutare.”

Marguerite Yourcenar, Il giro della prigione, Viaggi nello spazio viaggi nel tempo, Conferenza tenuta all’Istituto Francese di Tokyo, il 26 ottobre 19821

Archiviato in:Il giro della prigione, Marguerite Yourcenar, Viaggi nello spazio viaggi nel tempo Contrassegnato con: Conferenza tenuta all’Istituto Francese di Tokyo, il 26 ottobre 19821, Il giro della prigione, Marguerite Yourcenar, Viaggi nello spazio viaggi nel tempo

Vivere senza vergogna

2 Marzo 2022

Una volta non osavamo fiatare, far sentire un fruscio. Adesso scriviamo per il «Samizdat», lo leggiamo, e ritrovandoci nei fumoir degli istituti di ricerca diamo sfogo al nostro malcontento: Quante ne combinano quelli, dove ci stanno portando! L’inutile smargiassata cosmica, con lo sfasciume e la povertà che c’è nel paese; rafforzano folli regimi all’altro capo del mondo; attizzano guerre civili; hanno dissennatamente tirato su (a spese nostre) quel Mao Tse-tung, e ancora una volta manderanno noi a combatterlo, e ci toccherà andarci, cosa vuoi fare? Mettono sotto processo chi vogliono, la gente sana la fanno diventare matta – loro, sempre loro, e noi siamo impotenti.
Stiamo ormai per toccare il fondo, su tutti noi incombe la più completa rovina spirituale, sta per divampare la morte fisica che incenerirà noi e i nostri figli, e, noi continuiamo a farfugliare con un pavido sorriso:
– Come potremmo impedirlo? Non ne abbiamo la forza.

Siamo a tal punto disumanizzati, che per la modesta zuppa di oggi siamo disposti a sacrificare qualunque principio, la nostra anima, tutti gli sforzi di chi ci ha preceduto, ogni possibilità per i posteri, pur di non disturbare la nostra grama esistenza. Non abbiamo più nessun orgoglio, nessuna fermezza, nessun ardore nel cuore. Non ci spaventa neppure la morte atomica universale, non abbiamo paura d’una terza guerra mondiale (ci sarà sempre un angolino dove nascondersi), abbiamo paura soltanto di muovere i passi del coraggio civico. Ci basta non staccarci dal gregge, non fare un passo da soli, non rischiare di trovarci tutt’a un tratto privi del filoncino di pane bianco, dello scaldabagno, del permesso di soggiornare a Mosca.
Ce l’hanno martellato nei circoli di cultura politica e il concetto ci è entrato bene in testa, ci assicura una vita comoda per il resto dei nostri giorni: l’ambiente, le condizioni sociali, non se ne scappa, l’esistenza determina la coscienza, noi cosa c’entriamo? non possiamo far nulla.

Invece possiamo tutto! Ma mentiamo a noi stessi per tranquillizzarci. Non è affatto colpa loro, è colpa nostra, soltanto NOSTRA!
Si obietterà: ma in pratica che cosa si potrebbe escogitare? Ci hanno imbavagliati, non ci danno retta, non ci interpellano. Come costringere quelli là ad ascoltarci?
Fargli cambiare idea è impossibile.

[…] Davvero non c’è alcuna via d’uscita? E non ci resta se non attendere inerti che qualcosa accada da sé?
Ciò che ci sta addosso non si staccherà mai da sé se continueremo tutti ogni giorno ad accettarlo, ossequiarlo, consolidarlo, se non respingeremo almeno la cosa a cui più è sensibile.
Se non respingeremo la MENZOGNA.
Quando la violenza irrompe nella pacifica vita degli uomini, il suo volto arde di tracotanza ed essa porta scritto sul suo stendardo e grida: «IO SONO LA VIOLENZA! Via, fate largo o vi schiaccio! ». Ma la violenza invecchia presto, dopo pochi anni non è più tanto sicura di sé, e per reggersi, per salvare la faccia, si allea immancabilmente con la menzogna. Infatti la violenza non ha altro dietro cui coprirsi se non la menzogna, e la menzogna non può reggersi se non con la violenza. Non tutti i giorni né su tutte le spalle la violenza abbatte la sua pesante zampa: da noi esige solo docilità alla menzogna, quotidiana partecipazione alla menzogna: non occorre altro per essere sudditi fedeli.
Ed è proprio qui che si trova la chiave della nostra liberazione, una chiave che abbiamo trascurato e che pure è tanto semplice e accessibile: IL RIFIUTO DI PARTECIPARE PERSONALMENTE ALLA MENZOGNA. Anche se la menzogna ricopre ogni cosa, anche se domina dappertutto, su un punto siamo inflessibili: che non domini PER OPERA MIA!
È questa la breccia nel presunto cerchio della nostra inazione: la breccia più facile da realizzare per noi, la più distruttiva per la menzogna. Poiché se gli uomini ripudiano la menzogna, essa cessa semplicemente di esistere. Come un contagio, può esistere solo tra gli uomini.
Non siamo chiamati a scendere in piazza, non siamo maturi per proclamare a gran voce la verità, per gridare ciò che pensiamo. Non è cosa per noi, ci fa paura. Ma rifiutiamoci almeno di dire ciò che non pensiamo.
È questa la nostra via, la più facile e accessibile, data la nostra radicata e organica codardia, una via molto più facile che non (fa spavento il nominarla) la disubbidienza civile alla Gandhi.
La nostra via è: NON SOSTENERE IN NESSUN CASO CONSAPEVOLMENTE LA MENZOGNA. Avvertito il limite oltre il quale comincia la menzogna (ciascuno lo discerne a modo suo), ritrarsi da questa cancrenosa frontiera! Non rinforzare i morti ossicini e le squame dell’Ideologia, non rappezzare i putridi cenci: e saremo stupiti nel vedere con quale rapidità la menzogna crollerà impotente e ciò che dev’essere nudo, nudo apparirà al mondo.
Ognuno di noi dunque, superando la pusillanimità, faccia la propria scelta: o rimanere servo cosciente della menzogna (certo non per inclinazione, ma per sfamare la famiglia, per educare i figli nello spirito della menzogna!), o convincersi che è venuto il momento di scuotersi, di diventare una persona onesta, degna del rispetto tanto dei figli quanto dei contemporanei. E da quel momento tale persona:

•non scriverà più né firmerà o pubblicherà in alcun modo una sola frase che a suo parere svisi la verità;

•non pronunzierà frasi del genere né in privato né in pubblico, né di propria iniziativa né su ispirazione altrui, né in qualità di propagandista né come insegnante o educatore o in una parte teatrale;

•per mezzo della pittura, della scultura, della fotografia, della tecnica, della musica, non raffigurerà, non accompagnerà, non diffonderà la più piccola idea falsa, la minima deformazione della verità di cui si renda conto;

•non farà né a voce né per iscritto alcuna citazione «direttiva» per compiacere, per cautelarsi, per ottenere successo nel lavoro, se non è pienamente d’accordo col pensiero citato o se questo non è esattamente calzante col suo discorso;

•non si lascerà costringere a partecipare a una manifestazione o a un comizio contro il proprio desiderio o la propria volontà. Non prenderà in mano, non alzerà un cartello se non è completamente d’accordo con lo slogan che vi è scritto;

•non alzerà la mano a favore di una mozione che non condivida sinceramente; non voterà né pubblicamente né in segreto per una persona che giudichi indegna o dubbia;

•non si lascerà trascinare a una riunione dove sia prevedibile che un problema venga discusso in termini obbligati o deformati;

•abbandonerà immediatamente qualunque seduta, riunione, lezione, spettacolo, proiezione cinematografica, non appena oda una menzogna profferita da un oratore, un’assurdità ideologica o frasi di sfacciata propaganda;

•non sottoscriverà né comprerà in edicola un giornale o una rivista che dia informazioni deformate o che taccia su fatti essenziali.

Non abbiamo enumerato, s’intende, tutti i casi in cui è possibile e necessario rifiutare la menzogna. Ma chi si metterà sulla strada della purificazione non stenterà a individuarne altri, con una lucidità tutta nuova.
Certo, sulle prime sarà duro. Qualcuno si vedrà temporaneamente privato del lavoro. Per i giovani che vorranno vivere secondo la verità, all’inizio l’esistenza si farà alquanto complicata: persino le lezioni che si apprendono a scuola sono infatti zeppe di menzogne, occorre scegliere. Ma per chi voglia essere onesto non c’è scappatoia, neppure in questo caso: mai, neanche nelle più innocue materie tecniche, si può evitare l’uno o l’altro dei passi che si son descritti, dalla parte della verità o dalla parte della menzogna: dalla parte dell’indipendenza spirituale o dalla parte della servitù dell’anima. E chi non avrà avuto neppure il coraggio di difendere la propria anima non ostenti le sue vedute d’avanguardia, non si vanti d’essere un accademico o un «artista del popolo» o un generale: si dica invece, semplicemente: sono una bestia da soma e un codardo, mi basta stare al caldo a pancia piena.
Anche questa via, che pure è la più moderata fra le vie della resistenza, sarà tutt’altro che facile per quegli esseri intorpiditi che noi siamo. Ma quanto più facile che darsi fuoco o fare uno sciopero della fame: il tuo corpo non sarà avvolto dalle fiamme, non ti scoppieranno gli occhi per il calore, e un po’ di pane nero e d’acqua pura si troveranno sempre per la tua famiglia.
[…]
Una via non facile? La più facile, però, fra quelle possibili. Una scelta non facile per il corpo, ma l’unica possibile per l’anima. Una via non facile, certo, ma fra noi ci sono già delle persone, anzi decine di persone, che da anni tengono duro su tutti questi punti e vivono secondo verità.
Non si tratta dunque di avviarsi per primi su questa strada, ma di UNIRSI AD ALTRI! Il cammino ci sembrerà tanto più agevole e breve quanto più saremo uniti e numerosi nell’intraprenderlo. Se saremo migliaia, nessuno potrà tenerci testa. Se saremo decine di migliaia, il nostro paese diventerà irriconoscibile!
Ma se ci facciamo vincere dalla paura, smettiamo di lamentarci che qualcuno non ci lascerebbe respirare: siamo noi stessi che non ce lo permettiamo. Pieghiamo la schiena ancora di più, aspettiamo dell’altro, e i nostri fratelli biologi faranno maturare i tempi in cui si potranno leggere i nostri pensieri e mutare i nostri geni.
Se ancora una volta saremo codardi, vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è speranza, e che a noi si addice il disprezzo di Puskin:

A che servono alle mandrie i doni della libertà?
Il loro retaggio, di generazione in generazione
sono il giogo con i bubboli e la frusta.

Mosca, 12 febbraio 1974 –  Giorno dell’arresto di Solženicyn, precedente all’espulsione dall’URSS

Tratto da:  Aleksandr Isaevič Solženicyn, Vivere senza vergogna

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Siamo tutti in pericolo

21 Febbraio 2022

Nel pomeriggio del 1° novembre 1975 Pasolini rilasciò a Furio Colombo un’intervista di cui pensò anche il titolo: “Siamo tutti in pericolo”. Avrebbe dovuto rivederla il giorno dopo, ma il destino volle diversamente. 

 

         Pier Paolo Pasolini a Furio Colombo

Il suo testamento, le sue parole che oggi pesano come macigni.
Quelle che pronunciò nelle ultime ore della sua vita.
Era Furio Colombo a raccoglierle per un’intervista che non fu mai completata e che oggi ci racconta di noi stessi.
Solo con 42 anni di anticipo.

L’intervista, uscita poi l’8 novembre 1975 su “La Stampa-Tuttolibri”, fu riproposta con una premessa di Furio Colombo su “l’Unità” del 9 maggio 2005. Il testo è leggibile anche nel volume Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W.Siti e S. De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano 1999, pp. 1723-1730)

“Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. 
Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione, che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista.
Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”».” (Furio Colombo)

Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo…

Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo», non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.

Ecco, descrivi allora la «situazione». Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.

Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per «scegliere». Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e «collabora» (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal «potere»?

Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?

Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.

Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.

Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.

E qual è la verità?

Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire «evidenza». Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.

Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei «consumato» avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?

A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.

Come dire che hai nostalgia di quel mondo.

No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere «di che segno sei». Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse – se ha ancora un soffio di vita – in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa-effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la «situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.

E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.

Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e con bandiere diverse. E’ vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta». Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.

Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri, per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente, salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione «più avanzata»…

Che mi fa rabbrividire.

Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?

Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non so quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.

Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?

Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.

Pasolini, se tu vedi la vita così – non so se accetti questa domanda – come pensi di evitare il pericolo e il rischio?

È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande.

«Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina».

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Alla bandiera rossa

19 Febbraio 2022

Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano,
l’analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.

Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, 1961

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In giardino

18 Febbraio 2022

Un mattino, sulle tracce dei miei desideri, lasciai casa nostra con un libro e un pezzo di pane nella borsa. Ma prima, com’ero abituato a fare da bambino, corsi dietro la casa nel giardino ancora ombreggiato. Gli abeti piantati da mio padre, che avevo conosciuto giovani e sottili come bastoni, si erano fatti alti e robusti; ai loro piedi giacevano cumuli di aghi di un marrone chiaro e da anni non vi cresceva altro che pervinche [Vinca minor, L.]. Lì vicino, però, in una piccola aiuola, c’erano i fiori perenni di mia madre, raggianti e allegri, che sempre la domenica raccoglievamo in grandi mazzi. C’era una pianta con grappoli di fiorellini rosso cinabro che chiamavano “monete del papa” [Lunaria annua, L.] e un esile arbusto dai cui rami sottili pendeva una moltitudine di fiori rossi e bianchi, cuoriformi, chiamati “cuori di Maria” [Dicentra spectabilis, Lem.], e, ancora, un cespuglio detto “fanciullaccia” [Nigella damascena, L.]. Poco oltre crescevano, non ancora in fiore, gli astri dal lungo gambo, in mezzo strisciavano sul terreno il grasso sempervivum con le sue spine morbide, e la buffa portulaca. Quest’aiuola lunga e stretta era la nostra preferita, il giardino dei nostri sogni: qui crescevano insieme tanti diversi tipi di fiori bizzarri, che noi amavamo e ammiravamo ben più delle rose che fiorivano nelle due aiuole rotonde. Quando il sole splendente illuminava il muro di edera, ogni pianta si mostrava unica nella sua particolare bellezza: i gladioli si innalzavano superbi, carnosi e sgargianti, l’eliotropio blu [Heliotropium arborescens, L.], come incantato, sembrava sprofondare nel suo profumo intenso, le code di volpe [Ononis sp.] penzolavano arrendevoli, ormai appassite, l’aquilegia invece si ergeva in punta di piedi suonando le sue quadruplici campanelle estive. Intorno alle verghe auree [Solidago virga-aurea, L.] e tra i phloxazzurri ronzavano rumorose le api e sopra la fitta edera correvano qua e là piccoli e frettolosi ragnetti marroni; sopra le violaciocche tremolavano nell’aria farfalle col corpo robusto e le ali sottili come vetro, dal volo veloce e capriccioso, chiamate sfingidi.

Indugiando nel piacere dei giorni di festa passavo da un fiore all’altro, qua e là annusavo un’ombrella profumata, con un dito aprivo cautamente un calice per guardarci dentro e ammirare i misteriosi meandri e il silenzioso ordine di nervature e pistilli, di morbidi fili pelosi e di solchi cristallini. Intanto studiavo il cielo annuvolato del mattino, tratteggiato da un intricato groviglio di sottili striature di nebbia e di lanosi batuffoli di nuvole…

Meravigliato e con un senso di silenziosa angoscia, mi guardavo intorno nella ben nota cerchia delle mie gioie infantili. Il piccolo giardino, il balcone ornato dai fiori e il cortile umido, dove il sole non arrivava e il selciato era sempre coperto dal verde muschio, mi guardavano con un aspetto diverso da quello di un tempo. Persino i fiori avevano perduto qualcosa del loro inesauribile incanto. Il vecchio bottaccio dell’acqua col suo condotto se ne stava in un angolo del giardino, modesto e inespressivo; un tempo, indispettendo mio padre, vi avevo fatto scorrere l’acqua per intere mattinate e per interi pomeriggi, costruivo ruote di mulino in legno e lungo il percorso disponevo dighe e canali provocando violente alluvioni. Quel bottaccio ormai sgretolato dalle intemperie mi era stato fedele e amato compagno di giochi; guardandolo riuscii a percepire un’eco di quella gioia infantile, ma ormai sapeva di tristezza, si era ridotto a un piccolo rigagnolo, non era più un torrente né un Niagara.

Pensoso, scavalcai il recinto, un fiore azzurro di convolvolo mi sfiorò il viso, lo strappai e me lo infilai tra i denti. Ero deciso a fare una passeggiata sul monte per guardare la nostra città dall’alto. Passeggiare era una di quelle imprese semigioiose che in tempi passati non mi sarebbe mai venuta in mente. Un bambino non va a passeggio. Semmai va nel bosco a fare il bandito, il cavaliere o l’indiano, va al fiume a fare lo zatteriere e il pescatore oppure il costruttore di mulini, corre nei prati a caccia di farfalle e di lucertole. E così la mia passeggiata mi sembrò l’occupazione rispettabile e un po’ noiosa di un adulto che non sa bene cosa fare di se stesso.

Il mio fiore azzurro ben presto si avvizzì e lo gettai via; ora rosicchiavo un rametto di bosso dal sapore amaro e piccante, che avevo appena strappato. Vicino al terrapieno della ferrovia dove crescevano gli alti arbusti di ginestra, una lucertola mi sfrecciò davanti ai piedi. Allora la mia indole di bambino si ridestò: non mi diedi più pace, la rincorsi strisciando fino a quando la bestiola spaventata e calda di sole fu prigioniera tra le mie mani. La fissai negli occhietti brillanti come gemme e, nel ritrovare la gioia di un tempo per la caccia, sentii quel corpicino agile e forte e le dure zampette che si dimenavano puntandosi contro le mie dita. Poi, però, il piacere si esaurì e io non seppi più cosa fare di quella bestiola. Non mi dava più niente, non provavo più alcuna felicità. Mi chinai e aprii la mano; la lucertola rimase un attimo immobile con il respiro affannato che le faceva palpitare i fianchi, poi scomparve veloce tra l’erba. Un treno passò sulle rotaie luccicanti sfrecciandomi accanto; io lo guardai allontanarsi e per un momento percepii in modo inconfondibile che per me qui non poteva più fiorire alcun vero piacere e desiderai intensamente partire per il mondo con quel treno.

 

 

Tratto da: H. Hesse, Der Zyklon, 1913

 

 

 

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MINIMARIO

15 Febbraio 2022

Un anno fa, 2 febbraio 2021, Mattarella chiamò Draghi per sostituire Conte, dimissionario dopo aver avuto la fiducia di Camera e Senato, con un coso mai visto prima: “Un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica” con “tutte le forze politiche presenti in Parlamento”. Sfortunatamente abboccarono tutti i partiti tranne fortunatamente uno (sennò avremmo avuto un coso già visto prima, ma nelle dittature). Il progetto era chiaro: cancellare il popolarissimo premier che aveva gestito la pandemia e portato a casa 209 miliardi di Pnrr; raddrizzare le gambe agli elettori che avevano sbagliato a votare nel 2018 per un cambiamento radicale (ribattezzato dai gattopardi “populismo” e “sovranismo”); neutralizzare i partiti vincitori annegandoli in una maggioranza così ampia da renderli ininfluenti e infiltrando in ciascuno di essi un PdD (partito di Draghi) per scardinarne le leadership e riportarli a più miti consigli. Perciò i ministri politici furono scelti, con rare eccezioni, fra i più allineati al sistema: Di Maio per il M5S, gli antisalviniani Giorgetti, Garavaglia e Stefani per la Lega, i lettiani (nel senso di Gianni) Brunetta, Gelmini e Carfagna per FI, più i pidini già allineati per Dna. L’avvento di Letta (nel senso di Enrico) al vertice del Pd agevolò la restaurazione. Il cerchio si sarebbe chiuso se Grillo, dopo aver trascinato i 5S nel governo dei “grillini” Draghi e Cingolani, avesse buttato fuori Conte dopo avergli dato le chiavi: ma la congiura fallì per la rivolta dei militanti.

In ogni caso, chi aveva architettato questo bel progettino era certo che SuperMario avrebbe fatto tali miracoli da lasciare senza fiato gli italiani, regnando sull’Italia, l’Europa e l’orbe terracqueo per almeno 10 anni. Invece non ne azzeccò quasi nessuna, mentre la maionese della maggioranza impazziva. Allora tentò la fuga al Quirinale. Ma, malgrado le sue frenetiche manovre, non se lo filò nessuno (5 voti). Costringendo Mattarella a tagliarsi la faccia e a smentire mesi di “rielezione mai”, pur di salvare il salvabile del Piano Gattopardo. Risultato. Tutte le massime istituzioni sfregiate o screditate: il “nuovo” capo dello Stato che rinnega la parola data come un Napolitano qualsiasi; SuperMario sconfitto, umiliato e ridotto a MiniMario; la presidente del Senato ridicolizzata in diretta tv; la direttrice del Dis impallinata da Letta jr., Di Maio, FI e frattaglie varie (e screditata dalla foto con Giggino); la maggioranza in frantumi, con le coalizioni e i partiti in pezzi; l’“antipolitica” ai massimi storici, col nuovo boom dell’astensionismo; e un solo partito che ci lucra: l’unico che sta all’opposizione, il più “populista” e “sovranista” fra quelli che i gattopardi volevano radere al suolo. Bei pirla.

 

Di Marco Travaglio, Il fatto Quotidiano

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