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LESSICO NATURALE

Scemi di guerra

15 Marzo 2023

“Mi piacciono gli italiani”, diceva Winston Churchill: “Vanno alla guerra come se fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come se fosse la guerra”. Infatti, da quando un anno fa la Russia dell’autocrate criminale Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina, abbiamo trasformato quella tragedia in una farsa. Con un dibattito politico-giornalistico da bar sport, umiliante, primitivo, cavernicolo, ridicolo: tutto slogan, grugniti e clave. Fino al giorno prima eravamo tutti virologi ed epidemiologi, poi siamo diventati tutti strateghi esperti di geopolitica e questioni militari…

Ma gli scemi di guerra non sono soltanto i foreign fighter da salotto che ogni sera, nei talk show, fanno il presentat’arm in soggiorno e marciano in assetto di guerra sul divano con l’elmetto di cartapesta sulle ventitré: quelli semmai sono i furbi di guerra, perché ci guadagnano sempre. Gli scemi di guerra siamo tutti noi cittadini italiani ed europei che, a parte rare eccezioni (come la manifestazione del 5 novembre 2022 in piazza San Giovanni a Roma), non ci siamo ancora ribellati a questa propaganda, sempre più tragicomica a mano a mano che i sondaggi fotografano la realtà: un Paese in gran parte pacifista tenuto in ostaggio da politici e opinionisti… No Pax. Tutti impegnati in una mission impossible: giustificare l’ingiustificabile per trascinarci in una guerra per procura, nata come conflitto regionale, che lorsignori hanno trasformato in conflitto mondiale al fianco di un Paese che non è nostro alleato né nell’Ue né nella Nato. Un Paese aggredito, certo, ma come centinaia di altri dal 1946 a oggi, ai quali non abbiamo mai inviato neppure un fucile a tappo. Anzi, gli altri aggrediti continuiamo a non aiutarli e ad abbandonarli: dai curdi bombardati dalla Turchia di Erdogan agli yemeniti massacrati dall’Arabia Saudita e dall’Iran. Il dovere della cobelligeranza incostituzionale vale solo per l’Ucraina. E solo perché ce lo ordinano gli Stati Uniti…

In questo anno abbiamo subìto, accettato e digerito di tutto. Si cita spesso la massima di Eschilo: “In guerra la verità è la prima vittima”. Magari fosse soltanto quella. Se in Russia è vietato parlare di guerra (chi lo fa si becca 15 anni di galera), in Italia è vietato parlare di pace (chi lo fa finisce alla gogna, linciato e lapidato sulla pubblica piazza). Perciò sono state abolite tutte le basi del discorso pubblico di una democrazia evoluta.

Abbiamo abolito la Costituzione, che all’articolo 11 “ripudia la guerra come strumento di offesa agli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Siccome poi aggiunge che “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”, i giureconsulti di regime l’hanno stiracchiata come la pelle delle palle per attribuire ai Padri costituenti l’intenzione di autorizzare, anzi di imporre invii di armi a Paesi in guerra purché “aggrediti”.

Tantopiù che l’articolo 52 prescrive come “dovere” la “difesa della patria”. A parte il fatto che ci vuole molta fantasia per vedere una “condizione di parità” fra Italia e Usa e una finalità di “assicurare la pace e la giustizia” nella continua escalation a base di armamenti sempre più devastanti, se avessero voluto dire questo i nostri Padri costituenti sarebbero stati affetti da schizofrenia: al comma 1 usavano il verbo “ripudiare” e al comma 2 lo contraddicevano, per imporre la cobelligeranza in tutti i conflitti dell’orbe terracqueo. Già, perché in ogni guerra che si rispetti c’è sempre un aggressore e un aggredito. Dunque l’Italia dovrebbe intervenire in tutte le guerre del pianeta. La verità è semplice come la lingua in cui è stata scritta la Costituzione. L’unica guerra giusta è quella per difendere la patria: la nostra, non quella degli altri, a meno che con gli altri non abbiamo stipulato trattati che ci vincolino al soccorso armato. E non è il caso dell’Ucraina.

Abbiamo abolito i valori della pace, del disarmo e dell’antifascismo. Ora pace e disarmo sono disvalori perché disturbano i “valori” atlantisti del riarmo e del bellicismo. Si esaltano le stragi, purché compiute dagli ucraini ai danni dei russi, e addirittura gli atti terroristici come l’assassinio di Darya Dugina, saltata in aria a Mosca a 29 anni soltanto perché era figlia di suo padre, filosofo nazionalista e putiniano. Si esaltano i neonazisti del battaglione Azov e delle altre milizie ucraine di estrema destra, con le SS e il sole nero stilizzati sulle bandiere e le svastiche tatuate sulla pelle. La svastica, se è ucraina, è chic: sfina.

Abbiamo abolito la geografia. Proibito mostrare la cartina dell’allargamento della Nato a Est negli ultimi 25 anni (da 16 a 30 membri). E chi la mostra muore, almeno professionalmente: Marc Innaro, storico corrispondente della Rai a Mosca, prima imbavagliato e poi trasferito al Cairo; il professor Alessandro Orsini censurato dalla sua università, la Luiss, e dal Messaggero, il suo ex giornale, poi linciato da tutti. Eppure, che la Nato si sia allargata a Est, accerchiando e assediando la Russia, minacciandone la sicurezza con installazioni di missili nucleari sempre più vicine al confine, in barba alle promesse fatte a Gorbaciov nel 1990, fino all’ultima provocazione di annunciare l’imminente ingresso nell’Alleanza dei vicini di casa della Russia – Georgia e Ucraina – è un fatto storico indiscutibile. Che non giustifica l’invasione, ma aiuta a spiegarla. L’ha detto anche quel pericoloso putiniano del Papa: “La Nato abbaiava alla porta di Putin”. L’altra cartina proibita è quella dei Paesi che non condannano o non sanzionano la Russia, o se ne restano neutrali: quasi tutta l’Asia, l’Africa e l’America Latina, cioè l’87% della popolazione mondiale. Ma al nostro piccolo mondo antico occidentale piace far credere che Putin è isolato e noi lo stiamo circondando. Sul fatto che Cina, India, Brasile e altri paesucoli stiano con lui o non stiano con noi, meglio sorvolare: altrimenti lo capiscono tutti che le sanzioni non funzionano.

Abbiamo abolito la storia. È vietato raccontare ciò che è accaduto in Ucraina prima del 24 febbraio 2022: gli otto anni di guerra civile in Donbass dopo il golpe bianco (anzi, nero) di Euromaidan nel 2014 e le migliaia di morti e feriti causati dai continui attacchi delle truppe di Kiev e delle milizie filo-naziste al seguito contro le popolazioni russofone e russofile che, col sostegno di Mosca, chiedevano l’indipendenza o almeno l’autonomia. Il tutto in barba ai due accordi di Minsk. La versione ufficiale, l’unica autorizzata, è che prima del 2022 non è successo niente: una mattina Putin s’è svegliato più pazzo del solito e ha invaso l’Ucraina. Se la gente scoprisse la verità, capirebbe che il mantra atlantista “Putin aggressore e Zelensky aggredito” vale solo dal 2022: prima, per otto anni, gli aggressori erano i governi di Kiev (l’ultimo, quello di Zelensky) e gli aggrediti i popoli del Donbass. Fra le vittime, c’è il giornalista italiano Andrea Rocchelli, ucciso dall’esercito ucraino. Un caso simile a quello di Giulio Regeni, che però nessuno conosce, perché “Andy” ha avuto il torto di farsi ammazzare dai killer sbagliati. Chiunque faccia un po’ di storia per “spiegare” la guerra e le sue cause viene scambiato per un putiniano che “giustifica” l’aggressore. Solo abolendo la storia si possono azzardare assurdi paragoni fra Putin e Hitler e fra Zelensky e Churchill, per farci credere che oggi, come nel 1938, un dittatore folle vuole impadronirsi dell’intera Europa. Ergo dobbiamo armare gli ucraini perché difendono anche noi: caduti loro, toccherebbe a noi. Solo abolendo la storia si può bestemmiare parlando di “nuova Shoah”, “nuovo Olocausto”, “nuova Auschwitz”, “genocidio”, “pulizia etnica” e via delirando… E si può raccontare che la Nato è un’“alleanza difensiva” (infatti, solo nell’ultimo quarto di secolo ha attaccato la Serbia, l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia che non ci avevano fatto un bel nulla) e “difende i valori della liberaldemocrazia” (infatti fra i suoi membri c’è la Turchia di Erdogan, che arresta gli oppositori, chiude i giornali e stermina i curdi). Solo abolendo la storia si può credere al presidente Sergio Mattarella quando ripete che “l’Ucraina è la prima guerra nel cuore dell’Europa nel dopoguerra”. E Belgrado bombardata anche dall’Italia nel 1999 dov’è, in Oceania? E chi era il vicepremier del governo D’Alema che bombardava Belgrado? Un certo Mattarella.

Abbiamo abolito l’economia. Altrimenti l’avrebbero capito tutti, guardando i precedenti dell’Italia fascista dopo l’avventura africana, e poi di Cuba, dell’Iran e della stessa Russia, che le sanzioni servono a poco e spesso danneggiano più i sanzionatori dei sanzionati, che peraltro tendono a stringersi attorno al loro regime (Mussolini, Castro, gli ayatollah e ora Putin). Invece il noto economista Draghi, il 31 maggio 2022, oracolava: “Il momento di massimo impatto delle sanzioni alla Russia sarà da questa estate in poi”. Il professor Enrico Letta, il 9 marzo 2022, vaticinava: “La Russia andrà in default entro qualche giorno”. E Fmi, università anglo-americane, agenzie di rating facevano a gara nel prevedere immediati crolli del Pil russo del 40, del 30, del 20, del 15%, salvo poi rassegnarsi a un misero 2 virgola qualcosa.

Abbiamo abolito la medicina. Siccome la Russia non va in default, mentre rischiano di andarci le economie europee, ci hanno raccontato che il sacrificio durerà poco, pochissimo, perché Putin sta per essere destituito, è solo al mondo, ha tutti contro anche dentro il Cremlino e soprattutto è malatissimo, ha le ore contate, anzi forse è già morto e quello che vediamo è un sosia… Ha praticamente tutte le malattie note in letteratura, da quelle psichiatriche a quelle muscolari e ossee, a ogni varietà di tumore e di leucemia, al Parkinson, a mezze paresi qua e là, per non parlare del diabete… Ed è pure completamente pazzo, visto che tutti ripetono che si era illuso di occupare l’Ucraina (grande due volte l’Italia) in una settimana e di essere accolto con i tappeti rossi da un popolo che per due terzi odia i russi da almeno un secolo e da dieci anni viene armato da Usa e Gran Bretagna.

Abbiamo abolito il comune senso del pudore. Diciamo che le sanzioni sono un sacrificio indispensabile per difendere la democrazia liberale dalla tirannide di Putin. Infatti, per sostituire il gas e il petrolio russi, li compriamo da Algeria, Egitto, Angola, Mozambico, Congo, Emirati, Arabia Saudita, Qatar: tutti regimi al cui confronto Putin è un’educanda. Per colpire un dittatore, ne ingrassiamo una decina.

Abbiamo abolito il vocabolario. Draghi fa approvare dal Parlamento il primo invio di armi italiane all’Ucraina e fa scrivere nella risoluzione che servono alla “de-escalation”. Più armi, meno escalation. E quando il leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte si oppone all’aumento della spesa militare al 2% del Pil, i grandi giornali titolano: “Escalation anti-armi”, “escalation grillina”. Meno armi, più escalation. Una neolingua da far impallidire quella del Ministero della Verità di George Orwell in1984: “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”. Non solo. “Pace” diventa sinonimo di “resa”: chi chiede un negoziato e un cessate il fuoco ai due eserciti viene accusato di negare la legittimità della splendida ed eroica resistenza ai tanti ucraini e di pretendere che questi si arrendano, anche se non l’ha mai detto né pensato. Anzi tutti riconoscono loro il sacrosanto diritto di difendersi: ma con le loro armi e con quelle di chi può inviarle, non con quelle dell’Italia che non può per Costituzione.

Abbiamo abolito la libertà di pensiero. Chi non pende dalle labbra di Biden, Zelensky e Stoltenberg, ma li critica se sbagliano o pubblica notizie a loro sgradite, è un venduto a Putin. E viene linciato, infilato in liste di proscrizione come “putiniano” con tanto di foto segnaletiche sui grandi giornali.

Abbiamo abolito il dovere di cronaca e anche la deontologia professionale dei giornalisti. Tutte le notizie diffuse da Kiev vengono prese per oro colato, tutte quelle targate Mosca bollate come fake news, anche se spesso si scopre l’opposto. Papa Francesco attacca Draghi e la Nato per l’aumento delle spese militari al 2% del Pil e viene censurato da Tg1, Corriere della Sera e Repubblica… Nei primi mesi di guerra, mentre l’armata russa occupava oltre un sesto dell’Ucraina (un terzo dell’Italia), i nostri giornaloni descrivevano l’avanzata di Mosca come un rosario di disfatte militari inflitte dall’invincibile armata ucraino-occidentale, ribaltando di 180 gradi la realtà della (tristissima) situazione sul campo di battaglia. Tant’è che, quando a settembre è partita la controffensiva ucraina con le prime sconfitte russe, l’opinione pubblica si domandava incredula: ma come, gli ucraini non stanno stravincendo dal primo giorno?

Abbiamo abolito la diplomazia e le sue regole-base. Il refrain è: “Non si tratta col nemico”. Oh bella, e con chi si tratta? Con l’amico? E su cosa? “Con la Russia si tratta solo se prima si ritira”. Oh bella, ma il ritiro delle truppe, da che mondo è mondo, viene dopo le trattative, non prima. “I tempi e le condizioni dei negoziati li decide Zelensky”. Cioè mai, visto che ha firmato un decreto che vieta di negoziare con la Russia di Putin. E poi, con tutti i miliardi e le armi che invia all’Ucraina, è mai possibile che l’Occidente non debba avere voce in capitolo? Possibile che possa contribuire solo alla guerra, ma non alla pace? E se Zelensky ritiene che il negoziato possa iniziare solo dopo la riconquista completa delle regioni occupate dai russi, Crimea inclusa, e non riesce a riprenderle nei prossimi 10 o 20 anni, l’Europa che fa: si dissangua economicamente con le auto-sanzioni e invia armi su armi e miliardi su miliardi a Kiev, come in Afghanistan, finché l’ultimo ucraino resterà in vita? E perché non lasciare che siano i popoli del Donbass e della Crimea a decidere con chi vogliono stare, con un referendum sotto l’egida dell’Onu? Il diritto all’autodeterminazione per loro non vale? O si teme di scoprire che abbiamo trasformato un conflitto locale in una guerra mondiale per difendere dalla Russia popolazioni che vogliono stare con la Russia?

Abbiamo abolito il rispetto per le altre culture. In una folle ondata di russofobia, abbiamo visto ostracizzare direttori d’orchestra, cantanti liriche, pianiste di fama mondiale, fotografi, atleti (anche paralimpici), persino gatti e querce, soltanto perché russi. E poi censurare corsi su Dostoevskij, cancellare dai teatri i balletti di Cajkovskij, addirittura estromettere la delegazione russa dalle celebrazioni per la liberazione di Auschwitz. Come se il lager l’avessero liberato gli americani o gli ucraini e non l’Armata Rossa…

Abbiamo abolito il senso del ridicolo. Infatti, quando Draghi pose l’assurdo aut-aut fra “la pace e i condizionatori o i termosifoni accesi” (non spenti), nessuno gli rise in faccia. Una sera il noto stratega Beppe Severgnini, a Otto e mezzo, ha sentenziato: “Se non ci fosse la Nato, Putin sarebbe già a Lisbona” (meno male che c’è l’Oceano). E poi: “Vinciamo noi: siamo 40 contro uno”. Come se la guerra russo-ucraina fosse il derby Milan-Inter. Solo che nei derby, di solito, nessuna delle due squadre possiede 6 mila testate atomiche. Invece Putin le ha e l’Ucraina no. E, quando un uomo con l’atomica incontra uno senza atomica, quello senza atomica è un uomo morto. Ma anche quello con l’atomica. Perché tutti fingono di ignorarlo, ma questa è una guerra che non può avere vincitori, ma solo sconfitti. Almeno in Europa, dove arrivano le radiazioni: negli Stati Uniti no. Infatti gli Usa sono l’unico soggetto belligerante (per procura) che, comunque vada, non rischia nulla. Anzi, ci guadagna… Eppure i trombettieri della Nato propagandano la bufala dell’“euroatlantismo” e gli scemi di guerra se la bevono, senz’accorgersi che mai come oggi gli interessi dell’Europa sono opposti a quelli dell’America.

 

Marco Travaglio

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Il capitalismo non è un’idea, è una malattia che ci è passata nelle cellule

10 Marzo 2023

«Quello che mi preoccupa di più è che non vedo una rivolta contro il capitalismo. Dove ci sta portando il capitalismo? Non posso lasciare fuori questa domanda. La crisi, le crisi che stiamo vivendo non sono nate dalla gente semplice, ma dalla vittoria del denaro su tutto e tutti. Stéphane Hessel, che è stato in campo di concentramento con me, scrisse “Indignatevi!”. Ma io non vedo più nemmeno questo: vedo piccoli fuochi, proteste, frustrazione… ma non la rivolta morale contro il capitalismo. Viviamo in una società egoista, che fa schifo; il capitalismo non è un’idea, è una malattia che ci è passata nelle cellule, glielo dice un anticomunista».

È come un grido questo congedo di Boris Pahor, dopo oltre un’ora di colloquio. Nonostante il sillabare lento, il tono basso della voce, come può esserlo quello di un uomo che il prossimo agosto compirà 106 anni. Che ha attraversato il buio del Novecento raccontandolo in migliaia di pagine. Soprattutto in “Necropoli”, il capolavoro che ha preso forma nel campo di concentramento nazista di Natzweiler-Struthof e che l’Italia ha scoperto nel 2008, con quasi 40 anni di ritardo da quando fu pubblicato per la prima volta, in sloveno.

«Necropoli riesce a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessità della storia», scrisse Claudio Magris nell’introduzione alla prima edizione italiana (fatta eccezione per un una piccola traduzione apparsa nel ’97 con diffusione locale) dell’opera. E con la complessità della storia, con il dovere della memoria, Boris Pahor continua il suo corpo a corpo quotidiano. Lavora ancora lo scrittore della minoranza slovena di Trieste, più volte candidato al Nobel. Qualche pagina al giorno.

Nel tinello, su un piccolo tavolo c’è una vecchia macchina da scrivere, una Remington Deluxe, con un foglio infilato che attende l’inchiostro. «L’ho acquistata a Lubiana tanto tempo fa. L’ho fatta pulire bene, vede? Batte forte… La uso da 40 anni».

In veranda ci sono dei panni appena stesi dalla badante con cui Boris Pahor parla solo in sloveno. Tra i panni si intravede l’azzurro. Chiediamo di uscire. Là sotto c’è il golfo di Trieste: la vista spazia da Pirano, gioiello veneziano incastonato nella piccola fetta di Istria slovena, al castello di Miramare. La Storia in uno sguardo, da questa villetta sul Carso: la Serenissima, gli Asburgo, la Resistenza, la pulizia etnica e linguistica dei fascisti in quest’altopiano slavofono di pietre e boscaglia, le leggi razziali annunciate laggiù a sinistra, tra quei palazzi imperiali un po’ sfuocati da qui, in piazza Unità. L’Italia in attesa fino al 1954, quando finisce l’amministrazione alleata, la cortina di ferro, il confine del “nostro mondo” che passava qui, qualche centinaio di metri più su.
Al numero di cellulare aveva risposto lui, che a 105 anni fa ancora il segretario di se stesso. «Chi? Ah, l’Espresso? Venga, venga a trovarmi, ma io i 105 anni li ho compiuti ad agosto… di cosa vuole parlare?».

Della storia professore, di quella che stiamo vivendo, e di quella che si annuncia. Del passato, del Novecento, lei forse ha già detto e scritto tutto…..

«Molto, forse. O forse non abbastanza, visto che voi giornalisti in Italia non vi siete mai occupati veramente della comunità slovena di Trieste… Noi eravamo la pietra dello scandalo, sa. L’Italia voleva Trieste ma noi triestini sloveni eravamo qui da secoli… Eravamo una comunità culturale forte. Poi è arrivato il fascismo e ci hanno caricati sui treni. In Francia conoscono la nostra storia, nelle scuole italiane non se ne è mai parlato».

E sarebbe più che mai necessario, al risorgere dei nazionalismi, di nostalgie di regime…
«La memoria non è necessaria, è indispensabile. Ma quando si parla di nazionalismo io distinguo. Finché c’era l’Unione sovietica anche l’Europa aveva costretto i popoli alla sottomissione. Appena è crollata l’Urss i popoli hanno cominciato a respirare, a sentirsi liberi».

Ci sono nazionalismi buoni e cattivi? È questo che sta dicendo, professore?
«Senta, le faccio un esempio: i poeti e gli scrittori classici sloveni sono fioriti sotto l’impero austro-ungarico. Li lasciavano fare, non erano oppressi, era un nazionalismo onesto… Poi arrivano il fascismo e il nazismo, e oggi spuntano funghi velenosi qua e là. Ma io sono un disgraziato, ho visto i campi di concentramento e dopo questo non vedo nulla di simile all’orizzonte».

Insomma i “funghi velenosi” non prenderanno il sopravvento?
«Questo dipenderà… Se rinascerà una sinistra più persuasiva resteranno fenomeni isolati e probabilmente non duraturi. Per il momento la sinistra è andata a ramengo, ovunque. Per essere di sinistra non serve essere rivoluzionari: sarebbe stato sufficiente ascoltare il popolo. Invece non sono riusciti a proporre nulla, a costruire uno scenario di sinistra senza comunismo che potesse convincere il popolo. Dire questo non è populismo. Bastava essere di sinistra “a metà” invece di inseguire la destra. E se insegui la destra, se costruisci un modello sociale fatto solo di arrivismo, se non riesci a trovare punti di mediazione e vivi di contrasti interni… beh, allora vince la destra, è ovvio».

Le cronache, e non da oggi, raccontano di un razzismo che rialza la testa, in molti luoghi d’Europa. E in Italia.
«Io sono al limite delle mie forze… questo forse mi induce a non voler vedere? Non credo sia così. Nella società europea in generale non vedo ancora spinte così forti verso il razzismo. Certo i bulbi per una a rinascita di questo fenomeno ci sono ma sono minoranze e io ho visto altro… e come le dicevo sono al limite delle mie forze».

Lei è stato definito nazionalista da una parte della sinistra della Slovenia, poi c’è stato l’episodio di quel sindaco di colore nella cittadina slovena di Pirano e qualcuno le ha dato anche del razzista, quando lei fece intendere di non aver gradito quell’elezione. O almeno così fu interpretato…
«È stato un gigantesco malinteso. Io mi sono incontrato con quel sindaco e mi ha detto: “Forse sono l’unico che ha capito quello che lei voleva dire”».

E che cosa aveva capito?
«Che la memoria, la storia di un luogo, contano. Il che non vuol dire che in loro nome non si debba accogliere. Lui mi disse “vengo dall’Africa e ci sono legato, quello resta il mio essere. Ora sono qui e provo a fare del mio meglio”. Io avevo solo detto che non poteva conoscere, sentire profondamente la storia di Pirano, non che non potesse essere un buon sindaco. Ecco, era tutto qui».

La memoria, la storia…
«Purtroppo siamo senza memoria, senza storia. E quando accade questo tutto viene rimesso in discussione, libertà compresa. Anche gli sloveni hanno interpretato la libertà in modo sbagliato e hanno cominciato presto e rubare».

Ha votato alle ultime elezioni politiche?
«No, non ho seguito le elezioni italiane. Noi della minoranza slovena votavamo sempre con la sinistra, ma vista la malaparata della sinistra italiana mi sono disinteressato. Del resto nemmeno in Slovenia avrei votato la sinistra. Quale sinistra?».

Provi a immaginarne una.
«E come? Come si fa a creare un governo sociale se si è completamente immersi nel credo capitalista? È la grande domanda. Sicuramente avrà sentito anche lei la favola dei cospirazionisti che racconta dei grandi capitalisti del mondo riuniti attorno a un tavolo per mettere i popoli l’uno contro l’altro con lo scopo di dominarli meglio… È una favola, naturalmente. Ma non la vediamo questa tendenza al dominio inarrestabile del capitale, del denaro?».

Professore, qualcuno potrebbe leggere queste sue parole come un’evocazione dei “poteri forti”, categoria che va per la maggiore tra i leader di questo governo.
«Questo governo? Lasciamo stare. Sto cercando di capire come pensano di rovinare ancora l’Italia. Non riesco a capire che qualità abbiano per fare questa rivolta di cui io parlo, quella necessaria. Facendo debiti invece di pagarli? Non si può governare con le illusioni. Mai».

Tornando al dominio del denaro, “inarrestabile” suona come una sentenza definitiva. Se la politica nulla può, cos’altro? Una fede? Un miracolo?
«I miracoli non esistono o può farli l’uomo… Io sono un panteista. E mi riconosco nelle parole di Einstein: “sono religioso ma non credente”. Mi inchino davanti alla natura, lo faccio ogni giorno da quando sono uscito dal campo di concentramento. Possono distruggere loro stessi gli uomini e con sé stessi questa palla che chiamiamo mondo, il nostro mondo. Uno mi può dire: ma cosa te ne importa che tu fra poco sarai sottoterra? Dico che me ne importa perché c’è gente che vive, gente che nasce. Pensare a questo è un vivere onesto. La natura è senza coscienza, ma noi ce l’abbiamo, o dovremmo averla».

Che cosa significa “i miracoli può farli l’uomo”?
«Io ricordo noi dei “triangoli rossi”… gli internati politici nei campi di lavoro nazisti. Un pezzo di pane, una minestra di rape, nient’altro. Ho preso la tisi, dovevamo morire come tutti gli altri: gli ebrei gli zingari… Sono qui».

In questo mondo che non le piace.
«Ma potrebbe. Una sola cosa ci vuole: non il tavolo dei capitalisti che tengono in pugno il mondo come nella favola (ma neanche tanto) dei cospirazionisti. Ci vuole un altro tavolo, un incontro universale per l’uomo e la sua sopravvivenza. Durerà un giorno? Un anno? Dieci anni? Non importa. Dobbiamo cercare uno scopo per l’uomo finalmente, interrompere una storia che da Alessandro Magno a Hitler ha significato sterminio. Un incontro universale tra medici, poeti, ingeneri, religiosi… Mi si dice che è un’utopia? Se un uomo è capace di fare “miracoli” come quelli che ogni giorno ci fanno vedere le tecnologie, perché non è in grado di fare questo? Una ricerca per l’uomo, per vivere con senso una vita diversa da quella dell’avere, del conquistare. Nessuno che si chiami uomo resti senza pane. Si può. Solo così l’umanità della grande innovazione avrà creato qualcosa di Nuovo».

Lei è uno scrittore. Che contributo può dare la letteratura, se può darlo, a questa “innovazione”?
«La letteratura vale dove c’è già disposizione di spirito. Vale quando c’è chi accetta, è all’altezza, per ricevere questa ricchezza. Ma che con la letteratura si possa innescare questa rivoluzione morale, intellettuale, psicologica… non ci credo. Altrimenti ci sarebbe riuscito il cristianesimo».

Come trascorre le sue giornate?
«Ho molti incontri, vengono a trovarmi. Ho una biblioteca a Prosecco dove ho messo quasi tutti i libri. Porto lì chi viene a trovarmi, e parliamo. Poi scrivo ancora qualche paginetta. Leggo, possibilmente in lingua originale… Mi sono appena riletto “Vita di Gesù” di Renan».

C’è ancora il tempo per un caffè, che si raffredda nella tazza mentre Boris Pahor ha un’ultima parola da aggiungere: rivolta.

Intervista di MARCO PACINI link

Archiviato in:Lessico Contrassegnato con: Boris Pahor

Se mi sono tanto dilungata

10 Marzo 2023

Se mi sono tanto dilungata su questo film, che costituisce in un certo senso una sorta d’anteprima, è perché il paragone con il seppuku di Mishima stesso ci permette di definire meglio la distanza fra la perfezione dell’arte, che riflette, in una splendente o cupa luce di eternità, l’essenziale, e la vita con le sue assurdità, i suoi colpi a vuoto, i suoi malintesi sconcertanti, indubbiamente dovuti alla nostra incapacità di penetrare, quando lo si dovrebbe, nell’animo degli esseri e nel cuore delle cose, ma anche, e proprio per questo, a quell’incalcolabile estraneità della vita “vera,” e che si potrebbe chiamare, con parola già forse un po’ logora, esistenziale. Come nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, in cui Giuda, correndo a precipizio verso la sua fine, non è più un uomo ma un turbine, così dagli ultimi momenti della vita di Mishima emana l’odore di ozono dell’energia pura.

Circa due anni prima della fine, si produce per Mishima uno di quegli eventi insperati che sembrano manifestarsi puntualmente non appena la vita acquista una certa precipitazione e un certo ritmo. Un personaggio nuovo fa il suo ingresso, Morita, ventun anni, provinciale educato in un collegio cattolico, bello, un po’ tarchiato, infiammato della stessa passione lealista che arde in colui che egli ben presto chiamerà maestro (Sensei), termine onorifico dato dagli studenti ai loro istruttori. Si è detto che, in Mishima, l’inclinazione verso l’avventura politica è cresciuta in proporzione alla foga del giovane; tuttavia, nel 1969, in occasione di un progetto terroristico, l’abbiamo visto dissuadere il giovane allievo. Si vorrebbe quasi credere che alcuni aspetti sgradevoli del seppuku dei due uomini28 derivassero dalla fantasia del più giovane, dalla testa probabilmente imbottita di film e romanzi violenti, benché Mishima non avesse davvero bisogno, da parte sua, di essere sollecitato in tal senso. Si può al massimo pensare a un ritorno di ardore, da parte dello scrittore, trovando finalmente (Morita fu l’ultimo a iscriversi alla Società dello Scudo) il compagno e forse il fanatico che aveva sempre cercato. Questo giovane ci viene descritto come estremamente risoluto, così spartano da partecipare senz’altro alle esercitazioni del Tatenokai pur avendo una gamba ingessata per un incidente sportivo, e sempre appresso a Mishima, “seguendolo dappertutto come una fidanzata,” frase che assume un preciso valore quando si pensi che la parola fidanzamento indica il fatto di impegnare la propria fedeltà, e non si può impegnarla più indissolubilmente che promettendo di morire. Un biografo che basa la sua interpretazione di Mishima su dati quasi esclusivamente erotici, ha insistito molto sull’aspetto sensuale, d’altronde ipotetico, di questo attaccamento; qualcuno si è servito di questa chiave interpretativa per cercare di fare del seppuku uno shinju, il suicidio a due così frequente nei drammi del Kabuki, compiuto perlopiù sotto forma di annegamento da una fanciulla del quartiere proibito e da un giovane troppo povero per riscattare o mantenere la sua amante.29 Non è pensabile che Mishima, che da sei anni preparava la sua morte rituale, abbia montato tutta quella complicata messinscena di appello all’esercito e di protesta pubblica che precede la morte nella sola intenzione di fornire uno scenario a una dipartita a due. Più semplicemente, e su questo punto si era spiegato nel corso del dibattito con gli studenti comunisti, era arrivato a pensare che l’amore stesso fosse diventato impossibile in un mondo privo di fede. Egli paragonava gli amanti ai due angoli di base di un triangolo, e l’imperatore, che essi venerano, al vertice; sostituite la parola imperatore con la parola causa, o Dio, e arriverete a quel concetto di un sostrato di trascendenza necessario all’amore, di cui una volta ho disputato in altra sede. Col suo lealismo quasi ingenuo, Morita rispondeva a quell’esigenza. E tutto quanto si può dire; resta comunque da osservare che, probabilmente, è del tutto ovvio che due esseri che hanno deciso di morire insieme, e uno per mano dell’altro, vogliano prima, almeno una volta, incontrarsi in un letto, e l’antico spirito samurai non avrebbe certo disapprovato.

Tutto è pronto. Il seppuku è fissato per il 25 novembre 1970, giorno per il quale l’ultimo volume della tetralogia è promesso all’editore. Per quanto intensamente compenetrato dell’evento, Mishima regola ancora la propria vita in base ai suoi impegni di scrittore: si vanta di non aver mai mancato di consegnare un manoscritto alla data stabilita. Tutto è previsto, perfino, estrema cortesia nei confronti dei presenti, o desiderio supremo di conservare al corpo la sua dignità fino all’ultimo, i tamponi di ovatta che serviranno a impedire la fuoruscita degli escrementi durante le convulsioni dell’agonia. Mishima, che il 24 novembre ha cenato al ristorante con i suoi quattro proseliti, si ritira come tutte le sere per lavorare, termina il suo manoscritto o vi appone gli ultimi ritocchi, lo firma, lo infila in una busta che un fattorino dell’editore verrà a ritirare nel corso della mattina seguente. Spuntato il giorno, fa una doccia, si rade con cura, indossa l’uniforme dello Scudo su uno slip di cotone bianco e sulla pelle nuda. Gesti quotidiani, ma che assumono la solennità di ciò che non si ripeterà più. Prima di uscire dallo studio, lascia sulla scrivania un appunto: “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere sempre.” Frase caratteristica di tutti gli esseri tanto ardenti da essere insaziabili. A pensarvi bene, non c’è contraddizione fra il fatto che quelle poche parole siano state scritte all’alba, e il fatto che l’uomo che le ha scritte sarà morto prima della fine della mattinata.

Lascia il manoscritto in evidenza sul tavolino dell’anticamera. I quattro compagni lo aspettano in un’automobile nuova acquistata da Morita; Mishima ha con sé la cartella di cuoio che contiene una preziosa sciabola del XVII secolo, uno dei suoi beni più cari; la borsa contiene anche una daga. Strada facendo, passano davanti alla scuola in cui si trova in quel momento la maggiore dei due figli dello scrittore, una ragazzina di undici anni, Noriko: “È il momento in cui, in un film, si sentirebbe una musica patetica,” ironizza Mishima. Prova d’insensibilità? Forse è il contrario. A volte, è più facile scherzare su ciò che sta a cuore che non parlarne affatto. E certo ride, di quel riso breve e fragoroso che gli si attribuisce, e che è tipico di coloro che non ridono fino in fondo. Poi, i cinque uomini cantano.

Eccoli giunti alla meta, l’edificio del ministero della Difesa. Quest’uomo che entro due ore sarà morto, e che, a ogni modo, si propone di esserlo, ha tuttavia un ultimo desiderio: parlare alle truppe, denunciare davanti a loro lo stato nefasto in cui ritiene sia caduto il paese. Questo scrittore che ha constatato l’insipidezza delle parole crede forse che l’eloquenza avrà maggior potere? Indubbiamente, egli desidera moltiplicare le occasioni di esprimere pubblicamente le ragioni della sua morte, affinché non si cerchi, più tardi, di distorcerle o negarle. Due lettere scritte a dei giornalisti, ai quali chiede di trovarsi sul posto al momento stabilito, senza del resto indicarne le ragioni, mostrano come egli temesse, d’altronde a ragione, quella specie di “maquillage” postumo. E, forse, essendo riuscito a infondere un po’ del suo fervore ai seguaci dello Scudo, crede ancora possibile fare altrettanto con le poche centinaia di uomini colà acquartierati. Ma solo il generale comandante in capo può dargli l’autorizzazione necessaria. Col pretesto di fare ammirare al generale la splendida sciabola firmata da un armaiolo famoso, i cinque hanno ottenuto un appuntamento. Mishima giustifica la presenza dei giovani in uniforme con una riunione di gruppo alla quale egli deve successivamente recarsi. Mentre il generale ammira i fregi delicati, quasi invisibili, che solcano l’acciaio levigato, due degli affiliati lo legano saldamente per le braccia e le gambe alla poltrona. Gli altri due e lo stesso Mishima si precipitano a chiudere a chiave o comunque bloccare le porte. I congiurati parlamentano con l’esterno. Mishima esige l’adunata delle truppe cui intende rivolgersi dal balcone. Se il generale rifiuta di dare l’ordine, sarà giustiziato. Si ritiene più prudente accondiscendere, ma durante un tentativo di resistenza, manifestatosi comunque troppo tardi, Mishima e Morita, che tenevano la porta ancora socchiusa, hanno ferito sette subalterni. Sistemi terroristici, e tanto più detestabili per noi che troppo li abbiamo visti in atto, un po’ ovunque, nei dieci anni che ci separano da quell’evento. Ma Mishima vuole approfittare fino in fondo della sua ultima occasione.

Giù, i soldati si radunano, ottocento uomini circa, pochissimo soddisfatti d’esser distolti dalla loro routine o dal loro riposo per quell’inattesa corvé. Il generale attende paziente. Mishima apre la porta-finestra, esce sul balcone, balza, da buon sportivo, sulla balaustra: “Vediamo il Giappone sprofondare nel più assoluto silenzio dello spirito: la prosperità gli ha dato alla testa… Noi stiamo per restituirgli la sua immagine e moriremo facendolo. È possibile che vi accontentiate di vivere accettando un mondo in cui lo spirito è morto?… L’esercito difende quello stesso trattato30 che gli nega il diritto di esistere… Il 21 ottobre 1969, l’esercito avrebbe dovuto impadronirsi del potere e chiedere la revisione della Costituzione… I nostri valori fondamentali, i nostri valori autenticamente giapponesi, sono minacciati… In Giappone, l’Imperatore non ha più il posto che gli spetta…”

Improperi e parolacce salgono verso di lui. Le ultime fotografie lo mostrano con i pugni contratti e la bocca aperta, brutto di quella bruttezza tipica dell’uomo che urla o sbraita, espressione alterata che denota soprattutto uno sforzo disperato per farsi sentire, ma che ricorda penosamente le immagini di quei dittatori o demagoghi, a qualunque fazione o partito appartengano, che da mezzo secolo circa hanno avvelenato la nostra vita. Alle grida ostili si aggiunge ben presto un tipico rumore del mondo moderno: un elicottero, che è stato subito chiamato sul posto, volteggia sopra il cortile, annichilendo ogni cosa con il suo assordante frullare di eliche.

Con un altro balzo, Mishima riguadagna il balcone; riapre la porta-finestra, seguito da Morita che inalbera uno striscione con le stesse proteste e le stesse rivendicazioni, siede a terra, a un metro di distanza dal generale, e compie punto per punto, con assoluto sangue freddo, i gesti che gli abbiamo visto fare nella parte del luogotenente Takeyama. L’atroce dolore fu quello che aveva previsto, quello che aveva cercato di prefigurarsi quando aveva mimato la morte? Aveva chiesto a Morita di non lasciarlo soffrire troppo a lungo. Il giovane cala la sua spada, ma le lacrime gli velano gli occhi, le mani tremano. Non riesce a infliggere all’agonizzante che due o tre orrende ferite alla nuca e alla spalla. “Da’ qua!” Furu-Koga afferra con sicurezza la spada e, con un solo colpo, fa quel che deve. Nel frattempo, Morita si è seduto a terra a sua volta, ma gli manca la forza di farsi, con la daga che è stata ripresa dalle mani di Mishima, qualcosa di più di un brutto graffio. Nel codice samurai, il caso era previsto: il suicida troppo giovane o troppo vecchio, troppo debole o troppo fuori di sé per portare a termine l’operazione, doveva essere decapitato seduta stante. “Colpisci!” E Furu-Koga esegue. Il generale si china quanto glielo permettono le corde che lo stringono e mormora la preghiera buddista per i morti: “Namu Amida, Butsu!” Questo generale, da cui non ci aspettavamo niente, si comporta con grande dignità davanti all’atroce e imprevisto dramma di cui è testimone. “Non continuate questa carneficina; è inutile.” I tre giovani rispondono a una voce che hanno promesso di non morire. “Piangete a sazietà, ma dominatevi quando si riapriranno le porte.” Riprensione un po’ aspra, ma più opportuna, di fronte a quei singhiozzi, dell’ordine brutale di non piangere. “Coprite pietosamente i corpi.” I giovani ricoprono la parte inferiore dei corpi con la giubba dell’uniforme, e sistemano, sempre piangendo, le due teste mozze. Infine, domanda più che comprensibile da parte di un capo: “Volete che mi faccia vedere dai miei subalterni legato a questo modo?” Il generale viene slegato; si aprono le porte; i giornalisti si precipitano nella stanza in cui aleggia un acre odore di carneficina… Lasciamoli fare il loro lavoro.

Volgiamoci dalla parte del pubblico. “Era pazzo,” dice il primo ministro, interrogato seduta stante. Il padre ha appreso le prime notizie, relative all’arringa alle truppe, ascoltando il comunicato radio di mezzogiorno; la sua reazione è stata quella, tipica, di tutte le famiglie: “Quante seccature mi procurerà questa storia! Bisognerà fare delle scuse alle autorità…” La moglie, Yoko, è stata raggiunta dalla notizia della morte a mezzogiorno e venti, nel tassì che la portava a una colazione. Interrogata più tardi, risponderà che il suicidio del marito non la coglieva di sorpresa, ma che se lo sarebbe aspettato uno o due anni più tardi. (“Yoko non ha fantasia,” aveva detto un giorno Mishima.) Le uniche parole commosse vengono pronunciate dalla madre, quando riceve i visitatori venuti a rendere omaggio. “Non compiangetelo. Per la prima volta in vita sua, ha fatto ciò che desiderava fare.” Esagerava, certo, ma Mishima stesso aveva scritto, nel luglio 1969: “Se rivivo col pensiero gli ultimi venticinque anni, il loro vuoto mi riempie di orrore. Posso appena dire di aver vissuto.” Anche nel corso della vita più eccezionale e gratificante, ciò che si vuole realmente fare di rado viene compiuto, e, dagli abissi o dalle sommità del Vuoto, ciò che è stato, e ciò che non è stato, sembra ugualmente sogno o miraggio.

C’è una fotografia della famiglia seduta su una fila di sedie durante la cerimonia di commemorazione funebre che, nonostante una quasi generale disapprovazione del seppuku, attirò migliaia di persone. (Sembra che quel gesto violento avesse profondamente sconcertato certa gente passivamente uniformata a un mondo che le appariva senza problemi. Prenderlo sul serio, sarebbe stato rinnegare una supina acquiescenza alla sconfitta e al progresso della modernizzazione, così come alla prosperità che era seguita. Meglio non vedere in quel gesto che un misto assurdo ed eroico di letteratura, teatro e bisogno di far parlare di sé.) Azusa, il padre, Shizue, la madre, Yoko, la moglie, avevano certamente ciascuno il proprio giudizio e la propria interpretazione. Li si vede di profilo, la madre con la tésta un po’ china, le mani giunte e un’espressione che il dolore fa sembrare imbronciata; il padre ben dritto, in atteggiamento signorile e composto, probabilmente consapevole d’esser fotografato; Yoko, graziosa e impenetrabile come sempre; e, più vicino a chi guarda, sulla stessa fila, Kawabata, il vecchio romanziere che aveva ricevuto il Nobel l’anno prima, amico e maestro del defunto. Quel volto emaciato di vecchio è di un’estrema purezza; la tristezza vi si legge come sotto un foglio traslucido. Un anno dopo Kawabata si suicidava, senza alcun rito eroico (si accontentò di girare la chiavetta del gas), e qualcuno lo sentì dire, durante l’anno, di aver visto il fantasma di Mishima.

E ora, tenuta in serbo per la fine, l’ultima immagine e la più traumatizzante; così sconvolgente che è stata raramente riprodotta. Due teste sul tappeto sicuramente in acrilico dell’ufficio del generale, messe una accanto all’altra come birilli, così vicine che quasi si toccano. Due teste, due bocce inerti, due cervelli che il sangue più non irrora, due computer bloccati, che non selezionano e non decodificano più il flusso ininterrotto di immagini, impressioni, sollecitazioni e risposte che ogni giorno a milioni investono un essere, formando tutte insieme quella che si chiama la vita dello spirito, e anche quella dei sensi, e motivando e dirigendo i movimenti del resto del corpo. Due teste mozzate, passate ormai in altri mondi in cui regna un’altra legge, e che a guardarle suscitano sbigottimento più che orrore. Ogni giudizio di valore, sia esso morale, politico o estetico, in loro presenza, momentaneamente almeno, è ridotto al silenzio. La nozione che s’impone è più sconcertante e più semplice: fra le miriadi di cose che sono, e che sono state, queste due teste sono state; e sono. Ciò che riempie quegli occhi senza sguardo non è più lo sventolante vessillo della protesta politica, né alcun’altra immagine intellettuale o materiale, e neppure il Vuoto contemplato da Honda, e che appare, improvvisamente, solo come un concetto o un simbolo tutto sommato troppo umano. Due oggetti, relitti già quasi inorganici di annientate strutture, che anch’essi, una volta passati attraverso il fuoco, saranno ridotti a residui minerali e cenere; neppure soggetti di meditazione, perché ci mancano i dati per meditare su di essi. Due relitti, sospinti dal Fiume dell’Azione, e che l’immensa ondata ha lasciato per un attimo in secca sulla sabbia, e poi trascina via.

 

Tratto da: Marguerite Yourcenar, Mishima o la Visione del Vuoto, Bompiani

Archiviato in:Marguerite Yourcenar, Mishima o la Visione del Vuoto, Se mi sono tanto dilungata, Soko Gakkai, Yukio Mishima Contrassegnato con: Bompiani, Giappone, Japan, Letteratura giapponese, Marguerite Yourcenar, Mishima o La visione del vuoto, Se mi sono tanto dilungata, Soko Gakkai

Nutrimento e ispirazione

6 Marzo 2023

Di fatto, i semi offrirono ai primi esseri umani il nutrimento e al tempo stesso l’ispirazione per ridisegnare il mondo naturale in base alle loro esigenze. Diecimila turbolenti anni di civilizzazione si sono dispiegati dal lieve sonno del seme.

Harold McGee, McGee on Food and Cooking, 2004.

Avere un’infarinatura in materia di semi può essere una cosa deliziosa. Stanchi della haute cuisine? Provate la oat cuisine, la cucina a base di avena. Conoscere le proprietà dei semi che utilizzate come ingredienti vi permetterà di preparare saporito pane di grano o di granoturco, inventare insalate nutrienti, cuocere alla perfezione riso, fagioli e lenticchie e capire perché i popcorn scoppiettano o l’erba medica (alfalfa) germoglia. I semi sono stati progettati dall’evoluzione come magazzini di riserve nutritive per le piantine giovani: ecco la chiave per comprendere tutte le proprietà che hanno in qualità di cibo per gli esseri umani. Possono essere conservati così facilmente senza deteriorarsi proprio perché sono concentrati di energia stoccata sotto forma di amido o grasso; perché spesso hanno un alto contenuto proteico; e anche perché spesso si difendono con sostanze velenose o repellenti. La scienza della cucina con i semi è una grande campagna basata su una scaltra «reinterpretazione» dei doni che una pianta madre fa alla sua progenie. È un intelligente atto di saccheggio e pirateria.

E sottolineo intelligente. Sugli effetti nutritivi dei semi sono state dette fandonie di ogni genere. Tra le mie preferite c’è quella dell’inventore dei Graham, i primi cracker integrali; il reverendo Sylvester Graham era convinto che la sua ricetta a base di farina integrale avrebbe contribuito ad affievolire il desiderio sessuale tra i suoi fedeli.188 Una vera cracker-tinata, ma innocua. Non altrettanto innocua fu la «dieta macrobiotica» che diventò un vero e proprio culto nell’America del Nord negli anni sessanta del XX secolo.  I macrobiotici seguivano un regime strutturato in dieci passi che eliminava gradualmente sempre più alimenti dalla dieta finché, nell’ultima fase, le uniche cose concesse erano riso integrale, sale e tisane. Furono in pochi a raggiungere quest’ultimo stadio, e alcuni di loro morirono di denutrizione.

Come per molte mode alimentari, c’è un chicco di verità nell’efficacia di una dieta basata su cereali integrali. Studi medici su vasta scala hanno dimostrato che chi include nella propria dieta una quantità significativa di cereali integrali è assai meno esposto al rischio di disturbi cardiovascolari.190 Il dottor Sylvester Graham sicuramente ci sarebbe rimasto male scoprendo che i benefici cardiovascolari dei cereali integrali implicano che puoi fare più sesso, non meno. All’interno di una dieta bilanciata, un maggior consumo di cibi integrali come riso selvaggio, popcorn, avena, riso integrale, orzo e pane integrale è senz’altro benefico.

Ma esaminiamo più nel dettaglio questa oat cuisine. Nel primo dizionario della lingua inglese, pubblicato nel 1755, il suo compilatore, il dottor Samuel Johnson, così definiva l’avena: «Cereale che in Inghilterra viene in genere dato in pasto ai cavalli, ma che in Scozia pare sia impiegato come alimento primario per le persone». Dato che il dottor Johnson è famoso anche per aver dichiarato che «la più nobile prospettiva che uno scozzese potrà mai scorgere è l’eccelsa strada verso l’Inghilterra», le sue opinioni, proprio come il porridge, andrebbero prese cum grano salis . Da un punto di vista pratico, l’avena (Avena sativa) ha più di una virtù: resiste al clima umido dell’Europa nordoccidentale e i suoi semi hanno un notevole valore nutritivo, essendo costituiti per circa il 15 per cento di proteine e per l’8 per cento di grassi. Come dichiara il poeta scozzese Robert (Rabbie) Burns, il porridge d’avena è il «re dei cibi scozzesi». Per fortuna i tempi di Burns — quando la povertà nelle aree rurali costringeva molti abitanti delle Highlands a cibarsi soltanto di porridge acquoso — sono ormai lontani. Oggi possiamo apprezzare le qualità culinarie e nutritive dell’avena senza essere schiavi della miseria o del pregiudizio.

L’avena è una buona fonte di fibre alimentari solubili, che hanno molti effetti benefici sulla salute, tra i quali un abbassamento del rischio di coronaropatie e della più diffusa forma di diabete (di tipo 2). Tali fibre conferiscono al porridge d’avena quella consistenza densa e cremosa tanto apprezzata dagli intenditori; vengono anche utilizzate come addensante per zuppe e stufati. Queste proprietà dell’avena derivano dai carboidrati non digeribili che assorbono l’acqua, i beta-glucani: si concentrano nello strato (detto aleurone) posto immediatamente sotto la buccia (tegumento) che avvolge il seme. La funzione naturale dei beta-glucani è assorbire e immagazzinare acqua quando il seme germina: noi esseri umani li rubiamo all’avena per sfruttarne le proprietà igroscopiche in cucina.

Ogni anno, a Carrbridge, nella contea di Inverness, in Scozia, i partecipanti al World Porridge-Making Championship si contendono il titolo di autore del miglior porridge del mondo e il premio finale, il Golden Spurtle (lo spurtle è lo strumento per mescolare il porridge, simile al nostro bastone da polenta). In realtà, la ricetta per ottenere un buon porridge non è poi così misteriosa. Lo si può preparare soltanto con farina d’avena e acqua e cuocerlo sul fuoco o nel microonde; se invece lo si vuole più cremoso, bisogna metterci il latte. La vera sfida sta nell’utilizzare farina d’avena integrale per creare qualcosa di diverso. Heston Blumenthal, chef e titolare del Fat Duck — eletto miglior ristorante del mondo nel 2005193 e insignito di tre stelle Michelin -, ha inventato il porridge di lumache, che è presto diventato uno dei suoi cavalli di battaglia. Su Internet potete trovarne la ricetta completa,194 ma l’elemento distintivo è l’uso del porridge d’avena al posto del riso in quello che altrimenti sarebbe un classico risotto con le lumache. Il porridge viene preparato con il brodo di cottura delle lumache; poi va mantecato con burro all’aglio, arricchito a sua volta con un battuto di funghi, scalogni, senape di Digione, mandorle macinate e prosciutto di Parma. A questo punto vanno aggiunte le lumache: in parte saranno sminuzzate e incorporate al porridge e in parte disposte sul piatto finito, insieme a un bello strato di prosciutto a straccetti e sottilissime fettine di finocchio condite con aceto e olio di noci. Sicuramente il dottor Johnson avrebbe fatto qualche commento icastico sul porridge di lumache, ma io che l’ho provato posso assicurarvi che di golden spurtles ne merita parecchi.

Nonostante i semi — che si sono evoluti per garantire nutrimento alle giovani piantine — costituiscano un alimento davvero salutare per gli animali, noi compresi, è molto difficile che riescano a soddisfarne tutte le esigenze nutrizionali. Otteniamo il massimo dai semi quando nella nostra dieta ne combiniamo specie diverse. Un’alimentazione basata esclusivamente sul granoturco o sui fagioli risulterebbe carente; ma se questi due elementi vengono combinati, si completano a vicenda in una partnership nutritiva che per millenni ha sfamato e sostenuto le civiltà mesopotamiche che per prime li domesticarono.

I cereali come frumento, riso e granoturco contengono tutti gli otto amminoacidi essenziali; ma due di essi (la lisina e la treonina) compaiono in una quantità insufficiente per la dieta umana. Legumi come fagioli di soia, piselli o lenticchie contengono percentuali adeguate di questi amminoacidi; ma in compenso sono poveri di cisteina e metionina, altri due amminoacidi. Dunque, un regime alimentare o un singolo pasto in cui si abbinino determinati cereali e legumi risulta bilanciato grazie alla complementarità dei loro amminoacidi. Molte cucine tradizionali hanno il loro modo peculiare di combinare cereali e legumi, consentendo anche alle fasce più povere della popolazione di cavarsela con poca o senza carne: fagioli e tortillas in Messico; riso e piselli nei Caraibi; hummus (una salsa cremosa a base di ceci e semi di sesamo) e pane pita in Medio Oriente; dal (lenticchie) e riso in India; ceci e couscous (a base di semola di grano) in Nordafrica; riso e tofu in Cina e Giappone.

Ma bisogna andarci piano prima di dare per scontato che gli alimenti che vanno bene per una cultura siano per forza adatti anche a un’altra. Per esempio, i vegani, che non consumano carne, rischiano una carenza di vitamina B12 che può avere conseguenze gravi. A metà degli anni settanta del XX secolo si osservò un’alta incidenza di anemia perniciosa (o megaloblastica) tra gli induisti di stretta osservanza che avevano vissuto per un certo periodo in Inghilterra: in India la medesima dieta vegana non aveva dato loro alcun problema.195 La causa fu attribuita a una carenza di vitamina B12 che in India non si era verificata grazie alla presenza di insetti nei cereali. I medesimi alimenti acquistati in Inghilterra, non essendo contaminati, non potevano fornire B12 di provenienza animale. In realtà, né gli animali né le piante sono in grado di produrla, perciò tutti gli animali ricavano la dose necessaria di questa vitamina essenziale direttamente o indirettamente dai batteri, gli unici organismi in grado di produrla.

Il motivo per cui un seme in grado di soddisfare le esigenze nutrizionali di una giovane piantina raramente può bastare a un qualsivoglia animale è che le piante, da un punto di vista nutritivo, sono molto più autosufficienti. Se possono contare su alcune sostanze basilari e sull’energia fornita da un seme o dal sole, sono in grado di produrre tutte le molecole complesse necessarie, compresi i venti amminoacidi richiesti per la costruzione delle proteine. Le piantine possono prepararsi da sole ciò che non trovano nel kit d’avviamento fornito dalla madre. Noi esseri umani, invece, possiamo produrre soltanto dodici di quei venti amminoacidi; ma per produrre questi dodici le nostre cellule hanno bisogno di quegli altri otto che non sono in grado di sintetizzare. Dunque dobbiamo ricavare dal cibo le tessere mancanti. In pratica, ogni tipo di carne è in grado di fornirceli, ma esiste un seme che contiene il pacchetto completo di quegli otto amminoacidi. È il seme della quinoa (Chenopodium quinoa), una pianta che appartiene alla stessa famiglia degli spinaci.

La quinoa fu domesticata sulle Ande circa settemila anni fa e costituiva l’alimento base degli inca. Un cibo così perfetto ha bisogno di proteggersi dagli animali, perciò non dovrebbe stupirci il fatto che molte varietà di semi di quinoa si difendano grazie alla presenza di sostanze dal sapore amaro nel rivestimento esterno. Tali sostanze possono essere rimosse lavando e strofinando per bene i semi in acqua fredda. Una volta disarmati, i minuscoli semi della quinoa possono essere cucinati come altri cereali più comuni (il riso, per esempio), fritti e mescolati a zuppe o insalate oppure fatti scoppiare per ottenere popcorn lillipuziani.

Le proprietà nutritive dei cibi si combinano con il loro sapore attraverso una relazione evolutiva così profonda da aver modellato la fisiologia e la psicologia della percezione del sapore. I cinque tipi di recettori del gusto presenti sulla nostra lingua ci avvertono se un cibo è potenzialmente commestibile o velenoso. Due diversi recettori riconoscono il sapore acido (aspro) e quello amaro, associati al cibo andato a male o velenoso; i recettori del salato, del dolce e dell’umami rimandano invece a cibi nutrienti. L’umami (termine giapponese che significa «saporito») è il sapore — simile a quello della carne — di alcuni amminoacidi, e si associa ad alimenti che contengono proteine. È soprattutto il glutammato monosodico (MsG) a stimolare i recettori per l’umami, ed è per questo che viene utilizzato come esaltatore di sapidità. L’MsG si trova in natura nella pasta di soia fermentata, da cui si ricavano il miso e la salsa di soia utilizzati per insaporire le pietanze cinesi e giapponesi. Tuttavia, il sapore è qualcosa che va ben al di là dei cinque gusti base che stimolano gli specifici recettori presenti sulla lingua.

Le sensazioni legate al sapore sono un raffinato mosaico che si viene a creare nel cervello grazie alla combinazione di input forniti da tutti e cinque i sensi. Proprio come i tre recettori del colore nella retina ci consentono di distinguere migliaia di colori, così il nostro senso del gusto può contare su un repertorio ben più vasto dei cinque sapori base, ovvero salato, acido, dolce, amaro e umami. Bisogna tener conto anche dell’esistenza delle centinaia di recettori olfattivi posti nel nostro naso. Se vi siete già accorti di come il sapore del cibo sembri diverso e insulso quando si ha il naso chiuso per il raffreddore, avrete già capito quanto il senso dell’olfatto sia importante anche per la percezione del sapore. Se volete fare un esperimento, provate ad assaggiare qualcosa tappandovi il naso: non arrivando aria nelle narici, l’aroma di ciò che avete in bocca non potrà raggiungere la parete superiore della cavità nasale, dove si trovano le cellule che fungono da recettori degli odori. Anche tenendovi il naso tappato, comunque, dovreste riuscire a percepire un sentore del salato, poiché va a stimolare uno dei cinque tipi di recettori presenti sulla lingua. Anche gli altri quattro sapori base risulteranno più o meno percepibili, ma altri — come la vaniglia, per esempio — non lo saranno.

Il colore, la sensazione del cibo nella bocca e perfino il suono che produce quando lo si mastica sono tutti fattori che influenzano la nostra percezione del sapore. La sensazione in bocca contribuisce parecchio alla soddisfazione che proviamo mangiando del cioccolato. Il grasso (burro di cacao) estratto dai semi di cacao utilizzati per prepararlo conferisce al cioccolato quella consistenza vellutata che tanto amiamo. Questa consistenza potrebbe indurre nel chocoholic — il cioccolato-dipendente — perfino più dipendenza dell’effetto farmacologico indotto dalla teobromina, un alcaloide (come la caffeina) presente nel cioccolato. Potete facilmente verificarlo da soli. La cioccolata liquida o il cacao in polvere zuccherato contengono tutti gli elementi farmacologici e gli zuccheri presenti in una tavoletta di cioccolato tranne il burro di cacao. Se vi viene una voglia spasmodica di cioccolato, provate a vedere se una cioccolata in tazza riesce a togliervela; oppure provate a mangiare del cioccolato bianco, che contiene lo zucchero e il burro di cacao ma non gli elementi farmacologici presenti in quello normale. Esperimenti di questo tipo hanno evidenziato che il cioccolato bianco dà più soddisfazione del cacao, ma (e non ci sorprende) il cioccolato scuro resta il non plus ultra.

Dato che la nostra percezione del mondo deriva dal modo in cui il cervello interpreta gli input inviati da diversi tipi di recettori, la manipolazione di tali recettori può creare effetti illusori. Per esempio, la bacca del Synsepalum dulcificum (un albero originario dell’Africa occidentale), nota anche come «frutto miracoloso», contiene una proteina che interferisce con i recettori della lingua e fa sì che i cibi aspri siano percepiti come dolci. 197 Negli anni settanta fu condotto un programma di ricerca su vasta scala per tentare di sfruttare questa bacca miracolosa come dolcificante ipocalorico, ma il progetto fallì perché la proteina cui si deve la magia è instabile: soltanto le bacche fresche funzionano. Presumibilmente la bacca riesce ad abbindolare gli insetti facendo loro credere che stanno mangiando un frutto dolce e nutriente: disperderanno i semi contenuti nella bacca senza che l’albero debba pagare il solito obolo sotto forma di prezioso zucchero. In realtà, si è scoperto che i sensori del dolce sulla lingua si lasciano ingannare facilmente: dolcificanti artificiali come la saccarina e l’aspartame riescono a farlo senza problemi, e perfino un pizzico di sale su una fetta d’ananas può farla sembrare più dolce.

Un’insolita illusione ottica riguardo al cibo è creata dalle proprietà del tutto uniche dell’olio di semi di zucca, una specialità di Austria e Ungheria, dove viene usato per condire le insalate. Il colore dell’olio sembra passare dal rosso brillante quando è nella bottiglia al verde smeraldo quando finisce in un piatto o viene mescolato allo yogurt; ma si tratta solo di un’illusione ottica, non di una reale trasformazione chimica. La spiegazione di questo fenomeno risiede nella retina dell’occhio umano e nelle specifiche proprietà spettrali dell’olio.198 Come ricorderete, nel capitolo 9 abbiamo parlato di come la nostra percezione dei colori dipenda da tre recettori distinti: uno sensibile alle lunghezze d’onda brevi (blu), uno a quelle medie (verde) e uno a quelle lunghe (rosso). L’olio di semi di zucca ha nel suo spettro una finestra stretta che lascia passare la luce verde e una ampia per il passaggio di quella rossa. Uno strato sottile di olio convoglia abbastanza luce verde per stimolare quei recettori più intensamente di quelli del rosso. Ma se lo strato d’olio ha uno spessore che supera gli 0,7 millimetri, trasmetterà una quantità relativamente inferiore di luce verde, perciò i recettori del rosso saranno più stimolati. Uno strato di 0,7 millimetri esatti convoglierà una luce che stimola con pari intensità i recettori del verde e del rosso: in questo caso, l’olio apparirà giallo.

«Ondivago» è il termine che più si addice all’interesse che il cervello umano manifesta nei confronti degli odori. Alla sua prima comparsa, un odore suscita una reazione forte, ma la maggior parte di essi diventa rapidamente impercettibile. Gli odori sembrano sparire nonostante non vi sia stato alcun effettivo cambiamento nella concentrazione delle molecole odorose. Forse tutti si sono accorti di questo fenomeno, ma in quanti si sono chiesti perché accade? Un odore nuovo manda al cervello un segnale di allerta a cui possiamo reagire in modo adeguato; ma se non facciamo nulla che modifichi la nostra esposizione all’odore, il cervello si comporterà come se l’informazione in esso contenuta fosse superflua, perciò l’odore verrà presto ignorato. In un’ottica di pura sopravvivenza, è un comportamento del tutto sensato, poiché ci consente di restare in stato di allerta — e accorgerci di nuove minacce o opportunità — senza farci distrarre da dettagli irrilevanti provenienti dall’ambiente che ci circonda.

Tuttavia, dal punto di vista dello chef, la tendenza dei recettori del gusto e dell’odore a stancarsi facilmente deve rendere il tentativo di prendere i clienti per le papille gustative simile a quello di allenare una squadra di vecchietti suonati per una partita di campionato. Una soluzione è creare «micro-bombe» di sapore incapsulando gli alimenti in modo che possano deflagrare nel palato, tenendo costantemente sveglio il sistema gusto-olfattivo. Heston Blumenthal, lo chef del già menzionato Fat Duck, per intrappolare i sapori utilizza cubetti di gelatina. Ma anche le gocce di cioccolato nei biscotti, i canditi nelle torte e i semi lasciati interi nel pane sfruttano lo stesso identico principio: una bella sferzata alle papille gustative.

I semi sono per definizione capsule di sapore, ma di solito, perché il loro potenziale possa esprimersi appieno, richiedono la tostatura. Come abbiamo visto nel capitolo 16, questo procedimento accresce parecchio il numero di componenti del sapore nel caffè, producendo quell’aroma celestiale. La tostatura ha gli stessi effetti benefici sull’aroma e sul sapore di altri semi, tra i quali spezie come il cumino e il coriandolo, arachidi e semi di girasole o di zucca, castagne, mandorle e molti altri ancora. Il rilascio del sapore e dell’aroma è indotto dall’effetto fisico della tostatura che rompe le cellule, consentendo agli oli fragranti di sprigionarsi attraverso una serie di trasformazioni chimiche possibili ad alte temperature. La principale è la reazione di Maillard che, unendo zuccheri e amminoacidi, produce composti aromatici in quantità. Particolari versioni di questa reazione producono le molecole responsabili dell’inconfondibile profumo del pane appena sfornato, l’odore noccioloso delle arachidi tostate, l’aroma di popcorn e altre golosità evocative, come l’odore di patatine fritte. La natura chimica di questa reazione, responsabile anche dell’allettante colore bruno della carne e di altri cibi arrostiti, fu stabilita dal chimico francese Louis-Camille Maillard nel 1912. In un articolo di sole settantasette righe (titolo compreso), Maillard descrisse i meccanismi delle interazioni tra zuccheri e amminoacidi, i metodi che aveva utilizzato negli esperimenti e tutte le implicazioni della scoperta, compreso il suo ruolo potenziale — oggi ben assodato — nelle patologie indotte dalle varie forme di diabete. Purtroppo il suo lavoro era talmente all’avanguardia per la sua epoca da rimanere ignorato per oltre vent’anni, quando ormai Maillard era gravemente debilitato da un’infezione da tifo contratta lavorando su quella malattia durante la Prima guerra mondiale. Ma, proprio come gli aromi, il suo nome persiste, rievocato da ogni fresca scoperta di nuovi casi di reazione di Maillard.

Non soltanto il sapore, ma perfino la consistenza dei semi può essere radicalmente alterata dal processo di tostatura. Nell’inverno del 1842, Henry David Thoreau, profeta della vita nei boschi del New England, botanico, filosofo, poeta e sostenitore della fede nel potere dei semi, scrisse nel suo diario: «Stasera ho fatto scoppiare il granoturco, che per il seme è soltanto un più rapido sbocciare sotto un caldo più intenso di quello di luglio. Il chicco che sboccia è un perfetto fiore invernale, e richiama gli anemoni e le houstonie […] Dal mio cuore caldo spuntarono questi fiori di cereale; era quello l’argine dove crebbero». In quei fiori di cereale potrebbe racchiudersi un significato ancora più importante di quanto Thoreau immaginasse: esiste la prova archeologica che far scoppiare i chicchi di cereali nelle braci potrebbe essere stato il più antico metodo di cottura del granoturco in Messico. La cosa che lascia sbalorditi è che alcuni chicchi recuperati da depositi vecchi di migliaia di anni possano ancora scoppiare. 201 I primi fiori di popcorn, dunque, segnarono uno dei passaggi epocali dell’intera vicenda umana: i primissimi germogli dell’agricoltura nel Nuovo Mondo.

Si possono far gonfiare o scoppiare molti chicchi di cereali, ma il titolo di endosperma più esplosivo spetta alla Zea mays everta. Questa varietà di granoturco ha piccoli chicchi ammassati e costretti in una spessa camicia di forza di fibre di cellulosa che trasmettono efficacemente alla minuscola pentola a pressione posta al loro interno il calore proveniente dall’esterno. Quando il cuore del chicco si scalda, l’umidità che vi è contenuta evapora e l’endosperma si ammorbidisce. La pressione interna al chicco sale fino a sette volte quella dell’atmosfera prima che la camicia di forza esploda. Quest’improvviso rilascio di pressione provoca l’esplosione dell’endosperma ammorbidito, facendolo prima gonfiare e poi indurire quando si raffredda. Se volete preparare degli ottimi popcorn sul fornello, lasciate scostato il coperchio sulla padella in modo da non sigillarla: se ciò accadesse, lo sbalzo di pressione che provoca l’esplosione dell’endosperma risulterebbe inferiore e vi ritrovereste con un mucchio di popcorn duri e gommosi invece che leggeri e vaporosi.

In ogni capitolo di questo libro abbiamo incontrato esempi dei modi in cui l’evoluzione trova utilizzi nuovi per vecchi strumenti e sovverte di continuo lo stratagemma messo a punto da un organismo per concedere un vantaggio a un altro. È proprio vero: la scienza supera la fantasia. Pensate a come il tubetto pollinico che rilascia lo spermatozoo al suo appuntamento con l’ovulo nel letto nuziale del fiore si sia evoluto dall’arnese con cui il maschio parassita succhiava cibo dall’ovulo non fecondato: non sembra la trama di un romanzo gotico? Quale bizzarro capriccio del fato alimentò la fantasia malata dei cacciatori di streghe di Salem con la segale infetta che rese rosso sangue il pane eucaristico? Eschilo avrebbe visto la vendetta di Zeus nella sorte del triste cipresso del Sahara che percorre il viale del tramonto evolutivo verso l’estinzione? Certo, gli sarebbe parsa la giusta punizione divina per un sistema riproduttivo in cui il polline usurpa il diritto di nascita del seme.

Ma altri ingannatori abbondano, come gli insetti che salgono senza biglietto a bordo dell’intricato sistema d’impollinazione delle yucche o dei fichi, oppure i trasposoni egoisti che si moltiplicano nel genoma del granoturco come in quello degli esseri umani. Pensate alla battaglia per il controllo sulla germinazione tra la ghianda e lo scoiattolo, o al modo in cui i lieviti avvelenano con l’alcol i semi d’orzo in fermentazione negandone i contenuti nutritivi ad altri microorganismi. Per migliaia di anni, e per soddisfare il nostro palato, abbiamo messo a frutto questa particolare strategia del lievito. Anche la cucina è sovversione evolutiva. Se vi piacciono i semi, potrete gustarveli ancora di più dedicando un pensiero all’affascinante viaggio evolutivo che li ha condotti fino al vostro piatto.

Letture

Se siete interessati alla scienza del cibo e della cucina, dovete assolutamente procurarvi una copia dell’ineguagliabile McGee on Food and Cooking di Harold McGee, Hodder & Stoughton, London 2004: è una meravigliosa commistione di scienza, storia e gastronomia. Anche Kenneth F. Kiple e Kriemhild C. Ornelas (a cura di), The Cambridge World History of Food, University of Cambridge Press, Cambridge 2000, è una fonte altrettanto indispensabile: spazia ben al di là di una semplice storia del cibo, e con i suoi due volumi saprà soddisfare ogni vostra possibile e immaginabile curiosità. Esistono moltissimi libri dedicati ai singoli ingredienti, ma vorrei consigliarvene due in particolare. Uno è di Ken Albala, Beans. A History, Berg, Oxford 2007; l’altro è di Betty Fussell, The Story of Corn, University of New Mexico Press, Albuquerque 2004.

tratto da: Jonathan Silvertown, La vita segreta dei semi, trad. it. Daria Restani, Torino 2010.

Titolo originale An Orchard Invisible. A Natural History of Seeds, Chicago 2009.

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Oliver Stone

5 Marzo 2023

“Trump ha abusato del suo ruolo e solo per questo dovrebbe essere buttato fuori”. Attenzione, però: “Ha detto bene dicendo che Washington era una palude. È una palude, e non c’è modo di cambiarla. L’America, come l’Italia, è bloccata nel sistema”. Oliver Stone, acclamato regista di Hollywood, è uno che conosce bene la politica: ha diretto una trilogia di film sui presidenti americani, da Jfk a George W. Bush, passando per Richard Nixon. E celebri sono anche le sue interviste documentario a Fidel Castro e Vladimir Putin, rappresentanti di due mondi, quello cubano e russo, che sono centrali nel discorso politico statunitense: “Sono rimasto scioccato e sorpreso che Trump e Biden fossero testa a testa – spiega a Fanpage.it -. Pensavo che sarebbe stata una vittoria schiacciante per Biden, onestamente. Lo pensavo davvero ma poi mi sono preoccupato perché durante lo spoglio dei voti stavano chiaramente accadendo due cose. Una era che c’era una resistenza incredibile dal cuore del Paese, possiamo chiamarle zone rurali-suburbane. Quello che è emerso è un forte messaggio di sostegno a Trump.

Come mai, secondo lei?
Sono rimasto sorpreso dal fatto che ci sia stato meno supporto per il cambiamento di quanto mi aspettassi. Mi aspettavo che il popolo americano fosse stanco di Trump, stanco del suo comportamento scorretto, ma non lo è. Trump è stato apertamente oltraggioso, nel suo ultimo discorso elettorale, quando ha detto: “Abbiamo vinto e dobbiamo smettere di contare i voti perché stanno rubando”. È vergognoso che il presidente degli Stati Uniti dica che stanno truccando le elezioni proprio mentre si stanno ancora svolgendo. È completamente fuori dalla legge. È come se stesse fingendo di poter essere sia il commentatore che il protagonista nel suo spettacolo. Ha abusato del suo ruolo e solo per questo dovrebbe essere buttato fuori.

È stato buttato fuori, con queste elezioni?
No, non è finita, Trump farà tutto ciò che può, non sa perdere, è quello che chiamano un pessimo perdente. Vorrà che ogni voto venga controllato e renderà tutto il più difficile possibile. Combatterà con le unghie e con i denti fino al 14 dicembre e qualcosa potrebbe andare storto. Spero di no perché mi ricordo le elezioni di Al Gore e George Bush. I democratici non si aspettavano che i repubblicani giocassero così sporco ma ora sono più preparati. Vorrei pensare che Trump se ne sia andato. Il mostro se n’è andato, almeno quello più grande di tutti, spero. Sembra come un film horror. Alla fine del film dici: oh se n’è andato, il mostro è morto, ma poi c’è un sequel e ritorna (ride ndr). Anche se ammettesse la sconfitta, penso che Trump sia abbastanza pazzo da candidarsi di nuovo nel 2024.

Nel frattempo?
Tornerà là fuori, nel mondo, e spero che portino avanti ogni causa contro di lui per tutta la merda che ha fatto. Venderà gli hotel o li costruirà nel midwest, in tutti gli stati rossi, e troverà un modo per trasformarli in un esperimento per fare soldi con la lower class.

Gli Stati Uniti sono sull’orlo di una guerra civile?
No, non vedo una guerra civile all’orizzonte. Penso che questa paura sia frutto dell’isteria dei media. Ci sarà qualche scontro, il punto di queste elezioni è che ora sono sotto gli occhi di tutti, il che rende difficile che i repubblicani le possano dichiarare una truffa, perché l’hanno già ripetuto così tante volte. Trump l’aveva detto: è un’elezione truccata. Ma le parole non significano niente: dirà altre cose, certo, ma non credo che avranno lo stesso impatto come se le avesse dette per la prima volta.

Molti media occidentali non sembrano accettare che Trump abbia tutta questa popolarità. Perché?
Trump è un motivo di imbarazzo. È il ragazzo che va alla festa e dice quello che vuole, dice delle cose offensive. Molte delle cose che stavano accadendo nel governo venivano coperte con discorsi educati, mentre lui è stato molto schietto e ha fatto incazzare molte persone per la sua franchezza. Ha rovinato lo spettacolo. Ha chiamato Washington una palude. Ha fatto la stessa cosa che ha fatto Reagan e ha detto bene dicendo che Washington era una palude. È una palude ma non c’è modo di risolverlo. L’America, come l’Italia, è bloccata nel sistema.

E come se ne esce, dalla palude?
Dobbiamo togliere i soldi dalla politica, cosa che ora non è possibile perché la Corte Suprema ha votato US Citizens VS United. È stata una decisione importante che ha permesso di far fluire i soldi delle corporation nelle elezioni e ora le aziende hanno il potere. Per gran parte della magistratura, le corporation negli Stati Uniti sono trattate come individui. Hanno diritti umani.

Crede che il Covid19 abbia mostrato le contraddizioni del nostro sistema?
Ha mostrato che il nostro sistema sanitario non funziona a livello nazionale. È molto chiaro. Ogni stato deve affrontarlo a modo suo e ogni ospedale stabilisce i propri parametri. Non sono affatto un esperto in questo, ma sembra disorganizzato. In Europa, poiché siete paesi più piccoli, penso che abbiate fatto un lavoro abbastanza buono.

Cosa pensi delle proteste in Italia contro il lockdown?
Personalmente, ho paura di questa regolamentazione eccessiva in cui il governo ora ha il potere di chiudere tutto in un paese quando vuole. È una forma di controllo a cui mi oppongo. Penso che sia necessaria una maturità. Il tasso di mortalità di queste infezioni è sceso di molto. Sono disorientato. Il Covid in una certa misura per me è una malattia come altre che sono arrivate nella nostra vita: SARS, MERS. Ci sono state una serie di malattie che fanno parte del pianeta, dell’inquinamento o di qualunque cosa le stia causando. Dobbiamo accettarle e assorbirle senza reagire in modo eccessivo. Esagerare è pericoloso. L’America ha esagerato nel 2001 (dopo l’attacco alle Torri Gemelle ndr), è stata una follia in questo Paese. Abbiamo approvato il Patriot Act.

La pandemia potrebbe minacciare le fondamenta politiche e civili su cui si reggono le democrazie liberali?
In questo periodo sto dando sempre molta importanza alla pace e alla guerra, penso che sia una questione cruciale. Se c’è pace e puoi mantenere le alleanze e non hai nemici, o cerchi di ridurre l’inimicizia attraverso la diplomazia, avremo un mondo molto più fluido o armonioso. Questo mondo non sta affrontando una guerra mondiale, non sta affrontando ciò che abbiamo affrontato in passato. Non ci sono malattie che stanno spazzando via la razza umana. Non ci sono problemi di sopravvivenza. C’è stato un miglioramento dell’istruzione e della salute in tutto il mondo. In generale ci sono esempi negativi, ma l’enfasi è stata posta sul pensiero apocalittico, sul giorno del giudizio e penso che sia importante per tutti rendersi conto che stiamo esagerando, i media stanno cercando di fare scalpore. I media vivono di cattive notizie. È sempre stato così, ma è peggiorato perché ci sono più media di quanti ne abbiamo mai avuti. Le cattive notizie vendono. E penso che molte persone abbiano smesso di seguire i media. Questo è quello che ha fatto l’America, molti di questi americani non leggono ed è per questo che a loro piace Trump, perché non vogliono sapere tutte le stronzate che fa, come il fatto che non paga le tasse. Quindi penso che se manteniamo un sistema di pace in tutto il mondo, non c’è niente che non possiamo superare, compreso il cambiamento climatico. Ci credo davvero e sto facendo un documentario su questo. Se combattiamo contro la Russia e li chiamiamo nemici e teppisti come ha fatto Biden l’altra sera e se stiamo dicendo più o meno la stessa cosa della Cina, non c’è via d’uscita da questo casino perché stiamo spendendo una fortuna in spese militari. Trilioni di dollari all’anno per prepararci alla guerra, il che non è necessario.

A cosa dovremmo prepararci, invece?
La vera guerra è la guerra contro il cambiamento climatico. In questo modo ce ne accorgeremo quando forse sarà troppo tardi e francamente l’America sta perdendo tempo e sprecando una quantità enorme di denaro. Quindi dobbiamo trasferire le risorse economiche. Sono preoccupato per Biden perché ha detto così tante cose stupide sulla Russia. L’unico problema che ho con lui riguarda la politica estera. Penso che la sua politica interna sia progressista ma come politica estera… Non so se ne preoccuperà subito perché avrà altri problemi sul piano nazionale, quindi è difficile dire dove vorrà andare ma si sa cosa ha fatto Obama. Obama alla fine ha invaso più paesi musulmani di altri e ha iniziato gli attacchi con i droni. Ha superato Bush con i bombardamenti. E poi Trump ovviamente ha cercato di superarlo a sua volta, ma senza entrare in guerra. Quindi la gente dice che Trump non ci ha portato in guerra. No, ma ci ha portato sull’orlo della guerra con la Corea. Ci ha portato di sicuro sull’orlo della guerra con il Venezuela e ora con l’Iran.

Dopo la caduta del muro di Berlino si è smesso di pensare che esista un mondo alternativo?
All’epoca potevano destabilizzare il nuovo regime russo sotto Eltsin e non erano preoccupati per la Cina perché non era ancora così potente. Abbiamo aumentato la rivalità con la Russia e la Cina, non solo perché abbiamo destabilizzato l’Ucraina ma perché abbiamo mantenuto le nostre armi, i nostri aerei e le nostre truppe militari, le truppe NATO, ai confini della Russia, più vicine che mai. I missili a medio-raggio che sono in Europa sono molto pericolosi per lo status quo in Cina, l’abbiamo completamente circondata e abbiamo speso una fortuna per bloccarla potenzialmente.

Non ci sono alternative quindi?
Non credo che il neoliberismo abbia funzionato. C’è questa idea in America che il modello americano sia la via pacifica, ma non lo è perché sottoponiamo a embargo paesi che non sono d’accordo con noi, guarda per esempio Cuba e il Venezuela. È orribile. Non si possono portare medicine a Cuba, è molto difficile. Abbiamo imposto sanzioni alla Russia e all’Iran, ora contro la Cina. L’America non sta andando verso un’armoniosa cooperazione mondiale. Vogliono essere il fattore dominante. Non vogliono avere partner. Bush lo ha chiarito nel 2000 e ora è stato ribadito con Trump. Nessun partner. Prendiamo solo ostaggi. L’Italia è un ostaggio, un grande ostaggio a causa delle enormi basi navali che abbiamo lì. L’Europa è un ostaggio. Questo è un problema fondamentale che si ingrandirà in futuro. Non può essere risolto perché alcuni paesi hanno perso la loro sovranità, perlomeno alcuni. Alla Russia e alla Cina non gli si può dire che devono inchinarsi al modello americano. E del resto non puoi dirlo all’Iran o alla Corea del Nord. Voglio che questi paesi difendano i loro diritti perché è cruciale per la libertà del mondo che esistano modi di vivere alternativi. Ti posso garantire che sono veramente sinceri riguardo alla loro rivoluzione a Cuba e per questo purtroppo hanno sofferto molto.

In merito alla questione fake news e social media. Cosa pensi della censura che stanno attuando alcune piattaforme social?
Ci sono un sacco di fake news in America dalla Seconda Guerra Mondiale. Si potrebbe dire che l’intera Guerra Fredda, a mio avviso, era una fake news perché volevamo rafforzare l’esercito dopo la guerra. Quindi abbiamo reso l’Unione Sovietica molto peggio di quello che era e molto più minacciosa. E continuiamo farlo e a dire che i russi invaderanno l’Europa. Che cazzo vorrebbero dall’Europa? Non ne hanno alcuna intenzione e la Russia non è più l’Unione Sovietica, è un’economia di mercato. È folle il concetto di fake news. Cos’è? Esiste da secoli. Quando qualcuno vuole trovare un altro nemico si creano fake news. Dicono chi è il cattivo, che ha fatto questo e ha fatto quello. Gli spartani facevano così con gli ateniesi. Sono sempre notizie false, cosa c’è di nuovo? Stanno incolpando Facebook. È ridicolo. Facebook dovrebbe essere solo una fonte gratuita e open source. Le persone vanno lì e dicono quello che vogliono. Sono d’accordo che l’incitamento all’odio non è una buona cosa e che dovrebbe essere etichettato o bandito. Ma quando inizi a giocare con le sfumature della censura diventa molto pericoloso.

Penso ad esempio al caso del giornalista Glenn Greenwald che ha lasciato il giornale che ha co-fondato, The Intercept, perché non gli hanno permesso di pubblicare un articolo sul presunto scandalo che coinvolge la famiglia Biden in Cina e in Ucraina.
Penso che Glenn Greenwald avesse ragione. Penso che la storia fosse vera. Non voglio dire che sia stato lo scandalo più grande ma è comunque uno scandalo e anche Trump ha avuto i suoi scandali e la gente li ha ignorati, ma sono stati riportati dalla stampa.

Cosa pensi del processo ad Assange?
Obama ha portato avanti le prime accuse contro Assange ed i suoi diritti sono stati violati in ogni modo possibile. Il caso Russiagate è un’invenzione, Assange ha ottenuto le informazioni da un insider del comitato nazionale del partito democratico e l’FBI non ha mai investigato su questo. Hanno accusato Assange di aver passato le informazioni alla Russia ma non è vero, tecnicamente non regge. Trump voleva dargli la grazia se fosse venuto a testimoniare su chi fosse la sua fonte contro Hillary Clinton, ma Assange non ha fatto quell’accordo perché è un uomo onesto e non rivela le sue fonti. Queste erano le regole d’ingaggio di WikiLeaks. Assange è odiato aiutato dai sostenitori di Hillary Clinton per aver danneggiato la sua candidatura e la possibilità di essere eletta. Allo stesso tempo è odiato dai repubblicani perché veniva visto come un piantagrane per l’esercito e per gli Stati Uniti, un uomo che ha rivelato dei segreti, come Snowden. Snowden e Assange sono degli eroi per me perché abbiamo bisogno di sapere come opera il nostro governo, dobbiamo sapere cosa stanno facendo a nostro nome. E non stanno facendo cose buone, il governo sta facendo delle brutte cose, molte brutte cose, che tra l’altro ci costano una fortuna.

Di Fabrizio Rostelli, Intervista a Oliver Stone, Fanpage

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Natura morta

5 Marzo 2023

La filosofia nasce in Grecia, dice Maria Zambrano, in quell’istante in cui una rosea luce d’alba comincia a rischiarare il paesaggio di ulivi selvatici, mirti e cipressi: la timida luce, priva di violenza, che trionfa sulle tenebre con il suo semplice mostrarsi. È da questo chiarore che sono apparsi, tersi e allo stesso tempo opachi, come se fossero fatti anche di materia umana, gli dèi omerici. Il sole, divinizzato come un monarca assoluto, si affermerà più tardi, imponendo un ordine rigoroso alla Terra. Di questa luce d’alba è figlia l’idea di physis.

Il modo migliore per tradurre physis è «natura». Ma nel pensiero di Eraclito e dei primi filosofi greci la physis non è quello che la natura è per noi, ovvero tutto ciò che non appartiene alla sfera dell’umano, alberi, animali, acqua o vento… La physis è molto di più. È l’essere e il movimento. È tutto ciò che cresce e si manifesta nel tempo. L’immagine che lo esprime in modo più trasparente è un fiore che si schiude, fa irruzione sulla scena del mondo dispiegandosi nello spazio, poi appassisce e infine scompare. La physis comprende ciò che noi chiamiamo «natura» ma anche gli uomini e le stesse divinità. E nel contempo i sogni, le idee, il possibile, il visibile come l’invisibile, le cose assenti insieme a quelle presenti. In una parola, la vita.

La physis non è quindi molto lontana da quello che in Cina era chiamato tao: la via, il flusso ininterrotto che scorre in ogni cosa presente nell’universo, principio e fine, e al di fuori del quale nulla può esistere.

*

I saggi taoisti, già diversi secoli prima di Cristo, avevano messo in guardia: l’uomo porta sempre in sé la tentazione di vedersi al di fuori del mondo vivente, rischiando sempre di smarrirsi. Occorre resistere alla presunzione dell’io, abbandonarsi al flusso di vita per restare nella virtù.

Sappiamo che le cose sono andate diversamente. La storia dell’Occidente è la storia del nostro allontanamento progressivo dal nostro ambiente. La tradizione giudaico-cristiana pone i figli di Dio al di sopra, e quindi fuori, della natura. Nel mondo romano l’uomo già non appartiene più a quel kosmos che per Pitagora era «ordine» e «bellezza», e la parola latina «natura» designa il mondo del non-umano: quel mondo colmo di misteri da spiegare che va padroneggiato e che finirà per diventare, nella modernità, oggetto. E forse non poteva andare diversamente: il mondo della physis l’umanità lo ha lasciato alle sue spalle, come fa ognuno di noi con la propria infanzia, dimenticando il primo semplice stupore di fronte ai fenomeni e al meraviglioso.

Ma se i primi filosofi greci avevano ragione; se, malgrado la polarità natura/cultura sulla quale abbiamo fondato la nostra concezione e il nostro uso del mondo, non siamo che creature della physis, è da noi stessi che abbiamo finito per separarci.

L’individuo moderno, smarrito nel labirinto della sua stessa mente, senza più riferimenti in un universo ormai privo di frontiere, condannato a cercarsi e a definire senza sosta il proprio posto nel mondo, è il prodotto finale di questo sradicamento. La parte più profonda di lui, quella che egli vede ancora, non senza imbarazzo, come natura, cioè la vita del corpo e il suo puro esistere animale, resta muta. Se si esprime lo fa con suoni inarticolati, come ogni animale ferito. Lamenti che incutono paura perché ad ogni istante minacciano di trasformarsi in grido.

Così, alienati dalla natura di cui siamo diventati «padroni e possessori», come voleva Cartesio, abbiamo perduto quella capacità di abitare poeticamente la Terra di cui parla Hölderlin in una celebre poesia. E cosa vuol dire abitare poeticamente se non rispondere con creatività alla creatività costante della vita; accettare il mistero dell’esistenza non come limite ma come apertura, come promessa; riscoprire il nostro appartenere al mondo, al visibile e all’invisibile, e il nostro essere radicati nel suolo, anche se con la testa tra le nuvole, non molto diversamente dagli alberi. E provare, comme suggerì l’ecologo Aldo Leopold, a «pensare come una montagna».

*

Ecco che si delinea allora la nostalgia moderna delle origini, il ricordo di un tempo, sogno o realtà, in cui gli esseri umani vivevano in armonia con il cosmo che come una matrice li conteneva: l’Eden perduto per peccato d’orgoglio, l’Età dell’oro, l’infanzia felice, il bosco delle origini…

Per William Wordsworth – il poeta che sognava di ridiventare «un pagano nutrito di religioni antiche» – occorreva abbandonarsi alle suggestioni della natura per ritrovare il proprio posto nel flusso vitale del cosmo:

Udivo mille note confuse fra di loro,

mentre in un bosco stavo sdraiato,

in quel dolce umore quando gradevoli pensieri

portano tristi pensieri alla mente.

Alle sue belle opere la Natura univa

l’anima umana che scorreva in me;

e il mio cuore si affliggeva pensando

a ciò che l’uomo ha fatto dell’uomo.

Perché l’unità ritrovata con la natura non dura. I pensieri e i sentimenti che suscita il bosco, capaci di curare corpo e anima, conducono inevitabilmente alla malinconia. L’innocenza è perduta per sempre e il felice paganesimo dei tempi antichi è da troppo tempo alle nostre spalle. Nulla, dice il poeta, può riportare «l’ora di splendore nell’erba». Non restano allora che questi preziosi istanti in cui il bosco si è fatto musica o quelli in cui c’è stata poesia, come un risorgere momentaneo della natura in noi.

*

L’ecologia riapre oggi la questione del nostro posto nel cosmo presentandola come emergenza, una crisi che esige una risposta da ognuno di noi. Ma invano tentiamo di reagire al naufragio ambientale utilizzando in modo più parsimonioso le «risorse naturali», preservando spazi di natura incontaminata o cercando di rimediare tecnologicamente agli squilibri che grazie alla tecnologia continuiamo a introdurre nel mondo.

Invano, perché l’unica risposta possibile sarebbe tornare ad abitare poeticamente la Terra: ritrovare il nostro posto in seno al vasto ecosistema che è la realtà in cui siamo immersi, la sola veramente nostra. E ristabilire un sentimento di fratellanza con tutto ciò che vive su questa Terra, sull’esempio del monaco zen Ryo¯kan o, più vicino a noi, Francesco, il santo che conosceva la lingua degli animali, delle piante e persino quella del fuoco o dell’acqua.

Questo ci offre il giardino. Un ritorno al mondo incantato della physis. La possibilità di abitare la Terra con umiltà, come suoi figli, affidando alle piante, all’acqua e agli animali la cura dell’anima mutilata. Una poiesis: un agire poetico.

Tratto da: Marco Martella, Tornare al giardino, Ponte delle Grazie editore

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A Zelensky unificati

21 Febbraio 2023

Domenica il Tg1 intervistava in esclusiva Zelensky. Ieri il Corriere intervistava in esclusiva Zelensky. Invece Repubblica aveva un’intervista esclusiva a Zelensky uguale a quella del Corriere. Il Sole 24 ore, per distinguersi, aveva un’intervista esclusiva a Zelensky uguale a quelle di Corriere e Rep. Viceversa La Stampa aveva una sintesi delle interviste esclusive di Corriere, Rep e Sole degradate a “conferenza stampa”. Dal canto suo, il Messaggero aveva ampi stralci del verbo di Zelensky “ai giornalisti italiani”. Al contrario Libero aveva il meglio (si fa per dire) delle interviste di Tg1 e Corriere. Noi, non facendo parte del Giornale Unico, abbiamo come il sospetto che l’Intervista Unica l’abbiano letta in pochi, perché Zelensky ripete sempre tre concetti: “Armi, armi, armi”. Il che, per il presidente di un Paese che da 12 mesi si difende dalla brutale aggressione russa, è comprensibile. Ma non esime gli intervistatori dal dovere di porre domande: sennò basta Amadeus. E di cose da chiedergli, da amici e fornitori d’armi, dovremmo averne parecchie.

1) Come può pensare Zelensky di entrare nell’Ue tenendo fuorilegge gli 11 partiti di opposizione? 2) Nei giorni pari ci comunica che la Russia ha perso la guerra, ha finito missili e munizioni, le sue truppe sono in ritirata, Putin forse è già morto; e in quelli dispari annuncia che i russi sono pronti a sferrare una devastante offensiva con 3-500 mila nuovi soldati e un massiccio impiego di aviazione, ragion per cui Kiev necessita subito di tank, jet, sommergibili e no fly zone, altrimenti Putin stravince. Come stanno effettivamente le cose, anche alla luce delle stime del generale Usa Mark Milley, secondo cui l’Ucraina non può riconquistare le regioni occupate? 3)Perché Kiev vieta a 8 reporter italiani di fare il loro lavoro in Donbass? 4) Il Pentagono accusa il suo governo di aver ucciso a Mosca con un’autobomba Darya Dugina, figlia 29enne del filosofo putiniano: che c’entra quell’atto terroristico col diritto all’autodifesa? 5) Perché, pur sapendo per primo che il missile caduto in Polonia il 15 novembre era ucraino, ripeté per tre giorni che era russo anche dopo le smentite di Duda e Biden, incitando la Nato a scatenare la terza guerra mondiale? 6)In questi 12 mesi si è detto più volte pronto a negoziare con Putin un compromesso che escludesse la Crimea e includesse la neutralità dell’Ucraina e l’autonomia del Donbass; poi il 4 ottobre ha vietato per decreto ogni negoziato con Putin: chi o cosa gli ha fatto cambiare idea? E dopo quanti morti (siamo a 300 mila) deciderà di riparlarne? A queste domande leggeremmo volentieri le risposte. Ma abbiamo come il sospetto che le regole d’ingaggio prevedano solo interviste senza domande.

Marco Travaglio

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Venezia, una macchina per pensare.

10 Febbraio 2023

“Ghetto” è una parola veneziana, poi diventata universale. Significava “fonderia”, e fu in quell’area, dismessa quando le sue funzioni produttive si spostarono all’Arsenale, che gli ebrei vennero insediati nel 1516. In un saggio ammirevole (nel volume Lo straniero, trad. it. 2014), Richard Sennett ha scritto che l’esperienza degli ebrei nel ghetto veneziano indicò un modo per legare cultura e diritti politici destinato a durare nel tempo […] La segregazione si trasformò in un valore umano positivo, come se i segregati fossero stati risparmiati da un contagio […] e la fede in una comunità organica consolidò il collegamento fra diritti economici e libertà di parola.

In quella che era allora «la città piú cosmopolita d’Europa», anzi «la prima città globale del mondo moderno», la comunità del ghetto seppe sviluppare «un senso di solidarietà reciproca» e «forme di rappresentanza collettiva» imperniate sulla consapevolezza dei propri diritti. Questo «paradosso della forma urbana» di Venezia (una comunità di esclusi che elabora una forte autocoscienza) è secondo Sennett la chiave per intendere il formarsi di «pratiche sociali che trascendono le formulazioni giuridiche e l’egemonia dello Stato»: la capacità discorsiva degli esseri umani diventa l’arma decisiva per rivendicare «il diritto di parola e l’organizzazione dello spazio delle loro vite». La libertà di parola tende a coincidere con il diritto alla città.

Oggi un cieco presentismo prono al dominio dei mercati marginalizza ogni dissenso respingendolo in nuovi ghetti. Per esempio, quello dei veneziani che non solo resistono nel centro storico ma lo difendono dalla monocultura del turismo e dalle mode di un’architettura corriva; o quello di chi, a Venezia e fuori, rivendica la pluralità dei modelli del vivere urbano e la qualità della forma urbis storica. Questa condizione minoritaria, da stranieri «risparmiati dal contagio» della cultura dominante, può diventare una forza. Ma lo sarà solo se l’assediata comunità dei pochi saprà acquistare consapevolezza, sviluppare solidarietà sociale e capacità progettuale, esercitare il diritto di parola. Le pratiche sociali sviluppate dalle associazioni di cittadini, la rivendicazione del diritto alla città (a scala mondiale), la consapevolezza degli alti orizzonti della Costituzione (a scala italiana), la conoscenza locale dei problemi di Venezia e la diffusione delle informazioni, la capacità argomentativa, il nesso fra diritti economici dei cittadini (come singoli e come comunità) e “capitale civico” accumulato nel tempo: è a partire da queste parole d’ordine che è possibile, a Venezia come altrove, ricreare uno spazio comunitario, una rinnovata coscienza di sé, una città che sia corpo e anima, spazio della cittadinanza, visione del futuro.

“Città fra le città”, Venezia è paradigma della città storica, ma anche della città moderna (per esempio Manhattan). È una “macchina per pensare” l’idea di città e le pratiche della cittadinanza, la vita urbana come sedimentazione storica, come esperienza dell’oggi, come progetto di un domani possibile. I suoi problemi hanno una complessità senza pari per il rapporto con l’ambiente circostante, per la sproporzione fra la suprema importanza della città storica e la cronica incapacità delle pubbliche amministrazioni, per il declino demografico, economico, culturale che l’affligge. Tuttavia, guardare a Venezia pensando solo a Venezia è sviante: i processi che vi sono in atto, in particolare lo svilimento e spopolamento della città storica, la retorica di una modernità standardizzata e l’ossessione del lucro, si ritrovano identici anche altrove. Come un malato particolarmente grave, Venezia esibisce piú di altre città le piaghe di un morbo assai diffuso; come un malato particolarmente famoso, attira piú di ogni altra l’attenzione del mondo. Perciò quel che accade a Venezia richiede speciale vigilanza come sintomo e laboratorio del destino delle città storiche.

Venezia è sommo esempio di un equilibrio profondamente turbato fra centro e periferia, fra natura e cultura (fra città e Laguna); ma anche dell’avidità e della corruzione che trasformano i problemi della città in occasione di profitto privato. La terribile alluvione del 1966 ne mise in evidenza la fragilità davanti a maree e acque alte; nacque cosí nel 1976 l’idea di proteggerla con un sistema di dighe mobili da collocarsi alle bocche di porto, il MoSE. Presentata allora come una tecnologia avanzatissima, questa “grande opera” è invecchiata prima di nascere, ma invecchiando ha messo in evidenza un perverso rapporto tra politica e imprese. Ha offerto ai governi il destro di proclamarne la trionfale inaugurazione: inderogabilmente entro il 1995, annunciò Craxi nel 1986. Ma nel 2014 siamo ancora lontani dalla fine dei lavori, e intanto la politica ha ignorato non solo i dubbi di esperti e associazioni, ma perfino il parere negativo della Commissione di impatto ambientale (1998). Oggi sappiamo perché, grazie alle recentissime rivelazioni sulla corruzione e lo spreco di risorse pubbliche che il MoSE ha innescato. Le indagini hanno coinvolto il sindaco in carica (Orsoni), un ex presidente della Regione Veneto ed ex ministro dei Beni culturali (Galan), l’antico Magistrato alle Acque, la Corte dei Conti, il Consorzio di imprese Venezia Nuova, a cui i lavori del MoSE sono stati affidati in regime di monopolio, e numerosi altri politici, pubblici ufficiali, istituzioni, professionisti, imprese. Insomma, il MoSE è stato
voluto piú dalle imprese cui è stato concesso di costruirlo in condizioni di monopolio e dai politici e funzionari pubblici che ne traggono grande e illecito beneficio, che dai cittadini veneziani per la cui protezione è stato progettato e costruito […] Nel frattempo il MoSE ha inghiottito 6,2 miliardi di euro di denaro pubblico, un terzo dei 18,7 miliardi spesi per le opere di salvaguardia della Laguna dal 1984, cui andranno aggiunti altri 1,5 miliardi per la manutenzione. Ne doveva costare meno di 2 […] e la nostra stima è che i maggiori costi dovuti al “peccato originale” di aver affidato i lavori in monopolio ammontino a oltre 2 miliardi di euro.

Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri, a cui si devono queste parole (nel loro impeccabile Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia, 2014), rilevano che illegalità e corruzione non bastano a spiegare quanto è accaduto: «infrazione delle regole e corruzione delle regole non sono fenomeni indipendenti l’uno dall’altro», anzi «le leggi sono state corrotte per arricchire imprese e politica». In «assenza di qualunque considerazione reale sulla fragilità di questo delicato territorio», l’alleanza di politici e imprese ha perseguito un solo «scopo, quello di massimizzare la rendita di cui ci si può appropriare vendendo il nome di Venezia». Il rapporto costi – benefici, all’inizio favorevole, è ora capovolto, e i vantaggi del MoSE saranno in ogni caso nettamente inferiori al suo costo. L’enormità dei fenomeni corruttivi ha perfino indotto il governo Renzi a decretare dopo oltre cinque secoli di vita la soppressione (giugno 2014) del già glorioso Magistrato alle Acque, che aveva resistito alla fine della Serenissima, al governo austro-ungarico, ai mutamenti di regime dell’Italia unita.

Eppure, chi vuole continuare a mungere la vacca grassa dei finanziamenti pubblici ha già predisposto, dopo la fine dei lavori, non solo le ricche miniere della manutenzione dello stesso MoSE, ma anche una nuova “grande opera” da 2,8 miliardi di euro, il “porto offshore”. In prima linea le stesse imprese del MoSE, con la stessa concordanza d’amorosi sensi rigorosamente bipartisan: «l’offshore farà da catalizzatore allo sviluppo della città» (Renato Brunetta, Forza Italia); «Venezia non deve rinunciare allo sviluppo, bisogna uscire dalla trappola della conservazione» (Pier Paolo Baretta, Pd).

Il nuovo porto comprenderà un terminal petroli con banchine di 2000 mq che accoglieranno fino a tre superpetroliere, un terminal per i container, una diga lunga quattro chilometri, realizzati con soldi pubblici grazie alla Legge Speciale del 1984, una legge che autorizza interventi finalizzati alla tutela di Venezia e dei suoi beni paesaggistici e culturali (Giavazzi-Barbieri).

«Uscire dalla trappola della conservazione», dunque, vuol dire usare una legge di tutela per poter «tutto aprire e sventrare, scavare canali rettilinei, cementificare sponde e alzare capannoni» (Italia Nostra). La vicenda MoSE mostra che i problemi di Venezia sono serviti da pretesto per sbandierare la retorica della salvaguardia, ma in realtà hanno innescato giganteschi meccanismi di rapina, gli stessi che sono all’opera anche per altre piú o meno pretestuose “grandi opere”, tanto è vero che «le indagini della magistratura su Expo 2015 hanno coinvolto le medesime imprese messe sotto accusa per il MoSE» (Giavazzi-Barbieri).

Nella corruzione della vita pubblica come su cento altri fronti, Venezia è dunque un caso di scuola. Non solo a Venezia ma anche altrove la città storica si svuota e le istituzioni favoriscono la monocultura turistico-alberghiera e l’aumento dei prezzi delle case, scatenando una sorta di “pulizia etnica” di classe che espelle dalle città i giovani e i meno abbienti. Non solo a Venezia ma anche altrove le «velleità di architetti indegni di questo nome» (Tafuri) inseguono facili guadagni gonfiando le periferie, accettando qualsiasi commissione anche a costo di deturpare i centri storici, adeguandosi pedissequamente alla retorica dei grattacieli. Non solo a Venezia ma anche altrove la comunità dei cittadini è straniera in casa propria, perché la città e il territorio sono intesi come terreno di caccia e di rapina. Non solo a Venezia ma anche altrove declina ogni forma di lavoro creativo, “generazioni perdute” di giovani sono costrette a emigrare, langue la coscienza civile, viene esiliato il diritto alla città. Piú di ogni altra città storica, Venezia «lancia al mondo della modernità una provocazione insopportabile» (Tafuri); e proprio per questo è vittima, negli studi di architettura, di una vivisezione che la tratta come un gigantesco preparato anatomico da ridurre all’osso, per sperimentarvi spericolate decostruzioni (ne parla Teresa Stoppani, Paradigm Islands: Manhattan and Venice, 2011). Ma de-costruire Venezia (concettualmente) come una città di forme fluide e a-storiche da leggersi alla luce di un’estetica presentista è il primo passo per de-costruirla (cioè distruggerla) fisicamente. L’impegno etico dell’architetto dev’essere precisamente l’opposto: non pensare nemmeno per un istante la forma della città senza lo stile di vita, il lavoro, il futuro dei suoi cittadini. E proprio per questo pensare Venezia vuol dire pensare la città storica, anzi qualsiasi città.

Pensare la città è un esercizio non solo della mente, ma della democrazia e della politica, che richiede conoscenza del presente, ma anche uno sguardo lungo sul passato e sul futuro. La città di oggi è una mappa intricata e fluida da cui bisogna partire per capire – primo – come la città è fatta e – secondo – come la si può rifare […] Tanto piú l’immagine che trarremo dall’oggi sarà negativa, tanto piú occorrerà proiettarci una possibile immagine positiva verso cui tendere […] senza perdere di vista quale è stato l’elemento di continuità che la città ha perpetuato lungo tutta la sua storia, quello che l’ha distinta dalle altre città e le ha dato un senso. Ogni città ha un suo “programma” implicito che deve saper ritrovare ogni volta che lo perde di vista, pena l’estinzione. Gli antichi rappresentavano lo spirito della città evocando i nomi degli dèi che avevano presieduto alla sua fondazione […] nomi che erano personificazioni d’attitudini vitali del comportamento umano o d’elementi ambientali (un corso d’acqua, una struttura del suolo, un tipo di vegetazione), che dovevano garantire la sua persistenza attraverso tutte le trasformazioni successive, come forma estetica ma anche come emblema di società ideale. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi […] ma deve, al momento giusto, ritrovare i suoi dèi (Italo Calvino, Gli dèi della città, 1975).

Gli dèi di Venezia sono piú esigenti di quelli d’ogni altra città, perché piú vario e produttivo fu qui l’agire degli uomini nella storia, e soprattutto perché piú grande è qui la sfida dell’ambiente naturale, la sua simbiosi con la città. Perciò questa città preziosa, unica, difficile nel suo singolarissimo rapporto con le acque e con la terraferma, in controtendenza perché “naturalmente” pedonale e senza automobili, è il simbolo massimo, a livello planetario, della misura umana della città antica. Perciò essa ci provoca e ci interroga: dobbiamo preservare questa esperienza dello spazio, o diluirla assoggettandola al pensiero unico che vorrebbe imporre un solo modello di neocittà identiche in tutto il mondo?

Nulla è cosí mainstream, politicamente corretto, socialmente obbligato quanto esaltare e praticare la diversità. Diversità di genere, di orientamento sessuale, di religione, di cultura… Ma questa diversità, che vale moltissimo a livello delle scelte individuali, vale assai meno per le città, che sono invece dominate da una crescente smania di omogeneizzarsi. Incarnazione della città storica e dei suoi stili di vita, Venezia è la cartina di tornasole del processo di dissoluzione dell’antica forma urbis, condannata ormai a una condizione residuale. Anche il suo spopolarsi, pilotato dalle istituzioni che dovrebbero impedirlo, ha uno scopo inconfessato ma evidente: cancellarne la diversità, riducendo gli spazi creati per la conversazione civile a passivo scenario del turismo. A Venezia come altrove, per salvare la città storica non basta riattivare la memoria del passato né assaporare il gusto del presente. Non basta nemmeno protestare: la mossa decisiva è riattivare la pratica della cittadinanza e il diritto alla città, elaborando un progetto che preservi l’unicità di questa (come di ogni altra) città e che abbia come regole inaggirabili non solo la cura del contesto e dell’ambiente, ma anche la priorità del valore d’uso della città sul valore di scambio, la funzione sociale della proprietà, il diritto dei cittadini al lavoro creativo, il diritto dei piú giovani alla casa e al futuro.

Città di antico cosmopolitismo, Venezia può essere anche terreno di prova di una concezione inclusiva della cittadinanza che sia adeguata al nostro tempo. Se la città è produzione di uno spazio sociale e culturale, teatro dei pensieri e dei diritti, laboratorio del futuro, è piú che mai importante concepire le pratiche di cittadinanza anche in funzione dei nuovi italiani che, venendo dall’Europa o da altri continenti, fanno parte del tessuto civile della nostra società. Il loro numero crescente e il loro rilievo demografico ne fanno attori essenziali nella città (e nell’Italia) di domani: nulla del nostro patrimonio e del nostro paesaggio potrà essere salvato se anche questi nuovi italiani non ne saranno consapevoli, se la scuola e la comunità non sapranno trasmettere lo spirito della città a chi ne abita il corpo. L’ingannevole cosmopolitismo delle folle di turisti che invadono Venezia non contribuisce in nulla a creare questi nuovi, necessari orizzonti di una cittadinanza che non sia solo ius sanguinis, e nemmeno soltanto ius soli, ma (secondo una felice espressione usata recentemente da Michela Murgia) ius voluntatis, la consapevole volontà di sentirsi cittadini. Per Socrate (nel Critone) la cittadinanza è un patto fra il cittadino e la sua patria, implica una scelta e comporta obblighi: chi resta nella polis (nella comunità) deve seguirne le leggi, o se no adoprarsi perché vengano cambiate. Questa concezione, che ad Atene era legata alla condizione di cittadino nativo (non-schiavo, non-forestiero) dev’essere oggi riempita di nuovo contenuto, estendersi agli immigrati che scelgano di restare, farne membri di una stessa comunità di saperi e d’intenti.

Di un nuovo patto di cittadinanza c’è bisogno, a Venezia e non solo, sia per chi provenga da famiglie del luogo, sia per chi venga da lontano. E un nuovo patto di cittadinanza, a Venezia, deve cominciare da un forte impegno di chi se ne sente cittadino per stimolare le istituzioni e i politici a uno sguardo creativo sulla città. Far vivere la città storica, proiettarla nel futuro vuol dire elaborare nuove politiche per invertire la logica perversa dell’esodo favorendo la residenzialità dei giovani con forti incentivi anche fiscali. Vuol dire arrestare lo sfrenato riuso turistico-alberghiero degli edifici e la proliferazione delle seconde case. Vuol dire incoraggiare le attività produttive e le manifatture, sostenendo il lavoro creativo e moltiplicandone le possibilità e le occasioni. Vuol dire ricongiungere città storica, Laguna e terraferma differenziando le funzioni, rilanciando i suoli agricoli e le valli da pesca, riutilizzando gli edifici vuoti o in rovina, incentivando la ricerca e la formazione professionale e universitaria, favorendo la residenzialità degli studenti. Vuol dire cercare modelli, analizzare situazioni, valutare opzioni, prendere iniziative di qualità come la Biennale o le università, e non (come le istituzioni pubbliche hanno spesso fatto in questi anni) mettersi al servizio delle “incoercibili forze del mercato”. Vuol dire sancire come prima regola del gioco il diritto alla città e la priorità del bene comune.

Se pensiamo Venezia come paradigma della città storica, anche la sua bellezza può diventare un argomento. La bellezza non è una merce, ma un patrimonio spirituale. Non possiamo accettare un processo per cui il bello si trasforma in semplici “cose”, il bosco sacro è ridotto a legname, le immagini diventano cose che hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non sentono; gli ideali che non si possono ridurre a realtà facilmente comprensibile si considerano finzioni, e ogni rapporto con essi appare gioco gratuito, servitú verso gli oggetti o superstizione (Hegel, Fede e sapere, 1802).

Pensare la città storica vuol dire pensare la comunità umana, il diritto al lavoro e il diritto alla città. Amministratori, committenti, architetti devono rinunciare a qualsiasi architettura di sopraffazione, affermare coi progetti e coi fatti che una modernità non violenta è possibile. Ai veneziani, ma anche ai cittadini del mondo che hanno a cuore Venezia, spetta un compito vitale e una grave responsabilità: mostrare e dimostrare che la diversità e la bellezza non sono una pesante eredità del passato, ma uno straordinario dono per vivere il presente e una straordinaria dote per costruire e garantire il futuro. Mostrare e dimostrare che Venezia, per esistere nel nostro secolo, non deve diventare Chongqing, anzi deve esserne la negazione. Che nel mondo in cui viviamo c’è posto per la diversità di modelli urbani, di culture, di stili di vita; e che quello elaborato a Venezia ha diritto di cittadinanza, di stare al mondo non solo oggi ma anche domani. Perché se Venezia muore non sarà solo Venezia a morire: morrà l’idea stessa di città, la forma della città come aperto e vario spazio di vita sociale, come creazione di civiltà, come impegno e promessa di democrazia.

Tratto da: Salvatore Settis, Se Venezia muore, Giulio Einaudi Editore

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LA PAROLA 

2 Febbraio 2023

Degli artisti per conto mio, conta di più la vita: come di tutti conta soltanto la vita più che le opere. Tutti dovrebbero sempre raccontare la loro vita e scrivere diari immensi, anzi tutti dovrebbero soltanto vivere, voglio dire sapere di vivere. Le opere sono cadaveri vaganti. Invece io vorrei sapere com’è nata la vita di ogni polvere che c’è sotto i tumuli di tutte le necropoli del mondo. Per questo non vado mai a vedere i musei e quando ci vado mi viene una melanconia infinita: penso a tutto quello che c’è dietro alla opere.

ETTORE SOTTSASS

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CIORAN ADDIO

1 Febbraio 2023

Cessate, da un pezzo, le visite a Cioran e Simone, nella loro mansarda di rue de l’Odéon; già un paio d’anni fa, prima ancora, la sua memoria prodigiosa s’inceppava spesso, e la paziente compagna era pronta a rattopparne i buchi improvvisi… Ora il calvario di entrambi è finito. Il vecchio amico non lo rivedrò più.

Ha avuto il tempo di veder sparire tutti i suoi più importanti amici di gioventù: Eliade, Beckett, Ionesco, che come lui lasciano un segno nel secolo, e sono un tratto della sua genialità e del suo grido in forma di pensiero. Ionesco gli telefonava ogni giorno per raccontargli la propria angoscia: non sono certo la parola e la spalla degli ottimisti che possano fornire un aiuto quando il mal di vivere prende alla gola.

I tetri Balcani che lo videro nascere ottantaquattro anni fa sono di nuovo «primi nelle stragi» alla sua morte, in Europa, e soffrono gli sia impedito lo sterminio totale al quale agognano per sfogare una volta per tutte il loro bisogno di crudeltà ereditario. Esattamente come pensa Cioran in Storia e Utopia. La guerra continuamente interrotta s’intorva in un incalcolabile stillicidio di crimini. La mano assassina che non viene tagliata ma solo ostacolata è tutta crampi di voglia d’uccidere, e dove arriva a colpire non c’è salvezza. Nella camicia di forza della «trattativa» l’odio compresso cova le sue migliori imprese. Utopia, pensare che la guerra di Bosnia si possa fermarla con le sanzioni e il ragionamento; utopia parallela, credere che una strage senza più freni la risolverebbe, perché – osserva Cioran – il nemico non è mai a terra, il nemico continua a vivere al di là della sua distruzione materiale, e ogni nuovo nato, poi, ne porterà i tratti. Perciò il Serbo vincitore è un vincitore inappagabile, turbato – ancor prima di aver svuotato tutte le case del nemico – dal suo sarcasmo futuro. La storia è tutta quanta utopistica, un non-luogo di perdizione…

Coi libretti cioraniani si vive in intimità e comunione. L’impostura che ci grava addosso peggio della cappa di smog, là finalmente, in quelle pagine di duro lamento, tace. A poco a poco, il suo profilo dell’uomo com’è ora, come è stato fatto dalla civiltà, dalla storia, dalla religione, dal progresso, s’impone come una specie di giustizia allegra, di esecuzione capitale felice e festosa, simile a quella incisa da Hogarth. Alla fine di un paragrafo, talvolta, viene voglia di urlare di gioia come quando alla fine di Oliver Twist sale sulla forca Fagin. Credere nell’uomo è veramente l’idolatria più maledetta, il peccato dei peccati, l’errore degli errori. La discriminazione tra credenti e non credenti nell’uomo è necessaria; ma, contandoci, noi che nell’uomo radicalmente (e nel modo più naturale, come se la lucidità non consentisse altro) non crediamo, risulteremmo davvero pochi.

Questo è uno dei due noi che non implichino adesione a qualche cosa di volgare e di turpe, d’infettato dalla faziosità; si può usarlo senza timore. L’altro noi di nobiltà è riferibile a vinti, sconfitti, dimenticati nell’ordine del Pensiero. Due facce, in verità, della stessa cosa. Chi non crede nell’uomo generalmente è un vinto, si colloca spontaneamente tra gli sconfitti. Tuttavia, paradossico parossismo, succede anche questo: che i migliori amici della società umana si reclutino spesso proprio in questi smilzi ranghi di rinneganti rinnegatori. Chi denuncia che la peste c’è, salva; chi dice che si tratta di un raffreddore, assassina.

Via mistica, senza dubbio… Cioran l’ebbe in comune con Samuel Beckett (e con un altro dei suoi compatrioti, morto molti anni fa, da lui credo conosciuto, un erudito reietto dei più acuti: Matyla Ghyka, e con lo straordinario scopritore Culianu).

Beckett, di cui tracciò un mirabile ritratto psicologico, è il suo vero fratello spirituale. Eliade non era un negatore, Ionesco non fu coraggioso abbastanza: geniali, non sono dei mistici… Cioran e Beckett lo sono. La loro negazione radicale della salvabilità dell’uomo apre uno spazio di calma, in questa nostra invivibile gabbia di scimmie pigiate e malate: uno spazio debolmente illuminato, da parete Eiger, misero, in cui l’incontro con Dio, pur giudicato impossibile, si riscopre ammissibile.

La verità è che l’uomo è un Dio falso, e il più falso degli idoli. Non ci vuole tiepidità nel romperne le statue. Bisogna tirarlo giù dai piedistalli, come i bronzi indecenti di Lenin e Stalin, fare questa yogica respirazione: «io rinnego l’uomo», l’uomo simulacro, l’uomo che si è fatto padrone della terra per farne un inferno mai immaginato da nessun poeta antico, da nessun artista cristiano, l’uomo-che-siamo e che dobbiamo in noi stessi illimitatamente esecrare e abbattere con la scure del pensiero. Questa, dell’odio di sé come prodotto di una prevalenza della Tenebra, è la prima correzione dell’intelletto da fare, per non essere mentalmente irretiti dall’occhio del male. Tutti i credenti nell’uomo sono virtualmente pericolosi: occorre smascherare il fondamento satanico delle loro prediche…

Ricorderemo, noi che lo frequentammo, l’estrema piacevolezza della sua conversazione. Mai un visitatore timido si sarà trovato, di fronte a lui, così cordiale, a disagio. Avrà avuto delle cupezze segrete, delle angosce non esibite: faccia a faccia era sereno e ilare come un antico stoico. Si pensava ad Aristippo, a Epitteto.

 1995

Tratto da:  Guido Ceronetti, Cara incertezza, Adelphi

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Anton Pavlovic Cechov

30 Gennaio 2023

TROFIMOV

Se hai le chiavi della tua proprietà, gettale nel pozzo, parti. Libera, come l’aria.

ANJA

Com’è bello quello che dici!

TROFIMOV

Credimi, Anja, credimi! Non ho ancora trent’anni, sono giovane, sono ancora studente, ma ho già tanto sofferto! Quando arriva l’inverno eccomi alla fame, malato, irrequieto, più povero di uno straccione e – in quanti luoghi non mi ha buttato il destino, dove non sono capitato! E tuttavia, giorno e notte, ogni momento, indicibili presentimenti mi hanno riempito l’anima, sempre.

Io sento la felicità venire, Anja, io già la vedo…

ANJA

È spuntata la luna.

TROFIMOV

Sì, la luna è spuntata… Eccola, la felicità, eccola che viene, si fa sempre più vicina, sento già i suoi passi… E se poi noi non la vedremo, se non saremo capaci di riconoscerla, che importa? Altri la vedranno!

Tratto da: ANTON PAVLOVIČ ČECHOV, Il giardino dei ciliegi, secondo atto

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La nostra unica arma

27 Gennaio 2023

Sembra un secolo che ci siamo ritrovati in oltre 100 mila in piazza San Giovanni a Roma per un’iniziativa italiana sul cessate il fuoco e il negoziato in Ucraina. Invece era solo il 5 novembre. Speravamo che quella marea umana scalfisse il monolite della lobby delle armi che soffia sul fuoco attraverso i suoi camerieri infiltrati nei governi europei, compreso il nostro. Ma ci vuol altro per intaccarlo. A questo serve l’ossessiva e tragicomica caccia a giornalisti, spie, hacker, troll, influencer e hater putiniani che s’infilano pure nelle urne, ribaltando le elezioni dell’intero orbe terracqueo: a nascondere le asfissianti e scandalose ingerenze americane in Europa. Non solo in Italia dove, sotto il duo Draghi-Meloni, si obbedisce agli ordini yankee ancor prima di riceverli. Ma anche in Germania, dove il saggio cancelliere Scholz ha dovuto rinunciare alla saggia ministra della Difesa Christine Lambrecht perché osava difendere l’interesse nazionale ed europeo dalle pressioni Usa sui Leopard. Scholz ha resistito fino all’altroieri. Poi Biden, di nuovo in mano ai falchi, ha ignorato gli inviti alla prudenza del Pentagono e del generale Milley (anche lì le teste più lucide sono i militari) e annunciato l’invio di 21 Abrams per piegare Berlino, salvo poi precisare che – pur avendone migliaia in giro – quei 21 tank gli Usa devono ancora costruirli. Invece i Leopard tedeschi arrivano a marzo.

Quando si scoprirà che non bastano neppure quelli, l’escalation salirà ancora. Fino all’invio di truppe, che poi è l’unica mossa in grado di fare la differenza sul campo, dove la controffensiva ucraina s’è fermata e si attende quella russa. Sarebbe ‘ufficializzazione della terza guerra mondiale che, nella dottrina militare di Mosca (ma anche della Nato), prevede l’atomica tattica. Qua e là, nei talk, le Sturmtruppen da divano già ne parlano: “Eh certo, se ci verrà chiesto anche questo sacrificio, dovremo pensarci.. “. Non sanno, gli idioti, che una guerra atomica non ti dà neppure il tempo di telefonargli, alle truppe. Ma a questo siamo Giorgia Meloni l’aveva detto il 26 ottobre alla Camera in un passaggio, da tutti sottovalutato, della sua replica prima della fiducia: “A una pace giusta non si arriva sventolando bandiere arcobaleno nelle manifestazioni… L’unica possibilità di favorire un negoziato nei conflitti è che ci sia un equilibrio tra le forze in campo”. Quindi, siccome la Russia possiede 5.977 testate nucleari e l’Ucraina zero, per garantire “l’equilibrio delle forze in campo” invieremo a Kiev anche 5.977 testate nucleari e fino ad allora non sosterremo alcun negoziato? In attesa di risposte, è l’ora di tornare in piazza a sventolare bandiere arcobaleno: l’unica arma che abbiamo contro questa banda di squilibrati

Marco Travaglio

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Banana Yoshimoto

16 Gennaio 2023

IL POLLICE VERDE

  In treno avevo dormicchiato, e così avevo per metà la sensazione di sognare. Quando sentii il nome della mia stazione, scesi precipitosamente. Nell’aria pungente dell’inverno, il marciapiede sembrava ghiacciato. Mi strinsi bene la sciarpa e uscii dal controllo biglietti.

  Salita in taxi, chiesi all’autista di portarmi all’albergo, ma lui disse di non conoscerlo. Ricordai che si trattava di un albergo nuovo, piccolo, probabilmente poco pubblicizzato, e così mi feci lasciare in una zona da cui avrei potuto facilmente raggiungerlo.

  Tutt’intorno non c’erano altro che campi, e in lontananza si vedeva il profilo dolce delle montagne. Quando trovai una piccola insegna che indicava l’albergo, la seguii inerpicandomi per una stretta salita.

  Ora che mi ero abituata al freddo, assaporavo con gioia l’aria pulita. Ero sempre più sveglia, e stavo cominciando a sudare un po’ quando davanti a me percepii la presenza di qualcuno che conoscevo.

  Era stato durante l’inverno precedente che era venuto fuori il discorso dell’aloe nella stradina davanti casa, cresciuto troppo e diventato di intralcio.

  Mio padre, mia madre e io avevamo completamente dimenticato l’aloe che mia sorella più piccola aveva comprato per trecento yen e che, per mancanza di spazio in giardino, avevamo piantato accanto alla porta d’ingresso. Anche lei che, sotto l’influenza di una rivista o non so cosa, ci aveva continuamente ripetuto che “l’aloe cura tutto! Bisogna berlo, applicarlo sui brufoli”, alla fine era guarita da questa fissazione e aveva smesso persino di occuparsene. Ma anche se non veniva innaffiato regolarmente e l’esposizione al sole non era molto buona, l’aloe era cresciuto. Anzi, era cresciuto anche troppo, fino a diventare in breve tempo una specie di albero che sporgeva invadendo parte della strada, e in più ricoperto di fiori rossi dalla forma sgradevole.

  Ricordo bene quella volta. Mio padre, mia sorella e io eravamo intorno al piccolo tavolo di cucina nella casa dove eravamo nate e cresciute. Stava per cominciare una sera come tutte le altre.

  Quando eravamo piccole, era quello il luogo della casa dove tutto si svolgeva. Lì cenavamo, litigavamo, guardavamo la tivù, mangiavamo i dolci che io e mia sorella avevamo comprato con i soldi di entrambe. Capitava che sul tavolo ci fossero la busta dei grandi magazzini con la biancheria intima della mamma e il pesce secco che avremmo mangiato quella sera per cena. Era lì che una volta il babbo era crollato addormentato per i postumi di una sbornia, lì che mia sorella ai tempi delle medie, per la sua prima delusione d’amore aveva bevuto del vino tutto d’un fiato, si era ubriacata ed era scivolata dalla sedia battendo la testa. Quel piccolo rettangolo era il simbolo della nostra famiglia. Era un luogo che odorava di vita, tiepido, morbido, caldo. Da poco tempo mia sorella si è sposata ed è andata via, e il tavolo è sempre lì ma è raro che la famiglia vi si riunisca al completo. Adesso la mamma ci si siede spesso per lavorare a maglia guardando la televisione. E così, piano piano, il paesaggio si trasforma.

  Quella sera mio padre disse: “L’aloe è cresciuto troppo, ho paura che dia fastidio al vicino quando va a prendere la macchina dal garage”. Io e mia sorella facemmo finta di non sentire, che seccatura sarebbe stata doverlo trapiantare da qualche altra parte! “Se non ve ne occupate voi lo strappo e lo butto via” minacciò mio padre, ma noi rispondemmo: “Fai pure” e seppellimmo il naso nelle riviste.

  Mentre si svolgeva questa scena, rientrò la mamma carica di sacchetti con la spesa fatta al supermercato vicino casa. Io e mia sorella la salutammo come al solito, senza neanche guardarla bene in faccia. Poiché non ci rispose, alzammo gli occhi e ci accorgemmo che era molto pallida. “Che hai?” chiese mia sorella.

  “La nonna si era fatta ricoverare per una lombalgia, ma in ospedale le hanno trovato un cancro all’utero in uno stadio molto avanzato. Pare che da tempo soffrisse parecchio, ma non aveva detto nulla. Dicono che non si può nemmeno operare.”

  La nonna viveva da sola in un appartamento nelle vicinanze. Due giorni prima aveva detto di avere una lombalgia, e così mia sorella aveva tirato fuori l’automobile e l’aveva portata in ospedale.

  I miei genitori sono entrambi figli unici, quindi abbiamo pochi parenti, e questo ci rende molto uniti. Così tutti, incluso mio padre, andavamo ogni giorno a turno in ospedale. Non era certo più il caso di stare a pensare all’aloe. La nonna fu dimessa dall’ospedale una volta, poi di nuovo ricoverata.

  Un giorno preparai dei dorayaki di cui la nonna era golosa e glieli portai, ma la trovai che dormiva serena. Ne fui sollevata, dato che la mamma mi aveva detto che il giorno prima le aveva fatto una gran pena vederla piangere lamentandosi per i dolori alla pancia.

  Quando vado in ospedale, nel momento stesso in cui entro nel portone avverto un disagio, un senso di agitazione, e vorrei subito andarmene via, ma dopo un po’ che ci sto mi abituo. E quando ne esco, il mondo di fuori mi sembra troppo intenso. Mi stupisco delle auto che avanzano tutte insieme a un incrocio, del tono alto con cui parlano le persone, convinte che vivranno in eterno, del diluvio di colori. Poi, il tempo di arrivare a casa e mi ci sono abituata di nuovo. Mi rendo conto che questo andirivieni dall’ospedale mi fa sentire in una posizione particolare. Mi torna in mente la storia di Orfeo che lessi quando ero bambina. Non era riuscito a riportare indietro sua moglie che era diventata un’abitante del regno dei morti. L’odore era diverso. L’odore intenso che sprigiona la vita in quell’altro mondo si trasforma in un odore penetrante, nauseabondo, acuto. Viceversa, gli uomini detestano l’odore della morte. L’odore di morte che sprigionano le persone indebolite al sole si dissolve subito, come neve, eppure quel lieve odore, come muschio, lo si riesce a distinguere anche da lontano. Gli uomini hanno paura dei loro simili indeboliti. Suggestionati, credono sia la loro stessa vita che si va spegnendo. Anche se, quando ci si abitua, tra gli uni e gli altri non c’è nessuna differenza.

  Mentre sistemavo i fiori nel vaso, mia nonna aprì gli occhi e disse:

  “Chissà se le piante a casa mia staranno bene?”

  Andavo a innaffiarle ogni giorno: la nonna amava le piante e ci teneva moltissimo. A vederle non è che avessero un aspetto molto attraente. Non erano bonsai, e non erano particolarmente pregiate. Gelsomini, cycas, un alberello con delle specie di fagioli, mimose e altre piante di poco prezzo … eppure ogni giorno, quando le innaffiavo, avevo la sensazione che cercassero spasmodicamente la nonna. Forse era solo la mia immaginazione: prima che nascesse mia sorella i miei genitori, che lavoravano entrambi, mi avevano affidato alla nonna e mi ero attaccata a lei in modo spudorato. La sua morte era per me inaccettabile. La nonna alla quale dormivo incollata quando mi sentivo sola. La nonna che si accorgeva prima di me quando qualche piccola ombra sfiorava il mio cuore e mi preparava il tenpura di patate dolci di cui andavo matta. Giorno dopo giorno, l’interesse della nonna si allontanava sempre più da questo mondo e da me. Il mio stato d’animo era simile a quello delle piante, che si sentivano abbandonate. Forse era per questo che avevo avuto quella sensazione. E mentre le innaffiavo, mi dissi, come per convincermi: È arrivato il momento in cui la persona che si è sempre occupata di voialtre e di me più che se stessa, pensi finalmente a sé.

  La nonna parlò un poco ma subito si addormentò. Quando le persone cominciano a dormire così ogni giorno, di colpo la loro presenza si assottiglia. Rendermene conto mi stringeva il cuore. E così anch’io prendevo parte a un evento che si ripeteva da sempre nella vita delle persone. Con la strana sensazione di guardarlo da lontano.

  Ero ormai abituata a questa routine quando un pomeriggio, entrando nella stanza della nonna con delle pietanze che aveva cucinato mia madre, la trovai inaspettatamente sveglia.

  “Sai, un tempo odiavo i ciclamini” disse.

  “Si, lo dicevi spesso. Anche a me non piacciono molto. Non so, danno una sensazione di umidiccio.”

  “Tu capisci le piante, ne sono sicura. Saresti portata per un lavoro che ha a che fare con le piante. Smettila di fare la hostess.”[*]

  La nonna era sempre stata contraria al fatto che io mi dedicassi a quel genere di lavoro. Le avevo spiegato che io non facevo la hostess, ma lavoravo al banco nel bar di mio padre, però era inutile: lei non ci vedeva nessuna differenza

  “Se lo dici tu, nonna, ci rifletterò. Ma perché parlavi dei ciclamini?”

  “Vedi che lì ci sono dei ciclamini, vicino alla finestra? Adesso sono rimaste solo le foglie. Fino a poco tempo fa i fiori spuntavano in continuazione. Me li ha portati la Nakahara. All’inizio mi sembravano fiori tristi. Non mi sono mai piaciuti, se sbagliavo a dargli l’acqua si afflosciavano subito e quei grossi gambi simili a vermi li trovavo orribili. Ma dopo essere venuta qui, avendo più tempo a disposizione, ho cambiato idea. Quei gambi servono per assorbire l’acqua. A vedere come, dopo averli innaffiati, i fiori sollevano la testa con tutte le loro forze per ricevere il sole, penso: Siete vivi, eh, voialtri! A guardarli non ci si annoia. È questa la bellezza di avere del tempo. Adesso che ho fatto amicizia con i ciclamini, sento che sarò capace di curarli anche quando sarò da quell’altra parte.”

  “Non dire così.”

  Ci sarà un posto dove si va solo dopo che le cose che abbiamo detestato hanno cominciato a piacerci? Questo pensiero mi stringeva il cuore.

  Fu in primavera che la nonna perse quasi del tutto conoscenza. Circa una volta ogni tre giorni ritornava in sé ma riusciva a parlare orami pochissimo. Ci salutava, dicendo i nostri nomi.

  Quella sera, le tenevo stretta la mano. Era fredda. L’ago della flebo le aveva procurato un livido, e io continuavo a fissare quello strano colore bluastro. Provavo tenerezza perfino per la saliva che le si era seccata bianca agli angoli della bocca. Tutt’a un tratto la nonna disse:

  “L’aloe…dice… di non tagliarlo”.

  La sua voce era flebile e spezzata, e all’inizio non capii cosa volesse dire.

  “L’aloe… all’ombra del parcheggio… è schiacciato dalle macchine… soffre… dice…”

  E poi:

  “Guarisce i brufoli, le ferite, fa crescere i fiori, perciò non tagliatelo”.

  La nonna disse queste frasi un poco alla volta, tra sogno e realtà, come se stesse ripetendo le parole pronunciate da qualcuno. Ebbi un brivido. Perché l’ho sentita solo io? Mi chiesi.

  “E poi, sai, io penso che tu capisca questa sensibilità. Le piante sono così. Se aiuti una sola pianta di aloe, da quel momento in poi, in qualunque posto andrai, tutte le piante di aloe che vedrai ti avranno in simpatia. Le piante sono in contatto tra di loro, sono tutte compagne.”

  La nonna disse questo in un unico filo di voce, quindi si addormentò.

  Subito dopo arrivarono mia madre e mia sorella per darmi il cambio, ma io non riuscii a raccontare ciò che era avvenuto. Non mi uscivano le parole, come se avessi la gola bloccata. “Allora io vado” dissi, e lasciai l’ospedale. Fuori il cielo era limpido, ed era spuntata la luna. Le persone si affrettavano verso casa con un’espressione gentile sul viso. I fari delle auto illuminavano le strade buie come in un paesaggio visto in sogno. Arrivai in silenzio a casa della nonna, dissi: “Scusate, ho fatto tardi” e mi misi a innaffiare le piante. Quando accesi la luce, tutta la piccola esistenza della nonna, che era iscritta in ogni angolo della sua casa, affiorò alla luce bianca della lampada al neon. I soffici cuscini per terra, un vasetto di cristallo. Il pennello e la vaschetta per sciogliere l’inchiostro, un grembiule bianco accuratamente piegato. La teca di vetro con allineati i souvenir comprati durante i viaggi all’estero, carichi delle emozioni di paesi stranieri, gli occhiali, i libri in edizione economica, un piccolo orologio d’oro. L’odore della nonna, come di vecchia carta. Straziata, spensi la luce. E in quel momento vidi che le piante dall’altra parte del vetro respiravano. Erano di un verde vivo, che sembrava incorniciato dalla luce della luna. Le goccioline d’acqua dell’innaffiatura di poco prima brillavano. Nel buio rimasi seduta immobile sul tatami a guardarle, e gradualmente cominciai a sentirmi un po’ meglio. Quelle erano le semplici tracce di una persona che aveva vissuto, e mi ero resa conto che non erano né tristi né dolorose ma anzi buone, felici. Mi sembrò che le piante mi avessero comunicato che non si deve giudicare in base alla prima impressione, quella ricevuta guardando con occhi annebbiati dalla tristezza. Belle creature che vivono semplicemente cercando il sole, l’acqua, l’amore.

  Tornata a casa, invece di passare dalla porta principale, aprii con la chiave il cancello del giardino, andai nel ripostiglio e tirai fuori vanga e carriola. Poi tornai all’ingresso e con cura sradicai dalla terra la pianta di aloe. Con tutte le radici era diventata di una grandezza enorme, e le spine mi ungevano le mani nude, ma riuscii a trasportarla e la piantai in un punto del giardino che di giorno era ben esposto al sole. Illuminato dalla luce vaga della grande luna di primavera, l’aloe, che si era sporcato di terra bagnata nel corso del trapianto, emanava energia vitale. Vorrei poter dire che la pianta, diventata umana, esclamò “Grazie”, ma non fu così: era semplicemente viva e piena di energia, tendeva le radici in diverse direzioni, e aveva allargato le foglie. E io ancora una volta ebbi la sensazione di avere ricevuto un po’ di forza.

  La nonna morì, ci fu il funerale, e io decisi, continuando a lavorare, di frequentare una scuola specializzata per aprire un negozio di fiori. Era il futuro che avevo immaginato, giudicando un po’ difficile per me riuscire ad aprire un vivaio. Volevo diventare una fiorista di quelle che danno un tocco di colore alla vita normale di case normali. La nonna diceva sempre che per comprare i fiori non ci voleva disponibilità di denaro ma di spirito. Quando riferii a mio padre quali erano state le ultime volontà della nonna, mi promise: “Siccome prima o poi mi ritirerò dal lavoro e ti lascerò il bar, tu potrai trasformarlo in un negozio di fiori”. Nel frattempo però avrei dovuto lasciare il lavoro attuale, fare un po’ di tirocinio presso qualche fioraio e imparare la disposizione dei fiori. A cambiare lavoro di punto in bianco si incontrano un bel po’ di difficoltà, ma pensai che avendo una base avrei potuto darmi da fare, e così decisi di procedere. Se uno si impegna assiduamente ogni giorno, le strade si aprono. Non c’era altro da fare se non riprendere i ritmi di quando avevo studiato per diventare barista. Ma le ultime parole della nonna continuavano a risuonarmi nelle orecchie. Per quanto mi voltassi indietro, la persona che ero stata prima, quella infantile e carina che oziando senza pensieri intorno al tavolo di casa aveva trattato con indifferenza la vita della pianta di aloe, non poteva più tornare. Quando un giorno fossi morta, avrei voluto lasciare anch’io una stanza pulita come quella della nonna, non importava se sarebbe stata piccola e se ci sarei stata da sola. La stanza di mia nonna quella sera, abitata da piante che avevano ricevuto tanto amore, non abbandonava più la mia mente.

  Io e mia sorella saremmo dovute partire insieme per una vacanza a lungo attesa, ma lei aveva dovuto rinunciare perché al marito era venuta la febbre, e così mi misi in viaggio da sola. E adesso ero lì, su quella montagna, e percepivo una presenza. Era il primo inverno dopo la morte della nonna, ma sembrava un fatto lontano, come se fossero passati anni. La luce arancione del tramonto invernale era così intensa da fare quasi male, e mi guardavo intorno con gli occhi socchiusi. Avevo la sensazione di essere avvolta da qualcosa di caldo e familiare, da uno sguardo dolce.

  Quasi mi aspettavo di vedere da un momento all’altro il fantasma di mia nonna. Avrei tanto voluto incontrarla, fosse stato pure in forma di fantasma. Ma quello che vidi, nel giardino di una piccola casa rurale, furono soltanto innumerevoli piante di aloe, talmente tante da lasciare senza fiato, che crescevano fitte come in una giungla.

  Ricevevano il sole e sembrava volessero dirmi qualcosa. Alte, aprivano le loro foglie carnose e acuminate nel cielo invernale, sovrapponendosi l’una all’altra, piene di fiori rossi e ruvidi, come volessero trasmettere la loro gioia di vivere. Avvolta nell’affetto dell’aloe, ebbi la sensazione di essere stata riscaldata nella luce del sole. È così? pensai, è così dunque che si crea il contatto? Per quanto mi riguarda, ogni volta che avessi visto un aloe, dovunque fosse stato, mi avrebbe certamente messo in contatto con qualcosa di caldo e di dolce. Ogni aloe era amico dell’aloe che avevo trapiantato quella notte. Pensai che in questo modo avrei comunicato con tante piante, stringendo legami come si fa con le persone. Ciò che avevo ereditato dalla nonna, quella energia utile che potrebbe anche sembrare una sorta di fede senza fondamento, era quella che in genere chiamano “il pollice verde”. Se avevo questo talento, le piante avrebbero fatto brillare la loro vita nel mio braccio in tutta la sua forza. E cos’ anch’io e le persone che facevano questo lavoro saremmo stati tutti collegati.

  Mi tolsi il guanto e accarezzai dolcemente quelle foglie che, acuminate com’erano, un tempo detestavo e che trattavo con indifferenza utilizzandole solo per l’abbronzatura. Il loro verde brillava come pietre preziose, e le foglie erano morbide e fresche come seta. Rinvigorita come se avessi stretto la mano a una persona, mi avviai su per il sentiero di montagna.

[+] La hostess intrattiene i clienti di bar, night-club ecc., chiacchierando e versando loro da bere. Le sue mansioni, a seconda dei casi, oscillano tra quelle della cameriera e quelle della entraîneuse. [N.d.T.]

tratto da: Banana Yoshimoto, Il corpo sa tutto, trad. it. Giorgio Amitrano, Milano 2004.

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Incontro con Guido Ceronetti

10 Gennaio 2023

Incontro con Guido Ceronetti

Ho fatto un viaggio lunghissimo per arrivare da Guido Ceronetti, che da anni si è ritirato in un piccolo paese in provincia di Siena. Ero stata il giorno prima a Forte dei Marmi, per un altro servizio. Dunque sono arrivata dal maestro di corsa e piuttosto stremata, su un regionale veloce, sporco e tutto rotto. Il tassista che dalla stazione mi portava a casa sua, quando gli ho dato l’indirizzo, mi ha detto: «Ah, ma lei va a trovare Ceronetti!» E ho capito che il paese, in un certo senso, ruota tutto attorno a lui. Ad esempio, se gli vuoi mandare un fax, lo devi inviare al tabaccaio sotto casa. Cose di un altro secolo, guareschiane per come io ho sempre pensato tutti i mondi piccoli, nella presunzione che assomiglino al mio.

Ceronetti, ovviamente, mi aspettava senza aspettative, senza fastidi. Era una cosa da fare e lui l’ha fatta al meglio possibile, nonostante la stanchezza dell’età. Naturalmente, anche se scrive sui giornali da molto, molto prima che io venissi al mondo, non ho mai pensato di considerarlo un collega. Eppure a lui piace parlare di giornali, lo fa con molta dimestichezza. Credo sia perché non è persona da temere le classificazioni: è stato molte cose. E infatti, qualche settimana dopo il nostro incontro, mi ha fatto avere una copia di un suo libro di poesie con una dedica. E io ho pensato: un gesto che farebbe solo un uomo del secolo scorso, un secolo infinitamente più interessante di questo, così frettoloso, così confuso. Poi ho letto con piacere il libro, pur non essendo un’assidua consumatrice di versi e strofe. Mi ha colpito molto la sua analisi delle differenze tra i sessi. E della natura matrigna che ti porta fino alla vecchiaia, un’età ostile, poco confortevole specie nella solitudine. Mi ha detto: «Le donne anziane, quando sono sole, se la cavano meglio di noi uomini. Per un uomo restare solo è più difficile»

Nell’ultimo capitolo dei Promessi sposi si incontra il più coraggioso prelato della storia della letteratura: sta tergiversando su un matrimonio che ancora non è sicuro s’abbia da fare, in attesa di esser certo che don Rodrigo abbia tirato le poco naobili cuoia. Temporeggiando, don Abbondio si aggrappa a Cicerone: «La patria è dove si sta bene». E quindi, attraversando la Toscana su un regionale veloce solo di nome, si cercano tracce del benessere che ha portato un torinese come Guido Ceronetti a scegliere un paesino tra le colline in provincia di Siena. La risposta è lapidaria: «Era destino che ci abitassi». È una piccola casa, ci sono quasi solo libri e sono dappertutto: dunque meglio dire una biblioteca con camera e cucina. Bisogna fare molta attenzione a come si saluta il poeta, avendo presente una sua celebre affermazione: «La domanda più indiscreta, più insolente, più insoffribile, e la più comune anche, la più poliglotta, la più persecutoria, al telefono e faccia a faccia, la domanda che mette alla tortura chi ama la verità perché la si formula per avere in risposta una miserabilissima bugia è: ’Come stai?’»

Sulla porta, senza domande di circostanza e dopo i saluti, è subito il tempo di un’invettiva sull’età canuta: «Contro la vecchiaia sei impotente, devi solo subire. Vai dal medico, ti dà qualcosa ma non fa quasi nulla. Il Salmo novanta dice: l’uomo vive settant’anni, in qualche caso può arrivare agli ottanta. Ma dopo è catastrofico. Sa, gli uomini soli patiscono la vecchiaia molto di più delle donne: a loro basta la famiglia». Chiarito questo, si può cominciare.

In quasi tutte le epoche si è gridato alla decadenza. Un vezzo nostalgico o nel caso della nostra Italia è proprio vero?

L’Italia mi fa soffrire, per motivi di passione civile. Mi vedo come un patriota vissuto in una ininterrotta perdizione di patria, in una non-patria. L’assenza di patria, scriveva Heidegger nel 1946, sta diventando un destino mondiale. Dappertutto, le patrie stanno scomparendo o s’immaginano di esserci ancora. Migrazioni di popoli e globalizzazione tecnologica abbattono le frontiere per le quali abbiamo combattuto e penato tanto. Posso dire come Lucrezio: «In questo tempo di sciagure per la patria». Ma se ci rifletto, a una patria che c’è ormai così poco non toccano sciagure.

L’idea di patria ha avuto decisamente più fortuna a destra che a sinistra, forse come retaggio marxiano, «Gli operai non hanno patria».

Non si capisce bene perché la destra si sia impadronita di questo concetto, anche se il vecchio dogma operaista certamente dà una spiegazione. Il patriottismo moderno nasce con la Rivoluzione francese, c’è quello del Risorgimento e poi si arriva a quello dei totalitarismi. L’ultra-patriottismo del fascismo ha dato l’ultimo colpo di piccone al sentimento di patria. Dopo il ’45 la parola «patria» era del tutto squalificata: il termine è sparito, ed è stato sostituito da «Paese», che prima non si era mai sentito in riferimento allo Stato. Tanto è vero che c’era un giornale di sinistra che si chiamava Il Paese. E non avrebbe mai potuto chiamarsi La Patria! Figuriamoci, sarebbe diventato subito uno strumento dei fascismi. In quei primi anni subito dopo la fine della guerra, però, anche a destra si andava cauti con la parola «patria».

Nel suo Viaggio in Italia, dei primi anni Ottanta, lei ha scritto: «L’Italia è ben poco interessante, il popolo, dopo tanta storia, è più che mai rincretinito». Lo pensa ancora?

Certo! Tante cose contenute nel Viaggio in Italia sono un travalicamento del senso di patria e nello stesso tempo trasudano una struggente nostalgia. Il termine «madrepatria» esprime bene una trasposizione vera: la patria è una madre più grande per tutti. E quando manca la madre, il disorientamento è massimo. L’assenza di patria non è sostituita da nient’altro, forse solo, per quelli che ce l’hanno, dalla fede. Tra l’altro, sul tema dello Stato confessionale, io voglio dire che è sbagliato pensare che l’Italia sia un Paese cattolico. Abbiamo almeno ottocento gruppi religiosi, la stessa Sicilia va diventando pentecostale: diciamo meglio che l’Italia è un Paese dove c’è anche il Vaticano. Una religione è anche un pensiero, e dov’è un vero pensiero cattolico in Italia, oggi? L’originalità di scrittori cristiani come Sergio Quinzio e Ferdinando Tartaglia resta insuperata. E poi silenzio.

Questo papa francescano le piace?

Così così. Non mi piaceva nemmeno il suo predecessore, il teologo. Direi che tutto il discorso dei papi ha pochissima consistenza. Ascolto sempre l’interessante rassegna della stampa vaticana di Giuseppe Di Leo su Radio Radicale, la domenica. È fatta molto bene, ma quando si evocano le parole del pontefice in un’occasione o nell’altra, qualcosa che somigli a un pensiero non c’è. Avevano fatto a Pio X, che aveva condannato il modernismo per eresia, una domanda circa le idee nuove. Lui aveva un calamaio sul suo tavolo. E aveva risposto: «Lo vede questo calamaio? Non è mio, l’ho ricevuto. Quando me ne andrò lo passerò al mio successore: questa è la mia dottrina». Cioè non avrebbe mai potuto cambiarla, non avrebbe mai speso una goccia di quell’inchiostro per trasformare la dottrina. È mutato lo stile. Papa Francesco potrà essere, nello stile appunto, un grande modernizzatore. Ma niente di più.

Nei supplementi al Viaggio in Italia dedica alcune pagine al Museo delle carrozze dei papi.

È un luogo affascinante: ci sono delle carrozze che altro che quelle dei dogi! E poi cominciano le automobili: venivano fabbricate apposta, in modello unico, per donarle al papa. Quella di Pio XII aveva un microfono con cui il pontefice comunicava con l’autista, perché non poteva parlargli direttamente. Ma lui si muoveva pochissimo. Poi scoprendo una jeeppona per i viaggi africani di papa Giovanni Paolo II vedi che c’è stato un cambiamento, inaudito e rapidissimo. Con l’inevitabile papa-mobile si è ristabilita una certa distanza.

L’obiezione sul pensiero inconsistente dei papi vale anche per la politica?

Politici che pensano attualmente non ne vedo neppure uno.

Lo stesso nella Prima repubblica?

Questo vorrebbe dire che ce n’è una Seconda… Anzi, non so nemmeno se la nostra si possa dire una Repubblica. È nata di provetta e di cesareo: priva di padre e di madre. L’Italia unita è stata fatta da una dinastia celtica poco raccomandabile e finita male. Ricordo il passaggio decisamente traumatico e violento del 25 aprile. Dopo la Liberazione mi appassionava moltissimo tutto quel che era politica. Per slancio, del resto ero talmente giovane… Avevo nelle orecchie i discorsi del duce, quando – lo ricordo come se fosse ieri – andai, con molta speranza e un certo fervore, allo stadio che aveva appena cambiato nome da stadio Mussolini a stadio Comunale. Non c’era ancora la repubblica. Mi trovai ad ascoltare – davanti a una folla oceanica perdutamente bisognosa di essere ingannata – un discorso unitario di Nenni e Togliatti, i due capi dei grandi partiti di massa. Ma era la prosecuzione di quegli altri discorsi, era lo stesso identico vuoto di verità. E quelli sono stati i padri fondatori. Con tutti i suoi difetti di romagnolo – non dimentichiamo che era stato amico e sodale di Mussolini prima del ’15 – Nenni era comunque preferibile a Togliatti, che era un emissario di Stalin e un complice delle sue famose purghe. Ero della generazione delle «conversioni de La corazzata Potëmkin». Alla domenica il Pci organizzava visioni gratuite del film di Ejzenštejn e il giorno dopo c’era una fila di ragazzi che andava a iscriversi al partito. Io no: avevo una grande diffidenza verso il Pci e a partire dal ponte aereo di Berlino fui definitivamente anticomunista. Tanti giovani avevano ancora residui di fascismo nelle vene, a me era andato via del tutto con l’8 settembre. Poi c’erano gli increduli sulle deportazioni: sapesse le discussioni. «Ma come, non è possibile: paralumi fatti con la pelle umana, figuriamoci!» A Nizza, sulla collina in faccia al mare, c’è un monumento con la scritta: «Qui è sepolto un pezzo di sapone prodotto con grasso umano». Sventurato chi non piange.

Primo Levi è stato sempre tormentato dal timore di non essere creduto.

Sì, è stato così per tutti i sopravvissuti. Anche per mia suocera, che era stata a Birkenau. Io sono stato attirato dall’ebraismo per via delle persecuzioni. Un giorno, nel 1946, vidi in una libreria di Torino un libretto di Giuliana Tedeschi, Questo povero corpo. Raccontava le deportazioni al femminile. Quel volumetto è stato molto importante per me. Tanti anni dopo, abitavo a Roma, mi chiama una ragazza e mi dice: «Mi chiamo Erica Tedeschi, buongiorno». Era sua figlia. Faceva l’assistente sociale, si occupava dei profughi ebrei della Libia. Dopo la Guerra dei sei giorni, molti ebrei libici avevano fatto una brutta fine: tanti ebrei nordafricani scampati arrivarono in Italia. La nostra convivenza felice è durata quattordici anni. Separati dal 1982 e mai divorziati. Con Erica il mio rapporto non si è mai interrotto.

Le sue posizioni su Erich Priebke – colpevole, lei ha scritto, di eccesso di obbedienza militare e della «miseria di non essere un santo», di non aver cioè voluto rifiutarsi di partecipare all’eccidio delle Fosse Ardeatine – hanno fatto molto scalpore.

Ho intervistato Erich Priebke. Per me è sempre stato un essere umano e non un mostro. E penso ancora che sia stato creato «mostro delle Ardeatine» e «vittima di una giustizia dell’odio», come ho più volte scritto. Penso poi che la scena della folla che prende a calci la sua bara – una qualunque bara – faccia schifo. Io volevo sottolineare il processo di trasformazione mediatica di una persona in un mostro, al di là delle sue responsabilità. Voglio dire che lui non è mai stato visto come un imputato, ma subito come un mostro. Era la sua caricatura. Detto questo, io ho sempre pensato che le Fosse Ardeatine siano state un crimine commesso da entrambe le parti. Prima della rappresaglia, c’era stato un atto terroristico dei gappisti, voluto dal Pci che voleva indurre i romani a insorgere.

Su Repubblica ha scritto che bisogna assolutamente eliminare l’orripilante parola «femminicidio», che abbassa le donne «a tutto ciò che, in natura, è di genere femminile, dunque zoologico, col destino comune di figliare e allattare. Ma, per noi, se non siamo bruti, donna significa molto di più. L’etimologia latina ne restringe il ruolo allo spazio domestico (domina); il Medioevo occidentale l’ha inventata (o rivelata) ideale, e su quel trono è rimasta, anche quando trattata a frustate».

Ho proposto di sostituire «femminicidio» con «ginecidio». Non è che sia un neologismo bellissimo, ma appartiene alla schiera dei derivati dal greco classico (giné-gynekòs): gineceo, ginecologia, misoginia. Non pensavo mi toccasse di proporre un termine più accettabile per una cosa tanto ripugnante. Però «femminicidio» è rimasto nel linguaggio. Avevo scritto: «Se riuscirò me ne farò un merito», però le abitudini linguistiche sono dure a morire.

È stato, è, femminista?

Non è che mi sia mai interessato molto l’argomento. Cioè m’interessano le donne, ma questa è un’altra faccenda. Sono sempre stato naturalmente dalla parte delle donne, non ho mai visto ragioni di un contrasto «di genere». Ero attratto dalla differenza, ma mi pare abbastanza ovvio.

Ho un bellissimo ricordo parigino, che risale agli anni Settanta. C’era una manifestazione femminista in Saint-Germain-des-Prés, con duecento ragazzine. Una – biondina, con gli occhiali, dall’aria timidissima – mostrava il seguente cartello: «E le clitoris, alors?» Incantevole!

Torniamo alle questioni culturali. Legge gli scrittori contemporanei?

Molto poco.

Ci fermiamo a?

Guido Piovene. L’ho anche conosciuto e gli ho voluto bene. Cesare Pavese poi l’ho amato e mi ha interessato. Anche il Pavese poeta ha toccato corde che sono anche mie, come il rapporto città-campagna.

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.»

La luna e i falò. Quando poi dice: «Un paese vuol dire non essere soli», lo penso anch’io perché abito in un paese. Detto questo, Il mestiere di vivere è un capolavoro della letteratura italiana.

Perché non la attira la narrativa contemporanea?

Per lo più è roba dettata dal computer…

Lei è molte cose: poeta, drammaturgo, scrittore, giornalista, latinista e biblista. Cosa si sente di più d’essere?

Quel che più mi piacerebbe – e ci sono riuscito in buona parte – è di essere un filologo. Il resto è in consonanza. Come biblista era certo un miglior conoscitore dell’ebraico di me il cardinal Martini. Ma non avrebbe potuto tradurre un salmo in una lingua moderna accettabile. Eravamo insieme in prima elementare a Torino. Ho anche una foto di tutta la classe con la maestra, nel 1934, ma non saprei più dire chi fosse il futuro arcivescovo di Milano in mezzo a quei grembiulini. È certamente singolare che in una stessa classe all’età di sei anni ci fossero due futuri biblisti… A me interessava ricavare dai testi del Vecchio Testamento un po’ di autentica lingua italiana. Tutto quel che abbiamo di Bibbia tradotta in italiano è veramente roba da buttare.

Brutte traduzioni?

Per millenni i papi hanno impedito che venisse letta, poi all’improvviso hanno cominciato a promuoverne la lettura. Mondadori ha stampato la Bibbia del Diodati addirittura nei «Meridiani». Per tantissimo tempo è stata purtroppo la sola versione italiana disponibile. È una cosa che non si può dire. Ha presente l’italiano del Seicento imitato da Manzoni? Ecco, la lingua di Diodati è quella. Con effetti comici. In un verso il salmista si rivolge a Dio e dice: «Tu conosci quando io siedo, quando io cammino». Diodati traduce: «Tu conosci il mio sedere». Voglio vedere se uno non si mette a ridere. Per questo gli italiani fuggiranno sempre la lettura della Bibbia. Quando uscì nel Settanta il mio primo Qohélet, mi venne riferito che molti ragazzi dell’estrema sinistra lo tenevano come libro di capezzale. Adesso ho fatto l’edizione definitiva per Adelphi, ma potrei ritradurlo un’altra volta: è inesauribile. Lì non ci sono balle, non c’è politica.

Ci spiega l’associazione balle-politica?

La politica è menzogna incarnata, perché surrogato incruento della guerra civile. Là è il viadotto dei messaggeri infernali, e ogni tanto di angeli buoni destinati a esserne vittime. Quando Lenin arrivò in Russia nell’aprile 1917 subito si mise a predicare la trasformazione della guerra europea in aperta guerra civile: così la menzogna della guerra attinse apici inauditi nell’hitlerismo, nel leninismo e nel mussolinismo. Oggi nel mondo si salvano le perplessità di Obama o quella eccezionale donna birmana… Le menzogne nostre, italofone, sono bugie povere, senza grandezza, spurghi del pensiero unico che si maschera di anglismi, di sondaggi e di paraocchi economicoidi. Nessuna verità, neppure un quartino, mai.

Che pensa dei quotidiani 2014?

Sono nel giornalismo da circa settant’anni. I giornali vorrei che si salvassero, però con questi giovani giornalisti che usano una lingua sempre più standard, spersonalizzata, l’uniformità trionfa. Non è che sono scritti male, sono scritti uguale.

Lei ha tradotto Marziale, Catullo, Giovenale: che pensa della sempre minor fortuna dei licei classici?

È un disastro identitario e quindi politico. Ecco, se c’è una differenza tra la classe dirigente del secolo scorso e questa, è che l’altra aveva una base di latino. Questa non ha niente e perciò ha le chiappe scoperte. Se non hai come base il latino, quel che dici in italiano difficilmente contiene verità. Alla domanda: «A cosa serve il latino?», posso rispondere che serve a distinguere un uomo che ha studiato il latino da uno che non ne sa niente. Il latino è il vero padre della patria. Purtroppo essendo destinato – anche per colpa gravissima della Chiesa che lo ha cancellato dai riti – a sparire del tutto, siamo in piena tragedia identitaria.

Ai nostri politici invece piace molto usare termini inglesi: si sentono «moderni».

Matteo Renzi, sindaco di Firenze, la lingua italiana non l’ha difesa, perciò io lo rifiuto. Le vie di Firenze sono piene di parole inglesi: doveva mettere un argine. Quando l’ho sentito dire invece che «piano per il lavoro», «jobs act» ho pensato che fosse come tutti gli altri. Buttare via la lingua è svendita identitaria.

La grande obiezione che si fa a proposito di Matteo Renzi è «non è di sinistra». Lei che dice?

Che l’obiezione è miserrima: sinistra e destra sono vecchi fantasmi arcidefunti. Da segretario ha manovrato così bene da rimettere in sella Berlusconi che pareva finito. Bravo. L’uomo della provvidenza che getta il salvagente al provvidente più furbo: così la trappola si chiude.

Il Pd è stato al governo con Berlusconi, ha votato insieme al suo partito il presidente della Repubblica, ora farà con lui le riforme…

No, non faranno nessuna riforma. Una somma di zeri mentali farà sempre zero. Con Grillo scendiamo ancora.

Lei è coetaneo del presidente Napolitano.

Marameo: lui è più vecchio. È del ’25 e io sono del ’27. Il papa emerito sì, è mio coetaneo. Fidel Castro, ridotto male anche lui, è dello stesso mese mio, agosto 1927, però Leone.

11 febbraio 2014

Tratto da: Silvia Truzzi, Un paese ci vuole, Sedici grandi italiani si raccontano, ed. Longanesi

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Paul Bowles

8 Gennaio 2023

Pedalavano lentamente, percorrendo la lunga strada in direzione dell’apertura nella bassa catena di monti a sud della città. Dove le case terminavano cominciava la pianura, un mare di pietre su entrambi i lati. L’aria era fresca, il vento asciutto del tramonto soffiava contro di loro. La bicicletta di Port cigolava lievemente ad ogni pedalata. Non parlavano, e Kit procedeva un po’ più avanti. In distanza, alle loro spalle, qualcuno suonava la tromba; una ferma, vivida lama di suono nell’aria. Perfino ora, quando tra poco più di mezz’ora sarebbe scomparso, il sole scottava. Arrivarono a un villaggio, lo attraversarono. I cani abbaiavano furiosamente e le donne si giravano in là, coprendosi la bocca. Soltanto i bambini rimanevano a fissarli, paralizzati dalla sorpresa. Al di là del villaggio, la strada cominciava a salire. Si rendevano conto della pendenza soltanto per lo sforzo di pedalare: all’occhio, il terreno si presentava piatto. Ben presto Kit si sentì stanca. Si fermarono, si girarono a guardare al di là della piana apparentemente uniforme, verso Boussif, uno schema di bruni isolati alla base delle montagne. La brezza era sempre più tesa.
«È l’aria più fresca che si possa respirare», disse Port.
«Davvero meravigliosa», convenne Kit. Era in uno stato d’animo amabile, sognante, e non si sentiva molto in vena di parlare.
«Vogliamo tentare di arrivare fino al passo, laggiù?», disse Port.
«Tra un istante. Giusto il tempo di riprendere fiato».
Poco dopo ripartirono, pedalando decisi, gli occhi fissi sullo squarcio del crinale di fronte a loro. A mano a mano che si avvicinavano, potevano già intravedere il piatto e sconfinato deserto che si stendeva oltre, rotto qua e là da aguzze creste di roccia che si levavano al di sopra della superficie, simili a pinne dorsali di altrettanti mostruosi pesci che si muovessero tutti in una stessa direzione. La strada era stata aperta con la dinamite attraverso la cima della dorsale, e i massi frastagliati erano scivolati a valle su entrambi i lati del taglio. Lasciarono le biciclette di fianco alla strada e presero ad arrampicarsi sempre più in alto tra quei massi enormi, diretti proprio in cima. Il sole era ormai all’orizzonte; l’aria era soffusa di rosso. Nell’aggirare uno di quei massi piombarono inaspettatamente su un uomo, che se ne stava a sedere con il burnus tutto rialzato intorno al collo – per cui era nudo dalle spalle in giù – e intento a radersi i peli pubici con un lungo coltello appuntito. l’uomo guardò in su con indifferenza, quando gli passarono davanti, e riabbassò immediatamente la testa per continuare la delicata operazione.
Kit prese per mano Port. Salivano in silenzio, felici di essere insieme.
«Il tramonto è un’ora così triste», osservò a un tratto lei.
«Se guardo morire una giornata – una qualsiasi – ho sempre la sensazione che sia la fine di un’intera epoca. E l’autunno! Potrebb’essere addirittura la fine di tutto», disse Port. «Ecco perché detesto i paesi freddi, e amo quelli caldi, dove non c’è l’inverno, e quando scende la sera hai come l’impressione che la vita si schiuda, invece di chiudersi. Non è così anche per te?»
«Sì», disse Kit, «Ma non sono ben sicura di preferire i paesi caldi. Non lo so. Tutto sommato ho quasi l’impressione che sia sbagliato cercare di sfuggire al buio e all’inverno, e che se lo fai dovrai poi scontarlo, in qualche modo».
«Oh, Kit! Tu sei proprio pazza!». L’aiutò su per il fianco di una bassa rupe. Il deserto si stendeva direttamente sotto di loro, molto più in giù della piana dalla quale si erano appena inerpicati.
Lei non rispose. La rattristava rendersi conto che, pur avendo tanto spesso le stesse reazioni, gli stessi sentimenti, non arrivavano mai alle medesime conclusioni, perché i loro rispettivi scopi, nella vita, erano quasi diametralmente opposti.
Sedettero l’uno accanto all’altro sulla roccia, a contemplare la vastità sottostante. Kit infilò il braccio in quello di Port e appoggiò la testa contro la spalla di lui. Port si limitò a fissare dritto davanti a sé, poi sospirò, e infine scosse lentamente la testa.
Erano i luoghi come quello, i momenti così, ch’egli amava sopra ogni altra cosa nella vita; Kit lo sapeva, e sapeva anche che li amava di più se c’era lei presente, a sperimentarli con lui. E sebbene fosse ben consapevole che quegli stessi silenzi, quegli stessi luoghi deserti che gli toccavano il cuore la riempivano di sgomento, non sopportava di sentirselo ricordare. Era come se ogni volta gli rinascesse la speranza che anche lei potesse sentirsi affascinata nello stesso modo dalla solitudine e dalla vicinanza con l’infinito. Spesso le aveva detto «È la tua unica speranza», e Kit non era mai ben certa di che cosa intendesse dire. A volte pensava che intendesse alludere all’unica speranza per lui, che soltanto se fosse stata in grado di diventare com’egli era, sarebbe riuscito a ritrovare la via dell’amore, dato che amore, per Port, voleva dire amare lei: l’eventualità di un’altra donna non si poneva nemmeno. E da tanto tempo, ormai, l’amore non c’era, ne era mancata la possibilità. Ma nonostante la volontà di diventare come egli voleva che lei diventasse, Kit non poteva cambiare fino a quel punto: il terrore era sempre dentro di lei, pronto a prendere il sopravvento. Era inutile pretendere il contrario. Ma proprio come lei era incapace di scrollar via lo sgomento che sempre l’accompagnava, Port era incapace di liberarsi dalla gabbia in cui da se stesso si era chiuso, la gabbia costruita tanto tempo prima per salvare se stesso dall’amore.
Kit gli serrò il braccio. «Guarda là!», bisbigliò. A soli pochi passi da loro, seduto in cima a un masso, così immobile che non lo avevano notato, c’era un arabo venerando, le gambe ripiegate sotto di sé, gli occhi chiusi. Pensarono dapprima che potesse essersi addormentato, nonostante la posizione eretta, dato che non dava segno d’essere consapevole della loro presenza. Ma poi videro che le labbra si movevano quasi impercettibilmente, e capirono che stava pregando.
«Ma è giusto rimanere qui a osservarlo?», domandò lei, con voce sommessa.
«Che male c’è? Ce ne staremo tranquilli». Le posò la testa in grembo e rimase disteso a fissare il cielo limpido. Con mano leggera, lei prese ad accarezzargli i capelli. Il vento che soffiava dalle regioni sottostanti andava rinforzandosi. Lentamente, il cielo perdeva la sua intensa luminosità. A un tratto Kit lanciò un’occhiata all’arabo; non si era mosso. Improvvisamente, venne presa dal desiderio di tornare, ma continuò per qualche tempo a rimanere perfettamente immobile, guardando teneramente il capo inerte sotto la sua mano.
«Sai», disse Port, e la sua voce sonò irreale, com’è facile che accada alle voci dopo una lunga pausa in un luogo estremamente silenzioso, «il cielo qui è molto strano. Spesso, quando lo guardo, ho la sensazione come di una cosa solida lassù, che ci protegge da quello che c’è dietro».
Kit rabbrividì lievemente nel ripetere: «Da quello che c’è dietro?».
«Sì».
«Ma che cosa c’è, dietro?». La sua voce era fievole fievole.
«Niente, credo. Soltanto oscurità. Notte assoluta.»
«Ti prego, non parlarne proprio ora». C’era angoscia nella richiesta di Kit. «Tutto quello che mi dici mi terrorizza. Quassù comincia a far buio, c’è tanto vento, e non lo sopporto».
Lui si mise a sedere eretto, le gettò le braccia al collo, la baciò, si ritrasse un poco per guardarla, la baciò di nuovo, tornò a ritrarsi e così via, diverse volte. C’erano lacrime sulle guance di Kit, che sorrise, sconsolatamente, mentre lui gliele sfregava via con le dita.
«Sai una cosa?», mormorò Port con grande serietà. «Credo che abbiamo paura tutti e due della stessa cosa. E per la stessa ragione. Non siamo mai riusciti, né tu né io, a immergerci nella vita fino in fondo. Ci teniamo aggrappati all’esterno con tutte le nostre forze, convinti che al prossimo scossone finiremo per cascar giù. Non è così?».
Lei chiuse per un attimo gli occhi. Quei baci sulle guance avevano risvegliato il senso di colpa, che ora si abbatteva su lei in una grande ondata, lasciandola stordita e sofferente. Aveva passato tutta la siesta a cercar di lavar via dalla coscienza le cose accadute la sera prima, ma era perfettamente consapevole, ora, di non esserci riuscita, e di non poter essere giammai in grado di farlo. Si mise una mano sulla fronte, tenendovela, e alla fine disse: «Ma se ci teniamo all’esterno, c’è ancora più probabilità per noi di… cascar giù».
Aveva sperato ch’egli opponesse qualche obiezione a questo, che trovasse errata la sua stessa analogia, forse… che qualche consolazione potesse scaturirne. Tutto quello che disse fu: «Non lo so».
La luce stava facendosi sensibilmente più fioca. Il vecchio arabo sedeva sempre immerso nelle sue preghiere, severo e statuario nel crepuscolo dilagante. Sembrava a Port che dietro di loro, là sulla piana, si potesse udire una nota di tromba a lungo protratta, che però continuava, continuava. Nessuno poteva tenere il fiato così a lungo: era la sua fantasia. Prese la mano di Kit e la strinse. «Dobbiamo tornare», bisbigliò. In fretta si alzarono e, balzando di masso in masso, scesero fino alla strada. Le biciclette erano là dove le avevano lasciate. In silenzio, tornarono verso la città, andando a ruota libera. I cani del villaggio presero ad abbaiare in coro, quando lo riattraversarono velocemente. Lasciarono le biciclette nei pressi del mercato, poi si avviarono lentamente lungo la strada che portava all’albergo, immergendosi nella sfilata di uomini e pecore che continuava la sua avanzata sulla città, perfino di sera.
Per tutto il percorso di ritorno Kit non aveva fatto che rimuginare su un’idea: «In qualche modo Port sa di Tunner e me». Nello stesso tempo, non credeva che fosse consapevole di saperlo. Ma con una parte più profonda della sua intelligenza intuiva la verità, sentiva quello che era accaduto: lei ne era certa. Mentre percorrevano insieme la strada buia fu quasi tentata di domandargli come lo sapesse. La incuriosiva il funzionamento di un istinto puramente animale come quello in un uomo complesso come Port. Ma sarebbe stato deleterio; non appena lo avesse reso consapevole di quella scoperta, avrebbe deciso d’essere furiosamente geloso, immediatamente sarebbe seguita una scenata, e tutta l’implicita tenerezza tra loro sarebbe svanita, forse per non essere ritrovata mai più. Non avere neppure quella tenue comunione con lui sarebbe stato insopportabile.
Port fece una cosa strana, una volta terminato di cenare. Da solo andò fino al mercato, sedette per qualche minuto nel caffé a osservare uomini e animali alla luce tremolante delle lampade a carburo, poi, nel passare davanti alla porta aperta della bottega dove aveva noleggiato le biciclette, entrò. Chiese una bicicletta munita di fanale, disse all’uomo di aspettarlo fino al suo ritorno, e in fretta pedalò via in direzione della spaccatura tra le rocce. Faceva freddo lassù, soffiava il vento notturno. Non c’era luna e lui non poteva vedere il deserto davanti a sé, giù in basso: soltanto le stelle gelide che sfolgoravano in alto, nel cielo. Seduto sul masso, lasciò che il vento lo raggelasse ben bene. Nel ritornare verso Boussif, si rese conto che non avrebbe mai potuto dire a Kit d’esser stato lassù. Kit non avrebbe capito quel suo desiderio di tornarvi senza di lei. O forse, rifletté, avrebbe capito fin troppo bene.

tratto da: Paul Bowles, Il tè nel deserto, trad. it. Hilia Brinis, Milano 1989.
Titolo originale The Sheltering Sky, prima edizione London 1949.

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10 Questions for Krzysztof Zanussi

7 Gennaio 2023

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Martin Scorsese Presents Masterpieces of Polish Cinema.
Krzysztof Zanussi was interviewed during his visit to the IU Cinema in September of 2014. Thanks Joseph Toth, The Film Foundation, Milestone Films, Jędrzej Sabliński, Amy Heller and Dennis Doros.

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Elementi di Botanica parallela

2 Gennaio 2023

Nell’antichità la botanica faceva parte di un’unica scienza, che includeva la medicina e le scienze agrarie ed era praticata da filosofi e barbieri. Alla famosa scuola medica di Coo (V secolo a.C.) Ippocrate, e più tardi Aristotele, scrissero i primi abbozzi di una metodologia scientifica. Ma fu Teofrasto, allievo di Aristotele, il primo a sviluppare un rudimentale metodo di osservazione del mondo vegetale. I suoi Historia plantarum e De plantarum causis si ritroveranno poi, tramandati da Dioscoride, fra le frasi e le frasche degli erbari medievali che monaci scrivani componevano nei chiostri fioriti delle badie, ritraendo le piante più umili, ognuna sul suo altarino di zolla, ferme, perfette come i santi, in una solitudine che sfidava il tempo e le stagioni.
Dopo Gutenberg anche le piante avranno una nuova iconografia. Alle delicate velature dell’essenza di petali, applicata con amorevole pazienza, si sostituisce la brutalità del taglio nel legno e l’opaca indifferenza degli inchiostri. Nel 1539 Hieronymus Bock pubblica un’opera, illustrata da tavole xilografiche, in cui l’autore descrive 567 delle seimila specie di piante allora conosciute nel mondo occidentale, includendovi per la prima volta tuberi e funghi. […]
Meno di un secolo dopo l’avvento della stampa i Conquistadores e i capitani delle Compagnie delle Indie vuoteranno su un’Europa sbalordita la cornucopia profumata dei giardini e delle giungle che dormivano di là dagli oceani. Migliaia e migliaia di nuove piante dovranno essere frettolosamente nominate e collocate in un sistema di classificazione primitivo e inefficiente. Finalmente, nei primi decenni del XVIII secolo lo scienziato svedese Carlo Linneo redige una tassonomia botanica che sembra essere definitiva; un’anagrafe vegetale dove tutte le piante della Terra, presenti e future, potranno avere un nome, un rango, una descrizione sommaria. Nel 1735 Linneo pubblica il suo Systema Naturae e nel 1753 introduce la nomenclatura binomia che assegna a ogni pianta due nomi latineggianti, uno per il genere e uno per la specie. Oggi 300mila nomi di piante formano un lungo involontario poema che commemora, ricorda, descrive, esalta, celebra le intricate vicende della storia umana.
Tutto sembra pronto per la nuova scienza. Liberati dall’ossessione della tipologia, i botanici si chiedono ora il come e il perché dei comportamenti vegetali. La chimica, la fisica e la genetica provvedono nuovi strumenti di ricerca. La tipologia cede il posto all’etiologia.
La botanica, chiamata a stabilire un rapporto logico e causale fra l’organizzazione morfologica e le funzioni vitali delle piante, servendosi di metodi sperimentali, è ora una scienza moderna. Il futuro sembra sicuramente tracciato – s’insegue il piccolo con un piccolo sempre più piccolo, fino all’infinito. Là, paradossalmente, si pensa, dovrà avvenire l’incontro e la spiegazione di tutto quello che esiste nell’universo.
Ma la prospettiva, al tempo stesso esaltante e confortevole, di un programma di ricerca faticosamente delineatosi attraverso i secoli, e che pareva fissato per sempre nel tempo, sarà profondamente scossa dalle notizie del ritrovamento delle prime piante parallele – un regno sconosciuto le cui caratteristiche di arbitrarietà e di imprevedibilità sembrano sfidare non solo le conoscenze biologiche recentemente acquisite, ma anche le strutture tradizionali della logica.
«Tali organismi» scrive Franco Russoli «la cui corporea esistenza è ora molle ora porosa, ora invece ossea ma fragile, slabbrati a mostrare colonie di semi, bulbi che crescono e lievitano nella cieca ostinazione di una metamorfosi vitale, e sembran lottare contro la resistenza di un mallo soffice ma vischiosamente insuperabile – tali abnormi creature che sfoderano aculei e cornee protuberanze, o si fan corpetto e gonna e frange di fibrilli e pistilli e articolazioni ora di mucosa ora di cartilagine, potrebbero ben appartenere vagamente alle grandi famiglie di una flora di giungla, ambigua, feroce e mostruosamente affascinante. Ma non appartengono ad alcuna specie in natura, né alcun sapientissimo innesto di laboratorio arriverebbe a farle esistere»1. Quando si pensi che nel 1330 fra Odorico da Pordenone aveva descritto, con serafico impegno, una pianta che genera niente di meno che un agnello, e che, ancora nel Seicento, agli albori delle prime autentiche esperienze scientifiche, un Claude Duret parla di alberi che partoriscono animali2, non c’è da meravigliarsi se la scoperta di una botanica le cui leggi sembrano estranee a tutte le leggi naturali conosciute abbia indotto a descrizioni che non sempre riflettono con fedeltà obiettiva la realtà delle nuove piante.
«Che dire» osserva Romeo Tassinelli «di piante che affondano le proprie radici anziché nelle zolle familiari della nostra terra, in un humus onirico, lontanissimo, traendone per la propria esistenzialità succhi eterei immisurabili? Le piante di questo regno sembrano essere estranee al gioco ordinato della selezione naturale e della sopravvivenza della specie. Sfuggono alle tecniche più provate e sicure della metodologia sperimentale e rifiutano i più elementari sistemi di osservazione diretta. La loro etiologia, la loro stessa esistenzialità non sono normalmente collocabili sul nostro pianeta. In fondo» conclude «non si dovrebbe parlare di un regno ma di un’anarchia vegetale».

Tratto da: Leo Lionni, Elementi di Botanica parallela

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FRANK LLOYD WRIGHT A FIESOLE

28 Dicembre 2022

“L’esilio volontario”, come lo definisce lo stesso Wright, cominciò a Berlino dove si recò, appena sbarcato in Europa, per revisionare il volume Ausgeführte Bauten und Entwürfe von Frank Lloyd Wright. La prima edizione del libro sull’opera del maestro americano uscì nel 1910, immediatamente seguita da una seconda l’anno successivo. Il libro e la contemporanea grande mostra berlinese completamente dedicata ai lavori di Wright ebbero un’eco fortissima fra gli architetti europei e provocarono immediatamente una svolta radicale nel movimento moderno in Germania e Olanda.

La casa editrice Wasmuth chiese inoltre a Wright di scrivere delle note di spiegazione per accompagnare le illustrazioni delle sue opere e l’architetto, sempre insieme alla signora Cheney, si trasferì a preparare il lavoro “nell’antica Fiesole, più in alto della romantica città delle città, Firenze, in una piccola villa color crema di Via Verdi.” (F.L. Wright, op. cit.).

Fiesole, benché il suo territorio sia costellato di beni culturali riferibili a periodi storici che vanno dall’etrusco-romano al medioevale e al moderno, aveva mantenuto fino al 1865 un carattere prevalentemente agricolo. Con il trasferimento della capitale da Torino a Firenze si tentò di adattare la struttura insediativa di Fiesole alle nuove esigenze e di dare un aspetto realmente urbano alla ‘città’ (riferendosi a Fiesole si era sempre impropriamente parlato di città in considerazione della sua sede episcopale benché, in realtà, il vescovo risiedesse a Firenze).

Così a partire dal 1866 l’ingegnere comunale Michelangiolo Maiorfi cominciò a studiare un ‘piano regolatore’ che, attraverso una serie di modifiche, venne approvato nel 1875. Negli anni successivi si cominciarono a realizzare i primi interventi con la costruzione di ville per famiglie borghesi sul versante privilegiato con panorama su Firenze in direzione Borgunto e case per operai sul versante opposto. La trasformazione in senso cittadino di Fiesole portò anche alla riorganizzazione della piazza della cattedrale (oggi piazza Mino da Fiesole) che, corredata di panchine e lampioni, si trasformò in area di passeggio e incontro e divenne luogo rappresentativo e di immagine della città, su cui ancora oggi si affacciano il municipio, il museo, la cattedrale e il seminario. Anche in conseguenza della costruzione della nuova Via Fiesolana (1839-40), Fiesole stava sempre più affermandosi come meta di un turismo borghese italiano e internazionale. Nacque quindi l’esigenza di un servizio pubblico di collegamento con Firenze. La linea, che collegava la piazza San Marco di Firenze con il centro di Fiesole, venne inaugurata il 19 settembre 1890 e fu la prima linea di tram a trazione elettrica realizzata in Italia. Proprio nel 1910, anno in cui Wright vi abitò, il comune di Fiesole assunse l’assetto territoriale che conserva tuttora e gli uffici dell’Amministrazione Comunale, precedentemente ospitati a Firenze e Coverciano, vennero trasferiti nel centro cittadino.

Wright, come molti altri illustri personaggi prima e dopo di lui – da John Ruskin ad Anatole France, da Arnold Böchlin a Paul Klee, per citarne solo alcuni – si recò a Fiesole dove cercò “riparo accanto a colei che l’impeto della ribellione, oltre all’amore, aveva portato nella mia vita.” (F.Ll.. Wright, op. cit.). Probabilmente era a conoscenza dei molti che lo avevano preceduto, poiché in un altro passo della autobiografia scrive: “Quanti spiriti in cerca di sollievo da reali o immaginarie afflizioni domestiche non hanno trovato rifugio sui colli fiesolani!” (F.Ll. Wright, op. cit.).

Del suo soggiorno fiesolano Wright ricorda:

“Passeggiavamo assieme, la mano nella mano, lungo la strada che sale da Firenze all’antica cittadina, circondati lungo tutto il tragitto, alla luce del giorno, dalla vista e dal profumo delle rose. Percorrevamo sotto braccio la stessa antica strada, di notte, ascoltando l’usignolo nelle ombre fitte del bosco illuminato di luna, facendo del nostro meglio per udire il canto nel colmo della vita. Innumerevoli pellegrinaggi compimmo per raggiungere la piccola porta massiccia incassata nel muro compatto imbiancato a calce, e la più grande porta verde che si apriva sull’angusta via Verdi. Entrati, dopo aver chiuso la porta medievale sul mondo esterno, trovavamo il fuoco acceso sulla piccola griglia. Ester, in grembiule bianco, sorridente, impaziente di stupire la signora e il signore con l’incomparabile pranzetto: l’oca arrosto, perfetta, il vino dolce, la crème-caramel… superiori, ricordo, a tutte le oche arrosto, e i vini. e le crèmes-caramel mai serviti.

Oppure, passeggiavamo nel parco cintato da alte mura, intorno alla villa, nel sole fiorentino, o nel giardinetto accanto alla fontana, nascosta da masse di gialle rose rampicanti. E vi furono lunghe escursioni per i sentieri di quelle dolci colline, più in alto, fra i papaveri che ammantavano i campi, verso Vallombrosa.

E laggiù la cascata, che ritrovava, e smarriva la propria voce nei silenzi profondi di quella famosa pineta. Aspirando nel profondo dei polmoni il profumo dei grandi pini… Stanchi, dormivamo nella piccola solitaria locanda delle alture.

E poi ancora il ritorno, la mano nella mano, per chilometri nel sole ardente, nella polvere fitta dell’antica serpeggiante strada: un’antica strada italiana, lungo il torrente. Quanto antica! Quanto pienamente romana!” (F.Ll. Wright, op. cit.).

Della dimora fiesolana dell’architetto sappiamo che era una piccola villa color crema, che aveva una piccola porta massiccia incassata nel muro compatto imbiancato a calce e una più grande porta verde che si apriva sull’angusta via Verdi. la villa era inoltre circondata da un parco cintato da alte mura. Un dato ancor più interessante sulla abitazione di Wright è riportato nella prefazione del libro del 1910 Ausgeführte Bauten Und Entwürfe. Qui l’architetto apre la prefazione del volume scrivendo:

Villino Belvedere, Via Verdi, Fiesole, Italia, Giugno 1910

e la conclude firmando: Frank Lloyd Wright, Villino Belvedere, Fiesole, Giugno 1910.

Per ben due volte quindi Wright riporta il nome della casa e ne conferma l’ubicazione nella via Verdi. Nella presentazione della ristampa di tale prefazione, avvenuta nel 1951 in occasione della mostra tenutasi in Palazzo Strozzi a Firenze sull’opera dell’architetto, Wright ribadisce che la stesura dello scritto è avvenuta nel Giugno 1910 a Fiesole, nel Villino Belvedere.
Da questi dati, e da un’analisi della cartografia storica del territorio fiesolano, si è potuto identificare la dimora dell’architetto con un villino in prossimità della parte finale della via Verdi, dove questa attualmente si biforca nelle vie di Montececeri e della Doccia. Tuttavia nel 1910 la via Verdi – che aveva assunto questo nome in seguito ad una delibera della Giunta Municipale del 15 febbraio 1901 mentre prima di tale data si chiamava via del Carro – si estendeva dalla piazza Mino da Fiesole alla via vicinale del Pelagaccio e comprendeva quindi anche quella parte che solo in tempi assai più recenti sarebbe diventata via di Montececeri. L’edificio, che reca ancora accanto all’ingresso su via di Montececeri l’iscrizione ‘Villino Belvedere’, compare per la prima volta nel Plantario Geometrico Catastale Del Territorio Comunicativo Di Fiesole del 1869, mentre nelle carte di epoca precedente il lotto risulta non ancora edificato. Le caratteristiche architettoniche forniscono un’ulteriore traccia per datarne la costruzione attorno alla metà del 1800.

Le foto scattate nel 1910 da Frank Lloyd Wright alla casa e al giardino, archiviate presso la Fondazione Wright di Taliesin, hanno confermato l’esatta identificazione dell’edificio, che è rimasto sostanzialmente invariato dal lato dell’ingresso sulla via di Montececeri (già via Verdi) se si eccettuano la scomparsa di due riseghe nel cornicione che nasconde la pendenza del tetto e la sostituzione delle inferriate delle finestre. Assai differente è invece la situazione sul fronte opposto dell’edificio, quello che si affaccia verso Firenze, dove al piano superiore il balcone centrale è stato esteso per tutta la lunghezza della facciata mentre al piano inferiore è stata creata una loggetta panoramica in aggetto con vista sulla città. Analizzando il progetto di Wright per la casa-studio di Fiesole (vedi capitolo successivo) ed in particolare la loggetta che compare nelle prospettive al termine di uno dei bracci minori della pianta, alcuni particolari quali la tripartizione dell’apertura ed i pilastri rettangolari terminanti con capitelli dal disegno lineare suggeriscono la suggestiva ipotesi di una possibile influenza di tale progetto nella realizzazione della loggetta del villino Belvedere.

In uno dei disegni del progetto compare la scritta autografa di Wright: “Villa Florence Italy, Via Verdi – Madame Illingworth – 1910 Feb.” Da una ricerca compiuta presso l’Archivio Comunale di Fiesole si è appurato che la signora Elisa Illingworth, nata a Leeds nel 1849 e residente a Fiesole dal 1889 fino alla morte nel 1930, era proprietaria di diversi edifici della zona fra cui il villino Belvedere e la sottostante villa Belvedere in cui risiedeva. Nel censimento del 1901 sotto la voce mestiere la signora Illingworth è definita quale possidente; una delle sue proprietà, probabilmente il villino Belvedere, risulta data in affitto ad un suo connazionale il signor Arthur Woole mentre le altre proprietà, ad esclusione della propria abitazione, risultano affittate ad italiani. Appare allora probabile che la scelta di recarsi ad abitare a Fiesole possa essere stata suggerita a Wright da qualche membro della numerosa comunità anglofona di Firenze tenuto anche conto del fatto che quando giunse in città Wright non parlava affatto la lingua italiana. Lo splendido panorama su Firenze che si gode dal villino Belvedere e i resti ancora oggi visibili delle mura urbane del III-IV secolo a.C. a pochi metri di distanza, contribuirono sicuramente a creare quella atmosfera incantata che pervade gli scritti di Wright a proposito del suo soggiorno fiesolano. Partendo da Fiesole Wright e la sua compagna, oltre alle escursioni a Firenze e dintorni descritte nell’autobiografia e documentate da numerose fotografie (San Miniato, Boboli, ecc), si recarono a visitare anche altre città della penisola.

Frank Lloyd Wright, Fiesole 1910

da: architettura.it

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Abu l-Qasim al-Shabbi

24 Dicembre 2022

Voler vivere
Se un giorno alla gente venisse voglia di vivere
allora il fato dovrà rispondere,
e la notte dovrà aprirsi
e le catene spezzarsi
chi vivere desidera il corpo non trattiene
s’evapora e svanisce nel vasto cielo della vita
gli esseri, gli esseri tutti così mi hanno detto
così mi ha parlato il loro spirito celato.
In cima alla montagna, nel più segreto albero
nel mare scatenato, ascolta il mormorio dei venti:
che io mi volga verso un luogo al mondo
indossi la speranza, mi spogli di prudenza.
Non temo sentieri rigorosi
né fuochi alteri.
Rifiutare le alte vette,
non è vivere per sempre nel fossato?
Abu l-Qasim al-Shabbi
Tunisia, 1909 – 1934

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L’infinito senza farci caso

24 Dicembre 2022

“Abbiate cura di incontrare

chi non sta nel mezzo.

Cercate gli esseri estremi, i deliri, gli incanti.

Cercate una donna o un uomo che non siano di questo mondo, 

cercate Giovanna D’Arco, Giordano Bruno.”

Franco Arminio

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L’uccello lotta per uscire dall’uovo

24 Dicembre 2022

L’uccello di sogno che avevo dipinto era in viaggio e cercava il mio amico. La risposta mi giunse in un modo stranissimo. Un giorno, in classe, al mio posto, dopo l’intervallo fra due lezioni, trovai un biglietto infilato in un libro. Era piegato come usava tra noi quando durante la lezione ci scambiavamo di nascosto qualche bigliettino. Mi domandai meravigliato chi potesse avermelo mandato, perché non ero mai stato in simili rapporti con alcun compagno. Pensai che fosse l’invito a qualche chiassata, alla quale certamente non avrei partecipato, e senza leggere lasciai il foglietto nel libro. Soltanto durante la lezione mi capitò di nuovo fra le mani. Per giuoco e senza riflettere spiegai il foglio e vi trovai scritte alcune righe. Vi buttai uno sguardo, afferrai una parola e mentre il cuore mi si stringeva in un presentimento fatale come sotto l’azione di un gran gelo, lessi: “L’uccello si sforza di uscire dall’uovo. L’uovo è il mondo. Chi vuol nascere deve distruggere un mondo. L’uccello vola a Dio. Il Dio si chiama Abraxas.” Dopo aver letto più volte quelle righe, m’immersi in profonde riflessioni. Non c’era dubbio, la risposta veniva da Demian. Nessuno, tranne lui e io, sapeva dell’uccello. Aveva dunque ricevuto il mio disegno, aveva capito e mi aiutava a interpretarlo. Ma quale era il nesso? E, mio tormento principale, che cosa significava Abraxas? Non avevo mai udito o letto questa parola. “Il Dio si chiama Abraxas!” La lezione terminò senza che ne avessi ascoltato una parola. Seguì la successiva, l’ultima della mattinata. Era tenuta da un giovane supplente appena arrivato dall’università, il quale ci piaceva per il fatto che era così giovane e di fronte a noi non assumeva falsi atteggiamenti di sussiego. Sotto la guida del dottor Follen leggevamo Erodoto. Questa lettura era una delle poche materie che mi piacessero. Ma ora non stavo attento. Avevo aperto il libro, macchinalmente, ma non seguivo la traduzione, immerso com’ero nei miei pensieri. Più volte avevo sperimentato quanto fosse giusto quel che Demian mi aveva detto a suo tempo nelle lezioni di religione. Ciò che si vuole con sufficiente energia riesce. Se durante la lezione mi occupavo intensamente dei fatti miei, potevo essere sicuro che l’insegnante mi lasciava in pace. Quando invece ero distratto o assonnato mi compariva vicino all’Improvviso: anche questo mi era già capitato. Chi è veramente assorto nei suoi pensieri è al sicuro. Avevo provato anche l’effetto dello sguardo fisso, e le prove erano riuscite. Non ero giunto a buoni risultati ai tempi di Demian, ma ora capivo che molto possono gli sguardi e il pensiero. Anche a quel tempo dunque ero ben lontano da Erodoto e dalla scuola. All’improvviso però la voce del maestro mi entrò nella coscienza come una folgore facendomi sussultare di spavento. Udivo la sua voce ed egli era accanto a me e già mi pareva che mi avesse chiamato per nome. Invece non mi guardò nemmeno e io respirai sollevato. Poi udii di nuovo la sua voce che diceva forte: «Abraxas.» Nella spiegazione, della quale avevo perduto il principio, il dottor Follen continuò: «Non dobbiamo credere che le concezioni delle sette e delle confraternite mistiche dell’antichità fossero così ingenue come sembrano a chi le osservi con occhio razionalistico. L’antichità non aveva, in genere, una scienza secondo i nostri criteri. In compenso si dedicava a verità mistico-filosofiche molto evolute. Ne derivarono in parte la magia e certi trastulli che probabilmente conducevano talora alla truffa e al delitto. Ma anche la magia era di nobile origine e possedeva pensieri profondi. Così per esempio la dottrina di Abraxas che ho citata dianzi. Questo nome viene collegato con formule magiche dei greci e molti lo considerano un nome di qualche diavolo stregone come se ne trovano ancora tra i popoli selvaggi. Sembra però che Abraxas abbia un significato molto più largo. Oggi possiamo dire che è il nome di una divinità cui spettava il compito simbolico di unire insieme il divino e il diabolico.» Il giovane erudito continuava a parlare con zelo, nessuno prestava molta attenzione, e siccome quel nome non fu più ripetuto, anch’io mi ritirai di nuovo in me stesso. “Unire insieme il divino e il diabolico” ripensai come un’eco. Poteva essere un punto di partenza. Ci ero avvezzo dai colloqui con Demian negli ultimi tempi della nostra dimestichezza. Demian aveva detto allora che possediamo bensì un Dio da noi venerato, ma egli rappresenta soltanto una metà del mondo arbitrariamente staccata (il mondo “chiaro”, ufficiale, lecito). Si deve però poter venerare il mondo intero e perciò o si deve avere un Dio che è anche diavolo o bisogna introdurre accanto al servizio divino anche un servizio diabolico. Ed ecco ora Abraxas, il Dio che era Dio e diavolo insieme. Per un po’ cercai di seguire con molto zelo questa traccia, ma senza fare progressi. Frugai tutta una biblioteca In cerca di Abraxas, ma invano.

La mia natura però non era adatta alla ricerca diretta e consapevole nella quale si comincia col trovare verità che ti restano in mano come sassi. La figura di Beatrice, alla quale per un certo tempo mi ero dedicato con tanta intensità, affondò a poco a poco o meglio si staccò lentamente da me avvicinandosi sempre più all’orizzonte e facendosi più pallida e lontana. Era un’ombra che non bastava più alla mia anima. Nella mia involuta esistenza che trascinavo come un sonnambulo, incominciò a formarsi qualcosa di nuovo. Fioriva dentro di me la nostalgia della vita, anzi la nostalgia dell’amore; e lo stimolo sessuale, che per un po’ aveva potuto risolversi nell’adorazione di Beatrice, esigeva nuove Immagini e nuove mete. Ancora non vedevo appagamento, e più impossibile che mai mi riusciva deludere la nostalgia e sperare qualcosa dalle ragazze presso le quali I miei compagni cercavano la loro felicità. Ripresi a sognare con frequenza, e sognavo più di giorno che di notte. Immaginazioni, figure, desideri sorgevano in me e mi distaccavano dal mondo esteriore di modo che con quelle immagini, con quei sogni, con quelle ombre avevo contatti più concreti e reali che col mio vero ambiente. Grande importanza assunse un determinato sogno o giuoco di fantasia che continuamente si ripeteva. Il sogno, importante e tenace più di qualunque altro, era all’incirca il seguente: ritornavo nella casa paterna, sopra il portone brillava l’uccello araldico in giallo su fondo azzurro, in casa mi veniva incontro la mamma, ma quando stavo per abbracciarla non era più lei, bensì una figura mai vista, alta e poderosa, simile a Demian e al mio disegno, eppure diversa e nonostante la robustezza in tutto femminile. Questa figura mi attirava a sé e mi accoglieva in un abbraccio amoroso accompagnato da brividi. Voluttà e raccapriccio erano fusi insieme, l’amplesso era un atto religioso e nello stesso tempo un delitto. Troppi ricordi di mia madre e dell’amico Demian erano presenti nella figura che mi abbracciava. Era un amplesso che urtava contro ogni rispetto, eppure dava la beatitudine. Molte volte mi svegliavo da questo sogno con un profondo sentimento di felicità; altre volte invece con angoscia mortale e con la coscienza tormentata come da un orribile peccato. A poco a poco e senza pensarci si venne stabilendo una relazione fra quella visione interiore e l’invito venutomi dal di fuori a cercare Iddio. La relazione si fece più stretta e intima mentre cominciavo a sentire che proprio in quei sogni presaghi invocavo Abraxas. Voluttà e orrore, uomo e donna, la cosa più sacra e la più ripugnante mescolate insieme, un grave senso di colpa guizzante nella più tenera innocenza: questo era il mio sogno d’amore e questo era anche Abraxas. L’amore non era più l’oscuro istinto animale che nella mia angoscia mi era parso da principio, né era la pia e spirituale adorazione che avevo avuto per Beatrice. Era l’uno e l’altra, era più ancora, angelo e Satana, uomo e donna insieme, umanità e bestialità, supremo bene e male estremo. Questa era la vita che credevo riservata a me, questo il destino che dovevo assaporare. Di esso avevo nostalgia e paura, ma era sempre presente, sempre vicino a me. Nella primavera successiva dovevo lasciare il liceo e iscrivermi all’università, ma non sapevo dove né cosa avrei studiato. Sul labbro mi crescevano i baffetti, ero uomo fatto e tuttavia imbarazzato e senza meta. Di una sola cosa ero sicuro: della voce interiore, della mia visione di sogno. Sentivo il compito di seguire ciecamente quella guida ma non mi era facile, e tutti i giorni mi ribellavo. Forse, pensavo spesso, ero matto, forse non ero come gli altri. Eppure anch’io sapevo fare ciò che facevano loro, con qualche sforzo e con un po’ di diligenza potevo leggere Platone, risolvere quesiti trigonometrici o seguire un’analisi chimica. Una sola cosa non potevo: strappare la meta oscura sepolta dentro di me e disegnarla da qualche parte come altri facevano, sapendo che volevano diventare professori o giudici, medici o artisti, quanto tempo ci voleva e quali vantaggi ne avrebbero tratto. Di ciò non ero capace. Forse anch’io sarei diventato qualcosa di simile, ma come facevo a saperlo? Forse avrei dovuto anch’io cercare e cercare per anni e anni senza arrivare a niente. O forse anch’io sarei giunto a una meta, ma cattiva, pericolosa, spaventevole. Eppure, non volevo tentar di vivere se non ciò che spontaneamente voleva erompere da me. Perché era tanto mai difficile? Spesso feci il tentativo di dipingere la grande figura d’amore che avevo sognato, ma non mi riuscì mai. Se mi fosse riuscito, avrei mandato il disegno a Demian. Dov’era? Non lo sapevo. Sapevo soltanto che fra noi c’era un legame. Quando lo avrei rivisto? La bella tranquillità delle settimane e dei mesi del periodo di Beatrice era tramontata da un pezzo. Allora avevo creduto di essere arrivato su un’isola e di aver trovato la pace. Sempre era così: appena mi affezionavo a una situazione, appena un sogno mi aveva beneficato, ecco che sfioriva e tramontava. Inutile rimpiangerlo. Adesso vivevo dentro un fuoco di desiderio implacato, di speranza protesa che talvolta mi rendeva pazzo e furente. Vedevo davanti a me l’immagine dell’amata con precisione più che viva, molto più chiara delle mie mani, le parlavo, piangevo davanti a lei, la maledicevo. La chiamavo mamma e m’inginocchiavo tra le lacrime, la chiamavo amante e presentivo il suo bacio maturo e promettente, la chiamavo demonio e cortigiana, vampiro e assassina. Mi invitava ai più delicati sogni d’amore e alle più brutali spudoratezze, nulla era per lei troppo buono e prezioso, nulla troppo cattivo e abietto. Passai tutto quell’inverno in una tempesta interiore che non saprei descrivere. La solitudine alla quale ero avvezzo da tempo non mi deprimeva poiché vivevo con Demian, con lo sparviero, con l’immagine del sogno che mi era destino e amante. Era abbastanza per poterci vivere poiché tendeva alla grandezza e a vasti orizzonti e tutto alludeva ad Abraxas. Nessuno però di quei sogni, nessuno dei miei pensieri mi obbediva, né potevo chiamarli o attribuire loro un colore a piacimento. Venivano a prendermi, da essi ero governato, ero vissuto. È vero che esternamente stavo al sicuro. Non avevo paura del prossimo. Anche i miei compagni ne avevano fatto l’esperienza, e dimostravano per me un senso di stima che mi faceva sorridere. Quando volevo, sapevo leggere benissimo nel loro cuore e farli rimanere stupefatti. Ma volevo raramente, o mai. Mi occupavo sempre di me stesso e mi auguravo ardentemente di vivere una buona volta anch’io, di dare al mondo qualcosa di mio, di entrare con esso in relazione e in conflitto.

Talora, mentre di sera passavo per le strade e, irrequieto, non riuscivo a rincasare prima di mezzanotte, immaginavo di dover incontrare da un momento all’altro la mia adorata, di vederla girare l’angolo, di sentirmi chiamare dalla prima finestra. Altre volte tutto ciò mi pareva insopportabile e penoso, e prevedevo che un giorno mi sarei tolto la vita. Allora trovai uno strano rifugio; per un “caso”, come si dice. Ma casi di questo genere non esistono. Quando uno ha assolutamente bisogno di una cosa e la trova, non e stato il caso a dargliela, ma egli stesso e il suo stesso desiderio ve lo hanno condotto. Nelle mie passeggiate per la città avevo udito due o tre volte suonare l’organo in una chiesetta della periferia, ma non mi ero soffermato. Passando un’altra volta da quelle parti, udii di nuovo quel suono e ravvisai una musica di Bach. Trovai la porta chiusa, e siccome la strada era deserta, mi sedetti accanto alla chiesa, su un paracarro, e avvolto nel mantello stetti ad ascoltare. Era un organo non grande ma buono, e chi suonava esprimeva in modo singolare e molto personale una volontà e una costanza che parevano una preghiera. Ebbi l’impressione che l’esecutore doveva sapere quale tesoro fosse racchiuso in quella musica e stava facendo ogni sforzo per scavare quel tesoro come ne andasse della sua vita. In quanto a tecnica, io non so molto di musica, ma fin da bambino ho capito istintivamente quell’espressione dell’anima e ho sentito dentro di me la musica come una cosa ovvia. L’organista suonò anche un pezzo moderno che poteva essere di Reger. La chiesa era quasi buia e soltanto un sottile barlume veniva dalla finestra. Aspettai che l’organista avesse finito e poi mi misi a passeggiare in su e in giù finché lo vidi uscire. Era ancora giovane ma più vecchio di me, tozzo e tarchiato nella persona, e si allontanò in fretta con passo risoluto e quasi indispettito. Da quel giorno stetti molte sere seduto davanti alla chiesa o a passeggiare su e giù. Una volta trovai la porta aperta e per mezz’ora stetti felice e infreddolito in un banco, mentre l’organista suonava alla fioca luce del gas. Nella musica che eseguiva non udivo soltanto lui, ma tutte le sue esecuzioni erano legate da una certa affinità, da un nesso segreto. Tutto era pieno di fede e di pia devozione non già la devozione dei pastori e dei fedeli, bensì quella dei pellegrini e dei mendicanti medievali, dedicata senza nessuna riserva a un senso dell’universo superiore a tutte le religioni. Venivano eseguiti specialmente i maestri anteriori a Bach e i vecchi italiani. E tutti dicevano la stessa cosa, dicevano ciò che aveva in cuore anche l’interprete: la nostalgia, l’intima presa di possesso del mondo e il più aspro distacco da esso, la bruciante attenzione rivolta alla propria anima tenebrosa, l’ebbrezza della dedizione e la grande curiosità tesa verso il meraviglioso. Una volta, seguendo l’organista uscito dalla chiesa, lo vidi entrare in un lontano ristorante ai margini della città. Non seppi resistere ed entrai anch’io. Era la prima volta che lo vedevo bene. Era seduto in un angolo della saletta col feltro nero in testa, un calice di vino davanti a sé e il viso quale me l’ero immaginato. Era brutto e un po’ torbido, interrogativo e assorto, caparbio e volitivo e, intorno alle labbra, tenero e infantile. L’espressione forte e virile era tutta negli occhi e nella fronte, mentre la parte inferiore del viso era delicata e incompiuta, senza freni e un po’ femminea, sicché il mento indeciso e puerile era in contraddizione con la fronte e con lo sguardo. Mi piacquero gli occhi scuri, pieni di orgoglio e ostilità. In silenzio sedetti di fronte a lui che era l’unico cliente. Mi lanciò un’occhiata come per cacciarmi via, ma io la sostenni e continuai a guardarlo finché brontolò bruscamente: «Perché diavolo mi fissa così? Ha da chiedermi qualcosa?» «Non ho da chiederle nulla» risposi «ma da lei ho già ricevuto molto.» Egli corrugò la fronte. «Davvero? È un appassionato di musica? A me sembra ripugnante appassionarsi alla musica.» Non mi lasciai sconcertare. «Più volte sono stato a sentire davanti a quella chiesa laggiù» osservai. «Ma non voglio darle fastidio. Avevo l’impressione che presso di lei avrei trovato qualcosa di particolare, non so nemmeno io. Ma non mi dia retta. Posso ascoltarla in chiesa.» «Ma se chiudo sempre!» «Ultimamente se n’è dimenticato e io sono entrato. Per lo più sto fuori in piedi o siedo sul paracarro.» «Mi dispiace. Un’altra volta venga pur dentro: è più caldo. Basta che bussi alla porta, ma forte e non quando suono. E adesso, fuori: che cosa voleva dire? Vedo che è molto giovane, sarà uno studente. Studia musica?» «No. Ascolto molto volentieri, ma solo musica come quella che suona lei, musica assoluta, dove si sente che un uomo afferra e scrolla paradiso e inferno. Mi piace molto la musica, forse perché è così poco morale. Tutte le altre cose sono morali e io cerco qualcosa che non lo sia. La moralità mi ha fatto soltanto soffrire. Forse non mi esprimo bene. Lo sa che deve esserci un Dio che è ad un tempo Dio e diavolo? Ci dev’essere stato; ne ho sentito parlare.» Il musicista spinse indietro il largo cappello e liberò la fronte dai capelli scuri. E intanto mi guardava con occhio penetrante e abbassava il viso verso di me. Poi domandò con voce smorzata: «Come si chiama il Dio di cui mi sta parlando?» «Non ne so quasi nulla, purtroppo. A rigore so solamente il nome. Si chiama Abraxas.» L’organista si guardò intorno diffidente come se qualcuno potesse origliare. Poi si avvicinò mormorando: «Me lo immaginavo. Chi è lei?» «Sono uno studente di liceo.» «E come ha saputo di Abraxas?» «Per caso.» Quello batté un pugno sulla tavola facendo traboccare il calice di vino. «Per caso! Non dica scempiaggini, giovanotto! Non si viene a sapere di Abraxas per caso, se lo metta in mente. Di Abraxas le darò io notizie. Qualche cosa ne so.» Tacque e spinse indietro la sedia. E mentre lo guardavo in attesa mi fece una smorfia. «Non qui. Un’altra volta. Ecco, prenda!» Così dicendo ficcò una mano nella tasca del pastrano che non si era levato e ne cavò un paio di caldarroste e me le porse. Senza dir niente le presi, le mangiai ed ero molto soddisfatto. «Dunque» sussurrò dopo qualche istante «come ha avuto notizia di… lui?» Esitai un po’, ma poi dissi: «Ero solo e non sapevo che pesci pigliare. Allora mi venne in mente un amico di altri tempi che credo sappia moltissimo. Avevo dipinto un uccello che usciva dalla sfera del mondo e glielo mandai. Dopo qualche tempo, quando non ci pensavo più, mi venne in mano un pezzo di carta dov’era scritto: “L’uccello lotta per uscire dall’uovo. L’uovo è il mondo. Chi vuol nascere deve distruggere un mondo. L’uccello vola a Dio. Il Dio si chiama Abraxas”». Egli non replicò, e tutt’e due continuammo a sbucciare le castagne e a mangiarle accompagnandole col vino. «Prendiamo un altro bicchiere?» domandò. «No, grazie, non mi piace bere.» Egli rise un po’ deluso. «Come vuole. Io sono diverso. Resto qui ancora. Lei vada pure.» Quando mi trovai un’altra volta con lui dopo la musica, non fu molto comunicativo. In una vecchia strada mi fece salire in un grande casamento ed entrare in uno stanzone un po’ scuro e disordinato dove nulla parlava di musica tranne un pianoforte, mentre un grande armadio pieno di libri e una scrivania davano alla stanza un’aria da scienziato. «Quanti libri!» esclamai con ammirazione. «Molti fanno parte della biblioteca di mio padre col quale abito. Sì, giovanotto, abito con babbo e mamma, ma non posso presentarla perché in questa casa non hanno molta opinione della mia presenza. Deve sapere che sono un figliol prodigo. Mio padre è una gran brava persona un notevole pastore e predicatore di questa città. E io, perché lei sia subito informato, sono il suo figliolo intelligente e molto promettente che però è uscito dal binario ed è diventato un po’ matto. Studiavo teologia e poco prima dell’esame di stato ho abbandonato quella onesta facoltà. Tuttavia, col mio studio privato sto sempre in quel campo. Considero ancora sommamente importante sapere quali dei la gente è andata inventando di volta in volta. D’altro canto mi occupo di musica e, a quanto pare, otterrò fra breve un modesto posto di organista. Ed allora, eccomi di nuovo legato alla chiesa.» Scorrendo il dorso dei libri, trovai titoli greci, latini, ebraici, per quanto potevo scorgere al barlume della lampada accesa sulla tavola. Intanto il mio conoscente si era messo per terra al buio e stava combinando non so che cosa. «Venga qua» mi chiamò. «Faremo un po’ di filosofia pratica, che consiste nello star zitti, coricarsi sul ventre e pensare.» Accese un fiammifero e appiccò il fuoco alla carta e alla legna accumulata nel caminetto. Suscitata la fiamma alimentò il fuoco con squisita cautela. Anch’io mi misi accanto a lui sul tappeto consunto. Egli fissava le fiamme che attiravano anche me, e così rimanemmo una buona ora davanti al fuoco scoppiettante che vedevamo lingueggiare e sibilare, abbassarsi e torcersi, guizzare e sfiaccolare, infine covare nelle braci ammucchiate. «L’adorazione del fuoco non era la cosa più stupida che si sia inventata» mormorò tra sé. Oltre a queste, però, nessuno di noi pronunciò una parola. Guardavo la vampa con gli occhi fissi e, immerso in un sogno silenzioso, vedevo figure nel fumo e immagini nella cenere. A un certo punto mi riscossi perché l’altro aveva gettato nella fiamma un pezzetto di resina, facendone sprigionare una vampata guizzante nella quale ravvisai lo sparviero dalla testa gialla. Nel caminetto prossimo a spegnersi, una serie di fili incandescenti si univa a formare reti, lettere e figure, e vi apparivano ricordi di visi e animali, di piante vermi e serpenti. Quando riscossomi guardai il mio compagno, lo vidi col mento sui pugni contemplare la cenere con fanatico abbandono. «Ora devo andare» sussurrai. «E vada. Arrivederci.» Non si alzò, e siccome la lampada era spenta dovetti attraversare a tastoni la camera buia, i corridoi e le scale per uscire da quel vecchio palazzo stregato. Sceso nella strada mi voltai a guardare la casa. Nessuna finestra era illuminata. Una targa di ottone luccicava al riverbero del fanale a gas. Vi lessi: “ Pistorius – pastore”. Soltanto a casa, quando dopo cena mi trovai solo nella mia cameretta, mi venne in mente che da Pistorius non avevo saputo nulla né di Abraxas né di altro, e tutto sommato avevamo scambiato forse dieci parole. Ma della mia visita ero molto contento. E per la volta successiva Pistorius mi aveva promesso un brano squisito di vecchia musica per organo, una passacaglia di Buxtehude. Quando ero rimasto coricato per terra davanti al caminetto in quella triste camera da eremita, l’organista Pistorius, senza che me ne rendessi conto, mi aveva dato una prima lezione.

Quel guardare nel fuoco mi aveva fatto bene, rafforzando e confermando certe mie tendenze che avevo sempre avute, senza però coltivarle mai. A poco a poco una parte di ciò mi fu chiara. Già da piccolo ero stato incline a guardare le forme bizzarre della natura, non già osservando ma abbandonandomi al loro fascino e al loro complicato linguaggio. Lunghe radici d’albero affioranti, vene colorate nella pietra macchie d’olio natanti sull’acqua, crepe nel vetro, tutte queste cose esercitavano su di me una grande attrattiva, soprattutto l’acqua e il fuoco, il fumo, le nubi, la polvere e In modo particolare, le macchioline giranti che vedevo chiudendo gli occhi. Ciò mi tornò in mente nei giorni dopo la prima visita a Pistorius. Notai infatti che quel maggior vigore, la gioia più intensa, il più profondo sentimento di me stesso che provavo dopo di allora, erano dovuti esclusivamente all’insistente contemplazione del fuoco. Era una cosa stranamente benefica e un arricchimento. Alle poche esperienze raccolte fino allora lungo la via verso lo scopo della mia vita si aggiunse anche questa. La contemplazione di siffatte immagini, l’abbandono a forme irrazionali, strane e complicate della natura, producono in noi un senso di concordanza fra il nostro cuore e la volontà che fece nascere queste forme; tosto abbiamo la tentazione di prenderle per nostri capricci, per nostre creazioni, vediamo tremare e confondersi i limiti fra noi e la natura e veniamo a conoscere l’atmosfera in cui non sappiamo se le immagini sulla retina provengono da impressioni esteriori o da quelle interne. Mai come in questo esercizio facciamo la semplice e facile scoperta di quanto siamo creatori, di quanto la nostra anima sia sempre partecipe della continua creazione del mondo. Anzi, la stessa indivisibile divinità agisce dentro di noi e nella natura, e se il mondo esterno perisse noi saremmo capaci di ricostruirlo poiché monti e fiumi, alberi e foglie, radici e fiori e tutte le cose formate nella natura sono preformate in noi, provengono dall’anima la cui essenza è l’eternità, essenza che non ci è nota, ma si fa sentire per lo più come energia amorosa e creatrice. Soltanto alcuni anni dopo trovai la conferma di queste osservazioni in un libro di Leonardo da Vinci che a un certo punto dice quanto sia bello e istruttivo guardare un muro su cui molti abbiano sputato. Davanti a quelle macchie sul muro umido egli sentiva la stessa cosa che Pistorius e io sentivamo davanti al fuoco. Al nostro prossimo incontro l’organista mi diede una spiegazione. «Noi tracciamo sempre troppo stretti i limiti della nostra personalità. Attribuiamo alla nostra persona soltanto ciò che ci appare individualmente diverso e differente. Ma noi, ognuno di noi, consta di tutto il complesso del mondo, e come il nostro corpo ha in sé le tavole genealogiche dello sviluppo su su fino al pesce e più indietro ancora, così abbiamo nell’anima tutto ciò che mai è vissuto in anime umane Tutti gli dei e i diavoli che sono esistiti, sia tra i greci e i cinesi, sia fra gli zulù, tutti sono dentro di noi come possibilità, come desideri o vie d’uscita. Se l’umanità si estinguesse tutta, tranne un unico bambino di mediocre intelligenza che non avesse avuto alcuna istruzione, questo bambino ritroverebbe intera la via delle cose e saprebbe riprodurre tutto, dei e demoni, paradisi, leggi e divieti, antichi e nuovi testamenti.» «Sta bene» obiettai: «ma in che consiste allora il valore dell’individuo? A che scopo fare sforzi se abbiamo già tutto compiuto dentro di noi?» «Un momento!» gridò Pistorius. «C’è una bella differenza tra l’avere il mondo dentro di sé ed esserne anche consapevoli! Un pazzo può produrre pensieri che ricordino Platone e lo scolaretto devoto di un istituto religioso può concepire nessi mitologici che troviamo nei gnostici o in Zoroastro Ma non ne sa niente, e finché non lo sa è un albero o un sasso, nel migliore dei casi un animale. Quando poi gli balena la prima scintilla di questa conoscenza diventa uomo. Non vorrà mica considerare uomini tutti i bipedi che passano per la strada soltanto perché camminano ritti e la gestazione dei loro figli dura nove mesi! Lei capisce che molti di loro sono pesci o pecore, vermi o sanguisughe. E quanti sono formiche, quanti api! Certo in ognuno di loro ci sono possibilità di diventar uomini, ma solo quando lo intuiscono e imparano a rendersene conto queste possibilità appartengono a loro.» Di questo genere all’incirca erano le nostre conversazioni. Dl rado mi recavano qualcosa di nuovo, qualcosa di sorprendente. Ma tutte, anche le più umili, colpivano con leggero e costante martellio il medesimo punto dentro di me, tutte contribuivano a formarmi a rompere gusci di uova da ognuno dei quali alzavo i; capo un po’ più in alto, un po’ più libero, finché l’uccello giallo con la bella testa di rapace erompeva dal frantumato guscio del mondo. Spesso Ci raccontavamo anche i nostri sogni che Pistorius sapeva sempre interpretare. Ricordo un esempio curioso: in un certo mio sogno io sapevo volare o piuttosto ero lanciato nell’aria da una grande forza che non riuscivo a dominare. Quel volo era entusiasmante ma diventò presto angoscioso, poiché mi vidi trascinato involontariamente ad altezze sospette. Allora feci la consolante scoperta che potevo regolare la salita e la discesa trattenendo o emettendo il respiro. Pistorius osservò: «Lo slancio che la fa volare è il grande possesso umano di noi tutti. il senso di collegamento con le radici di ogni forza, che ben presto ci angoscia, maledettamente pericoloso. Perciò la maggior parte rinuncia volentieri al volo e preferisce camminare per i marciapiedi con le dande delle prescrizioni di legge. Lei no, invece, lei continua a volare come si addice a un bravo giovane. Ed ecco, le vien fatto di scoprire con meraviglia che può diventarne padrone, che alla grande forza universale da cui è trascinato si unisce una piccola forza propria, un organo, un timone. Magnifico. Senza di ciò si navigherebbe senza volontà nell’aria come fanno ad esempio i pazzi. Essi hanno intuizioni più profonde di coloro che passano per il marciapiede, ma non ne possiedono la chiave né il timone e precipitano nell’infinito. Lei invece, Sinclair, lei riesce. Ma come? Forse non lo sa nemmeno. Lei ricorre a un nuovo organo, a un regolatore del respiro. E qui può vedere quanto poco sia personale la sua anima nel profondo. Essa, infatti, non inventa questo regolatore. Non è nuovo, ma preso a prestito, dato che esiste da millenni. È l’organo dell’equilibrio nei pesci, è la vescica natatoria. Esistono anche oggi alcune specie di pesci strani e conservatori la cui vescica è ad un tempo una specie di polmone e in date circostante può servire per il respiro. Esattamente dunque come il polmone che lei in sogno usa da vescica aviatoria! E mi portò persino un volume di zoologia, facendomi vedere i nomi e le figure di quei pesci antiquati. E io sentii in me, con un brivido singolare, farsi viva una funzione che risaliva a epoche di un’evoluzione precedente

 

 

Tratto da: Hermann Hesse, Demian, Traduzione di Ervino Pocar

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Fedor Dostoevskij

16 Dicembre 2022

“La compassione è la più importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera”. Fedor Dostoevskij

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Johanna

6 Dicembre 2022

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Johanna.  Un film di Ian Derry 

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Foto dal finestrino

6 Dicembre 2022

Qualche volta la luce non è quantità di lux; qualche volta la luce è il cielo completo che precipita nella stanza. Jaisalmer, India, 1985

Tratto da: Ettore Sottsass, Foto dal finestrino, Adelphi

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Nasrin Sotoudeh, la sua condanna è un insulto al genere umano

26 Novembre 2022

Devo essere sincera: stavolta ci ho messo un po’ ad accettare questa notizia dall’Iran. Benché sia ormai da anni assuefatta a impiccagioni, esecuzioni pubbliche, condanne a morte, restrizioni e via dicendo, la sentenza nei confronti di Nasrin Sotoudeh mi ha lasciata davvero senza parole. La più famosa avvocatessa iraniana per i diritti umani è stata condannata infatti a 38 anni di carcere e 148 frustate. A darne la notizia su Facebook è stato il marito Reza Khandan dopo aver ricevuto una telefonata dal carcere da parte di sua moglie.

Più volte negli anni ho seguito la vicenda di Nasrin e più volte ho interagito anche con suo marito, che mi dice di non potermi rilasciare dichiarazioni. Anche lui era stato arrestato lo scorso settembre, poi rilasciato su cauzione e precedentemente picchiato davanti alla prigione di Evin, perché aveva provato a chiedere notizie circa sua moglie. Trovo la sentenza iraniana nei confronti di Nasrin un vero e proprio insulto al genere umano, in particolare a quello femminile. Si parla di 148 frustate, che porterebbero alla morte certa del condannato e che solo a nominarle fanno rabbrividire qualunque essere umano dotato di una sana coscienza.

La coscienza che invece Nasrin ha dimostrato di avere non lasciando mai il suo Paese o la sua famiglia, ma restando accanto alle persone che lei pensava di poter aiutare con il suo lavoro di avvocato. Nasrin da sempre aveva preso a cuore il grido di libertà – che da 40 anni non viene ascoltato – delle donne iraniane, ancora sottomesse a un pezzo di stoffa tenuto in testa, il velo appunto, che non hanno scelto di indossare.Nasrin Sotoudeh era stata arrestata più volte: l’ultima lo scorso luglio, proprio per aver difeso le donne che tra dicembre 2017 e gennaio 2018 si erano tolte il velo, chiamate anche “Le ragazze di Enghelab Street“. Semplici donne che avevano protestato pacificamente contro la legge della Repubblica Islamica che obbliga le donne a indossare il velo (hijab) in pubblico. Purtroppo le notizie che arrivano dall’Iran e quelle che ruotano attorno alle cause di questo genere non sono mai chiare e spesso anche le informazioni non sono trasparenti.

Non abbiamo ancora letto gli atti del processo, ma qualcuno parla di un processo iniquo, una consuetudine in Iran. I giornali iraniani su questa notizia, che ormai ha fatto il giro del mondo e per la quale si sta creando una mobilitazione internazionale, ci vanno cauti e provano a scrivere di una pena diversa da quella citata dal marito, diminuendo il numero degli anni di detenzione. Ma il problema non cambia, qua si accusa una donna di “collusione contro la sicurezza nazionale”, “propaganda contro lo Stato”, “istigazione alla corruzione e alla prostituzione” e di “essere apparsa in pubblico senza hijab”: le solite accuse trite e ritrite usate dall’Iran quando vuole condannare qualcuno senza una motivazone valida.

In Iran qualunque gesto di ribellione nei confronti del regime viene considerato quale “attentato alla sicurezza nazionale“. Nasrin già in passato era stata in prigione, dove ha sostenuto due scioperi della fame per protesta alle condizioni di Evin, il famigerato carcere di Tehran, e le era stato proibito vedere i suoi figli. Sotoudeh era stata rilasciata a settembre 2013 poco prima dell’elezione del presidente Hassan Rouhani, che aveva dichiarato nella campagna elettorale di migliorare i diritti civili della popolazione. Una campagna che in molti abbiamo sostenuto e nella quale abbiamo creduto, ma i cui risultati tardano ad arrivare.

Non è facile essere donne in Iran e malgrado l’emancipazionedegli ultimi anni le donne non sono ancora nella facoltà di poter decidere della propria vita, del proprio abbigliamento. Ed è proprio questo quello che stanno facendo le giovani donne iraniane: rivendicare il proprio diritto alla “scelta”, una parola poco conosciuta in Iran. Si sa che nella Repubblica Islamica dell’Iran una donna non “sceglie”, ma sono gli uomini – dettati dalla religione islamica o chissà, forse da una mentalità arcaica e misogina, a decidere ancora cosa sia giusto o meno per una donna.

Gli uomini in Iran hanno deciso che per una donna cantare è sbagliato, lasciare il Paese senza il consenso di un uomo adulto è sbagliato, partecipare agli eventi sportivi alla presenza di uomini è sbagliato. Ben venga invece il coraggio delle iraniane che sfidano questo sistema anche a costo dell’arresto. Appaiono più che mai appropriate le preziose osservazioni della scrittrice Dacia Maraini che nella prefazione del mio libro Ti Racconto l’Iran. I miei anni in terra di Persia – pubblicato da Armando Editore – auspica per le donne iraniane l’annullamento di tutte quelle nozioni discriminatorie nei loro confronti in vigore dalla Rivoluzione Islamica del 1979. Finché accetteremo che esistano Paesi nel mondo in cui la libertà alle donne viene ancora negata, potremo pur dire di aver fallito.

Testo di: Tiziana Ciavardini, Giornalista e antropologa

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