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LESSICO NATURALE

Vivere senza vergogna

2 Marzo 2022

Una volta non osavamo fiatare, far sentire un fruscio. Adesso scriviamo per il «Samizdat», lo leggiamo, e ritrovandoci nei fumoir degli istituti di ricerca diamo sfogo al nostro malcontento: Quante ne combinano quelli, dove ci stanno portando! L’inutile smargiassata cosmica, con lo sfasciume e la povertà che c’è nel paese; rafforzano folli regimi all’altro capo del mondo; attizzano guerre civili; hanno dissennatamente tirato su (a spese nostre) quel Mao Tse-tung, e ancora una volta manderanno noi a combatterlo, e ci toccherà andarci, cosa vuoi fare? Mettono sotto processo chi vogliono, la gente sana la fanno diventare matta – loro, sempre loro, e noi siamo impotenti.
Stiamo ormai per toccare il fondo, su tutti noi incombe la più completa rovina spirituale, sta per divampare la morte fisica che incenerirà noi e i nostri figli, e, noi continuiamo a farfugliare con un pavido sorriso:
– Come potremmo impedirlo? Non ne abbiamo la forza.

Siamo a tal punto disumanizzati, che per la modesta zuppa di oggi siamo disposti a sacrificare qualunque principio, la nostra anima, tutti gli sforzi di chi ci ha preceduto, ogni possibilità per i posteri, pur di non disturbare la nostra grama esistenza. Non abbiamo più nessun orgoglio, nessuna fermezza, nessun ardore nel cuore. Non ci spaventa neppure la morte atomica universale, non abbiamo paura d’una terza guerra mondiale (ci sarà sempre un angolino dove nascondersi), abbiamo paura soltanto di muovere i passi del coraggio civico. Ci basta non staccarci dal gregge, non fare un passo da soli, non rischiare di trovarci tutt’a un tratto privi del filoncino di pane bianco, dello scaldabagno, del permesso di soggiornare a Mosca.
Ce l’hanno martellato nei circoli di cultura politica e il concetto ci è entrato bene in testa, ci assicura una vita comoda per il resto dei nostri giorni: l’ambiente, le condizioni sociali, non se ne scappa, l’esistenza determina la coscienza, noi cosa c’entriamo? non possiamo far nulla.

Invece possiamo tutto! Ma mentiamo a noi stessi per tranquillizzarci. Non è affatto colpa loro, è colpa nostra, soltanto NOSTRA!
Si obietterà: ma in pratica che cosa si potrebbe escogitare? Ci hanno imbavagliati, non ci danno retta, non ci interpellano. Come costringere quelli là ad ascoltarci?
Fargli cambiare idea è impossibile.

[…] Davvero non c’è alcuna via d’uscita? E non ci resta se non attendere inerti che qualcosa accada da sé?
Ciò che ci sta addosso non si staccherà mai da sé se continueremo tutti ogni giorno ad accettarlo, ossequiarlo, consolidarlo, se non respingeremo almeno la cosa a cui più è sensibile.
Se non respingeremo la MENZOGNA.
Quando la violenza irrompe nella pacifica vita degli uomini, il suo volto arde di tracotanza ed essa porta scritto sul suo stendardo e grida: «IO SONO LA VIOLENZA! Via, fate largo o vi schiaccio! ». Ma la violenza invecchia presto, dopo pochi anni non è più tanto sicura di sé, e per reggersi, per salvare la faccia, si allea immancabilmente con la menzogna. Infatti la violenza non ha altro dietro cui coprirsi se non la menzogna, e la menzogna non può reggersi se non con la violenza. Non tutti i giorni né su tutte le spalle la violenza abbatte la sua pesante zampa: da noi esige solo docilità alla menzogna, quotidiana partecipazione alla menzogna: non occorre altro per essere sudditi fedeli.
Ed è proprio qui che si trova la chiave della nostra liberazione, una chiave che abbiamo trascurato e che pure è tanto semplice e accessibile: IL RIFIUTO DI PARTECIPARE PERSONALMENTE ALLA MENZOGNA. Anche se la menzogna ricopre ogni cosa, anche se domina dappertutto, su un punto siamo inflessibili: che non domini PER OPERA MIA!
È questa la breccia nel presunto cerchio della nostra inazione: la breccia più facile da realizzare per noi, la più distruttiva per la menzogna. Poiché se gli uomini ripudiano la menzogna, essa cessa semplicemente di esistere. Come un contagio, può esistere solo tra gli uomini.
Non siamo chiamati a scendere in piazza, non siamo maturi per proclamare a gran voce la verità, per gridare ciò che pensiamo. Non è cosa per noi, ci fa paura. Ma rifiutiamoci almeno di dire ciò che non pensiamo.
È questa la nostra via, la più facile e accessibile, data la nostra radicata e organica codardia, una via molto più facile che non (fa spavento il nominarla) la disubbidienza civile alla Gandhi.
La nostra via è: NON SOSTENERE IN NESSUN CASO CONSAPEVOLMENTE LA MENZOGNA. Avvertito il limite oltre il quale comincia la menzogna (ciascuno lo discerne a modo suo), ritrarsi da questa cancrenosa frontiera! Non rinforzare i morti ossicini e le squame dell’Ideologia, non rappezzare i putridi cenci: e saremo stupiti nel vedere con quale rapidità la menzogna crollerà impotente e ciò che dev’essere nudo, nudo apparirà al mondo.
Ognuno di noi dunque, superando la pusillanimità, faccia la propria scelta: o rimanere servo cosciente della menzogna (certo non per inclinazione, ma per sfamare la famiglia, per educare i figli nello spirito della menzogna!), o convincersi che è venuto il momento di scuotersi, di diventare una persona onesta, degna del rispetto tanto dei figli quanto dei contemporanei. E da quel momento tale persona:

•non scriverà più né firmerà o pubblicherà in alcun modo una sola frase che a suo parere svisi la verità;

•non pronunzierà frasi del genere né in privato né in pubblico, né di propria iniziativa né su ispirazione altrui, né in qualità di propagandista né come insegnante o educatore o in una parte teatrale;

•per mezzo della pittura, della scultura, della fotografia, della tecnica, della musica, non raffigurerà, non accompagnerà, non diffonderà la più piccola idea falsa, la minima deformazione della verità di cui si renda conto;

•non farà né a voce né per iscritto alcuna citazione «direttiva» per compiacere, per cautelarsi, per ottenere successo nel lavoro, se non è pienamente d’accordo col pensiero citato o se questo non è esattamente calzante col suo discorso;

•non si lascerà costringere a partecipare a una manifestazione o a un comizio contro il proprio desiderio o la propria volontà. Non prenderà in mano, non alzerà un cartello se non è completamente d’accordo con lo slogan che vi è scritto;

•non alzerà la mano a favore di una mozione che non condivida sinceramente; non voterà né pubblicamente né in segreto per una persona che giudichi indegna o dubbia;

•non si lascerà trascinare a una riunione dove sia prevedibile che un problema venga discusso in termini obbligati o deformati;

•abbandonerà immediatamente qualunque seduta, riunione, lezione, spettacolo, proiezione cinematografica, non appena oda una menzogna profferita da un oratore, un’assurdità ideologica o frasi di sfacciata propaganda;

•non sottoscriverà né comprerà in edicola un giornale o una rivista che dia informazioni deformate o che taccia su fatti essenziali.

Non abbiamo enumerato, s’intende, tutti i casi in cui è possibile e necessario rifiutare la menzogna. Ma chi si metterà sulla strada della purificazione non stenterà a individuarne altri, con una lucidità tutta nuova.
Certo, sulle prime sarà duro. Qualcuno si vedrà temporaneamente privato del lavoro. Per i giovani che vorranno vivere secondo la verità, all’inizio l’esistenza si farà alquanto complicata: persino le lezioni che si apprendono a scuola sono infatti zeppe di menzogne, occorre scegliere. Ma per chi voglia essere onesto non c’è scappatoia, neppure in questo caso: mai, neanche nelle più innocue materie tecniche, si può evitare l’uno o l’altro dei passi che si son descritti, dalla parte della verità o dalla parte della menzogna: dalla parte dell’indipendenza spirituale o dalla parte della servitù dell’anima. E chi non avrà avuto neppure il coraggio di difendere la propria anima non ostenti le sue vedute d’avanguardia, non si vanti d’essere un accademico o un «artista del popolo» o un generale: si dica invece, semplicemente: sono una bestia da soma e un codardo, mi basta stare al caldo a pancia piena.
Anche questa via, che pure è la più moderata fra le vie della resistenza, sarà tutt’altro che facile per quegli esseri intorpiditi che noi siamo. Ma quanto più facile che darsi fuoco o fare uno sciopero della fame: il tuo corpo non sarà avvolto dalle fiamme, non ti scoppieranno gli occhi per il calore, e un po’ di pane nero e d’acqua pura si troveranno sempre per la tua famiglia.
[…]
Una via non facile? La più facile, però, fra quelle possibili. Una scelta non facile per il corpo, ma l’unica possibile per l’anima. Una via non facile, certo, ma fra noi ci sono già delle persone, anzi decine di persone, che da anni tengono duro su tutti questi punti e vivono secondo verità.
Non si tratta dunque di avviarsi per primi su questa strada, ma di UNIRSI AD ALTRI! Il cammino ci sembrerà tanto più agevole e breve quanto più saremo uniti e numerosi nell’intraprenderlo. Se saremo migliaia, nessuno potrà tenerci testa. Se saremo decine di migliaia, il nostro paese diventerà irriconoscibile!
Ma se ci facciamo vincere dalla paura, smettiamo di lamentarci che qualcuno non ci lascerebbe respirare: siamo noi stessi che non ce lo permettiamo. Pieghiamo la schiena ancora di più, aspettiamo dell’altro, e i nostri fratelli biologi faranno maturare i tempi in cui si potranno leggere i nostri pensieri e mutare i nostri geni.
Se ancora una volta saremo codardi, vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è speranza, e che a noi si addice il disprezzo di Puskin:

A che servono alle mandrie i doni della libertà?
Il loro retaggio, di generazione in generazione
sono il giogo con i bubboli e la frusta.

Mosca, 12 febbraio 1974 –  Giorno dell’arresto di Solženicyn, precedente all’espulsione dall’URSS

Tratto da:  Aleksandr Isaevič Solženicyn, Vivere senza vergogna

Archiviato in:Aleksandr Isaevič Solženicyn, Alimentazione, Ambiente, Arte, Economia e benessere, Geografia fisica, Incontri alla fine del mondo, Storia, Tutela del paesaggio, Vivere senza vergogna Contrassegnato con: Aleksandr Isaevič Solženicyn, Vivere senza vergogna

Siamo tutti in pericolo

21 Febbraio 2022

Nel pomeriggio del 1° novembre 1975 Pasolini rilasciò a Furio Colombo un’intervista di cui pensò anche il titolo: “Siamo tutti in pericolo”. Avrebbe dovuto rivederla il giorno dopo, ma il destino volle diversamente. 

 

         Pier Paolo Pasolini a Furio Colombo

Il suo testamento, le sue parole che oggi pesano come macigni.
Quelle che pronunciò nelle ultime ore della sua vita.
Era Furio Colombo a raccoglierle per un’intervista che non fu mai completata e che oggi ci racconta di noi stessi.
Solo con 42 anni di anticipo.

L’intervista, uscita poi l’8 novembre 1975 su “La Stampa-Tuttolibri”, fu riproposta con una premessa di Furio Colombo su “l’Unità” del 9 maggio 2005. Il testo è leggibile anche nel volume Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W.Siti e S. De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano 1999, pp. 1723-1730)

“Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. 
Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione, che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista.
Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”».” (Furio Colombo)

Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo…

Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo», non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.

Ecco, descrivi allora la «situazione». Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.

Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per «scegliere». Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e «collabora» (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal «potere»?

Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?

Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.

Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.

Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.

E qual è la verità?

Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire «evidenza». Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.

Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei «consumato» avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?

A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.

Come dire che hai nostalgia di quel mondo.

No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere «di che segno sei». Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse – se ha ancora un soffio di vita – in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa-effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la «situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.

E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.

Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e con bandiere diverse. E’ vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta». Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.

Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri, per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente, salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione «più avanzata»…

Che mi fa rabbrividire.

Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?

Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non so quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.

Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?

Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.

Pasolini, se tu vedi la vita così – non so se accetti questa domanda – come pensi di evitare il pericolo e il rischio?

È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande.

«Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina».

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Alla bandiera rossa

19 Febbraio 2022

Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano,
l’analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.

Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, 1961

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In giardino

18 Febbraio 2022

Un mattino, sulle tracce dei miei desideri, lasciai casa nostra con un libro e un pezzo di pane nella borsa. Ma prima, com’ero abituato a fare da bambino, corsi dietro la casa nel giardino ancora ombreggiato. Gli abeti piantati da mio padre, che avevo conosciuto giovani e sottili come bastoni, si erano fatti alti e robusti; ai loro piedi giacevano cumuli di aghi di un marrone chiaro e da anni non vi cresceva altro che pervinche [Vinca minor, L.]. Lì vicino, però, in una piccola aiuola, c’erano i fiori perenni di mia madre, raggianti e allegri, che sempre la domenica raccoglievamo in grandi mazzi. C’era una pianta con grappoli di fiorellini rosso cinabro che chiamavano “monete del papa” [Lunaria annua, L.] e un esile arbusto dai cui rami sottili pendeva una moltitudine di fiori rossi e bianchi, cuoriformi, chiamati “cuori di Maria” [Dicentra spectabilis, Lem.], e, ancora, un cespuglio detto “fanciullaccia” [Nigella damascena, L.]. Poco oltre crescevano, non ancora in fiore, gli astri dal lungo gambo, in mezzo strisciavano sul terreno il grasso sempervivum con le sue spine morbide, e la buffa portulaca. Quest’aiuola lunga e stretta era la nostra preferita, il giardino dei nostri sogni: qui crescevano insieme tanti diversi tipi di fiori bizzarri, che noi amavamo e ammiravamo ben più delle rose che fiorivano nelle due aiuole rotonde. Quando il sole splendente illuminava il muro di edera, ogni pianta si mostrava unica nella sua particolare bellezza: i gladioli si innalzavano superbi, carnosi e sgargianti, l’eliotropio blu [Heliotropium arborescens, L.], come incantato, sembrava sprofondare nel suo profumo intenso, le code di volpe [Ononis sp.] penzolavano arrendevoli, ormai appassite, l’aquilegia invece si ergeva in punta di piedi suonando le sue quadruplici campanelle estive. Intorno alle verghe auree [Solidago virga-aurea, L.] e tra i phloxazzurri ronzavano rumorose le api e sopra la fitta edera correvano qua e là piccoli e frettolosi ragnetti marroni; sopra le violaciocche tremolavano nell’aria farfalle col corpo robusto e le ali sottili come vetro, dal volo veloce e capriccioso, chiamate sfingidi.

Indugiando nel piacere dei giorni di festa passavo da un fiore all’altro, qua e là annusavo un’ombrella profumata, con un dito aprivo cautamente un calice per guardarci dentro e ammirare i misteriosi meandri e il silenzioso ordine di nervature e pistilli, di morbidi fili pelosi e di solchi cristallini. Intanto studiavo il cielo annuvolato del mattino, tratteggiato da un intricato groviglio di sottili striature di nebbia e di lanosi batuffoli di nuvole…

Meravigliato e con un senso di silenziosa angoscia, mi guardavo intorno nella ben nota cerchia delle mie gioie infantili. Il piccolo giardino, il balcone ornato dai fiori e il cortile umido, dove il sole non arrivava e il selciato era sempre coperto dal verde muschio, mi guardavano con un aspetto diverso da quello di un tempo. Persino i fiori avevano perduto qualcosa del loro inesauribile incanto. Il vecchio bottaccio dell’acqua col suo condotto se ne stava in un angolo del giardino, modesto e inespressivo; un tempo, indispettendo mio padre, vi avevo fatto scorrere l’acqua per intere mattinate e per interi pomeriggi, costruivo ruote di mulino in legno e lungo il percorso disponevo dighe e canali provocando violente alluvioni. Quel bottaccio ormai sgretolato dalle intemperie mi era stato fedele e amato compagno di giochi; guardandolo riuscii a percepire un’eco di quella gioia infantile, ma ormai sapeva di tristezza, si era ridotto a un piccolo rigagnolo, non era più un torrente né un Niagara.

Pensoso, scavalcai il recinto, un fiore azzurro di convolvolo mi sfiorò il viso, lo strappai e me lo infilai tra i denti. Ero deciso a fare una passeggiata sul monte per guardare la nostra città dall’alto. Passeggiare era una di quelle imprese semigioiose che in tempi passati non mi sarebbe mai venuta in mente. Un bambino non va a passeggio. Semmai va nel bosco a fare il bandito, il cavaliere o l’indiano, va al fiume a fare lo zatteriere e il pescatore oppure il costruttore di mulini, corre nei prati a caccia di farfalle e di lucertole. E così la mia passeggiata mi sembrò l’occupazione rispettabile e un po’ noiosa di un adulto che non sa bene cosa fare di se stesso.

Il mio fiore azzurro ben presto si avvizzì e lo gettai via; ora rosicchiavo un rametto di bosso dal sapore amaro e piccante, che avevo appena strappato. Vicino al terrapieno della ferrovia dove crescevano gli alti arbusti di ginestra, una lucertola mi sfrecciò davanti ai piedi. Allora la mia indole di bambino si ridestò: non mi diedi più pace, la rincorsi strisciando fino a quando la bestiola spaventata e calda di sole fu prigioniera tra le mie mani. La fissai negli occhietti brillanti come gemme e, nel ritrovare la gioia di un tempo per la caccia, sentii quel corpicino agile e forte e le dure zampette che si dimenavano puntandosi contro le mie dita. Poi, però, il piacere si esaurì e io non seppi più cosa fare di quella bestiola. Non mi dava più niente, non provavo più alcuna felicità. Mi chinai e aprii la mano; la lucertola rimase un attimo immobile con il respiro affannato che le faceva palpitare i fianchi, poi scomparve veloce tra l’erba. Un treno passò sulle rotaie luccicanti sfrecciandomi accanto; io lo guardai allontanarsi e per un momento percepii in modo inconfondibile che per me qui non poteva più fiorire alcun vero piacere e desiderai intensamente partire per il mondo con quel treno.

 

 

Tratto da: H. Hesse, Der Zyklon, 1913

 

 

 

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MINIMARIO

15 Febbraio 2022

Un anno fa, 2 febbraio 2021, Mattarella chiamò Draghi per sostituire Conte, dimissionario dopo aver avuto la fiducia di Camera e Senato, con un coso mai visto prima: “Un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica” con “tutte le forze politiche presenti in Parlamento”. Sfortunatamente abboccarono tutti i partiti tranne fortunatamente uno (sennò avremmo avuto un coso già visto prima, ma nelle dittature). Il progetto era chiaro: cancellare il popolarissimo premier che aveva gestito la pandemia e portato a casa 209 miliardi di Pnrr; raddrizzare le gambe agli elettori che avevano sbagliato a votare nel 2018 per un cambiamento radicale (ribattezzato dai gattopardi “populismo” e “sovranismo”); neutralizzare i partiti vincitori annegandoli in una maggioranza così ampia da renderli ininfluenti e infiltrando in ciascuno di essi un PdD (partito di Draghi) per scardinarne le leadership e riportarli a più miti consigli. Perciò i ministri politici furono scelti, con rare eccezioni, fra i più allineati al sistema: Di Maio per il M5S, gli antisalviniani Giorgetti, Garavaglia e Stefani per la Lega, i lettiani (nel senso di Gianni) Brunetta, Gelmini e Carfagna per FI, più i pidini già allineati per Dna. L’avvento di Letta (nel senso di Enrico) al vertice del Pd agevolò la restaurazione. Il cerchio si sarebbe chiuso se Grillo, dopo aver trascinato i 5S nel governo dei “grillini” Draghi e Cingolani, avesse buttato fuori Conte dopo avergli dato le chiavi: ma la congiura fallì per la rivolta dei militanti.

In ogni caso, chi aveva architettato questo bel progettino era certo che SuperMario avrebbe fatto tali miracoli da lasciare senza fiato gli italiani, regnando sull’Italia, l’Europa e l’orbe terracqueo per almeno 10 anni. Invece non ne azzeccò quasi nessuna, mentre la maionese della maggioranza impazziva. Allora tentò la fuga al Quirinale. Ma, malgrado le sue frenetiche manovre, non se lo filò nessuno (5 voti). Costringendo Mattarella a tagliarsi la faccia e a smentire mesi di “rielezione mai”, pur di salvare il salvabile del Piano Gattopardo. Risultato. Tutte le massime istituzioni sfregiate o screditate: il “nuovo” capo dello Stato che rinnega la parola data come un Napolitano qualsiasi; SuperMario sconfitto, umiliato e ridotto a MiniMario; la presidente del Senato ridicolizzata in diretta tv; la direttrice del Dis impallinata da Letta jr., Di Maio, FI e frattaglie varie (e screditata dalla foto con Giggino); la maggioranza in frantumi, con le coalizioni e i partiti in pezzi; l’“antipolitica” ai massimi storici, col nuovo boom dell’astensionismo; e un solo partito che ci lucra: l’unico che sta all’opposizione, il più “populista” e “sovranista” fra quelli che i gattopardi volevano radere al suolo. Bei pirla.

 

Di Marco Travaglio, Il fatto Quotidiano

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Quirinale, menzognee Amarcord

11 Febbraio 2022

È stato vacuo parlare di “crollo del sistema”, se l’“inevitabile” Mattarella non fosse rimasto: uno storcimento della realtà che sta diventando patologico. Le alternative c’erano

Neanche un briciolo di imbarazzo nei tanti commenti che giudicano l’Italia salvata dalla doppia medicina che le è stata inflitta.

Sergio Mattarella al Quirinale per 14 anni e Mario Draghi che resta a Palazzo Chigi, azzoppato dalla mancata ascesa al Colle ma pur sempre il Migliore di tutti. L’esecutivo Draghi è una creazione di Mattarella e senza Mattarella pareva evidentemente improponibile. Ogni alternativa è stata bollata in partenza, come disonorante. Si salva solo Giorgia Meloni, che pensa alle legislative e sa che al di là delle baruffe partitiche ci sono elettori da convincere. Pur rimanendo all’opposizione aveva approvato con Salvini la candidatura di Elisabetta Belloni, proposta da Conte e Enrico Letta, fino a quando arrivò il siluro dello stesso Letta, soggiogato da Renzi e renziani del Pd.

Non poteva andare altrimenti, proclamano compiaciuti i principali editorialisti, nonostante le loro previsioni siano tutte andate a buca. Draghi che con Mattarella aveva affossato Conte per poter poi trasferirsi al Colle non ha vinto la scommessa, come tanti avevano fantasticato, e tuttavia resta il campione in assoluto anche lì dov’è: magari proverà la prossima volta. Mattarella che aveva ripetutamente dichiarato di volersene andare – sino a mettere in scena il trasloco con gli scatoloni – resta al suo posto come se nessuna alternativa fosse esistita. Perfino Enrico Letta, rivelatosi succube di Renzi, riceve misteriosamente la laurea del vincente.

Facile dire che non c’era alternativa, quando nessuna è stata messa alla prova e tutte sono state dichiarate fasulle. Dichiarate da chi? Perché? Qualcuno potrebbe spiegare in maniera convincente perché davvero NO Frattini (l’atlantismo è stato un pretesto ignominioso), NO Belloni, e poi NO Casini? (la domanda non implica simpatia, ovviamente).

Non è detto che gli italiani apprezzino questo copione visibilmente già scritto in anticipo, forse addirittura fin dai giorni del conticidio – o Mattarella o Draghi, così pare volessero i mercati, l’Europa, la Nato e chissà quale altro fantasma. Altra via non c’era anche quando palesemente esisteva. Era possibile eleggere Belloni, per esempio, si poteva almeno provare. Invece si è provato solo con Elisabetta Casellati – la più vanitosa, la più rampante tra i candidati, perdente per forza essendo sostenuta solo da parte delle destre. Si dice così spesso che bisogna volere e tentare l’impossibile, ma qui è il possibile che non è stato né tentato né voluto.

Sicché ora prevale una strana euforia. Mattarella ha ricevuto 85 applausi, quasi sempre in piedi. E visto che gli occhi dei commentatori si appannano commossi alla sola parola “standing ovation”, si coglie l’occasione per dire che proprio così – con applausi “scroscianti” – si sono espressi gli italiani: a novembre al San Carlo di Napoli, a dicembre alla Scala.

Si fa presto a dire “gli italiani”, nota giustamente Tomaso Montanari. Non è il popolo che osannava a Napoli e Milano – il popolo che esercita la sovranità secondo la Costituzione – ma una élite assai ristretta. I parlamentari applaudono come mai prima e l’unica cosa cui non pensano è quella essenziale: come saranno valutati dai cittadini, quando si voterà. L’affluenza nelle politiche del 2018 già era in calo (72,9% per la Camera; 72,9% per il Senato), ma alle ultime amministrative è stato un tracollo, questo sì scrosciante: l’astensione ha superato il 50% al secondo turno.

Probabilmente l’astensione sarebbe stata altissima già nel 2018, se non ci fosse stato il Movimento 5 Stelle a smuovere i cittadini con parole nuove e a incanalare le collere. Ma secondo la vulgata i 5 Stelle erano populisti: si erano indignati con Mattarella quando questi respinse Savona ministro dell’economia, ingiustamente sospettato di volere l’uscita dall’euro; avevano flirtato con i Gilets Jaunes (un vasto movimento contro le politiche economiche di Macron, specie fiscali, non riducibile a mera sedizione violenta). I votanti 5 Stelle non erano graditi: molto meglio se gli italiani non andavano proprio più alle urne. La vulgata dice ancora che Di Maio è ben incuneato nei Palazzi e dunque “molto maturato”. Stavolta gli elettori del M5S diserteranno in massa, nonostante gli sforzi immani di riconquista territoriale e vera maturità movimentista intrapresi da Conte.

Molti escono ammaccati da questi tempi di pandemia e di emergenza, a cominciare da Draghi che nella conferenza stampa di fine anno aveva sostenuto che la sua missione era finita, nonostante la pandemia fosse ben viva e le disuguaglianze sociali crescessero. Tanto più inane parlare di “crollo del sistema”, qualora Mattarella non fosse stato rieletto (parola di Pierluigi Castagnetti): uno storcimento della realtà che sta divenendo patologico. Non sarebbe crollato alcun sistema, se Mattarella non avesse fatto il bis. Se fosse vero, si può ragionevolmente supporre che non avrebbe preparato gli scatoloni. Oppure tutto era menzogna, sin da principio: Mattarella che giudicava costituzionalmente anomali due settennati; Draghi che riteneva felicemente compiuta la missione e difendeva la centralità del Parlamento; Enrico Letta che si travestiva da Ciccio Ingrassia, urlava dall’alto dei rami “Voglio una donna!” e poi però in un baleno ci ripensava, aspettando che la suorina-nana lo tirasse giù dall’albero come in Amarcord.

Il crollo del sistema è dato per sicuro se chi governa non si dice europeista, atlantista, e rapido nel decidere. Nonostante questo Mattarella ha detto alcune cose più che giuste, il 3 febbraio alle Camere: ha detto che “poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico”; ha chiesto che “il Parlamento sia sempre posto in condizione di poter esaminare e valutare con tempi adeguati” gli atti del governo; e che “la forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi”. È un buon programma. Non risponde del tutto al profilo di Draghi.

Immutato rimane, di contro, il silenzio italiano sul ricorso al nucleare e al gas, definite energie pulite dalla Commissione Ue, su pressione di Macron. E rimane la cecità sui respingimenti in Libia dei migranti. Oltre 170 organizzazioni italiane, europee e africane hanno lanciato in questi giorni un appello affinché sia revocato il memorandum Italia-Libia, contrario alle leggi internazionali contro le espulsioni collettive sui rifugiati. Anche su questi punti i governanti sono tutt’altro che Migliori.

Di Barbara Spinelli , Il Fatto Quotidiano, 5 Febbraio 2022

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MIA MADRE

9 Febbraio 2022

 

Eccetto l’amore

Non amavo, ma piangevo. No, non amavo, tuttavia
solo a te ho indicato nell’ombra il volto adorato.
Tutto nel nostro sogno non assomigliava all’amore:
né ragioni, né indizi.

Solo noi ha salutato questa immagine dalla sala serale,

solo noi – tu ed io – le abbiamo portato un verso lamentoso.
Il filo dell’adorazione ci ha legati più forte
dell’innamoramento – degli altri.

Ma l’impeto è passato e dolcemente qualcuno si è avvicinato
che non poteva pregare, ma amava. Non affrettarti a condannare!
Ti ricorderò come la più tenera nota
nel risveglio dell’anima.

Tu vagavi in questo animo triste come in una casa non chiusa.
( nella nostra casa, in primavera…)non definirmi quella che ha dimenticato!
Io ho riempito di te tutti i minuti tranne
il più triste – quello dell’amore.

 

Marina Cvetaeva

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FIDEL CASTRO

9 Febbraio 2022

Signor Presidente,
Signor Direttore Generale
Eccellenze:

La fame, l’inseparabile compagna dei poveri è la figlia della distribuzione ineguale delle ricchezze e delle ingiustizie di questo mondo. I ricchi non conoscono la fame. Il colonialismo non è estraneo al sottosviluppo e alla povertà di cui soffre oggi una grande parte dell’umanità. Né sono distinte a questo tavolo la offensiva opulenza delle società consumiste delle antiche metropoli che hanno sfruttato un gran numero di paesi sulla terra. Milioni di persone sulla terra sono morte lottando contro la fame e l’ingiustizia.

Quale tipo di soluzione cosmetica andremo ad applicare per avere tra venti anni 400 milioni di affamati invece di 800? Questi obbiettivi sono, per la loro modestia, una vergogna.

Se 35 mila persone muoiono di fame ogni giorno, di cui la metà sono bambini, perchè nei paesi sviluppati le olive sono distrutte, si sacrificano le greggi , e grandi somme sono spese per mantenere la terra improduttiva?

Se il mondo giustamente si commuove dei disastri e dalle catastrofi naturali e sociali che tolgono la vita a centinaia o migliaia di persone, perchè non é ugualmente commosso da questo genocidio che si ripete ogni giorno davanti ai nostri occhi?

Delle forze di intervento sono organizzate per prevenire la morte di centinaia di migliaia di persone ad est dello Zaire. Che cosa faremo noi per evitare la morte per fame di un milione di persone nel mondo?

E’ il capitalismo, il neoliberismo, le leggi di un mercato selvaggio, il debito estero, il sottosviluppo, lo scambio ineguale che uccidono tante persone nel mondo.

Perchè investire 700 miliardi di dollari ogni anno in spese militari invece di investire una parte delle risorse per lottare contro la fame, per impedire l’impoverimento del suolo, la desertificazione e la deforestazione di milioni di ettari ogni anno, il riscaldamento dell’atmosfera e gli effetti serra che provocano la gran parte dei cicloni, la mancanza o l’eccesso di pioggia, la distruzione dello strato di ozono e gli altri fenomeni naturali che colpiscono la produzione di alimenti e la vita dell’uomo sulla terra ?

Le acque sono contaminate, l’atmosfera inquinata la natura distrutta. Non si tratta solamente di mancanza di investimenti, di assenza di educazione e di tecnologie, di crescita accellerata della popolazione: ma é l’ambiente che si deteriora e il futuro che diventa più compromesso giorno dopo giorno.

Perchè continuare a produrre armi sofisticate una volta finita la guerra fredda? A che cosa servono queste armi se non a dominare il mondo? Perchè questa feroce concorrenza per vendere degli armamenti ai paesi sottosviluppati che non li renderrà più potenti per difendere loro indipendenza invece di sopprimere la fame?

Perchè aggiungere a tutto questo delle politiche criminali , dei blocchi assurdi che includono alimenti e medicine per uccidere di fame e malattie delle intere popolazioni? Dov’è l’etica, la giustificazione , il rispetto dei più elementari Diritti dell’Uomo, dove si trova il vero senso di queste politiche?

Facciamo prevalere la verità e non l’ipocrisia e la menzogna. Noi dobbiamo prendere coscienza che l’egemonismo, l’arroganza e l’egoismo devono sparire dal mondo.

Le campane che oggi suonano per coloro che muoiono di fame , suoneranno domani per tutta l’umanità se essa non avrà voluto, o saputo, o potuto essere sufficientemente saggia da salvare se stessa .

Muchas gracias

Discorso pronunciato da FIDEL CASTRO al vertice mondiale sull’alimentazione, Fao, Roma 16 novembre 1996

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Perché siamo un paese di vecchi senza più figli

8 Febbraio 2022

Finalmente comincia a venire alla luce (ed è proprio il caso di dirlo, vedremo in seguito perché) il problema della denatalità. Se n’è accorto persino Federico Fubini in un editoriale, seppur molto arzigogolato, sul Corriere del 17 gennaio.

In Italia il tasso di fertilità per donna è di 1,3 (per arrivare a un pareggio demografico dovrebbe essere di 2, e qualcosina in più perché nel frattempo qualcuno, grazie a dio, muore). Siamo il Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone (dati Istat). Ma il problema, oserei dire il dramma, della denatalità e dell’invecchiamento non riguarda solo l’Italia ma tutto il mondo occidentale. Andando avanti di questo passo il mondo occidentale scomparirà a petto di quello mediorientale, arabo, islamico dove la fertilità per donna è del 2,5 o di quello nero africano dove le donne, nonostante tutte le difficoltà, continuano a fare figli (il tasso di fertilità è del 5).

All’origine di questo fenomeno di costante invecchiamento delle nostre società, che dovrebbe preoccupare un po’ più del Covid (anzi il Covid ha cercato, generosamente, di dare una mano) ci sono motivazioni culturali, sociali, economiche.

La prima è culturale. La donna di cultura occidentale pare essersi dimenticata di quella che è, antropologicamente, la prima delle sue funzioni: fare i figli. Nella grande storia antropologica dell’umanità (ma anche delle specie animali) la protagonista è la donna, proprio perché dà la vita, mentre l’uomo è solo un inseminatore transeunte. Lo dimostra anche una comparazione con il mondo animale. Il fuco più forte riesce a reggere la competizione con l’Ape Regina che lo porta ad altezze per lui insostenibili, la feconda, e poi muore perché la sua funzione finisce qui: l’Ape Regina è fecondata e piena di uova. La mantide religiosa subito dopo l’amplesso uccide, senza pietà, il suo amante perché il maschio ha esaurito la sua funzione: fecondarla.

Nella tradizione kabbalistica, e peraltro anche in Platone, l’Essere primigenio è androgino. Con la caduta si scinde in due: la Donna, che viene chiamata “la Vita” o “la Vivente”, e l’Uomo, che è colui che “è escluso dall’Albero della Vita”. Insomma, antropologicamente parlando, la donna è la vita, l’uomo se non la morte qualcosa che gli assomiglia molto e che alimenta il suo profondo istinto di morte come dimostra la propensione maschile alla guerra, totalmente estranea alla donna che, poiché vitale, non comprende il senso di questa carneficina.

Nella modernità la donna ha perso il senso profondo della sua funzione antropologica a favore dei diritti civili che pure le competono: parità con l’uomo, diritto al lavoro, diritto alla carriera e più in generale diritto all’autorealizzazione. Tutti questi diritti sono oggi incontestabili. Ma la conseguenza è una progressiva rinuncia della donna a figliare o comunque a ritardarne il più possibile il momento a favore di quella che grossolanamente e per semplificare chiameremo carriera. Non che la donna di oggi, almeno in linea generale, non voglia avere figli. Ma aspetta, aspetta il momento più favorevole. Ma aspettando aspettando il momento favorevole passa senza che uno nemmeno se ne accorga. In questo la donna è stata ingannata dalla medicina moderna che le ha fatto credere che si possano avere figli a qualunque età. Ma la Natura non la si inganna. L’età di massima fertilità per la donna sono i 27 anni, poi va lentamente a discendere. Certo si possono fare tranquillamente figli a trent’anni, a 33, a 35 ma quando ci si avvicina ai 40, o addirittura li si oltrepassa, le cose si complicano maledettamente. È esperienza comune di coppie che a quarant’anni decidono che è venuto il momento, ma benché lei sia sana e lui pure non riescono ad avere il figlio a quel punto molto desiderato.

Tecnicamente la questione riguarda lei, l’uomo può essere fertile anche a età molto elevate (per fare un esempio famoso, ma è solo uno dei tanti, Charlie Chaplin ebbe l’ultimo dei suoi numerosi figli a 73 anni, ma la moglie Oona O’Neill ne aveva 37).

Poi c’è la motivazione economica. Oggi si esita a fare figli nel timore di non riuscire a mantenerli o comunque a mantenerli in modo adeguato. Ma basta risalire solo a due o tre generazioni fa e vediamo che le coppie, anche quelle in male arnese, facevano cinque, sei a volte dieci figli. È pure vero che nel mondo contadino, almeno quello che ha resistito a lungo alla Rivoluzione industriale, i figli erano una risorsa anche economica. In un reportage fatto per Pagina (“La Puglia dei miracoli”) che è del 1982 – non siamo quindi nel Plestocene – si considerava una fortuna aver avuto molti figli, soprattutto maschi in questo caso, perché davano una mano nel lavoro sui campi mentre la madre si esauriva nelle gestazioni.

Un altro motivo è anch’esso culturale, sia pur di portata minore rispetto a quello antropologico che ho richiamato all’inizio. L’aggressività della donna di oggi, libera, economicamente autonoma, ha spaventato il maschio. Di qui l’aumento esponenziale dell’omosessualità maschile e, in corrispondenza, di quella femminile, più nascosta come più nascosto è il sesso della donna.

Ho inoltre il sospetto che i giovani facciano meno sesso di un tempo. Perché appagati, o invece disgustati, dalla pornografia dilagante offerta dagli infiniti siti specializzati. Ma i figli non si fanno né con le macchine né con le fantasie masturbatorie. Se così non fosse non si capirebbe come mai abbiano tanto spazio anche vecchie ciabatte come me.

Di Massimo Fini,  Il Fatto Quotidiano, 5 Febbraio 2022

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Ettore Sottsass

5 Febbraio 2022

India

In India ci sono andato tante volte e spero di poterci andare ancora perché in India mi sento molto bene. Mi sento bene perché fa caldo e il caldo accelera la mia esistenza come una droga.

Mi sento molto bene perché in India la vita non è nascosta: né la vita né la morte; vedo bambini correre per la strada, bambine uscire da scuola con i loro vestitini blu e rosa e nastri e fiori nei capelli, vedo gente in bicicletta andarsene con mucchi di paglia sulla testa. In India vedo vecchi stare seduti all’ombra di un albero e vedo altri vecchi morire piano piano sdraiati al sole, sui gradini del tempio; vedo gente sana, vedo gente malata, vedo gente povera e gente ricca, più o meno, e vedo gente diritta e gente tutta storta, tutti per strada, in mezzo a polveroni, a urla, a suoni di clacson, a suoni di campanelli di biciclette, in mezzo a mucche bianche vaganti, mucche tristi.

Nelle strade, nei sentieri, nei posti di campagna, la presenza dell’universo è dovunque, prende il nome di divinità varie, prende figure infinite, qualche volta basta anche un segno rosso, una carta d’argento, un fuoco, un’immensa processione con elefanti, bandiere, tamburi e collane di fiori. L’universo è dovunque, tutti sono l’universo, tutta la Terra è l’universo, malati e guariti sono l’universo: dovunque c’è Dio e chiunque è Dio.

Perciò l’India è anche piena di templi: templi grandi, templi piccoli, templi piccolissimi; anche qualche angolo di strada può diventare un tempio. In India i templi antichi e i templi meno antichi e i templi nuovi sono sempre pieni di gente, giorno e notte. Anche se io non ho religione per me, in quei templi mi sento molto bene, c’è gente calma, camminano tutti a piedi nudi, ci sono ombre misteriose e luci inaspettate, qualche volta anche alberi immensi, decorati da nastri di stoffe sbiadite o da campane o statuette, c’è anche gente che vende roba, gente che porta olio, gente che rincorre bambini, gente che si lava nelle grandi piscine verdi, gente che dorme per terra e anche gente che sta lì a guardare nel vuoto.

Quelli che guardano nel vuoto sono quelli che mi piacciono più di tutti; perché soltanto loro fanno totalmente parte dell’universo. Dove guarda l’universo? In silenzio, l’universo rotola su se stesso, manda fuori radiazioni, temperature, gravitazioni, accelerazioni eccetera, e guarda nel vuoto.

Dove guardano le primavere, gli inverni, le tempeste, dove guarda il mare? Nel vuoto. Soltanto noi guardiamo la chiave dell’antifurto, il portamonete, l’orologio, la data di nascita, il nome sulla carta di identità fornita dal municipio.

Invece in India ci sono quelli che guardano nel vuoto. Ci sono anche quelli che dormono per terra, in un posto qualunque, quelli che muoiono piano piano al sole, sui gradini di un tempio e che poi sono bruciati per sempre, nella polvere del tramonto.

Quando tutta l’esistenza non complicata, l’esistenza ridotta a se stessa è per strada, quando non è nascosta, non è coperta di bugie, di finte, di furbizie, di segreti, quando è tutta per strada, allora mi sento bene, non ho più niente da perdere: i fiori non mi fanno più paura, neanche i colori, neanche i sorrisi, neanche i cadaveri, portati a piedi verso il fiume, forse neanche la povertà, che è degli altri ma che potrebbe anche essere mia; forse ce la farei anche a prenderla su di me.

Per questo in India mi sento bene; tutte le volte mi sento come se fossi bagnato da una immensa tempesta purificante, tutte le volte resto un po’ più nudo, tutte le volte ho sperimentato qualcosa di più, mi sembra di essere un po’ più chiaro, un po’ più leggero.

 

 

Ettore Sottsass, India, in «Casa Vogue», (1994)

 

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L’Italia è senza memoria perciò non ha futuro.

26 Gennaio 2022

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Nessuna pietà per chi nasce

21 Gennaio 2022

Ma perché li fanno? Perché con tanta impudenza e leggerezza li gettano in queste fornaci? Non si può pensare ai catini frignanti, agli squittenti garbugli delle cliniche materne, senza commiserazione e spavento. Nessuna pietà per chi nasce. La compassione per l’infanzia, se ce ne fosse, sarebbe una pillola formidabile. Non vedono che sulla terra non c’è più posto? E che la città umana, avviluppata dalle suppurazioni del mondo minerale come da un mortale catarro, è ormai un luogo di supplizio per i corpi più fragili? E non mancano trombe intrepide che ci incoraggiano a sempre più eccedere, come il professor Colin Clark, autore di The myth of over-population, venuto di recente in Italia dall’emisfero australe su invito papistico per illustrare i meravigliosi effetti di una strabocchevole popolazione mondiale. Veniva da Bombay il professore, e là non aveva visto, sentito, annusato niente! Non capisco questi cattolici superpopolazionisti, non capisco una Chiesa pro-banchetto cieco, frenetico, della vita. Il loro massimo dottore, Agostino, aborriva il crescete-moltiplicatevi: comando precristico che, dopo Cristo, diventa anticristico. Questa Chiesa fanaticamente popolazionista ha l’ideologia demografica di tutti i vecchi imperialismi, antimalthusiani come anticattolici: oppure quali mai binari la guidano? Sant’Agostino ebbe un figlio solo; il professor Colin Clark, nove. Da chi viene l’esempio migliore? Neppure nei loro opachi termini contabili i nostri partiti politici osano dire certe umili verità, come l’impossibilità di dare a tutti, sotto la valanga demografica, una scuola e un lavoro decenti. Non osano dire che, aumentando insieme popolazione e consumi, la rovina dell’ambiente è sicura. Miserande élites senza un pensiero, senza un’idea morale, senza una partecipazione nella gravità, tengono spregevolmente il potere. E che cosa ne faranno, le nazioni meglio organizzate, dotate di ogni tipo d’arma, fino al fischio ultrasonico, dei continenti in esplosione demografica, quando il male diventasse estremo? Ricorrerebbero, ne accennava Georg Picht in una intervista all’«Express», allo sterminio razionale, a una Endlösung senza fessure, alla sterilizzazione nucleare: «Abbiamo i mezzi per farlo», come diceva il generale Mola, quando parlava di radere tutta la Biscaglia. Ah gli faranno rimpiangere il colera, la malaria, le carestie… Oggi un ponte aereo contro la fame, domani il raggio della morte. Diffidare sempre dei salvatori. Lasciamo la gente che non può capire e che è abbandonata dall’inerzia della legge alla sua prolificità senza legge. Entra, nelle teste istruite, il pudore di fare aumentare, mentre sta già paurosamente crescendo, la popolazione mondiale? Non ne fate una questione di soldi, il problema è morale. I mezzi disponibili non c’entrano: bisogna dirsi che è una vergogna accrescere, sapendo quanto sia mala la vita, il dolore del mondo. Qui va sentito il dovere sociale! Non sono le religioni e le dottrine a insegnarlo, è il senso dell’umano, la compassione umana, la verità irresistibile del dolore. Se hai già un figlio, perché ne vuoi due? Se ne hai due, perché quattro? Oh provveditori di carne viva alle fornaci del dolore! Sciagura, avete inventato gli automi da calcolo, avete cifre di tutto, ma ignorate la più elementare, la più facile aritmetica del dolore.
Lavatevi gli occhi, vedete le condizioni di vita che si preparano a tutti in un mondo sovrappopolato, ascoltate il lamento degli ergastoli urbani, là fuori, straripanti di folla pigiata, di odio, di malattia e di solitudine, sentite l’odore di polpetta al plutonio nelle cucine del diavolo, e capirete che avete quest’obbligo assoluto: di non sentirvi affatto liberi di fare quel che volete in fatto di procreazione. Se vi ritenete liberi, solo perché forniti di mezzi adeguati, di procreare un mucchio di figli ben nutriti di spazio (conta più lo spazio del pane), mangiatori di spazio, restringitori di spazio, non consideratevi mentalmente superiori al moltiplicatore tarato di prole, che la rovescia per incuria e miseria nei brefotrofi, nei riformatori e negli ospedali.
Già nascono malvolentieri. Quasi sempre, bisogna dargli una spinta. L’espulsione naturale, a tempo, senza interventi, è sempre più rara. Ci vuole la siringa per convincerli. Il cesareo è un rubinetto sempre aperto. Appena nati, sono subito masse. Li cacciano in un gabbione dove imparano lo strepito collettivo, e di là passeranno in altre gabbie, in piazze, casamenti, quartieri, aule, uffici, ascensori, autobus, prigioni, corsie, cimiteri che straripano: vivranno come incapsulati in un incubo oppiofagico di De Quincey, dentro un mare di facce umane, la loro vita di spine. Li amassero veramente, ma hanno l’aria di esserne perpetuamente stufi. Per levarseli dai piedi, i padrimadri sono maestri di sottigliezze. Bambini trattati in modo giusto, rispettati e guidati, non mutilati spiritualmente, non traditi, non visti con gli occhi di un manuale, non nutriti in modi insensati, ne vedo pochi. Da notare l’incapacità completa degli adulti di farli divertire, di stare con loro a un gioco. L’adulto moderno soffre d’impotenza ludica incurabile, e la morfina televisiva data ai bambini è un frutto di questa buia impotenza. Il teleschermo è un orco, che se li mangia un pezzo alla volta. Orfani di ogni correzione, li invade la paura… L’anarchia familiare è uno dei grandi terrori infantili. Quasi sempre, la coppia scopre che non li voleva. La moglie inchioderebbe volentieri il padre dei suoi figli, che vaga oppresso dalla paternità, a una croce, se ce ne fosse una pronta, in cucina. Sufficit una domus. Ma vale la pena l’indagare alcuni dei motivi per cui si procrea, quando non c’è la scusa della cecità e dell’abbrutimento, oltre il limite di Sant’Agostino. Uno dei motivi più fradici è la crisi della coppia. Hanno già due figli, il terzo è incaricato di risolvere i loro problemini. Le loro risse coniugali m’interessano poco, ma che per colpa loro ci sia un uomo in più mi sconforta. Questa sarebbe la famosa procreazione cosciente!
Poi ci sono i consigli degli esperti! Psicologi, ginecologi… «Faccia un altro figlio, signora, non perda tempo!». Allora, per guarire di un’orticaria, ci giochiamo la testa di un uomo. La piccola nevrosi della madre sarà curata a prezzo della nevrosi incurabile del figlio. Un uomo entrerà nel dolore per ravvivare un ormone, spianare un foruncolo, eliminare un prurito. Non so quanti sospiravano l’istituzione del divorzio per fare subito un figlio all’amante diventata moglie, eppure ne avevano già tre o quattro della moglie precedente. E c’è chi, pur rischiando di avere figli subnormali, porta ugualmente alla tempia della matrice la canna della sua dannata pistola, e preme il grilletto per vedere se nel tamburo è rimasto un colpo. Molti considerano il figlio unico come una specie di cataclisma; li prende una rabbia che non si placa finché al maschio non hanno aggiunto la femmina, o viceversa. Altri devono compiacere a un parente, che gli telefona ogni giorno per imporgli un altro figlio col proprio nome. E quanti si ritengono in colpa se non procreano più volte! Ma quale colpa c’è in un atto senza conseguenze, e quale innocenza o catarsi in uno che può averne di terribili? Quanta pena, nelle pitture, fanno i figliuolini pallidi, consunti dalle emottisi, coperti di ermellini, medaglieri, trapunte, cuscini, gorgiere, panoplie e piumaggi, dei monarchi assoluti e anche di quelli un po’ costituzionali! Li facevano nascere a grandi colpi di magie nere, decapitando medici e astrologhi, all’unico scopo di assicurare una successione a un trono senza gioia, e per consolarli di essere nati li soffocavano di delizie, cavallini, belle balie, automi musicali, ombre cinesi, acrobati, gelati al limone, gobbetti, cani. I principini malinconici si addormentavano abbracciando il teschio del nano che li aveva fatti ridere qualche volta. Nati per ragioni dinastiche, obbrobrio! L’uomo si è sempre riprodotto per scopi futili. C’è un grande male, molto elogiato, dell’industria medica di questi tempi: un concentrarsi di violenza ai danni della sterilità naturale. Nei profeti biblici, la sterile che partorisce è un segno messianico, ma quel che vediamo tura gli alleluia. Povere forzate del parto (un’ex sterile, di questi giorni, ne aveva in corpo otto, che la stavano divorando), sottoposte a trattamenti tenebrosi, a crudeli umiliazioni, a inseminazioni di fantasia, a gravidanze in un tubo! I laboratori preparano grandi crimini in questo campo, a prezzo di vite viventi e di anime indifese; perciò bisogna difendere il corpo, non darlo all’esperimento; non cedere alle pressioni ignobili dell’ambiente, rifiutare il miracolo clinico, portare la propria sterilità naturale come un dono fatto alla terra troppo popolata, troppo carica e malata d’uomo. Se si rinuncia, per generosità morale e sociale, per rispetto di un impedimento naturale, ad avere figli di sangue, niente – se non il solito law’s delay di Amleto – vieta che si prendano dappertutto figli abbandonati, i respinti, i maleamati, per dargli un cuore, una casa e un nome. Nell’adozione cadono i limiti morali al numero: uno, due, o dodici come le tribù di Giacobbe, o cento come i prepuzi di Filistei ordinati a Davide da Saulle. Chi fa questo, di rado li assassina col disamore. L’adozione è la paternità-maternità adeguata all’attuale esplosione demografica, l’unica degna di una coscienza che riflette. Lévi-Strauss parla di certi Indios brasiliani che, pur essendo pochi, preferiscono adottare che riprodursi, e questa esemplare saggezza di primitivi mi piace che incastri con un pezzo di sapienza greca; il filosofo Democrito raccomandava calorosamente adottate! e non era un pessimista: la tradizione l’ha tramandato ridente.

 

 

Tratto da: Guido Ceronetti, La Carta è stanca, Una scelta,  Adelphi

 

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Nessun futuro in questo paese

17 Gennaio 2022

“Il berlusconismo è la più grande catastrofe culturale del nostro tempo. Forse anche peggio  del fascismo, perché più subdolo e sotterraneo, perché seduttivo e apparentemente vincente. Il berlusconismo ha introdotto la cultura di mercato, quella in cui tutto si compra e si vende, dai senatori alle minorenni”

Dacia Maraini

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Letter to a Cycad

17 Gennaio 2022

‘Letter to a Cycad’ is a visual homage to the historic Palmhouse in Copenhagen, and a reflection on the evolution of plants and our human impact on the planet. Using a fictional voice of the late botanist Frederik Liebmann (1813-1856) who found and described the cycad species Dioon edule, the oldest specimen in the Palmhouse, the film explores life histories and the current biodiversity crisis.

CREDITS PRODUCER Anders Drud ASSOCIATE PRODUCER Frederik Wolff MANUSCRIPT Rasmus Zwicki VOICE AND SOUND Rasmus Zwicki ART DIRECTION, STORY BOARD AND ANIMATION Dark Matters THANKS Jesper Riis Christiansen Ole Seberg Tonni Eilrtsen Hanne Espersen Henning Knudsen Nele Høgsbro Supported by IARU Virtual Museum Tours / UNIVERSITY OF COPENHAGEN Video is awarded Vimeo Staff Pick and also visible here: https://vimeo.com/662186655

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Barbara D’Urso, Maria De Filippi, Alfonso Signorini, Alessia Marcuzzi e tutta la schiera della vostra bolgia infernale… io vi accuso.

4 Gennaio 2022

Vi accuso di essere tra i principali responsabili del decadimento culturale del nostro Paese, del suo imbarbarimento sociale, della sua corruzione e corrosione morale, della destabilizzazione mentale delle nuove generazioni, dell’impoverimento etico dei nostri giovani, della distorsione educativa dei nostri ragazzi. Voi, con la vostra televisione trash, i vostri programmi spazzatura, i vostri pseudo spettacoli artefatti, falsi, ingannevoli, meschini, avete contribuito in prima persona e senza scrupoli al Decadentismo del terzo millennio che stavolta, purtroppo, non porta con sé alcun valore ma solo il nulla cosmico. Siete complici e consapevoli promotori di quel perverso processo mediatico che ha inculcato la convinzione di una realizzazione di sé stessi basata esclusivamente sull’apparenza, sull’ostentazione della fama, del successo e della bellezza, sulla costante ricerca dell’applauso, sull’approvazione del pubblico, sulla costruzione di ciò che gli altri vogliono e non di ciò che siamo. Avete sdoganato la maleducazione, l’ignoranza, la povertà morale e culturale come modelli di relazioni e riconoscimento sociale, perché i vostri programmi abbondano con il vostro consenso di cafoni, ignoranti e maleducati. Avete regalato fama e trasformato in modelli da imitare personaggi che non hanno valori, non hanno cultura, non hanno alcuno spessore morale. Rappresentate l’umiliazione dei laureati, la mortificazione di chi studia, di chi investe tempo e risorse nella cultura, di chi frustrato abbandona infine l’Italia perché la ribalta e l’attenzione sono per i teatranti dei vostri programmi. Parlo da insegnante, che vede i propri alunni emulare esasperatamente gli atteggiamenti di boria, di falsità, di apparenza, di provocazione, di ostentazione, di maleducazione che diffondono i personaggi della vostra televisione; che vede replicare nelle proprie aule le stesse tristi e squallide dinamiche da reality, nella convinzione che sia questo e solo questo il modo di relazionarsi con i propri coetanei e di guadagnarsi la loro accettazione e la loro stima; che vede lo smarrimento, la paura, l’isolamento negli occhi di quei ragazzi che invece non si adeguano, non cedono alla seduzione di questo orribile mondo, ma per questo vengono ripagati con l’emarginazione e la derisione. Ho visto nei miei anni di insegnamento prima con perplessità, poi con preoccupazione, ora con terrore centinaia di alunni comportarsi come replicanti degli imbarazzanti personaggi che popolano le vostre trasmissioni, per cercare di essere come loro. E provo orrore per il compiacimento che trasudano le vostre conduzioni al cospetto di certi personaggi.
Io vi accuso, dunque, perché di tutto ciò siete responsabili in prima persona. Spero nella vostra fine professionale e nella vostra estinzione mediatica, perché solo queste potranno essere le giuste pene per gli irreparabili danni causati al Paese.”
di Marco Galice

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Teodor Cerić

4 Gennaio 2022

Ora lei mi chiede di scrivere un articolo, in aggiunta a quelli che ho già inviato alla sua rivista. Sul mio giardino. Vuole che le spieghi com’è nato, quali vegetali vi ho piantato e come, dice lei, è «strutturato lo spazio». Vorrebbe sapere se ha un nome, se è aperto sul paesaggio o chiuso in se stesso, se è selvatico o ben ordinato, e altre cose dello stesso genere. Per giunta, lei è sicuro che esso sia abitato da un genius loci. I giardini dei poeti, mi scrive, lo sono sempre…

Sono dispiaciuto di dover deluderla. Non posso scrivere niente sul mio giardino.
Il suo genius loci, non so bene cosa sia. Se si tratta semplicemente di quella musica che mi sembra di sentire a volte, quando, posata la zappa, mi siedo sotto una quercia e chiudo gli occhi, sappia che sparisce non appena tento – un vecchio riflesso di studente di cui, alla mia età, non mi sono ancora completamente liberato – di capire cosa dice. Questa musica è soltanto vento, lei lo sa. È il canto degli uccelli e il rumore delle auto lontane, è la pioggia che cade sulle foglie degli alberi, con le pause di silenzio durante i canicolari pomeriggi estivi. Si tratta soltanto delle energie presenti nella natura, che si concentrano in un giardino. È ovunque, questa musica, e non si ferma mai, anche se la si sente soltanto a tratti, vale a dire nei pochi momenti di grazia che la vita ci concede.
Così, quando questo accade, ormai mi limito ad ascoltare. Perché abbiamo poco tempo da perdere, non è vero? Ed essere qui (è la lezione del giardino, quella che io – testone – devo tornare a imparare ogni giorno) non è cosa da poco. Il più piccolo uccellino lo sa. Il più piccolo sasso sul bordo della strada lo proclama, quando il sole lo scalda o il gelo lo spacca a metà. Loro, che sanno soltanto essere presenti alla vita.
No, non c’è tempo da perdere. Ecco perché evito quanto più posso le distrazioni che ci distolgono da ciò che è semplice e immediato. E le parole, quando si vuol fare poesia o quando le si usa per cogliere la realtà, come direbbero i filosofi, sono la peggiore delle distrazioni. Non ho niente contro le parole, si rassicuri, è soltanto che ci rinchiudono un po’ di più in noi stessi, quando ci avevano promesso il contrario. Ci tagliano fuori dal mondo, quando è verso il mondo che noi tendevamo le braccia. Le «presenze terrestri» di cui parla la nostra amica comune,1 quelle sorgenti vive che scaturiscono costantemente nella natura, esigono da noi uno sguardo amorevole, non chiedono di essere dette; ancor meno, capite. Una parola o due, tutt’al più, come quando i bambini dicono «Bello» o «Buono».

Lei mi fa notare che io ho pur scritto parecchi articoli per la sua rivista. È vero. Sappia però che me ne pento. Li ho scritti, credo, spinto dalla gratitudine che provo ancora per quei giardini che in passato, quando mi sono ritrovato solo, senza più punti di riferimento (a parte i poeti che avevo amato da studente e il peso dei miei ricordi), mi hanno fatto intravedere la possibilità di un luogo, su questa terra, dove mi sarei sentito come se fossi tornato, finalmente, a casa. Uno spazio che le guerre avessero risparmiato. Scrivere su quei giardini, mi sembrava, insomma, un atto dovuto.
A meno che non fosse per una ragione meno nobile.
L’illusione più temibile della scrittura è quella che consiste nel farci credere che essa può abrogare lo spazio, e anche il tempo, rendere di nuovo presente ciò che non lo è più, o raggiungibile ciò che è perso per sempre. Credo di aver ceduto alla tentazione. Ed è vero che, mentre cercavo di far rinascere quei giardini sulla pagina, li ritrovavo là dove li avevo lasciati, li percorrevo di nuovo, con la stessa gioia, come se fossi ancora il giovane cane randagio di quegli anni o come se quei luoghi non fossero invecchiati. Un’illusione, ma così piacevole! Sì, mi pento di quegli articoli, ma non del tutto.

Ciò che posso dirle sul mio giardino è che non ha niente di straordinario, soprattutto per lei che è abituato ai giardini di Francia, di cui ben conosco la raffinatezza. All’interno del suo muro di cinta, vi sono alberi, c’è erba che in questo momento, al di là della finestra del mio studio, si muove appena alla brezza della sera, ci sono fiori, rospi che fra poco si metteranno a gracidare tutti insieme, facendo tremare la casa, ridestando nel mio petto una felicità ma anche un sentimento strano, una sorta di turbamento a cui non riesco ancora ad abituarmi.
Cos’altro dire?
Che è un figlio della nostalgia, sì, ma di una nostalgia esente da ogni rimpianto e che non ci relega nel passato. Che, al contrario, ci àncora al presente, come se fossimo – che so? – un albero, con le radici ben affondate nell’oscurità della terra e la testa esposta ai quattro venti. Forse lei lo sa: i giardini – tutti i giardini, dal parco di Versailles al più piccolo orticello di periferia – nascono dall’amore più disperato che esista, l’amore per una vita che non si è conosciuta ma che ci è familiare, cara come una madre perduta, e che non smette mai di chiamarci. Da un desiderio che lì, in mezzo alle piante, si placa, non brucia più, diventa, al contrario, una promessa.
E, come qualsiasi altro giardino, il mio si limita a passare. È la forma che avrà preso il mondo, per qualche tempo, in questo recesso oscuro dell’Europa che pochi anni di guerra hanno devastato. Sparirà, come tutto ciò che è vissuto e ha espresso, per un momento, il canto incessante della terra, gioioso, talvolta doloroso… Sì, quella musica di cui le parlavo poco fa e che prosegue, mentre scrivo, al di là della mia finestra aperta.

Sparirà, ma per il momento è qui. Lo ritrovo ogni mattina, quando esco di casa all’alba e immancabilmente mi fermo, sbalordito, davanti a tanta grazia che appare per me, soltanto per me, uscendo dalle tenebre. Lo guardo fremere, come una bestia selvaggia della foresta che, per non so quale miracolo, abbia acconsentito a lasciarsi addomesticare. Dico a me stesso che, acquattato nel buio della notte, aspettava che mi svegliassi. Un’illusione, forse. O forse no. Come che sia, il solo gesto di cui sono capace allora è spegnere la sigaretta e andare subito a prendere i miei attrezzi da giardino nella rimessa.
Dato che mi è fedele, devo essergli fedele a mia volta, e aiutarlo a essere ancora più bello, a manifestare lo splendore del mondo con maggior forza, con una voce ancora più chiara. Come se un giorno quella voce potesse diventare finalmente la mia.
Non è forse questa – mi dica – la promessa del giardino? Non è questa la speranza più segreta dell’uomo? Tornare alla terra, fare di nuovo corpo con essa, e parlare finalmente la sua lingua… no, essere la sua lingua. Una nota fra le altre in questa musica senza inizio né fine.

1 Cerić si riferisce qui a un testo della scrittrice francese Claude Dourguin apparso nella rivista Jardins. Cfr. «Présences terrestres», in Jardins n. 5, marzo 2014.

Tratto da: Teodor Cerić, Giardini in tempo di guerra, Edizioni Ponte alle Grazie

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Per l’anno nuovo

29 Dicembre 2021

“Ma noi abbiamo percorso uno spazio enorme: ormai è tempo di liberare ai cavalli il collo fumante.”

Virgilio, Georgiche, Libro II, vv. 541-42

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Edward Osborne Wilson

29 Dicembre 2021

Edward Osborne Wilson—ant scholar, environmental crusader, refiner of evolutionary theory, two-time Pulitzer winner, scientific icon—is searching for a title for his next book. It’s a follow-up to his unambitiously titled The Meaning of Human Existence, which he released in October, at 85. He is thinking about calling it The End of the Anthropocene, a reference to man’s dominion over the environment, which he argues should be overturned. But his publisher wants something different. So this morning Wilson’s handing the question over to his brain trust, gathered around a large table in the cafeteria of Brookhaven at Lexington, an upscale retirement community nestled in the woods off Trapelo Road.

Brookhaven has a pool and on-site healthcare, but its main attraction is its clientele, whose IQs are significantly higher than their ages. “It’s the perfect place for an author,” Wilson tells me. “I don’t think I’m insulting this place when I refer to Brookhaven as a place where old genius comes to die.”

Wilson writes a list of potential titles on a sheet of paper. “I want your opinion on the choice among those titles,” he tells his audience. “And I’m being deadly serious. Which one appeals to you the most? Or should I continue searching?”

His fellow octogenarians don’t pull punches. “Ain’t you heard the notion ‘You can’t tell a book by its cover’?” asks Merton Kahne, 85, a retired psychiatrist who used to run faculty psychiatric services at MIT. “These titles are going to put off an awful lot of people who you’re trying to hit. You gotta find a different one.”

“Incidentally, you haven’t allowed me to tell you about the book yet,” Wilson says dryly.

“I like the title Hope for a Dying Planet. I’d buy that,” offers Eugenia Kaledin, 85, who taught American history and literature at Northeastern. “Hope is nice. Don’t you like hope?” she asks Kahne.

“Where did he put that in?” asks Kahne, peering at the list. “Hope for a Dismal Planet?”

“All right, would you like to hear what is in this book?” Wilson asks. “I realize now that there is one person to whom this is irrelevant,” he adds, glancing darkly at Kahne. “And if that is true I would like to try out something like The Third Revolution in Sex. That’s not related to the content, but—”

“Now you’re waking me up. You’re on your way,” Kahne says.

“And you put a naked woman on the cover,” Kaledin, the history teacher, puts in.

“Well that goes without saying.”

“She has to be chained to a bed,” she adds.

“You’re right. I agree,” Kahne says.

“I’m not joking about that!” Kaledin exclaims. “That happened to me in China. I ordered a lot of books from the New American Library, and they sent me soft-core porn. And some of them had pictures of women chained to the bed. The New American Library must have had an overflow of these soft-core porns. The Chinese thought I was some kind of terrible spy.”

“I’m never allowed to complete a full paragraph,” Wilson says mournfully. “I’m not going to tell you what’s in the book.”

Built in 1988, Brookhaven is a cluster of apartment complexes and freestanding cottages surrounded by a swath of conservation woodland. The buildings are named after top-tier universities and private prep schools, but the facility wasn’t originally designed to appeal to aging academics, says CEO James Freehling. Instead, the migration of intellectual olds was organic: Lexington is a bedroom community for Boston’s universities, and recommendations spread by word of mouth. Today, the population draws heavily on the faculties of Harvard, MIT, and Tufts. “Everyone has a significant background,” says Sylvia Feinburg, 85, who moved here six years ago. “It’s like a geriatric university.”

Many of the residents were leaders in their field. “If you know Brookhaven, we have some very notable people here,” says Sidney Hoffman, 89. “We have some people who developed medical devices and procedures, we have a Nobel Prize winner, we have people who write books, people who teach. A lot of academics, mainly from Harvard and MIT.”

At 85, Wilson is tall and thin, with a sly southern smile, a squint that eclipses his blind eye, a shock of silvery film-star hair cresting his forehead. He and his wife, Irene, moved to the Brookhaven at Lexington retirement community 13 years ago, for her health. But to his surprise, Wilson discovered that far from being a place to slow down, Brookhaven was the perfect place to foster his legendary creativity. What’s more, he has found here something that in his long, extraordinary life he has never had before: a circle of friends.

Not all of them come by every day, but there’s a core group of about 10 men and women, mostly in their mid-eighties. All of them are extremely smart: Along with Kahne and Kaledin, there’s Bill Harris, who was the head of hip replacement surgery at Mass General and pioneered the procedure; Feinburg, who researched early childhood development at Tufts; and Hoffman, the outlier, who worked in finance rather than academics or medicine.

But Wilson is unlike the rest of these luminaries, Hoffman adds: “Most of them do not come down and talk. Very few do. He is willing to do that, to talk with us.”

Every morning, Wilson wakes at 6, comes down to the cafeteria around 8. His group of regulars begins to drift in around the same time, sitting around a large table. (“I’ll tell you one thing that I think helps,” says Kaledin, “is the physical presence of that table. Having a big table and a coffee pot really does help.”)

They come for coffee, for conversation, for companionship. They come to be in close proximity to Wilson’s brain. He has a bit of a shtick—the pose of the conceited intellectual, which he uses to camouflage the fact that he is both an intellectual and a little bit conceited. Wilson doesn’t mind taking center stage; he can turn a conversation into a lecture with a single word. That word is “incidentally.”

“Incidentally,” he says, “I worked with a mathematician many years ago, a colleague who was working out the evolution of pheromones. We knew from the first experimental work that ants have pheromones, somewhere between 10 and 20; they can mix them, use different concentrations. Ants can do a lot of talking. I said, ‘I wonder if ants can really speak, or communicate as rapidly as a human being.’”

Everyone quiets down, bespelled. “The ants have to come within one or two millimeters of each other,” Wilson explains. “At that distance you can now modulate the pheromone release, and you can modulate it for frequency and you can modulate it for amplitude.”

Wilson can talk about his research almost indefinitely, and he’s as engaging a speaker as he is a writer. But the group will only let him hold center stage for so long. They listen, and then pull him back down to Earth.

“Birds are among the very few creatures on this planet which, like human beings, use sound and sight,” Wilson says.

There are nods and murmurs.

Then someone at the opposite end of the table remarks, “Did you know on YouTube there is a cat playing the piano?”

Among the breakfast club, roles emerge. Kaledin often challenges Wilson’s scientific chauvinism. Feinburg searches for the emotional impact of his subjects. Kahne, the shrink, is his primary antagonist; the two have a bit of a vaudeville act, needling each other. After one charged exchange, I asked other members of the breakfast club whether they thought Wilson was annoyed. No, they said. This is what Wilson loves; this is what he comes down to the cafeteria for.

All his life, Wilson has been a loner. He has often spoken in interviews of his childhood solitude: an only child of divorced parents, he took refuge in time alone in the wilderness, following ants. In his 1994 autobiography, Naturalist, he wrote that once, in childhood, he pretended to be deaf and mute, making up an “ersatz sign language” as an awkward way of interacting with kids he didn’t know. At other times, he related, he interacted with his peers by approaching those on the sidelines, “talking with other boys I saw standing alone at the edges of the schoolyard or lunchroom.”

“He had a very stressful background,” says Feinburg, the Tufts childhood-development professor. Soon after meeting Wilson she pored over the early chapters of his autobiography, fascinated. She’d heard of him before coming to Brookhaven but had never read him. “I’m always interested in the case of survival, people who didn’t have perfect backgrounds when they were young and who surmounted those backgrounds,” she explains. “His intellectual interests and genius, in terms of being able to persevere in what interests him, made him a survivor.”

Blinded in one eye in a fishing accident at seven and hard of hearing by his teenage years, Wilson often says that he was physically destined to become an entomologist: “I would thereafter celebrate the little things of the world,” he wrote, “the animals that can be picked up between thumb and forefinger and brought close for inspection.”

But at Harvard, he arrived on campus the same year as James Dewey Watson, co-discoverer of the DNA helix, whom he has referred to in print as “the most unpleasant human being I had ever met.” Watson was riding the cusp of the molecular revolution, the scientific trend that would transform biology into a discipline centered in the laboratory rather than in the field. Wilson remained an acolyte of classical biology, dedicated to observing living animals in their ecological habitats.

Wilson gained tenure before Watson, but he nonetheless found himself in a “gladiatorial” atmosphere. In the late ’60s, he put together a tongue-in-cheek glossary that would be passed around in biology departments, like an early, analog meme:

“Classical Biology. That part of biology not yet explained in terms of physics and chemistry…. In any case, it doesn’t matter, because eventually it will all be explained in terms of physics and chemistry; then it will be Molecular Biology and worth knowing about.

Brilliant Discovery. A publishable result in the Mainstream of Biology.

Mainstream of Biology. The set of all projects being worked on by me and my friends. Also known as Modern Biology and Twenty-first Century Biology.

Exceptional Young Man. A beginning Molecular Biologist who has made a Brilliant Discovery (q.v.)

First-rate. Pertaining to biologists working on projects in the Mainstream of Biology.

Molecular Biology. That part of biochemistry which has supplanted part of Classical Biology. A great deal of Molecular Biology is being conducted by First-rate Scientists who make Brilliant Discoveries.

Third-rate. Pertaining to Classical Biologists.”

Wilson’s academic pursuits included mapping the intricate empires of ants. Unlike biology departments, ant colonies, he discovered, support dozens of professions and specialties: There are ants whose job is to carry leaves back to the nest, while much smaller ants ride on their backs to ward off predatory flies. Yet a third type awaits to grind the leaf meal into fertilizer to grow edible fungus.

All of these ants are born physically destined for their careers. There is no uncertainty. Ant societies look very much like human societies, except that all of it happens without the awkwardness of conscious thought or emotions. In The Social Conquest of Earth, from 2012, Wilson traced the evolution of ants and people, the two great eusocial species of Earth. “The insect queen could produce robotic offspring guided by instinct,” he wrote.

But people are forced to reverse-engineer, by trial and error, something approaching the pristine and unconscious society of ants. Early hominids, Wilson wrote, “had to rely on bonding and cooperation among individuals.”

At Brookhaven, that bonding can be fragile. “It’s not the same type of intimacy you had with your friends when you were young,” Kaledin tells me. “You don’t go in and tell them what your problems are. Everyone has problems. The terrible thing is that people die all the time.” When she first moved to Brookhaven, she says, she met a woman who was part of the breakfast group. Six months later that woman was gone.

When residents die, the staff puts a red rose in a vase in the front hall.

“You don’t forget death,” Kaledin says. “We never talk about it, people don’t use the word, but it’s there, it’s with us all the time…. It’s tenuous. Everything is not based on the future. It’s very peculiar, but it’s nice to make the most of what we have. I’m very grateful for that table.”

“It’s wonderful, it really is,” Harris says. “Because it’s a time of diminution. Things are getting more remote and smaller; your life is diminishing. To have this kind of intellectual capacity still, and verve in the community, is wonderful.”

Today, the conversation has lapsed again into lecture. Wilson is expounding on his most recent obsession: artificial intelligence. He’s been reading up on the field, trying to learn, from yet another angle, the intricacies of the human mind. “Once we figure out how the brain works,” he explains, “we can produce robots that are quite humanlike.”

“You think that’s going to be soon?”

“You could have a robot maid when you’re out of town.”

“I’d just like to have a robot’s knee,” Kaledin says.

“Yeah, I just want a robot clone who would do all the work I need to do.”

“Right,” Kaledin retorts. “Who will clean my refrigerator? These robots never do what you want them to do. I had a friend who had one of those round things, the vacuum cleaners? But of course it was round, so it couldn’t get into any corners. They didn’t think of that.”

Wilson leans back, a beatific smile on his face. “This is the way heaven is going to be,” he proclaims, to no one in particular. Then he laughs. “We’re going to get so tired of each other.”

By SI ROSENBAUM link 

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L’anima dei luoghi

26 Dicembre 2021

29 «L’“intima” qualità del luogo è dovuta sia alla percezione del clima e della geografia, sia all’immaginazione: per questo è necessario stare a lungo in un luogo perché l’immaginazione possa rispondere. L’idea che l’immaginazione deve rispondere a un luogo è evidente nel modo in cui i Greci sceglievano la localizzazione dei loro templi, dove le particolari qualità del paesaggio suggerivano all’immaginazione questo o quel dio – l’acqua per Afrodite, per esempio -, così che l’architetto, il costruttore, veniva “invocato” dal luogo. L’interiorità del luogo “parlava” alla sua immaginazione, rendendo possibile sognare in un luogo. Ciò poteva comportare consumare lì i pasti, bere il vino, abitare; avere l’intera psiche immersa nel luogo tanto da poter capire cosa il luogo voleva, “come” cercava di esprimere se stesso.

Se si tiene presente l’idea di “in”, di interiorità, di essere-in, di in-habited, emerge che uno dei problemi dei luoghi attuali è che non corrispondono a quest’idea. Uno dei modi, o meglio, uno dei fattori da cui dipende la qualità dell’“in” è la memoria: i luoghi hanno ricordi. Ripensiamo a ciò che la psicologia ci ripete da tanti anni: la memoria è all’interno della testa. Il mondo dei ricordi sarebbe interamente nelle nostre teste. È un’idea incredibilmente strampalata che ci impedisce di accorgerci che la memoria è inscritta nel mondo. Così, per esempio, il restauro di Ortigia è un recupero della memoria, la cura di un’amnesia.

Le persone che tornano in varie zone degli Stati Uniti trovano che sono avvenuti molti cambiamenti, ma in molte parti dell’Europa, in seguito all’ultima guerra mondiale, i luoghi sono stati danneggiati o radicalmente cambiati dai bombardamenti, con la conseguenza di un enorme disorientamento psichico dovuto alla distruzione della memoria del mondo. Lo si può percepire quando si torna nel proprio paese o nella città natale, o nella strada dove si abitava da bambini. Quando si torna dopo molto tempo, si avverte il peso e il riaffiorare dei ricordi e, con essi, una certa gioia che proviene dal luogo. Di solito pensiamo che tutto questo provenga dalla nostra mente, che provenga dal cervello, perché così ci sé stato insegnato. Invece è il luogo che parla di sé. Tornerò su questo argomento in seguito, a proposito della memoria dei luoghi.

Ora vorrei mettere in evidenza il disorientamento della psiche nella nostra epoca, il disorientamento che attanaglia l’Occidente a causa dell’amnesia – la perdita della memoria dovuta agli eccessi del costruire, dello sviluppo, degli spostamenti. La distruzione di palazzi, come oggi si fa in continuazione per ristrutturarli, migliorarli, equivale a una lobotomia, a una perdita di cellule cerebrali: è una perdita di ricordi e immagini. Una questione ancor più attuale dopo la distruzione delle Torri Gemelle a New York. C’è una pressione economica del settore dell’edilizia per ricostruire le torri ancora più alte, ignorando la memoria – perché quel luogo è diventato uno spazio sacro, un luogo di sepoltura, un luogo funereo e tragico. Ormai l’idea della distruzione appartiene a quel luogo. La distruzione, non solo la costruzione. È come una ferita che lascia una cicatrice, c’è memoria nella cicatrice. La cicatrice è memoria.

Una ferita apre verso dentro e verso fuori. Mi viene in mente una frase di Anna Magnani. La stavano truccando per un film. Il truccatore le stava preparando il viso, quando lei disse all’uomo: “Non togliermi nemmeno una ruga, ho pagato ognuna di esse a caro prezzo”. Una parte della ferita, della cicatrice è presente, deve essere presente, deve essere visibile.

Si può mettere l’anima in un luogo?

L’immaginazione è ancora la vecchia immaginazione. Pensiamo di ricostruire o di ricoprire perché non abbiamo vissuto abbastanza in questa nuova situazione. La questione è cosa vuole il luogo, non cosa vogliamo noi. Cosa vuole il luogo ora. Come lo interpretiamo. Può questa interiorità di un luogo essere la “legge” del luogo? La rappresentano di più gli abitanti, i daimones, lo spirito del luogo. Può essere il silenzio la legge del luogo, piuttosto che la voce. La voce può essere il silenzio.

Si può intervenire su un luogo per restaurarne l’anima?

La città, la più grande tra le opere d’arte umane, appartiene al regno dell’immaginazione. Che sorprendenti fantasie sono questi fenomeni che sorgono dai campi e dalle foreste, in riva a fiumi e oceani, questi incredibili scoppi sinfonici che trasformano in concreta magnificenza le tumultuose esternazioni dell’immaginazione umana. Gli alveari, i formicai, le tane dei roditori sono una necessità per i loro costruttori. Ma i nostri alveari? A cosa servono veramente le nostre città? Le immaginiamo finché non esitono, e quando esistono le spieghiamo con le nostre idee.

Ci sono tante, tante idee sulle città per spiegare le loro origini, la loro importanza, le loro funzioni, idee proposte per giustificare l’assurdo ammassarsi di abitazioni separate, viali, rituali, servizi, e le sofisticazioni di stili, linguaggi e consuetudini, le piaghe e le invasioni, le decadenze e le dispersioni.

Nei sogni ci troviamo in città che non abbiamo mai visitato, città che non esistono sulla terra, città oniriche, come la Città di Smeraldo nel Mago di Oz, evocate solamente dai loro nomi; in città della redenzione come Gerusalemme, della paura o del mistero come Calcutta, o della reminescenza come Atene. Ora dove sono le magnifiche città degli imperi e della santità, e dove le grandi idee delle città che creano la loro magnificenza?

Al loro posto, Megapolis, Metroplex: una vasta res extensa di sobborghi, periferie, divisioni e suddivisioni; circonvallazioni, abusivismi, squallori, bassifondi e smog; traffico eccessivo e ingorghi stradali; città ridotte a ricoveri per gente di passaggio, pendolari, turisti, rifugi per i senza tetto; centri commerciali sotterrati e parcheggi che si sviluppano in verticale tra palazzi d’uffici senza volto, alveari d’inquieta disperazione. Le città sembrano diventare quasi speculari l’una alle altre. “Puoi riprendere il volo quando vuoi” scrive Italo Calvino, “ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto. Il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aeroporto.”

Le idee di città ormai sono state compresse nella nozione di problema urbano. Astrazioni dentro i computer, files etichettati: Congestione, Sicurezza, Emergenza, Evacuazione, Crimine, Valutazione di Imposte, Equo canone, Nettezza Urbana, Demografia, Mezzi di trasporto per pendolari, Parchi e Ricreazione. Centri. Zone. Codici. Dipartimenti. L’immaginazione della città sezionata come un cadavere per comitati di specialisti, che elaborano soluzioni per il miglioramento della qualità della vita.

Eppure quell’immaginazione partecipe sulla quale la città fu fondata può essere ritrovata. È in mezzo a noi e potrebbe rifiorire, se solo si partisse non dal “problema”, da ciò che bisogna cambiare, o spostare, o costruire, o demolire, ma con ciò che è già qui, che ancora canta la propria anima, che ancora trattiene le scintille della mente che l’ha creato – sia esso un muro romano o un carrettino di hot-dog a New York, o una strada di neon verticali a Osaka, o un giardino incolto sul retro di una casa a schiera di Glasgow. Il miscuglio caotico di ogni luminoso centro cittadino o quartiere decaduto può selezionare le proprie immagini attraverso parole, dipinti o stampe fotografiche che rivelano l’intimità dell’impulso che continua a promuovere la costruzione delle città. La poiesis delle città.

[…]

La città chiede di essere scoperta per nuove percezioni, non per nuove forme di progettazione; la città segreta, la città eterna che nasce improvvisa, istantanea dall’immaginazione e sorprende il cuore.

[…]

La grande città è un registro, un documento, una memoria. Non gli spiriti della natura, ma i fantasmi della civilizzazione occupano il suolo della città. Il quale è costruito da atti, atti privati che provengono da menti in preda spesso alla disperazione silenziosa richiesta dalle Muse, che sono i veri fantasmi della civilizzazione.

Questi fantasmi nutrono l’intimità, la straordinaria privacy che si trova nelle grandi città. Nonostante tutto il romanticismo pastorale sul meditare accanto a un ruscello, le arti e le scienze costellano le menti delle città affollate, dense, complesse, eleganti. Le città sono romanzi, poesie, danze, teorie. Sono piene delle idee che raccontano il fare delle Muse. La loro madre, Memoria, ha bisogno delle città per il bene delle sue figlie, affinché possano prosperare ardentemente, essere onorate con biblioteche e sale da concerto e teatri, ricordate in musei, e possano essere in relazione con poeti e pittori, e con loro conversare nell’intimità.

Tutto ciò che è e può essere una città ci fa capire che è possibile mettere l’anima in un luogo. […] »

tratto da: James Hillman, L’anima dei luoghi, Milano 2004. © 2004 by James Hillman e Carlo Truppi

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BAUDELAIRE

25 Dicembre 2021

Pido a todo hombre que piensa me muestre lo que subsiste de la vida.

BAUDELAIRE

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Fleurs

25 Dicembre 2021

J’AI retrouvé au fond d’un tiroir un vieux dictaphone que j’utilisais pour enregistrer les premiers entretiens réalisés pour ma revue, il y a quelques années. À l’intérieur, il y avait encore une cassette, sur laquelle était écrit : Dorothy Paz, 12 novembre 2010, café Rostand. Elle contenait l’enregistrement de l’entretien que la professeure Paz m’avait accordé lorsqu’elle était de passage à Paris. À l’époque, l’interview m’avait paru inexploitable pour un article et j’avais fini par l’oublier, mais je me rendis compte, en revoyant la cassette, que le souvenir de cette rencontre était resté dans un coin de mon esprit pendant toutes ces années. Il me suffit d’allumer le dictaphone et d’entendre à nouveau le son de la voix de Mrs Paz, son français à l’accent américain à peine perceptible, pour que je la revoie comme si cet entretien avait eu lieu la veille et non dix ans plus tôt. Elle me fixait de son regard sérieux, voilé de tristesse, et il me semblait qu’elle attendait encore quelque chose de moi, une réponse, peut-être, à une question qui n’avait finalement pas été formulée clairement lors de notre rencontre au Rostand. Quelques semaines avant l’entretien, la traduction française de son dernier essai, Le Poète dans la forêt, que certains considèrent aujourd’hui comme son testament, avait été publiée en France. Plus qu’un essai, disait la quatrième de couverture, c’était une méditation sur la présence de la nature sauvage dans l’œuvre d’écrivains tels que Chateaubriand, Zola ou Colette, jusqu’aux nature writers américains du XXe siècle. Un sujet inattendu pour la professeure Paz, spécialisée dans la narratologie structurale et qui n’avait jamais montré, dans ses recherches, un intérêt quelconque pour ce thème, que d’ailleurs son livre traitait d’une manière parfois hésitante, sinon maladroite, ce qui était inhabituel pour une essayiste toujours si sûre d’elle. Je la revois assise devant moi dans la salle presque vide du café, en face du jardin du Luxembourg. Derrière le comptoir, deux ou trois serveurs bavardaient à voix basse dans la pénombre. Dehors, il tombait des cordes mais, malgré la grisaille automnale, la masse jaune vif des marronniers du jardin brillait, éclatante. Je n’avais rencontré Mrs Paz que deux ou trois fois auparavant, lors de soirées de signature dans des librairies parisiennes ; assis devant elle, je réalisai qu’elle était beaucoup plus jeune que dans mon souvenir, trente-cinq ans tout au plus. Elle souriait rarement et avait l’air un peu intimidant de quelqu’un qui a consacré son existence à une seule tâche, dans son cas la critique structuraliste. “Une moniale de la déconstruction littéraire”, c’est ainsi que son éditeur parisien l’avait présentée, non sans humour, dans un article.

Elle me fixait de son regard sérieux, voilé de tristesse, et il me semblait qu’elle attendait encore quelque chose de moi, une réponse, peut-être, à une question qui n’avait finalement pas été formulée clairement lors de notre rencontre au Rostand.
Quelques semaines avant l’entretien, la traduction française de son dernier essai, Le Poète dans la forêt, que certains considèrent aujourd’hui comme son testament, avait été publiée en France. Plus qu’un essai, disait la quatrième de couverture, c’était une méditation sur la présence de la nature sauvage dans l’œuvre d’écrivains tels que Chateaubriand, Zola ou Colette, jusqu’aux nature writers américains du XXe siècle. Un sujet inattendu pour la professeure Paz, spécialisée dans la narratologie structurale et qui n’avait jamais montré, dans ses recherches, un intérêt quelconque pour ce thème, que d’ailleurs son livre traitait d’une manière parfois hésitante, sinon maladroite, ce qui était inhabituel pour une essayiste toujours si sûre d’elle. Je la revois assise devant moi dans la salle presque vide du café, en face du jardin du Luxembourg. Derrière le comptoir, deux ou trois serveurs bavardaient à voix basse dans la pénombre. Dehors, il tombait des cordes mais, malgré la grisaille automnale, la masse jaune vif des marronniers du jardin brillait, éclatante. Je n’avais rencontré Mrs Paz que deux ou trois fois auparavant, lors de soirées de signature dans des librairies parisiennes ; assis devant elle, je réalisai qu’elle était beaucoup plus jeune que dans mon souvenir, trente-cinq ans tout au plus. Elle souriait rarement et avait l’air un peu intimidant de quelqu’un qui a consacré son existence à une seule tâche, dans son cas la critique structuraliste. “Une moniale de la déconstruction littéraire”, c’est ainsi que son éditeur parisien l’avait présentée, non sans humour, dans un article. Alors que nous buvions notre café avant de commencer l’entretien, elle m’expliqua que depuis qu’elle était à Paris elle n’avait fait que répondre à des journalistes pour la promotion de son dernier essai et qu’elle commençait à trouver cela lassant. Elle avait accepté cet entretien pour une revue comme la mienne en espérant que nous parlerions d’arbres plutôt que de livres.

Je commençai l’entretien en lui demandant quel était son premier souvenir d’une forêt. Dans son enfance, dit-elle, ses parents ne l’avaient jamais emmenée se promener dans les bois, comme c’est l’usage dans la plupart des familles américaines moyennes. Ils habitaient Boston et ne quittaient la ville que pour voyager au Mexique, dont son père était originaire, et surtout en Europe. La première fois qu’elle avait vraiment regardé une forêt, c’était lors d’une sortie scolaire, alors qu’elle devait avoir quinze ou seize ans.
Son professeur de lettres emmenait souvent ses étudiants visiter des hauts lieux de la littérature en Nouvelle-Angleterre. Cette année-là, il avait choisi de les emmener à Lenox afin de leur faire découvrir The Mount, la demeure que la romancière Edith Wharton et son mari s’étaient fait construire en 1902 dans ce coin isolé de la région. “Je me souviens encore de l’émotion que j’éprouvai à l’entrée du domaine, dit Dorothy, en voyant les écuries blanchies à la chaux et les grands arbres surgissant au milieu d’une pelouse brise et le jardin ordonné derrière moi ! Dans les deux cas, il y avait une profusion de couleurs, mais un monde séparait les fleurs du jardin des fleurs de la prairie, le rouge délicat des roses du rouge sang des coquelicots. Puis, au fond de cette clairière la forêt apparut. Un rideau très dense d’arbres sans forme précise qui tranchait avec la beauté formelle du jardin, qui semblait nier son droit à exister. Je frissonnai car je crus soudain sentir le souffle de la forêt qui, ayant traversé la prairie, touchait mon visage, mais quand je me retournai je revis les roses, les parterres de buis taillés, les fontaines – oui, j’étais dans une villa florentine ! Et ce jardin qui depuis qu’Edith l’avait dessiné était resté tel quel, qui avait défié non seulement la nature sauvage mais aussi le temps, me parut encore plus précieux. Un petit monde artificiel, fragile et pathétique, certes, mais vivant et accueillant, comme un beau livre.”
Après cette visite au Mount, Dorothy n’avait plus songé à la forêt. Bien entendu, celle-ci réapparaissait sans cesse au cours de ses lectures puis de ses recherches, mais elle n’était, à ses yeux, qu’un topos littéraire, et la jeune étudiante qu’elle était, éprise de culture française, regardait avec un certain mépris l’attraction romantique pour la nature sauvage qu’éprouvent la plupart des intellectuels américains, orphelins, comme elle le disait, de Thoreau et de Whitman. Seule la langue comptait. Qu’elles soient animées ou non, les choses du monde n’avaient ni sens en elles-mêmes, ni valeur, tant que la parole ne s’emparait pas d’elles pour leur donner une forme, les rendre intelligibles. D’ailleurs, qu’est-ce que c’était que l’art sinon une tentative d’échapper à la brutalité de la nature, à l’œuvre de destruction du temps ? “Et puis il y eut la Hoh Rainforest, dit Dorothy. Comme un coup de tonnerre dans un ciel bleu.” Je repensai à l’évocation, dans l’épilogue de l’essai de Mrs Paz, de cette forêt pluviale située dans l’État de Washington, au nord-ouest des États-Unis, une des dernières forêts primaires au monde. Je lui dis à quel point j’avais été saisi par ces quelques pages, pour moi les meilleures du livre, où son écriture prenait un accent personnel, un peu déroutant pour qui connaissait ses précédents ouvrages, et où il n’était plus question de littérature, seulement du sous-bois.

“C’était il y a un an, alors que je me trouvais à Seattle pour un colloque. J’avais accepté l’invitation de trois collègues du département de littérature comparée à les suivre dans une excursion à Hoh dans l’Olympic National Park, par pure politesse à vrai dire. Je craignais de me retrouver dans un de ces horribles parcs nationaux américains toujours envahis de familles bruyantes, de camping-cars et de randonneurs. Je me souvenais de Yosemite, en Californie, et de ses séquoias millénaires encerclés de visiteurs assis en adoration silencieuse, les yeux fermés, comme s’ils étaient, que sais-je, des chamans indiens ! Mais la forêt de Hoh, c’était autre chose… Il pleuvait ce jour-là, la saison touristique n’était pas encore commencée et mis à part mes collègues et moi il n’y avait personne. La forêt me saisit dès les premiers pas, presque physiquement. Dans la pénombre tantôt grise tantôt verdâtre, nous étions entourés d’un chaos de troncs couchés, recouverts de strates épaisses de mousse, sur lesquels d’autres arbres avaient pris racine. Tandis que nous avancions en file indienne sur le sentier, mes yeux s’égaraient dans cet enchevêtrement de branches et de lichens qui pendaient jusqu’au sol comme des rideaux en lambeaux. L’un de mes collègues nous expliqua que c’était l’abondance des précipitations qui permettait une telle luxuriance, ce concentré de vie qui avait atteint son climax il y a des millénaires et qui depuis poursuivait son existence, immuable. Il nous parla des conifères et des feuillus qui avaient colonisé le Nord-Ouest du continent bien avant l’apparition de l’homme sur terre et dont il ne restait plus que cette forêt s’étendant sur trente-huit kilomètres le long du fleuve Hoh. Au bout de quelques minutes, je n’écoutais plus. Des sentiments que je ne connaissais pas, qui ne m’appartenaient pas vraiment, se bousculaient dans mon cœur. L’envie me prit de quitter le sentier de randonnée, de marcher au milieu du chaos. Je laissai les autres me distancer et je m’aventurai dans la forêt. En enjambant les troncs couchés, en écartant les lianes, je me frayai un passage. Il était très pénible, parfois presque impossible, d’avancer, les muscles de mes jambes me faisaient mal, je trébuchai plusieurs fois car mon poncho imperméable me gênait. Et maintenant que j’étais seule et que les voix de mes amis s’étaient éteintes au loin, je m’aperçus que la forêt baignait dans un silence à peu près total. Je m’arrêtai un instant : pas de chant d’oiseaux, ni de bourdonnement d’insectes. Seules les quelques gouttes de pluie qui parvenaient à pénétrer la canopée, très haute au-dessus de ma tête, résonnaient de temps en temps en tombant sur les troncs couchés.” Dorothy avançait maintenant avec difficulté dans son récit. Elle était visiblement en train de se frayer un chemin dans ses souvenirs comme à travers le désordre de branches et de lianes de la forêt. Elle était là devant moi et en même temps à l’autre bout du monde, loin de cette grise journée parisienne et du Rostand. “Où étais-je en train de me diriger ? J’avais perdu mes repères car dans une forêt comme celle-là, toutes les directions semblent se valoir. Mes chaussures trempées s’enfonçaient dans un sol étonnamment souple. Mon collègue nous avait expliqué qu’il s’était formé au fil des millénaires grâce à la décomposition des feuilles, du bois et des animaux morts, à l’humidité, au travail incessant des insectes et des vers, si bien que j’avais l’impression de marcher sur des couches épaisses et humides de temps, accumulées là depuis les origines de la terre. Les gouttes de pluie aussi semblaient tomber d’un monde distant, d’un monde d’avant le monde où les hommes n’avaient pas de place. Dans cette forêt, je n’étais qu’une intruse. Alors j’eus peur, car je réalisai que je m’étais égarée. Dans la pénombre, derrière des parois de feuillages et de lianes, je crus percevoir une lueur. Je me dirigeai vers elle et au bout de quelques mètres je débouchai sur une petite prairie. Peut-être avait-on coupé des arbres à cet endroit ou retiré le bois mort, toujours est-il que cette clairière avait une forme parfaitement ronde. Dans la lumière éclatante, après la pénombre du sous-bois, il me sembla distinguer des fleurs, floues mais d’un blanc très pur, qui, bien qu’immobiles, ressemblaient – je les vois encore clairement – à une myriade de petites flammes. Elles étaient sans doute, me dis-je aujourd’hui, de simples narcisses, mais elles me parurent extraordinaires, les fleurs d’un autre monde. De peur de les piétiner, je n’osais pénétrer dans la clairière. Une voix, au plus profond de moi, me disait que j’avais juste le droit de rester là où j’étais, au bord de cette petite prairie, comme si celle-ci était un enclos sacré, de la regarder de l’extérieur. En proie à des pensées aussi irrationnelles que confuses, je m’assis sur un tronc mort et je restai à caresser l’écorce humide, sentant le mouvement incessant des insectes dans la mousse. C’était donc cela, la vie…

 

Marco Martella, Fleurs, un endroit où aller Actes Sud

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Il ruolo degli Usa è destinato a ridursi. Io vedo metastasi

23 Dicembre 2021

Lo storico e politologo statunitense di origine giapponese intervistato su 7: «L’America? Gli Stati Uniti resteranno una grande potenza, ma io vedo metastasi interne». «Altre potenze dell’area, soprattutto la Cina, trarranno vantaggi importanti dal vuoto lasciato dagli americani nell’Asia Centrale»

«Gli Stati Uniti resteranno una grande potenza, ma il loro ruolo nel mondo continuerà a ridursi. È un processo che va avanti da anni: non credo che verrà accelerato dal brutto ritiro da Kabul. Né credo che le altre potenze dell’area, soprattutto la Cina, trarranno vantaggi importanti dal vuoto lasciato dagli americani nell’Asia Centrale. Biden ha commesso errori, certo, ma ha avuto il coraggio di fare la scelta giusta assumendosene i rischi. È il terzo presidente che vuole ritirarsi dall’Afghanistan: i suoi predecessori non l’hanno fatto proprio per il timore di un’uscita caotica. Ma il ritiro era inevitabile: restare non era più sostenibile a meno di non decidere una escalation della presenza militare. C’erano i patti siglati da Trump da rispettare, ma, soprattutto, lo spaventoso aumento delle perdite di vite nell’esercito afghano già prima degli accordi di Doha: insostenibile».

Francis Fukuyama, il politologo e storico americano di origine giapponese che trent’anni fa fece discutere il mondo col suo La fine della storia pubblicato dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’impero sovietico, quando gli Usa non sembravano più avere rivali, analizza con distacco, dalla sua università di Stanford, in California, i drammatici eventi dell’ultimo mese. Non ignora i drammi umani del presente, ma esplora soprattutto il passato remoto e il futuro per cercare di capire le cause di quanto accaduto e cosa possiamo aspettarci ora.

Chi giustifica Biden sostiene che non esistono modi non drammatici e non cruenti di uscire da una guerra persa.
«Certamente il presidente paga il conto di guerre sbagliate o comunque protratte troppo nel tempo».

L’illusione neocon dell’esportazione della democrazia.
«Non solo: il problema principale fu la reazione eccessiva agli attentati dell’11 settembre 2001. La minaccia del terrorismo di Al Qaeda fu molto sopravvalutata, così come fu sopravvalutata la possibilità di ottenere risultati politici usando la forza militare».

«QUEL GIORNO ERO IN UNIVERSITÀ A WASHINGTON, VICINO AL PENTAGONO: DALLA FINESTRA VIDI LA COLONNA DI FUMO DELL’AEREO FATTO PRECIPITARE DAI TERRORISTI. USCII E LA GENTE ERA IMPAZZITA…»

Sono passati vent’anni. Dov’era lei quel giorno? Come reagì?


«Allora insegnavo a Washington. L’università era abbastanza vicina al Pentagono e dalla finestra vidi la colonna di fumo dell’aereo fatto precipitare dai terroristi. Uscii e la gente era impazzita. Strade chiuse, tornare a casa fu un incubo durato ore. Eravamo tutti terrorizzati. Non era un attentato come altri. Come quelli degli estremisti palestinesi o dell’IRA nell’Irlanda del Nord: violenza, cattura di ostaggi, trattative. Qui era diverso: c’era l’evidente obiettivo di fare strage di americani e se un giorno ne avevano uccisi tremila, il giorno dopo ne potevano ammazzare 300 mila o tre milioni. Si cominciò a temere che i terroristi potessero avere accesso ad ordigni nucleari o a una bomba “sporca”, radioattiva, o ad armi batteriologiche. È di quegli stessi giorni anche la minaccia delle buste all’antrace: ci sentivamo assaliti da tutti i lati. Poi abbiamo scoperto che non era così, ma c’è voluto tempo per capirlo. Guardando ora le cose col distacco degli anni trascorsi, vediamo che fu commesso un grosso errore politico con le invasioni, soprattutto l’Iraq: quella del terrorismo era, in realtà, una minaccia limitata, anche se condotta con azioni spettacolari per la loro ferocia. Abbiamo scoperto che Al Qaeda e gli altri gruppi non solo non erano in grado di procurarsi armi sofisticate, ma non avevano nemmeno un reale peso politico nel mondo arabo».

Gli attentati, comunque, sono stati numerosi, anche in Europa. Poi è arrivato l’Isis, ora diffuso anche in Afghanistan. Non rischiamo una nuova onda di terrore jihadista, magari capace di arrivare negli Usa e di pesare sulle prossime elezioni?
«Non credo. Oggi il terrorismo organizzato riesce a colpire solo in Paesi privi di una solida organizzazione statale, dalla Somalia al Mali. Non ci sono più stati grandi attacchi in Europa e nemmeno negli Stati arabi più strutturati. Talebani che abbandonano il terrorismo solo a parole? C’è chi cita come prova la liberazione dei reclusi delle prigioni afghane. Ma a me risulta che, quando hanno aperto i cancelli, i talebani hanno fatto uscire tutti ma non i capi dell’Isis-K, eliminati con esecuzioni sommarie».

«VENT’ANNI FA ERAVAMO TERRORIZZATI, ABBIAMO SCOPERTO DOPO CHE LA MINACCIA DEL TERRORISMO IN REALTÀ ERA LIMITATA»

Il ritiro americano lascia comunque un vuoto in Asia Centrale: non ne trarranno vantaggio i Paesi dell’area e le due potenze Cina e Russia?

«Il caotico ritiro americano può avere offerto qualche piccolo vantaggio diplomatico a Pechino e a Mosca, ma non vedremo nulla di simile all’influenza che Urss e Stati Uniti hanno avuto quando hanno occupato l’Afghanistan: nessuno si vuole più avvicinare troppo. Hanno imparato tutti che quel Paese è come un porcospino: c’è sempre più da perdere che da guadagnare. Poi, certo, la Cina cercherà di stabilire rapporti economici perché il Paese ha importanti risorse minerarie ed è geograficamente collocato in un’area importante per le rotte della Belt & Road Initiative di Pechino. Non mi pare un fattore sostanziale».

Un altro timore: Pechino, imbaldanzita dalla sconfitta e dal ritiro degli Usa, che attacca Taiwan. Possibile?
«Possibilissimo e io lo temo da tempo, ma non credo che un eventuale detonatore possa essere l’Afghanistan. La Cina non ha mai fatto mistero di puntare alla piena sovranità sull’isola. Sperava di arrivarci in modi pacifici, ma ormai Taiwan è una potenza economica e la brutale repressione a Hong Kong rende uno sbocco concordato impraticabile. Non so come finirà. So che Biden ha giustificato il disimpegno da Kabul anche con la necessità di concentrare l’attenzione sul contenimento dei grandi avversari degli Stati Uniti. Mi auguro che sia così, ma non so se riuscirà».

Taiwan è strategica per l’Occidente, soprattutto per la fornitura di microchip. Davvero rischia l’invasione? E gli Usa, da sempre impegnati a difenderla, resterebbero a guardare?
«La Cina ha la forza militare per riprendersi l’isola. Non credo che in caso di attacco gli Stati Uniti si impegnerebbero in una vera guerra. Il punto, quindi, è capire se quello che l’America sta facendo, e farebbe ancora di più in caso di attacco, per armare l’isola sarà un deterrente sufficiente a fermare la Cina. Io sono piuttosto pessimista».

«I REPUBBLICANI SONO UN PARTITO IMPAZZITO, LA SINISTRA SI STA RADICALIZZANDO: GLI STATI UNITI HANNO UN PROBLEMA INTERNO»

In un saggio scritto per l’Economist lei si dice convinto che crisi e ritirata dell’America dipendano dai suoi problemi interni – la polarizzazione, l’involuzione dei processi democratici – assai più che dalle turbolenze nei rapporti internazionali. Non considera di per sè un dramma la fine dell’egemonia Usa – i periodi di unipolarismo sono eccezioni nella storia del mondo – e si augura che il Paese, recuperata coesione, riesca a mantenere, in partnership con altri, il mondo su un binario pacifico e di valori democratici condivisi. Poi, però, parlando dei problemi degli Usa, utilizza un termine definito: metastasi.
«È vero, c’è un cancro che divora l’America: la sua polarizzazione interna. Il problema principale viene dai repubblicani: un partito impazzito. Era internazionalista, mentre ora i più considerano i vaccini parte di una cospirazione globale contro gli Stati Uniti: una follia. Gli americani non si sono mai fidati molto dei governi, ma ora siamo passati dallo scetticismo a teorie cospirative insensate, eppure condivise da molti. Poi si diffonde anche una pericolosa radicalizzazione a sinistra che, se prende piede, minerà l’identità nazionale. Guardi la disputa che contrappone il 1619 al 1776, l’anno dell’indipendenza, come origine della nazione: è lo scontro tra chi crede che l’America sia fondata sulla battaglia per la libertà e chi ritiene che sia stata costruita sulla schiavitù. Così il progetto di democrazia multirazziale nato dopo l’era dei diritti civili va in frantumi».

È a rischio anche il soft power dell’America, quell’influenza, teorizzata da Joseph Nye, che affascinava il mondo, legata a un insieme di valori democratici e fattori culturali, alla musica, alla letteratura, alla tecnologia, alle suggestioni di Hollywood?
«L’erosione del soft power dell’America non è cominciata di certo a Kabul: è un processo che va avanti da almeno 7-8 anni. Aggravato da Trump che ha deliberatamente sabotato la reputazione degli Usa nel mondo. Ferite che Biden promette di curare. Non so se riuscirà, anche perché l’anno prossimo con ogni probabilità perderà, almeno alla Camera, la maggioranza della quale oggi gode in Congresso. Vedo più rischi di paralisi che opportunità di rinascita».

10 settembre 2021 (modifica il 10 settembre 2021 | 07:43)

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Campagna

14 Dicembre 2021

Andare per campagne non è più una gioia. Improvvisamente, qualcosa è cambiato in un paesaggio che non cambiava da quattromila anni, quello delle terre coltivate, e l’anima dell’uomo si è rattristata.

Pensavamo, vivendo nelle città, che sarebbe sempre esistito, lontano dal maleficio delle vie, dai grandi serpenti cloacali, dagli anelli periferici dove un muro invisibile fermava i tram, dalle concentrazioni di sforzi e di pena, di crudeltà e di godimento troppo elevate, un mondo non tutto contaminato, un dolore meglio sopportato, una miseria più pulita, una fatica meno impura, una benda per le ferite dei nervi, una possibilità d’incominciare una vita diversa, una riserva inesauribile di nutrimento fresco e di acque, una religione astrale delle consuetudini che ci scampasse dai cambiamenti troppo rapidi, spegnesse nell’indifferenza le febbri della capitale, non tradisse la fedeltà di chi nasceva e le speranze di chi gli si convertiva. Tutto questo chiamavamo campagna. Averla conosciuta prima che un malvagio incantesimo la stringesse, mentre la città franava nella catastrofe, è stato un bene perfetto, anche se una felicità bevuta è sempre madre di eccessivo rimpianto, e credo siano da compiangere le generazioni che ormai, nate o non nate in campagna, potranno vederla soltanto come un prolungamente, una gareggiante metastasi della città, una pagina di etnografia incollata sui miasmi, un malinconico diorama di vita animale e vegetale ammorbata e disseccata.

Una delle più offensive stupidità che si sentano dire dalla malavita laureata, indottrinata e disumanizzata è che bisogna ridurre sempre più l’antitesi città-campagna. Non è certo come un impossibile ritrapiantarsi di orti e di ulivi nei morti tessuti urbani che questa ottusa canaglia immagina la sua riduzione dell’antitesi. Sa che si tratta di una via a senso unico: l’estensione dei mali urbani (frettolosamente elencabili come inquinamento totale, sradicamento, perdita dei mestieri e del rapporto commerciale, infoltimento del crimine, depressione del rigettato, naufragio nel rumore) a ogni resto, a ogni avanzo, a ogni barlume superstite di campagna.

La conosco questa campagna dove si è venuta via via riducendo la famosa antitesi, e davanti ai suoi tratti deturpati l’orrido puro, il deforme puro, la malattia assoluta della città mi sembrano meno laidi e meno sconfortanti. È una campagna che somiglia a una bambina bellissima, che un cancro ha devastato in un solo lato del viso, cancellandone un occhio, e lasciando l’altro aperto per lo stupore e il silenzioso rimprovero. È una campagna umiliata, sofferente, che si vergogna di non poter sparire, nella quale ogni nuovo insediamento industriale è come un vistoso chiodo nella carne, disperata di non avere difesa. La peste chimica l’avviluppa completamente, di sopra e di sotto, di dentro e di fuori, animali, esseri umani, piante, suolo, acque d’irrigazione, acque profonde. La gente che rimane accetta tutto, con una passività di pollaio: non è felice, ma non sa reagire all’incantesimo. Va allo spaccio dei veleni e li compra a quintali, per spargerli gelidamente sulle colture. Telefona all’elicottero e lo invita ad avvelenargli la proprietà. Con gli anticrittogamici di alta tossicità, con le macchine agricole a nafta, s’introduce i veleni nella pelle, nel sangue, nei polmoni. La morte dei campi è fruttuosa: le patate dell’Angelus si ritirano al Bancomat.

Ma il male urbano, che sta dirigendo i suoi raggi di morte su tutte le campagne, è così profondo che non si può misurarlo tutto e con precisione. Il mio piccolo catalogo di mali è soltanto un’osservazione di giornalista che non ha tempo e arte di vedere altro prima di ripartire. Il quadro dei sintomi non ci dà la chiave di questa lebbra, che si sottrae alla nostra penetrazione razionale. C’è un ballo di sintomi da fare impazzire le diagnosi. Il moderno male urbano è forse soltanto uno dei grandi momenti di libidine e di straripamento del Male, fondamento del mondo, dal quale l’illusione della campagna come realtà permanente, rifugio sempre pronto, distacco fisico dal miasma (esemplare la fuga in villa dalle città colpite dal colera o dai bubboni), divinamente, coi suoi paesaggi antitetici, le sue libertà promesse, ci distoglieva.

Questa illusione so che non la ritroverò più uscendo dalla città e andando verso la campagna. So di agitarmi sempre, qualunque strada pigli, nella stessa prigione. La ritrovo leggendo qualche poeta, che ha avuto la fortuna di poter trascrivere la pienezza dell’illusione nel proprio linguaggio, dove non si è perduta, Virgilio, Leopardi o Verlaine, e guardando qualche pittura, dove si vedono paesaggi inverosimili, vere Gerusalemmi celesti, meraviglie edeniche (e sono soltanto inverni ed estati), in cui il guasto umano nella natura, lacerazione lontana, incancellabile, si presenta in deliziosi e musicali travestimenti, addirittura come l’attuarsi dell’ordine divino nel caos; e so che la vera campagna è ferma nel gioco di quella finzione, e che la fuga in lei non è più possibile se non passando attraverso gli specchi lontani che la rifransero.

 

Tratto da: Guido Ceronetti, La carta è stanca, Adelphi

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Brutti tempi per i libri, trattati come ombrelli

11 Dicembre 2021

Dacia Maraini non l’ho conosciuta di persona. Quest’intervista è l’unica che ho dovuto fare per telefono: lei si trovava nella sua casa in Abruzzo, isolata per diversi giorni da una tormenta di neve. Abbiamo passato un paio d’ore insieme al telefono, ma naturalmente non è la stessa cosa. Molte domande possibili si perdono, si dimenticano, mentre a una parentesi segue un’altra parentesi. Dacia era influenzata, faceva molta fatica a stare al telefono e anche per questo non ho voluto abusare del suo tempo.

Con lei avrei voluto parlare per esempio di Madame Bovary, cui Dacia ha dedicato un saggio nel quale indaga il rapporto tra Flaubert e la sua eroina, oltre il «Madame Bovary c’est moi». Non sono d’accordo su molte sue riflessioni a proposito di Emma, «ostaggio del suo autore». Abbiamo comunque fatto in tempo a parlare di tantissime cose, anche al di là del racconto di una vita decisamente fuori dal comune. Dello stato attuale della letteratura italiana, per esempio. Ho subito notato – in una donna non più giovanissima ma che soprattutto ha avuto il privilegio di confrontarsi con le più importanti voci della letteratura italiana – l’assoluta mancanza di nostalgia. Che poi si traduce anche in un’estrema attenzione verso tutto ciò che è contemporaneo, quel contemporaneo che invece chi scrive fatica così tanto a trovare interessante o degno di nota. Riconosco che è un atteggiamento universale, di ogni epoca, guardare al passato con un rimpianto desolato e sospirante: dunque forse è più una questione di sguardo, di attitudine, di esercizio.

Invece a proposito della superficialità con cui vengono oggi trattati i libri, la Maraini ha perfettamente ragione. Il mercato è in parte una risposta, perché è lo stesso mercato a trovarsi in un guado difficile, tra la forma che abbiamo sempre conosciuto fino a pochi anni fa – cioè il libro fisico, il libro oggetto – e la rivoluzione digitale che davvero non sappiamo dove andrà a parare. Una volta Gian Arturo Ferrari – uno dei più importanti manager dell’editoria italiana – mi ha detto: «La lettura non è qualcosa che si può risolvere in due ore, come un film al cinema. Io sono sempre stato progressista, credo nel progresso e nel miglioramento. Le teorie della decadenza non mi hanno mai convinto fin da quando ero giovane: allora si tuonava contro la crisi della borghesia e il ’capitalismo maturo’, sottintendendo che fosse sul punto di cadere come una mela e di marcire». Non è andata esattamente così, però io sto più con Pietro Citati e la sua teoria sulla letteratura «bella addormentata». Del resto, mai come per queste cose, vale la scorciatoia latina del de gustibus.

Le radici non sono il contrario delle ali, e sono ugualmente importanti. È l’immagine che viene in mente, quando Dacia Maraini comincia a raccontare la storia della sua famiglia. Il primo a fare capolino è il nonno materno, Enrico Alliata. Come il Tolstoj degli anni della Confessione diventò vegetariano, vestì i panni dei contadini, prese a vivere con loro e come loro.

«Nonno Enrico andava in campagna, si occupava personalmente delle vigne e del vino: era anche enologo. Era un uomo buono e generoso. Mia nonna Sonia, invece, era figlia di diplomatici cileni, era ignorante perché non aveva studiato, come succedeva alle ragazze di allora, ma era una cantante di grande talento. Ricordo la sua voce bellissima, potente: era un soprano, aveva studiato alla Scala di Milano e con Caruso. Allora le donne di buona famiglia non potevano salire sul palcoscenico perché era considerato sconveniente. E quindi cantava alle serate di beneficenza, ma è stata frustrata tutta la vita perché avrebbe voluto fare la cantante lirica a tutto tondo, cantando nei grandi palcoscenici la grande opera.»

Dall’altra parte della storia c’è il nonno Maraini, di origine ticinese, uno scultore che si era stabilito a Firenze: il papà di Fosco.

«Era stato conquistato dal primo fascismo e dalle avanguardie del primo Novecento. Mio padre invece era ferocemente contrario, soprattutto si opponeva a qualunque tipo di discriminazione razziale. Il nonno voleva che lui prendesse la tessera per trovare lavoro e lui ha sempre rifiutato. Invece mia nonna paterna era una scrittrice, Yoï Pawlowska. Era per metà inglese e per metà polacca. Scriveva romanzi di viaggio, si metteva lo zaino sulle spalle e andava a piedi: ha attraversato la Persia con grande coraggio. Allora le donne non viaggiavano sole.»

In La nave per Kobe ha raccontato, attraverso i diari di sua madre Topazia, anche la sua infanzia in Giappone.

Avevo un anno, quando ci siamo imbarcati da Brindisi: mio padre aveva vinto una borsa di studio internazionale per studiare gli Hainu, una popolazione del Nord che ormai si è integrata coi giapponesi. Allora però avevano una loro lingua e vivevano cacciando orsi. Siamo rimasti lì fino a quando, nel ’43, ci hanno rinchiuso in un campo di concentramento. Mio padre e mia madre avevano rifiutato di firmare l’adesione alla Repubblica di Salò: ci consideravano traditori della patria. La vita nel campo era fame, parassiti, freddo, malattie, tutte le malattie della denutrizione. Soprattutto ricordo i morsi della fame, era un’ossessione che ci tormentava. Non ci davano quasi niente da mangiare. Io avevo sette anni, di quel periodo mi è rimasta dentro l’idea di continua allerta, di pericolo, l’arrivo dei bombardamenti. E ancora: il filo spinato, le guardie, gli orari. Ma il problema principale era non mangiare. Giocavo con le pietre e facevo finta che fossero cibo. Immaginavo che lo fossero e mi nutrivo con la fantasia. Mio padre m’insegnava la matematica, mia madre mi raccontava le favole in mezzo alle bombe che scoppiavano vicino al campo.

Nel ’46 vi liberano.

Sì, ma restiamo altri nove mesi in Giappone, in attesa di una nave. Non avevamo più niente, solo il vestito che ci avevano dato gli alleati. Mia madre lavorava per loro come esperta d’arte, mio padre traduceva dal giapponese. In qualche modo ce la siamo cavata. Poi siamo andati a vivere in Sicilia, in una villa molto bella che apparteneva ai parenti della mamma. Ma noi stavamo nell’ex pollaio, da cui era stato ricavato un appartamentino. La Sicilia, l’Italia tutta, era poverissima nel Dopoguerra. E noi non avevamo davvero niente. La Sicilia era dura per una ragazzina, c’era un controllo sociale continuo. Non potevo andare in giro da sola per strada, la mentalità era molto arcaica.

Fosco che padre era?

Era un uomo pieno di talenti. Piuttosto assente come genitore, perché girava il mondo per i suoi studi. Era un uomo straordinario. Soffrivo la sua assenza, però quando veniva da noi ci portava a nuotare, a camminare in montagna, a sciare, era un uomo che amava lo sport rischioso. Tante volte mi ha fatto prendere delle paure tremende portandomi ad arrampicare sulle rocce scoscese. Io poi che soffro di vertigini! Ma una volta gli ho salvato la vita. Perché lui doveva andare a fare una gita in alta montagna con dei suoi amici. Quella mattina io mi sono svegliata con la febbre alta e mia madre l’ha costretto ad andare a cercare un medico. Gli amici sono venuti a prenderlo e lui ha detto: «Voi andate avanti che io vi raggiungo appena posso». Quando li ha raggiunti, dopo qualche ora, erano tutti morti sotto una slavina.

E i libri quando li scopre?

Subito, sempre: in casa mia non c’era niente, i libri erano l’unica ricchezza. E poi era una famiglia di scrittori. Leggevo tantissimo, era la cosa che preferivo. Al liceo ho scoperto i classici, i greci, i latini, la grande letteratura dell’Ottocento. Funzionavo così: scoprivo un autore, me ne innamoravo, lo leggevo tutto. Balzac, i trenta romanzi, li ho divorati in fila. Non avevamo soldi per comprare scarpe nuove – le facevano risuolare venti volte – e andavo in giro con il cappotto rivoltato del nonno. Però la biblioteca era immensa, era lì da generazioni. Per fortuna, dico oggi. E ho cominciato prestissimo a scrivere, sul giornale della scuola, a Palermo.

Cosa?

Poesie e racconti. Poi ho fondato una rivista, a diciassette anni. Si chiamava Tempo di letteratura. Eravamo tutti aspiranti scrittori: c’incontravamo, discutevamo, scrivevamo i nostri racconti, poi traducevamo. Con me in quest’avventura c’era Sebastiano Addamo, che poi ha pubblicato per Garzanti e Sellerio.

Quanto resta in Sicilia?

Fino a diciotto anni: poi i miei si sono separati. Le mie due sorelle sono rimaste con mia madre e io, che ero la più grande, sono andata via con mio padre. Ho finito il liceo al Mamiani.

Roma com’era?

Povera: c’erano ancora le pecore che al mattino passavano in piazza del Popolo. Era più piccola anche, perché i grandi cambiamenti urbanistici sono avvenuti nei vent’anni successivi. Ma al mio arrivo era una città vivissima, si respirava una grande voglia di libertà, dopo il fascismo. Andavamo da Rosati, che era un posto molto diverso da quello che è oggi. Non era per i turisti, era il caffè degli artisti. Incontravi Calvino, Fellini, Pasolini, Guttuso, Moravia, Natalia Ginzburg, Elsa Morante. C’erano due o tre trattorie, molto alla buona, dove ci vedevamo tra scrittori. Ma non era vita mondana. Non c’erano né macchine né vestiti eleganti, né case di lusso, né niente. Soprattutto si parlava. Anche di politica, non solo di arte o di letteratura. Quando scoppiò la guerra in Vietnam ricordo che la seguivamo con molta partecipazione, ne discutevamo di continuo. Allora io facevo teatro di strada, contro la guerra. In quegli anni ho fondato il teatro di via Belsiana e poi il teatro di Centocelle.

Guttuso che tipo era?

Era un uomo affascinante, con una voce meravigliosa e bellissime mani. Le donne lo adoravano, aveva un grande charme. In quel periodo, nel nostro giro, c’erano anche Schifano, Titina Maselli e Franco Angeli. E Federico Fellini: Roma era una specie di salotto, nel senso migliore del termine.

E Pasolini?

Pier Paolo è diventato un amico carissimo: c’era tra noi una grande solidarietà. Era uomo di lunghi silenzi, riservato, in certi momenti quasi muto. Pieno d’idee, di progetti. Insieme nel ’74 abbiamo scritto la sceneggiatura di Il fiore delle Mille e una notte. Con le donne aveva un bel rapporto, affettuoso. La Callas era davvero convinta di poterlo convertire all’eterosessualità, una cosa assurda. Il fatto è che lui le voleva molto bene, in un certo senso l’amava. Ma non avrebbe mai fatto l’amore con una donna. Pier Paolo era un uomo coraggioso, ha sempre sfidato la vita. Anche la sua morte è stata una sfida. Non aveva paura di nulla, nemmeno dei suoi assassini. Ma purtroppo sappiamo poco della sua morte, né chi veramente l’ha ucciso né perché. L’omosessualità non c’entra per niente con la sua morte. Non dimentichiamo il caso Mattei, il lavoro che Pier Paolo stava facendo su quel mistero e non dimentichiamo le sue parole: «Io so, ma non ho le prove». Quel suo sapere aveva impaurito chi non voleva che si sapesse.

Leggendari sono i vostri viaggi.

Ne abbiamo fatti molti, in India, nello Yemen, ma soprattutto in Africa. Almeno dieci volte. Viaggiavamo in gruppo, con Alberto, qualche volta ci accompagnavano Ninetto Davoli o i fratelli Citti. Dormivamo nelle tende nel deserto, nelle missioni, nelle caserme. All’avventura, sempre il più lontano possibile da mete turistiche.

Il suo primo libro viene pubblicato quando lei è giovanissima, appena ventitreenne.

Sì, ma avevo già pubblicato su molte riviste letterarie: Paragone, Il Mondo, Nuovi Argomenti.

Che rapporto aveva con Pannunzio?

Mario era un uomo coltissimo e molto dolce. Però coltivava alcune idee antiquate, soprattutto sulle donne. Una volta, in sua presenza, avevo fatto un apprezzamento su un uomo. Avevo detto: «Guarda che bel corpo ha». E lui è rimasto stupitissimo, mi ha detto: «Ma io credevo che le donne guardassero solo gli occhi degli uomini». Io mi sono messa a ridere e gli ho spiegato che un uomo poteva piacere anche per altro, al di là degli occhi. Come si guarda una bella donna, si guarda un bell’uomo. Non credo di averlo convinto, su queste cose era un po’ ingenuo, un po’ infantile.

C’era anche un giovane Scalfari.

Era un uomo molto bello. Mi ricordo una sera che diede una festa bellissima sulla terrazza di casa sua. E io mi vergognavo perché avevo un vestito che non mi sembrava all’altezza della serata, troppo povero. Sono stata povera a lungo. A proposito di uomini belli: su quella terrazza ho conosciuto anche Lucio Magri. Aveva degli occhi verdi che erano una cosa stupefacente, una potenza magnetica. Quella sera ho ballato con lui: ma non era uomo che si potesse corteggiare, era impegnato con Luciana Castellina. C’erano anche Enzo Siciliano con la moglie Flaminia, Bernardo Bertolucci, Adriana Asti, Laura Betti. Un’altra casa dove andavano gli artisti – una bella casa grande, comoda, piena di libri e di quadri, era quella di Luisa Spagnoli, la «signora perugina». Amava moltissimo l’arte, faceva del vero mecenatismo: comprava le opere degli artisti e così li aiutava. Non solo: la sua casa era sempre aperta, i giovani pittori senza una lira lì trovavano sempre un pasto caldo. Era una donna gentile e generosa.

Siamo negli anni Sessanta, cioè quando nasce l’amore tra lei e Alberto Moravia. Com’è successo?

Lo conoscevo da quando avevo cominciato a frequentare Rosati. Poi avevo scritto un romanzo, La vacanza, che avevo proposto a un editore, il quale mi aveva detto di portargli la prefazione di un grande autore. E aveva fatto i nomi di Calvino, di Cassola, di Bassani. E di Moravia. Io ho cercato fra loro chi fosse disponibile e ho trovato Alberto che per fortuna era sempre ben disposto verso i giovani scrittori. Gli ho dato il libro, lui l’ha letto e gli è piaciuto. E così mi ha fatto la prefazione. A un certo punto ci siamo innamorati, per le consuete e misteriose strade che portano a queste cose.

Lui era sposato con Elsa Morante e molto più vecchio.

Si, ma erano separati da anni. Lei aveva suoi amori e lui pure. Siamo andati a vivere insieme quando io avevo ventisei anni e lui cinquantotto: ma l’amore non bada alle età. Sono stati quindici anni molto intensi, molto vivi e felici. Lui era affascinante, spiritoso, un grandissimo raccontatore di storie. La sua compagnia era una gioia. Mi piaceva moltissimo viaggiare con Alberto, proprio per questo suo modo di stare con le persone. Con Elsa non c’è mai stato un attrito, avevo un rapporto molto bello, sereno con lei. Mi chiamava quando leggeva un mio libro, parlavamo a lungo, la andavo a trovare. Si faceva il Natale a casa sua, con Visconti prima, che lei ha amato per anni e poi con Bill Morrow, un giovane pittore di cui si era innamorata da ultimo. A Elsa piaceva organizzare la pesca dei regali.

Con Moravia vi scambiavate idee mentre scrivevate?

A cose fatte, ma mai mentre lavoravamo. Eravamo gelosissimi, entrambi, delle nostre cose.

Perché è finita?

Gli amori, anche i più belli, si consumano, ci si allontana. Poi lui si è innamorato di un’altra donna, Carmen Llera, una giovanissima e bella e colta spagnola. Questo non ci ha impedito di rimanere legati e sempre molto amici. Non ci sono stati rancori o allontanamenti traumatici. Fino alla fine.

Lei ha vinto il Campiello con La lunga vita di Marianna Ucrìa, nel 1990, e lo Strega con Buio, nel 1999. Cosa pensa dei premi letterari italiani?

L’Italia è un Paese che legge poco e io ho l’impressione che i premi siano una sorta di compensazione. Si cerca di rendere visibili i libri attraverso i premi. Si legge poco da noi, ma non per pigrizia, bensì per la particolare storia della nostra lingua. Abbiamo cominciato prima di tutti in Europa, nel Trecento, con il volgare di Dante. Poi però lo sviluppo della lingua nazionale si è interrotto, con la Controriforma si è tornati al latino. C’è stata una frattura tra l’italiano colto e la lingua parlata, cioè i dialetti regionali. Questo ha impedito la nascita del grande romanzo dell’Ottocento, come è accaduto altrove. Non è un caso che Manzoni andasse a sciacquare i panni di qua e di là, cercando una lingua nazionale che non c’era. Settembrini si lamentava che gli scrittori italiani non conoscessero la lingua «dei mestieri». La lingua «dei mestieri», ovvero una vera lingua nazionale, è nata dopo, con l’unificazione del Paese e soprattutto grazie alla diffusione della radio, nel secondo Dopoguerra.

Gli anni della sua giovinezza sono stati un periodo d’oro per la letteratura italiana.

Dopo il fascismo c’è stato un inevitabile risveglio, per vent’anni si era respirata un’aria pesantissima. Di censure e tentativi di omologazione: Kafka, per esempio, era stato bandito perché considerato pessimista. I grandi russi venivano censurati. L’esplosione degli anni dopo il ’45 si deve secondo me moltissimo a Giulio Einaudi, che si era circondato di intellettuali come Pavese, Calvino, Leone e Natalia Ginzburg. La grande letteratura del secondo Novecento italiano nasce dall’euforia, dalla gioia di una liberazione anche intellettuale.

Dello Strega cosa pensa? Tutti gli anni è la culla di mille polemiche e dibattiti.

Questo succede perché è un premio molto legato agli editori, secondo me un po’ troppo. Non che gli scrittori premiati siano cattivi, ma guarda caso vincono sempre i grandi editori.

La letteratura italiana di questi anni?

Sono contraria alle nostalgie, all’elogio dei tempi andati. A posteriori si vede sempre tutto con un altro occhio: bisogna sapere guardare con attenzione alle nuove scritture. C’è sempre qualcosa di interessante. E ci sono voci di talento. Tanto per citarne alcuni: Ammaniti, Piccolo, Melania Mazzucco, la Mazzantini, Giordano, Fleur Jaeggy, Silvia Avallone, Mariapia Veladiano. Ma sono tanti di più. Un vivaio formidabile è la redazione di Nuovi Argomenti dove sono passati tutti, da Calvino a Saviano e che oggi sforna in continuazione nuovi romanzieri, da Veronesi a Desiati, da Chiara Valerio a Carola Susani, da Francesco Longo a Filippo Bologna, da Colombati a Lorenzo Pavolini. Purtroppo bisogna dire che da noi si pubblica troppo e senza molto criterio. Questo significa che i libri restano in libreria solo pochi giorni, non c’è il tempo di leggerli, di fare il passaparola, che è un modo democratico di far circolare un libro. L’editoria adesso si fonda sulla quantità: su cento libri, tre funzionano e con quei tre si paga tutto il resto. E il consumo presuppone la rapidità del passaggio delle merci: solo che i libri non sono merci qualsiasi, sono un oggetto di artigianato che entra poi nel mercato di massa, ma va trattato con delicatezza, perché dentro ci stanno le idee, la cosa più fragile, preziosa e complicata del mondo. E invece vengono trattati come gli ombrelli, si fanno, si comprano, si usano due volte e poi si buttano.

7 gennaio 2015

Tratto da: Silvia Truzzi, Un paese ci vuole, Sedici grandi italiani si raccontano, ed. Longanesi

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Splendori e miserie dell’Occidente

10 Dicembre 2021

Il “Summit per la Democrazia” convocato da Biden, una parata per rilanciare la favola del “mondo libero” unito nella missione di portare la democrazia nel mondo sotto la guida degli Stati Uniti.

I venti di guerra che spiravano al confine fra l’Ucraina e la Russia non si sono attenuati neanche dopo il vertice fra i due Presidenti, Biden e Putin, che hanno abbassato un po’ le canne dei fucili ma si sono scambiati, fra promesse e minacce, i reciproci penultimatum.

Nella stessa settimana la CNN ci informa che Biden si appresta a lanciare il boicottaggio diplomatico delle olimpiadi invernali in Cina in risposta alle violazioni dei diritti umani nello Xinjiang e a Hong Kong e alle pressioni militari cinesi su Taiwan. Si tratta di una misura che i cinesi hanno preso come una grave provocazione politica e che difficilmente porterà a un miglioramento della situazione nello Xinjiang e a Hong Kong. Gli Stati Uniti non sono Amnesty International e non hanno titolo per ergersi a paladini dei diritti umani nel mondo. Tanto più che, come la Russia, la Cina, Israele e la Turchia, si rifiutano di aderire a quei trattati internazionali, come lo Statuto della Corte penale internazionale, che pongono dei vincoli a quelle violazioni più odiose dei diritti umani, che sono i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità.

In realtà l’argomento della democrazia e della tutela dei diritti umani è usato sempre in modo strumentale per orgoglio politico, per marcare una supremazia.

Questa, infatti, sembra essere la settimana dell’orgoglio dell’Occidente. Il 9-10 dicembre il Presidente Biden ha convocato il «Summit per la Democrazia» che riunirà, in collegamento mondiale online, «leader di governo, società civile e settore privato». La lista degli invitati comprende 111 paesi. Tra questi 28 dei 30 membri della Nato: mancano Turchia e Ungheria ma, in compenso, ci sono Israele e Ucraina, insieme a 26 dei 27 membri della Ue (esclusa l’Ungheria). Il Summit «fornirà loro una piattaforma per difendere la democrazia e i diritti umani all’interno e all’estero, per affrontare attraverso un’azione collettiva le più grandi minacce che hanno di fronte oggi le democrazie». Verrà in tal modo avviato «un anno di azione per rendere le democrazie più reattive e resilienti», che culminerà con un secondo Summit in presenza per «costruire una comunità di partner impegnati nel rinnovamento democratico globale».

Si tratta di una sorta di gay pride dell’Occidente per rilanciare la favola del “mondo libero” unito nella missione di portare la democrazia nel mondo sotto la guida degli Stati Uniti, contenendo le spinte del mondo non-libero, nel quale ci sono la Cina e la Russia, ma non l’Arabia Saudita, né l’Egitto. In realtà più che glorificare il mondo libero dovremmo preoccuparci del degrado della democrazia e dei diritti umani proprio nei paesi dell’Occidente che quella bandiera hanno innalzato e adesso la stanno gettando nel fango. Come accade un po’ dappertutto anche nel Paese che ha inventato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, dove la nuova stella nascente della politica francese, Eric Zemmour, ha impostato la sua campagna presidenziale sullo slogan: immigrazione zero.Questo non è il tempo dello splendore ma delle miserie dell’Occidente e del degrado della democrazia.

Di quale gloria si può vantare un paese del mondo libero come la Polonia, dove qualche giorno fa è stata fatta morire una donna incinta con il bambino che portava in seno per il rifiuto di darle accoglienza? Di quale gloria si può vantare l’Unione Europea per aver trasformato il Mediterraneo in un cimitero? Usciamo fuori dalle finzioni e guardiamo la realtà con la cruda sincerità delle parole pronunciate da papa Francesco a Lesbo: “guardiamo i volti dei bambini. Troviamo il coraggio di vergognarci davanti a loro, che sono innocenti e sono il futuro. Interpellano le nostre coscienze e ci chiedono: “Quale mondo volete darci?” Non scappiamo via frettolosamente dalle crude immagini dei loro piccoli corpi stesi inerti sulle spiagge. Il Mediterraneo, che per millenni ha unito popoli diversi e terre distanti, sta diventando un freddo cimitero senza lapidi. Questo grande bacino d’acqua, culla di tante civiltà, sembra ora uno specchio di morte. Non lasciamo che il mare nostrum si tramuti in un desolante mare mortuum, che questo luogo di incontro diventi teatro di scontro! Non permettiamo che questo “mare dei ricordi” si trasformi nel “mare della dimenticanza”. Fratelli e sorelle, vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà!”.

Forse più che celebrare lo splendore dell’Occidente e del suo Paese guida, dovremmo cominciare a preoccuparci seriamente dello stato di salute della nostra democrazia, che rischia il naufragio nel mare dell’indifferenza e delle nostre miserie.

Testo di: Domenico Gallo

 

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