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LESSICO NATURALE

Se niente importa

13 Settembre 2022

Forse il primo desiderio di mio figlio, inarticolato e ancora inconsapevole, fu quello di mangiare. Pochi secondi dopo essere nato, stava poppando al seno. Lo guardai con una soggezione che non aveva precedenti nella mia vita. Senza spiegazioni o esperienza, sapeva che cosa fare. Milioni di anni di evoluzione gli avevano infuso quel sapere, così come avevano inscritto il battito nel suo cuoricino minuscolo e l’espansione e la contrazione nei suoi polmoni appena liberati.

Quella soggezione mi era sconosciuta, ma mi legava agli altri attraverso le generazioni. Vidi gli anelli del mio albero: i miei genitori che mi guardavano mangiare, mia nonna che guardava mia madre mangiare, i miei bisnonni che guardavano mia nonna mangiare… Mio figlio mangiava come i figli degli uomini delle caverne.

Quando mio figlio cominciò a vivere e io cominciai questo libro sembrava che per lui tutto ruotasse intorno al cibo. O stava poppando, o dormiva dopo la poppata, o faceva le bizze prima di poppare, o si sbarazzava del latte che aveva poppato. Mentre sto terminando questo libro, mio figlio riesce a gestire conversazioni abbastanza articolate e sempre più spesso digerisce il cibo che mangia con le storie che noi gli raccontiamo. Nutrire mio figlio non è come nutrire me stesso: è più importante. È importante perché il cibo è importante (la sua salute fisica è importante, il piacere di mangiare è importante), e perché le storie che accompagnano il cibo sono importanti. Sono storie che cementano la nostra famiglia e che la legano ad altre. Le storie sul cibo sono storie su di noi: la nostra epopea, i nostri valori. Assorbendo la tradizione ebraica dalla mia famiglia, a poco a poco ho imparato che il cibo serve a due scopi paralleli: nutre e aiuta a ricordare. Mangiare e raccontare sono atti inseparabili: le lacrime sono acqua salata; il miele non solo è dolce, ma ci fa pensare alla dolcezza; il pane azzimo è il pane della nostra afflizione.

Sul pianeta ci sono migliaia di cibi commestibili e per spiegare perché ne mangiamo una frazione relativamente piccola è necessario spendere qualche parola. Dobbiamo spiegare che il prezzemolo sul piatto è solo decorativo, che la pasta non si mangia a colazione, perché mangiamo le ali ma non gli occhi, le mucche ma non i cani. Le storie fondano la narrazione; le storie fondano le regole.

In molte fasi della mia vita ho dimenticato che avevo storie da raccontare sul cibo. Mi limitavo a mangiare quel che era disponibile o appetitoso, quel che sembrava naturale, sensato e sano: che cosa c’era da spiegare? Ma il tipo di genitore che ho sempre pensato di voler essere non può sopportare un simile disinteresse.

Questa storia non è cominciata sotto forma di libro. Volevo solo sapere – per me stesso e per la mia famiglia – che cos’è la carne. Volevo saperlo nel modo più concreto possibile. Da dove viene? Com’è prodotta? Come sono trattati gli animali e in che misura è importante? Quali effetti ha mangiare gli animali sul piano economico, sociale e ambientale? La mia indagine personale non è rimasta a lungo tale. I miei scrupoli di genitore mi hanno messo di fronte a fatti che come cittadino non potevo ignorare e che come scrittore non potevo tenere per me. Ma trovarsi di fronte a certi fatti e scriverne in modo responsabile non è la stessa cosa.

Volevo affrontare la questione in modo esauriente. Per cui, nonostante più del novantanove per cento della carne che si consuma in America provenga da allevamenti intensivi – e passerò gran parte del libro a spiegare che cosa significa e perché è così importante -, il restante uno per cento della produzione di carne è una parte non meno importante di questa storia.2 La sproporzione con cui questo libro si occupa dei migliori allevamenti a gestione familiare riflette la rilevanza che vi attribuisco ma, al tempo stesso, quanto siano irrilevanti: sono l’eccezione che conferma la regola.

A essere del tutto onesti (e con il rischio di perdere la mia credibilità già a pagina 21), prima di cominciare la mia ricerca credevo di sapere cos’avrei trovato: non nel dettaglio, ma in generale sì. E non ero il solo. Quasi sempre, quando spiegavo che stavo scrivendo un libro sul «perché mangiamo gli animali», i miei interlocutori davano per scontato, pur senza sapere nulla del mio punto di vista, che fosse a favore del vegetarianismo. È un presupposto rivelatore, e implica non solo che un’indagine approfondita sull’allevamento animale spinga ad abbandonare il consumo di carne, ma che la maggior parte delle persone sappia che le cose stanno così. (Da quale presupposto siete partiti vedendo il titolo di questo libro?)

Anch’io credevo che il mio libro sarebbe diventato un manifesto del vegetarianismo. Non è stato così. Un libro che promuova il vegetarianismo varrebbe la pena di essere scritto, ma non è questo il caso.

L’allevamento animale è un argomento estremamente complicato. Non esistono due animali, due razze di animali, due allevamenti, due allevatori o due consumatori uguali. Al di là della montagna di ricerche – letture, interviste, visite dirette – che sono state necessarie per cominciare anche solo a pensare a questo argomento in modo serio, mi sono dovuto chiedere se fosse possibile dire qualcosa di coerente e di significativo su una pratica tanto eterogenea. Forse non esiste la «carne». Esiste invece questo animale, cresciuto in questa fattoria, macellato in questo mattatoio, venduto in questi tagli e mangiato da questa persona, ciascuno così distinto dagli altri da rendere impossibile ricomporre i vari tasselli a formare un mosaico.

Mangiare gli animali è, come l’aborto, una di quelle tematiche in cui è impossibile conoscere con assoluta certezza alcuni dei dettagli più importanti (quando un feto è una persona, e non più una persona potenziale? Cosa prova davvero l’animale?) e che va a toccare i disagi più profondi di ognuno di noi, provocando spesso reazioni aggressive o di difesa. È un argomento spinoso, frustrante e di grande risonanza. Ogni domanda ne suscita un’altra ed è facile scoprirsi a difendere una posizione molto più estremista di quanto si creda o si ritenga rispettabile. O peggio ancora, non troviamo una posizione rispettabile o che valga la pena di difendere.

Poi c’è la difficoltà di distinguere tra le sensazioni che una cosa dà e ciò che una cosa è. Troppo spesso le riflessioni sul perché mangiamo gli animali non sono affatto riflessioni, ma affermazioni di gusto. E dove ci sono dei fatti – ecco quanta carne di maiale mangiamo; ecco quante foreste di mangrovie sono state distrutte dall’acquacoltura; ecco come si uccide un manzo – occorre chiedersi che cosa dobbiamo farne in concreto. Dovrebbero essere cogenti dal punto di vista etico? pubblico? legale? O sono solo informazioni che ognuno di noi digerisce e assimila come meglio crede?

Nonostante questo libro sia il frutto di un’immensa quantità di ricerche e abbia l’obiettività che può avere un lavoro giornalistico – ho usato le statistiche più prudenti (servendomi quasi sempre di fonti governative o di riviste scientifiche e industriali) e ho assunto due collaboratori esterni perché le verificassero -, io lo vedo come una storia. I dati a disposizione sono moltissimi, ma spesso sono scarni e malleabili. I fatti sono importanti, ma di per sé non forniscono significati, specie quando sono così legati alle scelte linguistiche. Che cosa significa esattamente misurare la reazione al dolore di un pollo? Significa dolore? Che cosa significa dolore? Per quanto possiamo imparare sulla fisiologia del dolore – durata, sintomi e così via – nulla ci dice qualcosa di definitivo. Ma inserendo i fatti in una storia, una storia di compassione o prevaricazione, o forse entrambe le cose, inserendoli in una storia sul mondo in cui viviamo e su chi siamo e chi vogliamo essere, allora potremo cominciare a parlare con cognizione di causa del perché mangiamo gli animali.

Noi siamo fatti di storie. Penso a quei sabati pomeriggio al tavolo della cucina di mia nonna, noi due soli: il pane nero nel tostapane acceso, il frigorifero che brontola invisibile dietro la cortina delle foto di famiglia. Tra pane di segale e Coca-Cola, mia nonna mi raccontava della sua fuga dall’Europa, del cibo che era stata costretta a mangiare e di quello che non era stata disposta a mangiare. Era la storia della sua vita – «Ascoltami» implorava – e io sapevo che mi stava trasmettendo una lezione vitale, anche se, da bambino, non sapevo quale fosse.

Adesso so qual era. E seppure i dettagli non potrebbero essere più diversi, sto cercando, e cercherò, di trasmettere la lezione di mia nonna a mio figlio. Questo libro è il mio tentativo più serio. Provo grande trepidazione in questo inizio, perché le ripercussioni sono moltissime. Mettendo da parte, per un momento, i più di dieci miliardi di animali macellati a fini alimentari ogni anno in America, mettendo da parte l’ambiente, i lavoratori e altri temi direttamente correlati come la fame nel mondo, le epidemie influenzali, la biodiversità, c’è anche la questione di come noi pensiamo noi stessi e ci pensiamo gli uni con gli altri. Dopotutto, noi non siamo soltanto i narratori delle nostre storie, ma siamo quelle storie. Se io e mia moglie cresciamo nostro figlio con una dieta vegetariana, non mangerà l’unico piatto della sua bisnonna, non riceverà questa peculiare e più diretta espressione del suo amore, e forse non penserà mai a lei come alla Cuoca Migliore Che Ci Sia. La sua storia fondante, la storia fondante della nostra famiglia, dovrà essere modificata.

Le prime parole di mia nonna quando vide mio figlio per la prima volta furono: «La mia rivalsa». Dell’infinito numero di cose che avrebbe potuto dire, ecco quella che scelse, o che fu scelta per lei.

Ascolta:

«Non eravamo ricchi, ma non ci mancava niente. Il giovedì si cuoceva il pane e la challà e i panini, e bastavano per tutta la settimana. Il venerdì si facevano le frittelle. Lo shabbat mangiavamo sempre pollo e pasta in brodo. Andavamo dal macellaio a chiedere un po’ di grasso in più. I pezzi più grassi erano i pezzi migliori. Non era come adesso. Non avevamo il frigorifero, ma avevamo latte e formaggio. Non avevamo tutte le verdure, ma ne avevamo abbastanza. Le cose che hai qui e che dai per scontate… Ma eravamo felici. Non conoscevamo di meglio. E anche noi davamo per scontato quello che avevamo.

«Poi cambiò tutto. Durante la guerra ci fu l’inferno in terra e io non avevo niente. Avevo lasciato la mia famiglia, sai. Scappavo sempre, giorno e notte, perché i tedeschi mi stavano alle calcagna. Se ti fermavi eri morto. Il cibo non bastava mai. Mi ammalavo sempre di più a forza di non mangiare. Non solo ero pelle e ossa. Avevo piaghe in tutto il corpo. Facevo fatica a muovermi. Non era un granché mangiare dai bidoni della spazzatura. Mangiavo quello che gli altri non erano disposti a mangiare. Se ti adattavi, potevi sopravvivere. Io prendevo tutto quello che riuscivo a trovare. Mangiavo cose che non ti direi mai.

«Anche nei periodi peggiori c’erano persone buone. Uno mi insegnò come legare il fondo dei pantaloni per imbottirmi le gambe con le patate che riuscivo a rubare. Camminavo per chilometri e chilometri in quel modo, perché non sapevi mai quando avresti avuto di nuovo fortuna. Uno mi diede un po’ di riso, una volta, e io camminai due giorni per andare a un mercato e lo barattai con del sapone, e poi andai a un altro mercato e barattai il sapone con dei fagioli. Dovevi avere fortuna e intuizione.

«Il peggio arrivò verso la fine. Moltissime persone morirono proprio alla fine, e io non sapevo se avrei resistito un altro giorno. Un contadino, un russo, Dio lo benedica, vide in che stato ero, entrò in casa e ne uscì con un pezzo di carne per me.»

«Ti salvò la vita.»

«Non lo mangiai.»

«Non lo mangiasti?»

«Era maiale. Non ero disposta a mangiare maiale.»

«Perché?»

«Che vuol dire perché?»

«Come? Perché non era kosher?»

«Certo.»

«Ma neppure per salvarti la vita?»

«Se niente importa, non c’è niente da salvare.»

Tratto da: Jonathan Safran Foer, Se niente importa, Perchè mangiamo gli animali?

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Ettore Sottsass

6 Settembre 2022

India

Fui a India muchas veces y espero poder volver porque me siento muy bien en India. Me siento bien porque hace calor y el calor acelera mi existencia como una droga.

Me siento muy bien porque en la India no se esconde la vida: ni la vida ni la muerte; Veo niños corriendo por la calle, niñas pequeñas que salen de la escuela con sus vestidos azules y rosas y cintas y flores en el pelo, veo gente en bicicleta que se va con montones de paja en la cabeza. En la India veo ancianos sentados a la sombra de un árbol y veo a otros ancianos muriendo lentamente tumbados al sol en las escaleras del templo; Veo gente sana, veo gente enferma, veo gente pobre y gente rica, más o menos, y veo gente heterosexual y gente toda retorcida, todo en la calle, en medio de alboroto, gritos, bocinas, campanas de bicicletas, en medio de vacas blancas errantes, vacas tristes.

En las calles, en los caminos, en el campo, la presencia del universo está en todas partes, toma el nombre de varias divinidades, toma infinitas figuras, a veces hasta un cartel rojo, una tarjeta de plata, un fuego, una inmensa procesión con elefantes, banderas, tambores y collares de flores. El universo está en todas partes, todos son el universo, toda la tierra es el universo, los enfermos y los curados son el universo: dondequiera que esté Dios y quien sea Dios.

Por lo tanto, la India también está llena de templos: templos grandes, templos pequeños, templos muy pequeños; incluso algunas esquinas pueden convertirse en un templo. En la India, los templos antiguos y los templos más antiguos y los templos nuevos siempre están llenos de gente, día y noche. Aunque no tenga religión para mí, en esos templos me siento muy bien, hay gente tranquila, todos andan descalzos, hay sombras misteriosas y luces inesperadas, a veces hasta árboles inmensos, decorados con cintas de tela descolorida o de campanas o estatuillas. , también hay gente que vende cosas, gente que trae aceite, gente que corre detrás de los niños, gente que se lava en grandes piscinas verdes, gente que duerme en el suelo e incluso gente que se queda parada mirando al espacio.

Los que miran al espacio son los que más me gustan; porque solo ellos son parte total del universo. ¿Dónde mira el universo? En silencio, el universo rueda sobre sí mismo, envía radiaciones, temperaturas, gravitaciones, aceleraciones, etc. y mira al vacío.

¿Dónde miran los manantiales, los inviernos, las tormentas, hacia dónde mira el mar? En el vacío. Solo nos fijamos en la llave de alarma, el monedero, el reloj, la fecha de nacimiento, el nombre que figura en el carnet de identidad facilitado por el ayuntamiento.

En cambio, en la India hay quienes miran al espacio. También están los que duermen en el suelo, en cualquier lugar, los que mueren lentamente al sol, en las escalinatas de un templo y luego son quemados para siempre, en el polvo del crepúsculo.

Cuando toda la existencia sin complicaciones, la existencia reducida a sí misma está en la calle, cuando no está escondida, no está cubierta de mentiras, falsificaciones, astucias, secretos, cuando todo está en camino, entonces me siento bien, no tengo nada más. perder: ya no me asustan las flores, ni los colores, ni las sonrisas, ni los cadáveres, llevados a pie hacia el río, quizás ni la pobreza, que es de otros pero que también puede ser mía; tal vez incluso podría encargarme de ello.

Por eso me siento bien en la India; cada vez que me siento bañado en una inmensa tormenta depurativa, cada vez que me quedo un poco más desnudo, cada vez que he experimentado algo más, me parece un poco más claro, un poco más ligero.

 

 

Ettore Sottsass, India, en “Casa Vogue”, (1994)

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L’Idiota dice che la Bellezza salverà il mondo

5 Settembre 2022

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L’Idiota dice che la Bellezza salverà il mondo, Eraclito che verrà il Fuoco per giudicarlo. Dai segni che vedo, dalle tracce che scopro, da quel che indovino nell’ombra del perduto, la Bellezza è un Messia venuto; e il mondo non è stato salvato, la tenebra non poteva afferrare la luce, solo farla simbolicamente morire. Ora nessuno l’aspetta piú, se non è Idiota; ma è ragionevole aspettare il giudizio del Fuoco: la giustizia viene sempre ultima. Quando il Fuoco verrà, dirgli di aver capito qualcosa della Bellezza, di averla sempre cercata, forse ne attenuerà il rigore.

L’errore dietetico fondamentale risale al peccato originale, che consiste nell’essersi provocata una grave indigestione. I due cacciati di Masaccio sono una coppia di sciagurati con lo stomaco pesante (lo si vede dalle smorfie) che l’angelo destina a un disordine dietetico dopo l’altro, dopo quella prima madornale indigestione. Mai l’uomo potrà avere dieta perfetta, dopo essere stato reso per sempre imperfetto da una cattiva dieta. Riscopriamo il valore della buona dieta (naturismo, vegetarismo ec.) quando ormai nel mondo l’alimento è condannato a sempre piú contaminarsi tra i veleni infiniti prodotti anche dagli errori dietetici di innumerevoli generazioni; qualcuno ha l’idea della purità e il nutrimento puro gli è già sfuggito di mano.

Pompieri al N. 14 di Via della Spada, la lunga biscia nera sprofonda in un antro buio. Tutti sperano di vedere le lingue del drago, ma neanche un filo di fumo. C’è solo una barba non bruciacchiata che chiacchiera tranquillamente con i pompieri.

(Chiostro di Santo Spirito). «Qui giace Isabella Roncioni di Pisa», «Qui giace Nicola Sottili», «Giovacchino Luder… da morbo tubercolare rapito…», «Qui riposa l’angelica spoglia di Teresa Ramacci», «Qui giace la caduca spoglia di Caterina figlia di Ferdinando Traversi e di Cammilla Minchioni», «… celebre calcolatore…» «A Cunegonda Frosini», «Qui giace le ceneri», «Qui sono le spoglie», «Angiolo mutuo pegno | di coniugal tenerezza». La piazza di Santo Spirito imprigiona d’amore: calma, alberelli, mercatino, il giallo della grande facciata la illumina di sovrumano. Aria di congedo, nel sublime cimitero brunelleschiano, dal tempo cristiano: non ne vedi piú che la cenere ben pettinata… (Rinascimento è ceneri cristiane mescolate a ceneri di gentilesimo rimosse, polvere di morte, da geni malinconici messa a purgarsi per un’estrema metamorfosi nei loro athanor matematici). Grande lievitazione per bellezza di spazi in piú chiese stamattina, ma piú di tutte Santo Spirito, dove mettersi a volare è facilissimo.

In Santa Trinita il prete diceva la messa soltanto alla donna che leggeva i testi sull’altare, diaconessa e devota a un tempo. Ma c’erano anche i banchi deserti a seguire il rito coi buchi dei tarli attenti.

Il mistero numerale è presente sia in Brunelleschi che nella cattedrale di Strasburgo, e l’una e l’altra rete sono calcolate esattamente per trattenere Dio: con una giusta iniziazione al numero magico in architettura, la loro diversità si assottiglia fino a sparire e s’intravede il loro Prigioniero per speculum et in aenigmate.

(Convento e chiesa di San Marco). «Son qui le ritrovate ossa di Agnolo Ambrogini detto il Poliziano…» Di faccia alle ossa ritrovate, segnate dalla carie gommosa (Sylva in scabiem), la cupa figura di fanatico del frate piagnone. NON È LÍ CHE DEVI GUARDARE, dice l’angelo dell’Angelico alla Maria che fruga con gli occhi nel sarcofago dal quale si sprofonda nello Sheòl pieno di polveri e d’ombra di morte, LÍ C’È LA TENEBRA E LA MORTE! CHI TU CERCHI È INVECE… Il dito dell’angelo punta verso il cielo dov’è la Figura risorta, ma noi siamo molto piú lenti delle Marie a cambiare la direzione in cui siamo assuefatti a guardare, a volte passiamo la vita sempre curvi sul sarcofago tenebroso. (In tanta dolcezza, una delle piú energiche lezioni di negazione della morte).

VELAVERUNT FACIEM EIUS. L’Angelico ripete spesso il motivo degli occhi bendati del Cristo: la luce si separa dalla tenebra velandosi (la tenebra crede di essere lei a velarla).

Voce del televisore dell’albergo: «… Anna Magnani è stata una grossa sfinge… forse la piú grossa della storia del cinema…» Mangio in camera carote di piazza Santo Spirito e ricotta di pecora. Cattiva siesta con continui tranghiottimenti di saliva, penosi. Mi sveglio dopo ben due ore e mezza di questo scarno riposo, mi faccio il tè e corro a confortarmi in Santo Spirito ma già erano spuntate le chiavi, sosto sulla piazza, ascolto campane, guardo tra i rametti nudi la luminosa facciata. Al Centro Sociale Cattolico un simpatico vecchio prete parla a un uditorio fittissimo, quasi tutto di monache carmelitane, di Santa Teresa, per il centenario. Ha bella eloquenza, tono acceso e nobile, gesti da pergamo, senso giusto del tempo: appena sente l’uditorio sfuggirgli tronca. Ero certo che finisse con la parola amore. I cristiani ne hanno sempre abusato, non sai che cosa intendano realmente dire: amore amore amore… La dotta conversazione non ha, di Teresa, evocato neppure un’unghia. All’uscita, volti distesi, soddisfatti… Segni di noche oscura, in quei frati ben nutriti, niente… Le monache non si sa a cosa pensino… Visi anche intelligenti, ma troppo facili ad accontentarsi… (Mi è piaciuto, per un poco, non vedere dei bruti). Fuori piove, le monachine si trasformano in tanti ombrelli concordi neri, che volano via…

Dopo l’Angelico e Santa Teresa, il festival del Cinema Omosessuale. Saletta stipatissima, molte donne, niente fumo, voci sommesse, è luogo di culto. Film tedesco: La tenerezza del lupo. Stanno lí, in religiosa compostezza, ad assorbire qualcosa di perfettamente abbietto, a masticare in silenzio irradiazioni di pura tenebra cloacale. Serietà, cultura, capire il diverso, libera sessualità… ma lí stanno mangiando tenebra, c’è come una gaveuse d’oies che li ingozza di un tenebroso pastone… Non scorre un’immagine che non sia una spugna di bassezza morale… Si vede un Peter Lorre epigonico che approfitta di essere poliziotto per truffare e per soddisfare ingordamente la sua passione efebica, si traveste da ballerina di cabaret per recitare un’Ave Maria, di colpo lo vedi strangolare un ragazzo, spogliarlo, divorarlo come un cannibale e poi quali altre sodomie sanguinarie compia non so perché mi sento male ed esco, ma io solo, è un pubblico adulto, che non reagisce negativamente, che resta al suo posto, con la macchinetta da ingozzare piantata in gola, a degradarsi stupidamente, freddamente, senza la forza, autenticamente erotica, di un vero plaisir de descendre.

Se dopo il cinema fosse arrivato uno con un microfono: Amici, adesso seguirà una lettura della Morte di Ermengarda e della notte di Lucia al castello dell’Innominato, tutti sarebbero rimasti al loro posto, ad assorbire anche quello (frammenti di luce portati al macello) prestando uguale attenzione, sempre composti, sempre pietrificati… – E adesso, un capitolo delle Centoventi Giornate… – Stessa attenzione, stessi applausi. Poi una proiezione dell’Uomo di Aran… Un documentario sull’Angelico… Poesie di Puškin, di Genêt, di Saffo, di Kavafis…

Spiraglio su un mondo morto. Un’umanità senza il senso morale è morta. La medicina trionfa: vita piú lunga ec. Ma è un coma morale protratto, non vita. Allora nel buio colonna di luce il primo versetto dei Salmi si manifesta: Beato l’uomo ec. (non sedersi, non mescolarsi, arcere profanum, tutto è reshaím, tutto, anche la piú veniale infamia, il piú piccolo alito di volgarità è consilium impiorum) e ti scampa dal cedimento, dal sederti per sventatezza e credulità tra gli empii, pronti a capovolgerti la mente, a stroppiarti il cuore.

In San Salvatore al Monte si è in mezzo alla perfezione delle perfezioni, alla misura delle misure. Basterebbe un fiato di numero in piú o in meno per rendere irrespirabile o far crollare tutto; sta su una nuvola immateriale, è uno spazio per l’uomo redento dallo spazio esterno dove pendono le chiavi della morte. Misteriosa pietà numerale del crocifisso posto davanti alle canne dell’organo, proprio al centro, dov’è la canna piú alta, di cui assorbe e trasmette (e trasmuta) la sonorità espiatrice.

In San Miniato bella voce benedettina manda su dalla cripta un fascio di luce gregoriana: Agnus Dei qui tollis peccata… Non è immaginabile un Agnello capace di portare un tal peso, ma la voce persuade il crederlo possibile.

La malattia, la religione, la solitudine, l’amore infelice, i sogni e gli incantesimi della Gerusalemme, tutto questo leggevo nel ritratto dell’Allori agli Uffizi, di Torquato… Invece non è Torquato; la vera immagine del Tasso è un’altra e non esprime niente di quel che leggevo nella pittura degli Uffizi; ha piú del gentiluomo spagnolo e gli soggiace una follia meno romantica. In realtà quella faccia troppo tassesca avrebbe dovuto farmi diffidare subito: – Questo non è Torquato, gli somiglia troppo –. Avevo addirittura parlato con quell’immagine, vedevo le sue labbra muoversi; ma sono labbra di un giovane malaticcio, autore sicuramente di poveri sonetti.

L’Italia come un libro prezioso e raro: – Dio è il mio bibliotecario, e mi dà in lettura a qualcuno, ogni tanto, quando è certo che sappia leggermi.

È l’undici marzo. Piove. Stasera a Lucca.

Tratto da: Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, Einaudi Ed.

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Stendhal

28 Agosto 2022

Libro primo

I. Una città piccola

La cittaduzza di Verrières può passare per una delle più graziose della Franca Contea. Le sue case bianche con i tetti a punta, di tegole rosse, si stendono sul declivio d’una collina, sulla quale boschi di vigorosi castagni segnano le minime sinuosità. Il Doubs scorre qualche centinaio di piedi al di sotto delle sue fortificazioni, costruite già dagli Spagnoli, e oggi in rovina.

Verrières è riparata verso nord da un’alta montagna, che dirama dal Giura. Le cime frastagliate del Verra si coprono di neve ai primi freddi dell’ottobre. Dalla montagna si precipita un torrente che attraversa Verrières prima di gettarsi nel Doubs, e dà movimento a una quantità di seghe da legname: industria assai semplice, che procura qualche agiatezza ai più degli abitanti, piuttosto contadini che borghesi. Tuttavia non le seghe arricchirono la piccola città. L’agiatezza generale che, dopo la caduta di Napoleone, ha permesso di rifare la facciata a quasi tutte le case di Verrières, è dovuta alla fabbrica di tele colorate.

Al primo entrare nella città, vi stordisce il fracasso d’una macchina fragorosa e di terribile apparenza. Venti martelli pesanti sono alzati da una ruota mossa dall’acqua del torrente, e ricadono rumorosamente facendo tremare il suolo. Ognuno di questi martelli batte ogni giorno migliaia e migliaia di chiodi. Giovanette fresche e belle porgono ai colpi di questi martelli enormi i pezzettini di ferro che rapidamente sono trasformati in chiodi. Questo lavoro, così rude in apparenza, è uno di quelli che più meravigliano il viaggiatore che s’addentra per la prima volta nelle montagne che separano la Francia dalla Svizzera. Se, entrando in Verrières, il viaggiatore domanda a chi appartiene la bella fabbrica di chiodi che assorda tutti quelli che salgono per via Grande, si sente rispondere con un accento strascicato: – Eh! È del signor Sindaco.

Per pochi momenti che il forestiere si trattenga sulla strada grande di Verrières, che sale dalla riva del Doubs fin verso il sommo della collina, c’è da scommettere cento contro uno che vi vedrà comparire un signore alto, con aria affaccendata d’uomo importante.

Al suo giungere, tutti i cappelli si levano subito. I suoi capelli son quasi grigi, è vestito di grigio. È cavaliere di molti ordini; ha fronte alta, naso aquilino, nell’insieme il suo aspetto è abbastanza regolare: sembra persino, a prima vista, che esso congiunga alla dignità del Sindaco quella specie di garbo che può ancora trovarsi nell’uomo di quarantotto o cinquant’anni. Ma subito dopo il parigino è offeso da una cert’aria di compiacimento e di sufficienza, commista a qualcosa di inintelligente, e di poco geniale. Si sente, da ultimo, che l’ingegno di quell’uomo si limita a farsi pagare puntualmente quanto gli è dovuto, e a pagare per conto suo il più tardi possibile quando deve pagare.

Tale è il Sindaco di Verrières, il signor Rênal. Dopo aver traversato la strada a passi gravi, entra al Municipio e scompare agli occhi del viaggiatore. Ma, continuando la passeggiata, questi, cento passi più su, scorge una casa di bell’aspetto, e, attraverso un cancello di ferro che continua la casa, un magnifico giardino. Più lontana, all’orizzonte, la linea delle colline borgognone, che par fatta ad arte per il piacere degli occhi. Questa veduta fa dimenticare al viaggiatore l’aria appestata di piccoli interessi economici da cui comincia a sentirsi asfissiato.

Lo informano che quella casa è del signor Rênal. Il Sindaco di Verrières deve ai guadagni della fabbrica di chiodi la bella casa di pietra che è stata compiuta or ora. Dicono che la sua famiglia sia spagnuola, antica, e, si aggiunge, stabilita in paese assai prima della conquista di Louis XIV.

Col 1815, egli ha cominciato ad arrossire di essere un industriale: il 1815 l’ha fatto Sindaco. Le muraglie che sostengono le varie parti del magnifico giardino che, di terrazza in terrazza, scende fino a Doubs, sono anch’esse frutto della abilità del signor Rênal nel commercio del ferro.

Non v’aspettate di trovare in Francia quei giardini pittoreschi che circondano le città industriali tedesche: Lipsia, Francoforte, Norimberga, ecc. Nella Franca Contea, più muri si costruiscono, più si fa la propria terra irta di pietre accomodate le une sulle altre, più s’acquista diritto al rispetto dei vicini. I giardini del signor Rênal, pieni di muri, sono anche ammirati perché egli ha comperato a peso d’oro taluni piccoli pezzi del terreno ch’essi occupano. Per esempio, quella sega da legname, la cui situazione singolare vi ha colpiti entrando in Verrières, e sulla quale avete visto scritto Sorel a caratteri giganteschi su di una tavola che domina il tetto, occupava sei anni fa lo spazio su cui ora sta levandosi il muro della quarta terrazza dei giardini del signor Rênal.

Nonostante il suo orgoglio, il Sindaco ha dovuto insistere molto presso il vecchio Sorel, contadino duro e testardo; e ha dovuto contargli i bei luigi d’oro per ottenere che trasportasse altrove la sua segheria. Quanto al ruscello pubblico che muoveva la sega, il signor Rênal, col favore di cui gode a Parigi, ha ottenuto che fosse deviato. Questa grazia gli fu data dopo le elezioni del 182*.

Ha dovuto dare al Sorel, una quantità di terreno quattro volte maggiore, cinquecento passi più giù, sulla riva del Doubs. E, sebbene, questa località fosse assai più propizia al suo commercio di tavole d’abete, papà Sorel – come lo chiamano da quando è ricco – ebbe l’abilità di ottenere dall’impazienza e dalla mania di proprietario, che animava il suo vicino, la somma di seimila lire.

Vero è che questa conclusione fu criticata dalle teste forti del luogo. Una volta, una domenica, quattro anni fa, il signor Rênal, tornando dalla messa in abito da Sindaco, vide da lontano il vecchio Sorel, circondato da’ suoi tre figli, che sorrideva guardando verso lui. Questo sorriso ha fatto una luce fatale nell’animo del Sindaco: da quel giorno, egli non cessa di pensare che avrebbe potuto ottenere il cambio a miglior patto.

Per conquistarsi a Verrières la pubblica stima, l’importante è di non servirsi, pur fabbricando molto e molto muro, di qualche piano importato dall’Italia dai muratori che la primavera traversano le gole del Giura per recarsi a Parigi. Una siffatta novità varrebbe all’imprudente proprietario un’eterna fama di testa stramba, ed egli sarebbe esautorato per sempre presso le persone sagge e moderate che hanno il monopolio della pubblica stima nella Franca Contea.

In realtà, costoro vi esercitano il dispotismo più tedioso; ciò appunto fa impossibile la dimora nelle città piccole a chi ha vissuto in quella gran repubblica che si chiama Parigi. La tirannia dell’opinione pubblica – e quale opinione! – è nelle piccole città di Francia idiota quanto negli Stati Uniti d’America.

II. Un sindaco

Fortunatamente per la reputazione del signor Rênal, come amministratore, un’immensa muraglia di sostegno era necessaria alla passeggiata pubblica che costeggia la collina un cento piedi più su del corso del Doubs. Essa deve a questa postura ammirevole una delle vedute più pittoresche della Francia. Ma ad ogni primavera le acque piovane solcavano la strada, vi scavavano frane, la facevano impraticabile. Questo danno, di cui tutti risentivano, mise il signor Rênal nella fortunata necessità di immortalare la propria amministrazione mediante un muro di venti piedi di altezza, lungo trenta o quaranta tese.

Il parapetto di questo muro, – per cui il signor Rênal ha dovuto fare tre viaggi a Parigi perché il penultimo ministro s’era dichiarato nemico mortale della passeggiata di Verrières, – il parapetto di questo muro s’innalza ora di quattro piedi dal suolo. E, come per sfidare tutti i ministri presenti e passati, lo si viene guarnendo di lastre di pietra.

Quante volte pensando ai balli di Parigi lasciati il dì innanzi, appoggiato a quei grandi massi di pietra di un bel grigio azzurrastro, i miei sguardi si sono sommersi nella vallata del Doubs! Di là, sulla riva sinistra, serpeggiano cinque o sei valli in fondo alle quali l’occhio scorge benissimo i ruscelletti. Corrono di cascata in cascata e vanno a gettarsi nel Doubs. Il sole è assai caldo tra queste montagne, quando piomba diritto; ma sulla terrazza la contemplazione del viaggiatore è protetta da platani magnifici. Questi debbono il loro rapido crescere e il loro bel verde azzurro alla terra che il Sindaco ha fatto trasportare qua e porre dietro la immensa muraglia di sostegno; poiché egli, nonostante l’opposizione del consiglio municipale, ha allargato la passeggiata di oltre sei piedi (sebbene egli sia ultra, ed io liberale, ne lo lodo; nell’opinione sua e in quella del signor Valenod, il fortunato direttore del Ricovero di mendicità di Verrières, questa terrazza può sostenere il paragone con quella di Saint-Germain-en-Laye).

Per conto mio, ho un solo appunto da muovere al corso della Fedeltà (si legge questo nome ufficiale in quindici o venti punti, su targhe marmoree che meritarono una croce di più al signor Rênal): gli rimprovero il modo barbaro con cui l’autorità fa recidere e tondere fino al vivo quei platani vigorosi. Invece di ricordare, con le loro teste basse, rotonde e piatte, la più volgare delle verdure da orto essi agognerebbero a quell’aspetto magnifico che i loro simili hanno in Inghilterra. Ma la volontà del signor Sindaco è dispotica, e due volte l’anno tutti gli alberi di proprietà del Comune sono spietatamente amputati. I liberali del luogo sostengono – ma è un’esagerazione – che la mano del giardiniere ufficiale è diventata molto più severa da quando il vicario di Maslon ha preso l’abitudine d’impossessarsi dei prodotti di taglio.

Questo giovane ecclesiastico fu mandato a Besançon, or è qualche anno, per sorvegliare l’abate Chélan e alcuni curati dei dintorni. Un vecchio chirurgo dell’armata d’Italia, in ritiro a Verrières, che era, a detta del Sindaco, giacobino, insieme e bonapartista, osò un giorno lamentarsi con lui della mutilazione periodica di quei belli alberi.

– Amo l’ombra – rispose il signor Rênal con una sfumatura di alterigia, opportunissima quando si parla a un chirurgo, membro della Legion d’onore; – amo l’ombra, faccio tagliare i miei alberi per dare ombra, e non ammetto che un albero sia fatto per altro scopo, quando, come l’utile noce, non rende alcun frutto.

Ecco la gran parola che conclude tutto a Verrières: render frutto; parola che, sola, rappresenta il pensiero consueto di più di tre quarti dei cittadini.

Render frutto è la ragione che risolve ogni cosa in questa piccola città che vi pareva così graziosa. Il forestiero che vi giunge, sedotto dalla bellezza delle fresche e profonde vallate che la circondano, s’immagina in sulle prime che gli abitanti siano sensitivi al bello; essi parlano anche troppo della bellezza del loro paese, non si può negare che non ne facciano assai caso; ma la ragione è che quella bellezza invita qualche forestiero il cui danaro arricchisce gli albergatori, il che, mediante il meccanismo del dazio comunale, rende alla città. […]

tratto da Stendhal, Il rosso e il nero, trad.it. Massimo Bontempelli, Roma 1994.

Titolo originale Le Rouge et le Noir. Chronique de 1830; prima edizione 1831.

Archiviato in:Il rosso e il nero, Paesaggi letterari, Paesaggi mentali, Paesaggi militanti, Paesaggio, Stendhal Contrassegnato con: Il rosso e il nero, Le Rouge et le Noir, Le Rouge et le Noir. Chronique de 1830, Lessico Naturale, Massimo Bontempelli, Stendhal

Jung e l’I Ching: Archetipi e Processo d’individuazione

16 Agosto 2022

“Perché non tentare un dialogo con un antico libro che pretende di essere animato?”

Ẻ inevitabile! Si parla del Libro dei Mutamenti e sempre si finisce per parlare di Jung.
Eppure l’I Ching non ne avrebbe bisogno, visto che gode di ottima longevità. Ma è grazie a Jung se l’oracolo può esibire una seconda giovinezza passando dal mondo delle cosiddette superstizioni a quello civilissimo della ragione occidentale. Non varrebbe la pena dilungarsi troppo su Jung nell’esclusiva relazione con l’ I Ching, pena un certo snaturamento della natura spirituale di questo come degli altri oracoli. Eppure è indubbio che tutti noi, adepti dei Mutamenti, abbiamo un debito con lo psicanalista. Anzi molti debiti, primo fra tutti l’aver deviato il corso della psicoanalisi verso la china troppo scientista che pretenderebbero i freudiani e non solo; così come aver insegnato agli europei a non porre la propria civiltà al di sopra delle altre, poiché la madre di tutte le civiltà è inconsciamente collettiva.

Il Libro dei Mutamenti è un libro affascinante e misterioso come ben pochi pervenutici dall’antichità. Per chi ha fede il testo sarebbe animato da uno spirito, lo shen. Tuttavia coloro che in Occidente sono stati chiamati dal destino a confrontarsi con il Libro dei Mutamenti, oltre a se stessi e al Libro, dichiarano di sperimentare, con il continuo uso, l’effettiva presenza di una terza entità definibile come paranormale: lo spirito sopracitato. Molti che abitualmente lo consultano possono confermare le stesse parole tratte dal Ta Chuan: “I Mutamenti sono un libro dal quale non si può stare lontani”. Non pensiate che queste siano affermazioni frutto di bizzarre suggestioni dovute ad un delirio collettivo, anche lo psicoanalista Jung giunse alla stessa nostra conclusione. Si potrebbe dire allora che basterebbe evitare di farsi coinvolgere da un approccio al testo di natura fantasiosa e limitarsi alla razionalità; ciò però non è possibile in quanto nel passaggio dalla teoria all’applicazione pratica il testo si configura come un perfetto oracolo. Esso come tale ci impone di buttare a mare i nostri pregiudizi occidentali e di sospendere il nostro modo di pensare esclusivamente causalistico. Solo con queste premesse l’utilizzo dell’I Ching acquista il senso e la logica che l’ha reso un best-seller in tutto il mondo, come autentica guida spirituale (similmente alla lettura qabalistica del Vecchio Testamento in cui l’albero delle Sephiroth è paragonabile all’esagramma dell’I Ching).

“Il senso (Tao) si oscura se si considerano soltanto piccoli settori finiti dell’esistenza”

Nella prefazione al testo Jung afferma che: “Questo modo di procedere, pur rientrando nell’ambito della filosofia taoista, può sembrare a noi oltremodo bizzarro. Ma la stranezza delle allucinazioni dei dementi o delle superstizioni primitive non mi ha mai sgomentato. Ho sempre tentato di rimanere imparziale e curioso. Perché non tentare un dialogo con un antico libro che pretende di essere animato?”

Dialogo è la parola che si impone: dialogo interculturale, dialogo fra filosofia e religione, tra scienza ed esperienza, tra l’uomo e l’anima; aprire un dialogo con l’oracolo del Libro dei Mutamenti equivale ad approfondire il proprio dialogo interiore. Un dialogo non limitato al benessere del raggiungimento di uno scopo (i piccoli settori finiti dell’esistenza) bensì alla conoscenza di sé nel personale iter esistenziale inserito nel vasto contesto delle trasformazioni operate dalle leggi che regolano l’armonica struttura dell’universo. Un altrettanto famoso oracolo, quello di Delfi, similmente recita: Conosci te stesso e conoscerai la saggezza degli dei e dell’universo. Il passaggio dalla sfera delle applicazioni psicologiche, attraverso l’analisi del complesso gioco di “proiezioni simboliche” contenute negli esagrammi, fino a giungere alla sfera spirituale, la conoscenza delle leggi che regolano l’Unità nella dinamica degli opposti: la Coniunctio oppositorum junghiana, è concepibile solo a patto che quel dialogo personale venga sacralizzato. Sacralizzato vuol dire proiettarlo “oltre” gli angusti confini dell’Io.

“Lo stato in cui Io e non-Io non formano più alcun contrasto si chiama perno del Tao (senso)” afferma Chuang Tze. Animato – come afferma Jung – non vuol dire solo che è vivo, ma anche che è vivo grazie all’attivazione di quell’entità, superiore alla psiche, che comunemente chiamiamo anima. Solo in questa prospettiva l’interrogante, ponendosi nel mezzo delle dinamiche di Cielo e Terra, yin e yang, può coglierne gli effetti su di sé: i mutamenti.

I Mutamenti sono un libro vasto e grande, nel quale ogni cosa è contenuta compiutamente: In esso è il Senso del Cielo, in esso è il Senso della Terra e in esso è il Senso dell’uomo. Esso riunisce queste tre potenze fondamentali (Shuo Kua 375).

Nulla può escludere, come accadde a Jung, di considerare le dinamiche di Cielo e Terra nell’ottica della teoria della sincronicità di Tempo e Spazio, tanto cara allo psicoanalista.

Seppur animato l’I Ching non ama far sfoggio di sé, il Libro appare nella nostra esistenza quando, in nome di una nostra necessità evolutiva, il suo spirito si è sentito chiamato o attratto dal nostro spirito interiore. A ben vedere l’I Ching non pone selezioni di sorta, men che mai di tipo culturale. Chiunque ben animato vi può accedere. Che ne faccia un uso psicologico, o spirituale o semplicemente per interesse filosofico non ha importanza, quel che conta è che sempre si creerà una perfetta sintonia sulle finalità dell’uso.

Dopo dialogo, “attrazione” è la seconda parola chiave che animò la ricerca junghiana.

Al di là delle mode e al di là di certi ambienti sempre attenti alle tematiche esoteriche, alcune domande sorgono spontanee: perché mai noi, così come Jung (uomo di cultura occidentale) dovremmo sentire la necessità di essere attratti dal dialogo con un testo considerato dai più alla stregua di una superstizione? E perché Jung fu attratto da questo testo ermetico e misteriosissimo per la sua epoca? Che tipo di risposte si aspettava (e ottenne) per lanciarsi in una ricerca così complessa tanto da allargare l’orizzonte su altri due testi complicati: Il Mistero del Fiore d’ oro e Il libro tibetano dei morti? Cosa accomunava queste tre opere nella mente di Jung?

Leggendo anche gli altri due testi, ci si accorge subito che si tratta dei tre pilastri fondamentali per comprendere gli strumenti psicodinamici, teorici e pratici, della psicologia sino-tibetana e di come l’Oriente abbia continuamente dato risalto a quel processo di sviluppo psicologico, e insieme di crescita spirituale, che lo psicoanalista vuol far corrispondere alla sua teoria del Processo d’individuazione. Con l’aiuto del sinologo e traduttore R. Wilhelm, Jung intuì che nell’I Ching era contenuto l’intero impianto filosofico che i cinesi avevano edificato intorno alla concezione del mondo visto come macrocosmo, e dell’uomo come microcosmo, quindi della relazione fisica e psichica allo stesso tempo che lega queste dimensioni, attraverso l’esperienza della Sincronicità, visto che per i cinesi l’universo sarebbe governato da una mente cibernetica (secondo l’attuale definizione cui si è giunti in Occidente con le teorie di G. Bateson) attraverso reti energetiche integrate psico-fisiche. Quale strumento migliore quindi dell’oracolo dell’I Ching per studiare sul campo, a partire da se stessi, la teoria della Sincronicità deve essersi chiesto Jung?

Nel Mistero del fiore d’oro egli deve aver ravvisato le dinamiche psico-fisiologiche che si generano nella pratica di individuazione dello yoga cinese detto Qi Gong, attraverso gli esercizi psico-fisiologici di questa tecnica, detti della Piccola e Grande Rotazione Celeste. Modificazioni di cui solo ora con l’utilizzo della risonanza magnetica ci sono le prove scientifiche. Se il libro dell’I Ching è il classico dei Mutamenti, nel Libro tibetano dei morti vengono descritte le modalità di conduzione delle trasformazioni dei propri stati di coscienza, a partire dal momento della morte che coinvolge l’essere umano nella rete delle energie cosmiche, coinvolgendo le dinamiche psicologiche del defunto (in particolare i meccanismi di difesa operanti contro il cambiamento) frutto del desiderio di ritornare, regredire, alla passata condizione esistenziale. Paura della morte intesa come paura del cambiamento, esattamente simile ai meccanismi di difesa tipici di ogni nostra trasformazione psicologica durante l’evoluzione della personalità, così come scoperti dallo stesso Freud. In realtà Jung concentrò gli sforzi principalmente sull’I Ching, in quanto della pratica del Qi Gong contenuta nel Mistero del fiore d’oro, all’epoca non se ne sapeva molto in Europa, tanto da confonderla con lo Yoga indiano, di cui Jung aveva avuto diretta conoscenza in India, ma di cui i gesuiti, che erano già stati in Cina, conoscevano e utilizzarono i principi per i loro esercizi spirituali.

Processo d’individuazione e archetipi

Oltre alla Sincronicità, come vedremo in seguito, crediamo che Jung sia rimasto affascinato dall’enorme interesse dei cinesi per gli archetipi, casualmente concepiti nella stessa ottica junghiana, intesi come accumulatori di energia psichica, rappresentati negli esagrammi (simboli composti da 6 linee intere o spezzate tipici dell’I Ching) a partire dalle immagini naturalistiche degli 8 trigrammi (simboli composti da 3 linee) e dei 5 elementi contenuti nelle due ruote del re Wen e di Fu Xi. Straordinaria coincidenza con la stessa teoria dell’Inconscio Collettivo, tanto straordinaria quanto è collettiva la stessa simile produzione archetipica tra l’Alchimia cinese e quella europea medioevale, tra quella greca del Tutto scorre di Eraclito e quella simbolica del percorso di ricerca di Iside con Osiride, dell’antico Egitto (vedi Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche,1947-1954). Purtroppo in quegli anni non era molto conosciuta in Europa la medicina cinese così come descritta nel testo classico, Il canone dell’imperatore Giallo, Huangdi Neijing Lingshu, dove nella seconda parte: il Lingshu, all’ottavo capitolo, Ben Shen, viene trattata la parte concernente la psicologia e il ruolo delle emozioni. Se Jung infatti l’avesse letto, avrebbe scoperto il ruolo energetico degli archetipi nella mente umana e in relazione alla mente universale ugualmente agita dagli stessi archetipi in una sorta di inconscio collettivo universale. Leggi che si intuiscono ugualmente anche dall’I Ching stesso, come il testo recita nello Shuo Kua (e che porremmo a confronto con la stessa definizione junghiana di archetipo):

“Quando Pao Hsi governava il mondo nella più remota antichità, egli innalzò lo sguardo e contemplò le immagini nel cielo, abbassò lo sguardo e contemplò gli avvenimenti sulla terra. Egli contemplò i disegni degli uccelli e degli animali e l’adattamento ai luoghi. Direttamente egli partì da se stesso, indirettamente egli partì dalle cose. Così inventò gli otto trigrammi per entrare in comunicazione con le virtù degli dei luminosi e per mettere ordine nelle condizioni di tutti gli esseri. (354)

Nel II capitolo viene spiegato come tutte le conquiste della civiltà siano nate come riproduzioni di ideali immagini primigenie. Ogni invenzione nasce come immagine nella mente dell’inventore prima di comparire quale cosa compiuta, poi come strumento. Dai 64 esagrammi si possono far derivare le invenzioni umane che hanno condotto allo sviluppo della civiltà. Il processo d’individuazione junghiano altro non è che una continua e personale rielaborazione evoluta del principio di piacere in principio di realtà. Come afferma Freud: sublimare il piacere, sospendendone l’immediata soddisfazione, per convogliarlo in creatività del pensiero, immaginando così lo sviluppo successivo di scoperte maggiormente soddisfacenti: la nascita della civiltà ordinata dalla regole e dalla morale. Nella filosofia indiana ciò corrisponde al passaggio dal secondo al sesto chakra e nell’I Ching dalla seconda alla quinta linea dell’esagramma, la linea del principe. Il Pai Hu T’ung descrive lo stato primordiale della società umana:

Nei tempi primitivi non esisteva ancora nessun ordinamento morale e sociale. Gli uomini conoscevano soltanto la propria madre, non il loro padre. Affamati, ricercavano cibo; sazi, buttavano via i resti… Allora venne Fu Hsi e guardò in alto e contemplò le immagini nel cielo, guardò in basso e contemplò gli eventi sulla terra… Egli tracciò gli otto segni [trigrammi] per governare il mondo. (355)

Per questo motivo Lao Tze afferma che: Il Tao veste e nutre tutti gli esseri e non si atteggia a loro signore.

Proviamo a fare un confronto con la stessa definizione di Jung:

É affermazione unanime di tutti i platonici che, come nel mondo degli archetipi tutto è in tutto, così anche in questo mondo corporeo tutto è in tutto, ma in maniera diversa a seconda della natura degli esseri o delle cose che accolgono. Così pure gli elementi non sono solo in questo mondo inferiore, ma anche in cielo, nelle stelle, nei demoni, negli angeli e infine (anche) nel creatore e archetipo del tutto.

Cos’altro deve essergli sembrata la tavola dei 64 esagrammi dell’I Ching se non una guida logica alle coincidenze significative che determinano i mutamenti che rendono l’uomo un essere individuale (principium individuationis)?

L’Oriente ci apre invece una via diversa di comprensione, più ampia, più profonda legata all’esperienza: la comprensione attraverso la consapevolezza della vita.

Sempre da Jung ci proviene una pietra miliare della nostra cultura psicologica occidentale. Libido: simboli di trasformazione, un testo indispensabile per un occidentale affinché meglio possa comprendere lo spirito mercuriale contenuto nella libido, Qi o della Kundalini, che sempre lega le opposte dimensioni di Cielo e Terra, il tempo e lo spazio degli accadimenti sincronici. L’uomo, la creatura, è sempre al centro vivificata dallo spirito come avvolto da un serpente di Luce, il serpente della vera conoscenza degli opposti archetipi: del Bene e del Male, propizio e sciagura.

La Sincronicità e l’Alchimia: Come in alto così in basso
Un’altra intuizione di Jung riguardo alle pratiche psicofisiche taoiste fu di aver constatato che l’I Ching rappresentava la possibilità concreta di poter applicare all’essere umano gli stessi procedimenti della scomparsa Alchimia europea come trasmutazione psicologica. Jung non era interessato alla diffusione pratica dello yoga indiano o cinese che considerava culturalmente inutili, impossibili e fuorvianti per gli occidentali, per cui, animato soltanto da scopi intellettuali, cercava unicamente il confronto possibile con approcci culturali lontani ma riconducibili alle sue stesse teorie e al suo modo intuitivo di fare ricerca in campi come quello psicologico dove il metodo scientifico non può essere esaustivo di tutto l’orizzonte psichico umano.
Proponendo con successo in Europa l’interesse per le filosofie orientali, Jung compì quell’operazione di re-suscitare con linfa ancora vitale (vedi: il Crogiuolo, nella prefazione all’I Ching), l’interesse per l’alchimia europea medioevale in quella parte almeno dove occulto è sinonimo di inconscio, che come sappiamo costituisce le fondamenta esoteriche della psicologia analitica junghiana.

La scienza è lo strumento dello spirito occidentale, e con essa si possono aprire più porte che con le sole mani. L’Oriente ci apre invece una via diversa di comprensione, più ampia, più profonda ed elevata: la comprensione attraverso la vita. L’imitazione occidentale si riduce ad una tragica incomprensione della psicologia orientale ed è inoltre sempre così sterile… Non di questo si deve trattare, non di imitare in modo disorganico un mondo straniero, ma piuttosto di riedificare nella sede sua propria la cultura occidentale e condurvi il vero europeo, nella sua quotidianità occidentale, con i suoi problemi coniugali, con le sue nevrosi, i vaneggiamenti sociali e politici, e con le sue sbigottite incertezze riguardo a una visione del mondo. Per questo è così penoso vedere l’europeo rinunciare a sé stesso e imitare in modo affettato l’Oriente. Il mero intelletto non è in grado di comprendere l’importanza pratica che per noi potrebbero assumere le idee orientali e perciò riesce (soltanto) a classificarle tra le curiosità filosofiche ed etnologiche. L’incomprensione giunge a un punto tale che persino dotti sinologi non hanno inteso l’applicazione pratica dello I Ching (Yi Jing) e considerano questo testo null’altro che una raccolta di astruse formule magiche.
Per quanto Jung possa essere considerato un padre della New Age, si può affermare che egli fu un precursore nel modo di fare ricerca a tutto campo, interdisciplinariamente, e questo modo di pensare lo riprese certamente dal fare ricerca come concepito dagli alchimisti, creando un legame diretto tra quel virtute et conoscenza di dantesca memoria. Ecco alcune risposte al motivo di tanto interesse per il pensiero cinese direttamente dal Saggio sulla Sincronicità come principio di nessi acausali, edito da Jung nel 1952.

Per noi i particolari contano sempre in sé e per sé; per lo spirito orientale essi integrano sempre un quadro generale. Ora in questa totalità sono comprese, come lo erano già nella psicologia primitiva o nella nostra psicologia medioevale prescientifica (e tale lo è ancora in parte), cose il cui rapporto con le altre cose non può ancora essere inteso che come casuale, cioè come coincidenza la cui significatività sembra arbitraria. In questo quadro rientra la teoria medioevale della filosofia naturale sulla Correspondentia, in particolare la concezione già propria degli antichi della simpatia di tutte le cose. Ippocrate dice: “Un unico confluire, un unico cospirare (conflatio), sentendo tutto insieme. Tutto in rapporto alla totalità, ma in rapporto alla parte le parti (presenti) in ogni parte con intenzione all’effetto. Il grande principio va fino alla parte estrema, dalla parte estrema al grande principio: un’unica natura, l’Essere e il Non-Essere. Ma il principio universale si trova anche nella più piccola parte, la quale perciò coincide con il tutto”.

Sempre riguardo all’incessante bisogno di ricercare leggi supreme alla base della comunicazione all’interno dell’universo, da cui ricavare leggi sul principio di sincronicità, egli afferma che: Fino ad oggi non sappiamo che questo: deve esistere un principio che sta alla base di tutti i fenomeni del genere, e che potrebbe spiegarli. Sia la concezione primitiva sia la concezione antica e medioevale della natura presuppongono l’esistenza, accanto alla casusalità, di un simile principio. Fino a Leibniz la causalità non è né unica né predominante. Nel corso del diciottesimo secolo essa è poi diventata il principio esclusivo delle scienze naturali. Con l’ascesa delle scienze naturali nel diciannovesimo secolo la correspondentia è tuttavia scomparsa dal quadro, e di conseguenza il mondo magico di epoche precedenti, sembrò definitivamente tramontato, finché verso la fine del secolo i fondatori della Society for Psychical Research tornarono a mettere sul tavolo il problema in via indiretta, cioè tramite l’indagine del cosiddetto fenomeno telepatico. I cinesi però fecero quel qualcosa in più che destò l’interesse di Jung, poiché egli stesso afferma che: É ovvio che a livello primitivo la sincronicità sembri non un concetto a sé, ma una causalità magica. Questa rappresenta la forma primitiva del nostro classico concetto di causalità, mentre l’evoluzione della filosofia cinese ha sviluppato dalla significanza del magico il concetto di Tao, della coincidenza significativa, ma non una scienza naturale fondata sulla causalità.

Prendendo spunto dalla citata Bussola d’oro, è doveroso aggiungere che dopo aver iniziato con Ippocrate, Jung nel suo saggio, ci descrive minuziosamente lo sviluppo sia del concetto di Legge Universale, la quale per simpatia sostiene tutte le leggi del particolare, che di scienza del “generale” da cui dipendono le scienze specialistiche. Egli ci ripropone anche tutti i sistemi dell’Ars combinatoria, costituiti da ruote e macchine, ideate nel medioevo da Raimondo Lullo, fino all’Horologium vitae di Leibniz, e che corrispondono nei principi alle due ruote taoiste del Re Wen e di Fu Xi. L’obiettivo dell’arte combinatoria era il corretto uso dell’intelligenza attraverso apparecchi logici, vere e proprie macchine inferenziali capaci di dimostrare la verità o la falsità di un’asserzione.
L’intelligenza – affermava Lullo – chiede imperiosamente una scienza generale applicabile a tutte le conoscenze, ed è quasi inevitabile vedere in lui un precursore delle moderne ricerche relative all’intelligenza artificiale, anche perché il filosofo non si accontentò di indagini teoriche, ma passò decisamente alla costruzione concreta delle macchine combinatorie. La sua idea era quella di disporre su un circolo gli elementi fondamentali, simboli, che formano una nozione (per esempio, relativamente all’idea di Dio: bontà, grandezza, onnipotenza e così via).

Queste caselle concettuali vanno poi messe in relazione fra loro da particolari schemi grafici che si possono disegnare al centro delle ruote. Poiché ogni ragionamento è una forma di collegamento fra nozioni, diventa così possibile una rappresentazione della conoscenza e dei suoi procedimenti secondo moduli geometrici.
Nella terminologia moderna il lullismo consiste in una descrizione topologica delle operazioni mentali, in cui cioè i rapporti tra le nozioni che formano il discorso sono espresse da collegamenti di tipo spaziale. Questi diagrammi dovrebbero permettere di scoprire le leggi del pensiero associativo; Lullo dimostrò che nelle ruote dedicate a problemi naturali prevale sempre lo schema del quadrato degli opposti: terra e acqua opposte ad aria e fuoco, primavera ed estate opposte ad autunno e inverno, e così via.
Moltiplicando il numero delle ruote concettuali e ponendole in rotazione attorno al centro, diventava possibile creare nuove ed inusitate associazioni mentali. In questo modo la Ars demostrandi(capacità di dimostrare ) perseguita da Lullo tendeva a trasformarsi in Ars inveniendi (possibilità di far scoperte). Ma R. Lullo (1232-1315) è preceduto nella descrizione di Jung da Filone ( 25 a.C.- 42 d.C. ) del quale cita: Avendo Dio voluto far accordare sotto di sé inizio e fine del divenuto, così che le cose siano legate da necessità ad amicizia, ha fatto come inizio il cielo, ma come fine ha fatto l’uomo; il cielo lo creò come la più perfetta delle cose percepibili imperiture, l’uomo come il migliore degli esseri perituri nati dalla terra, come – se dobbiamo dire la verità – un piccolo cielo che reca in sé le immagini delle molte nature simili alle stelle… Ora poiché ciò che é perituro e ciò che è imperituro sono contrapposti, egli ha dato a entrambi, al principio e alla fine, la più splendida forma: all’inizio come abbiamo detto quella del cielo, alla fine quella dell’ uomo.

Sempre continuando sulla relazione tra macro e micro-dimensioni, Jung cita anche Teofrasto (371-288 a. C. ) e Plotino: Secondo Teofrasto ciò che è sovrasensoriale e ciò che è sensoriale sono legati insieme da un legame di comunanza. Questo legame non può essere la matematica, ma presumibilmente solo la divinità. Analogamente le anime individuali che in Plotino nascono da una sola anima universale sono simpatiche o antipatiche in rapporto reciproco, e la distanza non ha importanza alcuna. L’excursus junghiano della storia (e utilità) della casualità, continua con citazioni da Pico della Mirandola: In primo luogo c’è nelle cose la unità, grazie alla quale ogni cosa è una con se stessa, consiste di sé stessa ed è in rapporto con sé stessa. In secondo luogo e grazie ad essa (unità) che una creatura viene unita alle altre e infine tutte le parti del mondo formano un solo mondo.

Per rafforzare il concetto, e anche perché citati in altri testi da Jung, riportiamo anche Nicola Cusano, Giordano Bruno e Marsilio Ficino.
Fu Cusano che per primo parlò della Coincidentia oppositorum a proposito di eventi che secondo la causalità appaiono come insanabilmente contraddittori per la mente umana a meno di non ricorrere ad un altro modo di pensare, tipo per congetture e analogie geometriche, come nel caso dell’infinità di Dio. Per esempio la retta e il cerchio sono figure diverse (finite), ma se si estende un cerchio all’infinito, diventa impossibile distinguerlo da una retta.
Marsilio Ficino ripropose inconsapevolmente il concetto taoista di equidistanza dell’uomo, microcosmo, sia dal cielo superiore che dalla terra inferiore, sintetizzando il concetto di uomo copula mundi: esso è il centro di simmetria fra il mondo superiore e inferiore.
Il termine medio in cui è posto l’uomo per Ficino, che corrisponde alla linea di mezzo dei trigrammi dell’I Ching, fa sì che l’individuo, al pari della concezione taoista, possa liberamente tendere verso l’alto della spirito o verso il basso della materia. Di analogo significato è l’uomo camaleonte proposto da Pico della Mirandola. L’effetto continuo del panpsichismo sull’individuo i cinesi lo rilevano sul corpo come energia sostanziale, che scorre nei meridiani, e sulla mente (diremo noi occidentali ) sotto forma di immagini archetipiche; questo concetto verrà affrontato nei successivi articoli sulla relazione energetica tra: floriterapia secondo Kramer e meridiani dell’agopuntura, e chakraterapia indiana.

Dopo aver affrontato questo lungo percorso sull’evoluzione del pensiero sincronistico, e avendolo paragonato con quello cinese, e avendo constatato quanto Jung lo considerasse sufficientemente già compiuto prima di quello europeo, ci siamo chiesti quale poteva esser stato per Jung l’utilizzo pratico dell’I Ching, e a questo punto non solo teorico.
Tutto ciò che sappiamo, e che abbiamo ricavato direttamente dal saggio sulla sincronicità e dalla prefazione al testo di Wilhelm, ci dice che Jung aveva un duplice rapporto con il testo. Il primo, quello del ricercatore che avendo trovato una miniera di un metallo sconosciuto si apprestava allo sfruttamento tanto atteso, costituito dalla dimostrazione pratica e sperimentale di un evento sincronistico, quale è quello che avviene durante l’operazione oracolare, in cui si ha la rivelazione, nel qui ed ora, della coincidenza dei due fattori psichico e fisico.
Sappiamo dalla Prefazione e da Sogni, ricordi e riflessioni che Jung sapeva interrogare e interpretare l’I Ching come un esperto taoista, ma ovviamente il suo intento era di trovare il modo di compiere un esperimento dimostrabile scientificamente e non solo a se stesso. Pur tuttavia osservava Jung, questi esperimenti, avevano conferito al fenomeno della sincronicità una base almeno statistica, ma non sufficiente, vista l’impossibilità di controllare in laboratorio le variabili di un fenomeno, dalle variabili appunto infinite, poiché fuori dalla causalità; che fare allora?
Questo fatto mi ha indotto a chiedermi se non esiste un metodo che da un lato provi il fenomeno della sincronicità e dall’altro permetta di riconoscere contenuti psichici in maniera che si possano almeno ricavare determinati punti fermi sulla natura del fattore psichico coinvolto. Mi sono domandato se non esiste un metodo che renda possibili risultati misurabili o numerabili, e che al tempo stesso ci sia modo di penetrare nei retroscena psichici della sincronicità. Partendo sempre dalla totalità, il metodo dell’ I Ching sembrava essere il migliore disponibile.

“L’uomo continua la creazione del mondo in quanto restituisce al cosmo in idee ciò che a lui viene offerto in fenomeni. Grazie a questo suo ruolo l’uomo è cittadino dei due mondi”. (Goethe)

Tratto da Lino Carriero, www.linocarriero.com

 

Bibliografia junghiana: Libido: simboli di trasformazione. Sogni, ricordi e riflessioni. Opere n.:11, 13 e 14.
Elisa Rossi: Shen, Casa editrice Ambrosiana, 2002
E. Rochat De La Vallèe: Ligshu, la psiche nella tradizione cinese, Jaca Book
Giulia Boschi: La radice e i fiori, Erga Edizioni
I testi degli articoli sono adattamenti dell’autore dalla tesi di laurea in Psicologia IL TAO E LA PSICOLOGIA, Teorie comparate sul processo d’individuazione: C.G.Jung e l’I Ching taoista. Lino Carriero

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Thich Nhat Hanh

15 Agosto 2022

Duemilacinquecento anni fa il Buddha Shakyamuni predisse ai suoi seguaci che il prossimo Svegliato si sarebbe chiamato Maitreya: «il Buddha dell’Amore». Penso che il Buddha dell’amore possa incarnarsi anche in una comunità, non solo in una persona. Le comunità di vita consapevole sono fondamentali per la nostra sopravvivenza e per la sopravvivenza del pianeta. Un buon Sangha ci può aiutare a resistere alla violenza, alla frenesia e al modo di vivere poco salutare dei nostri tempi. La presenza mentale ci protegge e ci fa procedere nella direzione dell’armonia e della consapevolezza. Tutti noi abbiamo bisogno del sostegno degli amici nella pratica. Voi siete il mio Sangha: prendiamoci cura gli uni degli altri.

 

 

Tratto da: Thich Nhat Hanh, Comunità come risorsa

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La speranza dei giovani e l’imbecillità degli adulti

10 Agosto 2022

In realtà lo schema delle crisi giovanili è sempre identico: si ricostruisce a ogni generazione. I ragazzi e i giovani sono in generale degli esseri adorabili, pieni di quella sostanza vergine dell’uomo che è la speranza, la buona volontà: mentre gli adulti sono in generale degli imbecilli, resi vili e ipocriti (alienati) dalle istituzioni sociali, in cui crescendo, sono venuti a poco a poco incastrandosi.

Mi esprimo un po’ coloritamente, lo so: ma purtroppo il giudizio che si può dare di una società come la nostra, è, più o meno coloritamente, questo. Voi giovani avete un unico dovere: quello di razionalizzare il senso di imbecillità che vi dànno i grandi, con le loro solenni Ipocrisie, le loro decrepite e faziose Istituzioni.

Purtroppo invece l’enorme maggioranza di voi finisce col capitolare, appena l’ingranaggio delle necessità economiche l’incastra, lo fa suo, l’aliena. A tutto ciò si sfugge solo attraverso una esercitazione puntigliosa e implacabile dell’intelligenza, dello spirito critico. Altro non saprei consigliare ai giovani. E sarebbe una ben noiosa litania, la mia.

Tratto da: PIER PAOLO PASOLINI, Le belle bandiere. Dialoghi 1960-1965

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La forma dell’albero

3 Agosto 2022

In Messico, vicino a Oaxaca, c’è un albero che si dice abbia duemila anni d’età. È noto come «l’albero del Tule». Avvicinandomi, sceso da un torpedone di turisti, prima ancora che l’occhio distingua, è come una sensazione minacciosa che mi prende: come se da quella nuvola o montagna vegetale che si profila nel mio campo visivo venisse l’avvertimento che qui la natura, a lenti passi silenziosi, è intenta a mandare avanti un suo piano che non ha nulla a che fare con le proporzioni e dimensioni umane.

Sto già per dare un’esclamazione di meraviglia confrontando la mia visione col concetto d’albero che finora mi è servito a unificare tutti gli alberi empirici che ho incontrato, quando m’accorgo che quello che sto guardando non è l’albero famoso ma un altro della sua stessa schiatta cresciuto non lontano, certo un po’ più giovane e un po’ meno mastodontico, dato che la guida non ne parla. Mi volto: l’albero del Tule propriamente detto me lo vedo lì all’improvviso come fosse spuntato in quel momento. Ed è un’impressione tutta diversa da quella che m’andavo preparando. L’estensione quasi sferica della chioma che sovrasta la spropositata ampiezza del tronco fa apparire l’albero quasi tozzo. La mole s’impone all’occhio prima che l’altezza.

«L’albero del Tule» misura quaranta metri d’altezza, dice la guida, quarantadue metri di perimetro. Il suo nome botanico è Taxodium distichum, il nome messicano sabino.

Appartiene alla famiglia dei cipressi ma non somiglia affatto ad un cipresso; è un po’ come una sequoia, se questo può servire a dare un’idea. L’albero sovrasta una chiesa dell’epoca coloniale, Santa Maria del Tule, bianca con fregi geometrici rossi e blu, come in un disegno infantile. Le fondamenta della chiesa rischiano d’essere sgretolate dalle radici dell’albero.

Visitando il Messico ci si trova ogni giorno a interrogare rovine e statue e bassorilievi preispanici, testimonianze d’un inimmaginabile «prima», d’un mondo irreducibilmente «altro» dal nostro. Ed ecco, qui c’è un testimonio che ancora vive e che già viveva prima della Conquista, anzi prima ancora che si succedessero sugli altipiani olmechi e zapotechi e mixtechi e aztechi.

Al Jardin des Plantes di Parigi ho sempre guardato con meraviglia lo spaccato d’un tronco di sequoia pressapoco della stessa età, esposto come un compendio della storia universale: i grandi fatti storici da duemila anni a questa parte sono segnati su piccole placche in rame inchiodate ai cerchi concentrici del legno databili alle epoche corrispondenti. Ma mentre quello è il relitto d’una pianta morta, questo, l’albero del Tule, è un essere vivo, che appena dà segno di fatica nel trasportare linfa alle foglie. (Per supplire all’aridità della terra, lo alimentano con iniezioni d’acqua alle radici.) Certo è il più vecchio essere vivente che mi sia capitato d’incontrare.

Scanso i turisti giapponesi che camminando a ritroso o rannicchiandosi cercano di far entrare il colosso nei loro obiettivi, m’avvicino al tronco, gli giro intorno per scoprire il segreto d’una forma vivente che resista al tempo. E la mia prima sensazione è quella d’un’assenza di forma: è un mostro che cresce – si direbbe – senz’alcun piano, il tronco è uno e molteplice, come fasciato da colonne d’altri tronchi minori che sporgono addossati al mastodontico fusto centrale o se ne distaccano quasi volessero farsi credere radici aeree calate giù dai rami come ancore per ritrovare la terra, mentre invece sono proliferazioni delle radici terrestri cresciute verso l’alto. Il tronco sembra unificare nel suo perimetro attuale una lunga storia d’incertezze, geminazioni, deviazioni. Come scafi che non riescono a prendere il largo, sporgono dal tronco travature orizzontali mozzate mille anni fa mentre stavano dando vita a una biforcazione della pianta e che hanno perso ogni memoria di quella loro prima intenzione, per diventare corte protuberanze gibbose. Da gomiti e ginocchi di rami sopravvissuti al crollo in epoche remote, continuano a staccarsi rami secondari anchilosati in una scomoda gesticolazione. Nodi e ferite hanno continuato a dilatarsi proliferando gli uni in bitorzoli e concrezioni, protendendo le altre i loro margini lacerati, imponendo la loro singolarità come il sole attorno al quale s’irradiano le generazioni delle cellule. E sopra tutto questo, inspessita, incallita, cresciuta su se stessa, la continuità della scorza che rivela tutta la sua stanchezza di pelle decrepita e insieme l’eternità di ciò che ha raggiunto una condizione così poco vivente da non poter più morire.

Vuol dire che il segreto del durare è la ridondanza? Certo è ripetendo innumerevoli volte i propri messaggi che l’albero si garantisce contro il continuo incombere d’accidenti mortali sulle singole sue parti, e così riesce a imporre e a perpetuare la sua struttura essenziale, l’interdipendenza di radici e tronco e chioma. Ma qui siamo oltre la ridondanza: ciò che mi preoccupa mentre giro intorno all’albero del Tule è la disponibilità della morfologia a cambiare i propri ruoli, è lo sconvolgimento della sintassi vegetale: radici che salgono verso l’alto, segmenti di rami diventati tronco, segmenti di tronco nati dalla gemma d’un ramo. Eppure il risultato, visto a distanza, è sempre ancora un albero, – un super-albero – con radici tronco chioma al posto giusto – super-radici, super-tronco, super-chioma –, come se la sintassi sconvolta si ristabilisse a un livello superiore.

È attraverso un caotico spreco di materia e di forme che l’albero riesce a darsi una forma e a mantenerla? Vuol dire che la trasmissione d’un senso s’assicura nella smoderatezza del manifestarsi, nella profusione dell’esprimere se stessi, nel buttar fuori, vada come vada? Per temperamento ed educazione sono sempre stato convinto che solo conta e resiste ciò che è concentrato verso un fine. Ora l’albero del Tule mi smentisce, vuol convincermi del contrario.

L’intervista all’albero è ora che dovrebbe cominciare, ma già i turisti giapponesi hanno scattato i loro vani fotogrammi e hanno smesso di formicolare intorno al gigante. Anch’io devo riprendere il mio posto nel torpedone che riparte per le rovine mixteche di Mitla.

 

 

 

Tratto da: Italo Calvino, Collezione di sabbia, Mondadori 

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La provincia dell’uomo

30 Luglio 2022

 

 

Sarebbe una bella cosa se, a partire da una certa età, si diventasse di anno in anno più piccoli e si ripercorressero all’indietro gli stessi gradini su per i quali ci si è arrampicati una volta con orgoglio. Cariche e onori dell’età dovrebbero però restare come oggi; così, persone piccole piccole, alte come un bambino di sei o otto anni, verrebbero considerate le più sagge, le più esperte. I re più vecchi sarebbero i più piccoli; in genere si avrebbero solo dei papi piccolissimi; i vescovi guarderebbero dall’alto in basso i cardinali, e i cardinali il papa. Nessun bambino potrebbe più augurarsi di diventare qualcosa di alto. La storia, diventando vecchia, perderebbe importanza; si avrebbe l’impressione che avvenimenti di tre secoli fa si siano svolti tra creature simili a insetti, e il passato avrebbe la fortuna di essere finalmente negletto.

La parola libertà serve a esprimere una tensione importante, forse la più importante. L’uomo vuole sempre andare via, e se il luogo dove si vuole andare non ha nome, se è indefinito, senza confini, allora lo si chiama libertà.

L’espressione spaziale di questa tensione è il violento desiderio di valicare un confine, come se non ci fosse. La libertà nel volo si estende sino all’antico, mitico sentimento dell’ascesa verso il sole. La libertà nel tempo è il superamento della morte, e si è già soddisfatti anche soltanto quando si riesce a spostare la morte sempre più in là. La libertà fra le cose è il dissolversi dei prezzi, e il prodigo ideale, un uomo molto libero, desidera più di ogni altra cosa una variazione dei prezzi inaudita, senza alcun criterio, una loro fluttuazione sregolata, come soffia il vento, mai influenzabile e mai veramente prevedibile. Non esiste libertà «per qualcosa»; la sua grazia e la sua felicità sono la tensione dell’uomo che vuole oltrepassare le proprie barriere e ogni volta fissa questo suo desiderio sulle barriere più maligne. Uno che voglia uccidere ha a che fare con le terribili minacce che accompagnano il divieto di uccidere, e se non fosse tanto tormentato da quelle minacce si sarebbe certo caricato di tensioni più felici. – L’origine della libertà sta però nel respirare. Chiunque ha potuto respirare qualsiasi aria, e la libertà di respirare è l’unica che fino ad oggi non sia stata realmente distrutta.

Tratto da: Elias Canetti, La provincia dell’uomo, Adelphi

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La Tigre di Lexotan

30 Luglio 2022

La campagna elettorale è appena cominciata ed è già tutto chiaro. Siccome il Rosatellum impone le alleanze elettorali più larghe possibili, la coalizione favorita – la destra – tiene dentro tutti, mentre quella sfavorita – il centrosinistra – tiene dentro chi non ha i voti e fuori chi li ha. La destra litiga su chi fa il premier: Salvini e B., in picchiata nei sondaggi, non vogliono la Meloni, colpevole di essere prima. B. dice che “Meloni spaventa i nostri elettori”, che però sono un quinto di quelli di FdI, cioè molti meno di quanti ne spaventa lui. Se passa la regola del “vinca il peggiore”, alla fine a Palazzo Chigi andrà Lupi, o Cesa. Il Pd invece, avendo scelto di perdere, non ha il problema del premier: Letta parla solo di quello vecchio, sotto forma di Agenda Draghi. Seguiranno Portapenne Draghi, Gomma Draghi, Svuotatasche Draghi e tutto il set. Più che il premier, Letta vuol fare il “front runner”, che nessuno sa cosa sia, tranne che è come “un quadro di Van Gogh” (una natura morta) e ha “gli occhi di tigre”: la Tigre di Mompracem, anzi di Lexotan. Calenda invece rivuole Draghi e si allea con Letta solo se giura che non farà il premier. Se poi Draghi non vuole, “al massimo il premier lo faccio io”: si sacrifica lui.

Siccome il perimetro di Letta è l’Agenda Draghi, i 5Stelle sono fuori perché nell’ultima settimana non gli han votato la fiducia: invece Fratoianni, che non gliel’ha votata mai per 18 mesi, è dentro. E fa coppia fissa con l’ambientalista Bonelli nel Cocomero rosso-verde, simbolo ortofrutticolo della transizione ecologica che è l’opposto del programma del neoalleato Calenda. Il quale, se tutto va bene, porta con sé mezza FI: Brunetta, Gelmini, Carfagna e tal Giusy Versace, che “non riconoscono più i toni di Berlusconi” (in effetti è da un po’ che non dà dei “comunisti con le mani sanguinanti” ai pidini e dei “coglioni” ai loro elettori, non fa bisbocce con Putin, non mima il mitra alle giornaliste russe, non ripete che “i giudici sono un cancro da estirpare”, non loda il Duce e non racconta quella della mela al doppio gusto). Col Pd c’è anche il Partito dei Sindaci, nato da un furtivo amplesso fra Di Maio e Sala allo scopo di candidare Di Maio, che non è sindaco, e Pizzarotti, che non lo è più e ha passato gli ultimi cinque anni a insultare Di Maio. Sala invece sindaco lo è, ma non si candida, e come lui nessun altro sindaco: per entrare nel Partito dei Sindaci bisogna non essere sindaci. E ovviamente avere un simbolo, fornito da Tabacci, che l’ultima volta l’aveva prestato alla Bonino, che adesso sta con Calenda e ha liberato il posto. Ora manca l’insegna: Sala&Tabacci.

Conte corre da solo con i 5Stelle. E Grillo, dopo 18 mesi di impegno indefesso per affossarli, pare minacci di fare finalmente qualcosa per loro: andarsene.

MARCO TRAVAGLIO.

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Eutanasie

29 Luglio 2022

Qualche tempo fa abbiamo trovato, sotto la pioggia, un gattino, molto piccolo, che la ruota di una macchina aveva urtato, fracassandogli la spina dorsale. L’abbiamo asciugato e sfamato, in casa ha dormito una notte in pace, senza più un lamento. Il giorno dopo arriva il veterinario e visto il suo stato consiglia subito l’iniezione. Quel gattino, se anche fosse sopravvissuto al colpo, non avrebbe mai potuto lottare per la sua vita, per la natura era già morto. L’iniezione è una combinazione fulminante di droga sonnifera e di stricnina. Appena toccato dall’ago, il gattino è morto. Non abbiamo avuto rimorsi. Bisogna sapere che può capitare in ogni momento, a tutti, di dover mettere le mani nella morte.
Non considero i gatti, o qualunque altro animale, come automi cartesiani; circa l’anima delle bestie sono d’accordo con La Fontaine nella famosa lettera a Madame de la Sablière. Dunque è come se avessi fatto l’eutanasia a un bambino neonato ridotto nelle stesse condizioni. Solo, in questo caso, la legge non avrebbe tollerato la pietà che uccide, il medico si sarebbe adoperato per prolungare lo strazio. Eppure c’è identità nell’arbitrio: se non posso arrogarmi il potere di morte per il bambino, non dovrei arrogarmelo per il gatto. Approfitto soltanto di un’indifferenza del diritto e dell’uso. Ma non si fa anche un uso arbitrario del potere di vita, quando si strappa alla morte un bambino che dovrà vivere fracassato?
Le mani nella morte. Quando la guerra si faceva col cavallo, quasi sempre toccava al cavaliere dare il colpo di grazia (questa parola è pregnante: di grazia, grazioso è chi lo dà) alla cavalcatura ferita e rantolante. E anche nella guerra senza cavallo l’eutanasia è una delle poche leggi umane, non scritte, non dell’Aja, che sopravvivono: si finisce il compagno, l’amico, il sottoposto che implora l’unica grazia, l’unico atto pietoso di cui ha ancora bisogno. Se mi mettessi a pensare «Ho diritto di farlo?» lasciando che inferocisca il dolore, senza soccorsi in vista, sarei una scrupolosa canaglia, sarei un pio carnefice.
Lascio fuori della discussione, perché non merita di entrarci, l’eutanasia di Stato, come quella praticata nel Terzo Reich contro i pazzi e i malformati, nient’altro che un carico d’infamia in più nel quadro di un’unica infamia di Stato. Neppure è il caso di evocare Sparta, che non abbatteva i malformati per fanatismo eugenetico ma per distruggere il maleficio che gli esseri deformi avventavano sulla città, questione che si può risolvere pensando esattamente l’opposto. Quel che cerco di comprendere è l’eutanasia privata, che è una prova crudele dell’uomo, difficilissima da giudicare, formidabile pullulare di casi dove non c’è un punto di bene che non sia imbrattato di male, né un punto di male che non abbia una striatura di bene. L’eutanasia è un problema barocco, di chiaroscuri violenti, di crudi contrasti, pieno di ombre pesanti. Come l’aborto, è una realtà dentro e fuori di qualsiasi legge, è iscritta nel ventre della vita. Le soluzioni, più che in una scelta morale, sono in mano del Fato.
È inutile dire che non bisogna o non si vorrà mai far questo. Viene un momento in cui tutto quel che si è detto ammutolisce di colpo di fronte a quel che ci succede. La negazione di soluzioni e d’interventi straordinari vale finché tutto è passabilmente normale: mentre stai camminando, trovi insolente che ti taglino una gamba, benedici chi te ne libera se c’è passato sopra un treno.
Ci sono dolori che possono calmare soltanto dosi molto elevate, così elevate da risultare mortali, di stupefacenti. Chi le pretende, per sé o per qualcuno che ama, ha certo più ragione di chi gliele nega. Per il medico ci sono infinite opportunità di abbreviare o troncare una pena senza speranza, e c’è anche il trapanante dovere di non trascurarle. Avrei paura di affidarmi a un medico che cercasse unicamente, fanaticamente, di prolungare ad ogni costo i giorni miserabili dei suoi morenti. Perciò sono particolarmente temibili le grandi organizzazioni sanitarie, gli ospedali dove, per latitanza della pietà e della legge, non è concesso di morire. Bisogna lottare, lottare strenuamente, per morire in casa, con medici e familiari che capiscano il nostro diritto di morire quando è l’ora di morire.
In fatto di eutanasia mi rallentano di più le riserve filosofiche, delle morali. E tuttavia ritengo che un’etica medica che per umanità le respinga sia un’etica buona. Il medico ha di fronte il dolore, non il mistero dell’essere, non un enigma teologico insolubile. (Ne sarebbe schiacciato sempre). Quel che forse è da temere è che il dolore inconsumato e inconcluso possa causare altra pena, altro dolore: qual è il momento giusto per tagliare la radice? È anche il massimo problema metafisico del suicidio. Il to be or not to be vale anche per l’eutanasia agonica. Non conosceremo mai tutte le conseguenze di un atto. Però l’atto da compiere va compiuto.
Se una legge ha da esserci, riguarda esclusivamente la professione medica. L’eutanasia familiare violenta non può certo godere di tolleranza legale, ha solo diritto a un’intelligente clemenza, caso per caso. Un soffio la separa dal crimine, un soffio che vale una voragine, ma non è che un soffio. Chi la compie si fascia di tragico, e il tragico isola da qualsiasi legge.
Il caso della pediatra di Bologna è dei più complicati; lo ricordo qui per la sua attualità, non per proporre soluzioni. Il padre e una sorella soppressi (valium e luminal, incisione dei polsi), un proposito di suicidio non attuato. Se i morti fossero stati tre, il cerchio della tragedia era chiuso; adesso c’è questa donna sola, sotto giudizio (chissà quando), in mano a suore e a periti. Si vorrà farne una pazza, perché lo squilibrio mentale ne risucchi la colpa e la sua eutanasia diventi un tranquillizzante raptus omicida, ma la donna, dall’asilo, grida eutanasia, cioè ragione e non demenza. Come pediatra non sembra essere stata affatto una squilibrata. Sarà decenza ascoltarla come un essere cosciente, esaminando con umanità se in quell’eutanasia il soffio che la separa dal delitto esista o no; l’ipotesi della follia dovrebbe farsi solo se non si vedessero abbastanza ragioni per una soppressione pietosa. Ma si può chiamare follia una ragione diversa, impenetrata? Le garze e il cotone disposti da Giacomina Allocca perché l’atto fosse meno vistosamente sporco, non hanno niente di demenziale: sono dovute all’abitudine professionale, a un supplemento di pietà; non voleva che quella sembrasse la camera di un delitto.
Quel che rende il gesto dell’Allocca più vicino all’omicidio, è la mancanza del consenso dei beneficiari della sua pietà: né il padre né la sorella (questa, malata di mente) avevano chiesto quel definitivo sollievo. Ci può essere stato un errore nell’interpretazione dei loro segnali…
Non è sempre vera la massima di La Rochefoucauld: «Siamo tutti abbastanza forti per sopportare i mali degli altri». Il bisogno di sollievo personale ha la sua parte, anche torbida, nelle eutanasie. Come si fa a giudicare se prevale questo bisogno o la pietà dell’altro? Esiste una pietà pura? Forse i casi più limpidi sono quelli dei vecchi coniugi malati, che si sopprimono mutuamente, e per loro non è difficile una comprensione perfetta.
Nel novembre 1962, a Liegi, il processo Vandeput fu un caso mondiale. Corinne, una bambina focomelica, nata il 22 maggio, era stata uccisa dalla madre, Suzanne Vandeput, con una dose mortale di sonnifero prescritta dal dottor Jacques Casters, una settimana dopo. Suzanne aveva agito col pieno appoggio della sorella e della madre. Dietro, c’era una delle maggiori stragi compiute dall’industria chimica, l’affare della talidomide.
All’epoca del processo ero convintamente assoluzionista. Non lo sono più, pur restando persuaso che per una bambina, oltre che bruciata negli arti, così implacabilmente rifiutata, non ci sarebbe stato neppure un tiepido limbo, un’obliqua apparenza di vita nella casa dei Vandeput. Se Suzanne avesse arretrato, per orrore dell’atto, persistendo però nel rifiuto, il suo comportamento verso la figlia sarebbe stato più crudele, l’avrebbe punita di essere nata deforme facendola vivere senza amore.
È impressionante la volontà di morte che ha dominato, fin dal primo momento, già nella clinica, le tre donne disperate. (Fu un affare di donne, il padre era un abulico dedito alle partite di calcio). Non pensavano che a dare la morte alla neonata, ossessivamente, freneticamente. Era proprio la pietà a renderle così impazienti? Forse volevano soltanto lavare la vergogna di quella malformazione. Colpisce anche l’assunzione collettiva della colpa, per annullarla, da parte di una città intera, che premeva sui giurati con la sua sinistra voce, perché assolvessero tutti. Lo riferiva Nello Ajello sull’«Espresso», in una sua corrispondenza amara da Liegi, che adesso, riflettendo meglio, condivido. Quell’assoluzione completa strappata a furor di popolo toglieva il marchio dell’infanticidio a gente che non aveva abbastanza cinismo per sopportarlo, né abbastanza merito tragico perché gli fosse tolto.
I Vandeput e il medico che, coperti di fiori e di applausi, brindano nel tripudio generale, sono un’immagine piuttosto ripugnante d’insensibilità umana. Avrebbero dovuto liquefarsi subito, sparire in un proprio buio di mezzogiorno. Bisogna però tenere conto di Liegi: la città fattasi capro espiatorio li aveva completamente liberati da ogni senso di colpa.
Così finisco per imputargli sopratutto lo squallore, esterno, interiore, e per punire idealmente soltanto le loro facce. Perché il loro delitto ora si vede chiaro, ora non si vede. Certamente, nelle loro coscienze, il caso è felicemente risolto. Non può esserlo nelle nostre.

Tratto da: Guido Ceronetti, La carta è stanca

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I giusti

28 Luglio 2022

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

Jorge Luis Borges

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Cosa vogliamo? Cambiare la società

27 Luglio 2022

L’architettura dovrebbe poter essere goduta da tutti, ma spesso soltanto i ricchi hanno l’opportunità di farlo. L’architetto lavora per i ricchi, per i governi, per le imprese, un tempo lavorava al servizio di principi e re, e i poveri sono segregati nelle favelas in condizioni di vita assurde! Dunque, la missione dell’architetto, molto spesso, non si realizza. È questo il motivo per cui ripeto che l’architettura non è importante ma è un pretesto: cioè, l’architetto compie la sua funzione se prende coscienza di come trasformare la sua professione in atto politico.

Io penso che la questione politica faccia parte di qualunque professione, e a maggior ragione dell’architettura, dal momento che l’architetto agisce in uno degli ambiti fondamentali della vita dell’uomo: quello sociale. La città, la convivenza, l’esistenza quotidiana e lo spazio di ognuno di noi, sono il suo campo di battaglia.

Qui, l’architetto può prendere una posizione e lottare.

Sono entrato nel Partito comunista brasiliano spinto dal sentimento di rivolta per le ingiustizie a cui assistevo, interessato al pensiero di Karl Marx e sotto l’influenza di Luís Carlos Prestes.

È stata la presenza di Prestes a farmi davvero interessare alla politica. Negli anni Trenta aveva combattuto in clandestinità, era stato in Russia e poi era tornato in Brasile per rovesciare il governo di Getúlio Vargas, ma fu arrestato insieme a sua moglie, l’ebrea tedesca Olga Benario – che fu deportata in Germania gravida della figlia, e lì morì in un campo di concentramento.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il Partito comunista tornò legale per un breve periodo.

Prestes partecipò alla Costituente del 1946 insieme a compagni di partito come lo scrittore Jorge Amado. A quel tempo, io e Jorge eravamo già amici, lo diventammo dal primo momento.

La traversie, però, non era finite. Quando, nel 1964, la dittatura militare prese il potere, il partito fu dichiarato ancora una volta illegale e Prestes fuggì in esilio in Unione Sovietica. Tornò solo nel 1979, dopo l’amnistia generale, e fui io la prima persona che cercò.

Venne nel mio studio. Ricordo che lo ricevetti con il rispetto che si doveva a una figura del genere. Prestes era il leader! Ed era più anziano di me. Gli diedi del “signore”. Al che, lui obiettò: «No, Signore è il padrone di fazenda!».

In quel momento, il suo problema era basilare: una casa dove poter vivere e lavorare. Non aveva potuto comprare la casa che voleva. Gli dissi che si sbagliava: «L’appartamento è tuo perché l’ho già comprato per te» rivelai.

Aiutare un amico e una causa, ecco qualcosa che mi fa molto piacere; ovvio, quando posso farlo. Ma è una cosa normale, dovrebbe essere sempre così, perché siamo tutti fratelli. L’esempio di Luís Carlos Prestes ha avuto una forte influenza su di me, poiché il suo obiettivo principale era l’uguaglianza.

Quando ho avuto bisogno io, c’è stato qualcuno che mi ha dato una mano. Nel 1964, i militari presero il potere mentre io ero all’estero, mi trovavo in navigazione verso la Francia e ricevetti l’aiuto di André Malraux, all’epoca ministro della Cultura di Charles de Gaulle.

Quando giunsi a Parigi, Malraux firmò un decreto speciale che mi permetteva di fermarmi in Francia a lavorare. Era una figura straordinaria, uno degli uomini che ricordo con più affetto: la cultura, la sensibilità, l’interesse nei confronti del mondo. E mi piacque molto il suo romanzo La condizione umana.

Nel frattempo, a Rio, i militari avevano messo sottosopra il mio studio e anche la redazione di “Modulo”. Io ero comunista, avevo partecipato alla militanza fin dagli anni Quaranta, non avevo mai nascosto le mie idee e per questo motivo, tante volte, avevo perso delle opportunità di lavoro.

Quando, alcuni mesi dopo, tornai in Brasile, fui convocato immediatamente dalla polizia e sottoposto a un interrogatorio.

Mi ricordo un lungo tavolo, con i militari da un lato e io dall’altro e la prima domanda che un ufficiale mi fece: «Allora, mi dica Niemeyer, a conti fatti, cosa volete?».

Io risposi: «Cambiare la società».

Allora il militare si voltò verso il suo superiore e, sarcasticamente, ripeté quello che avevo detto: «Vogliono cambiare la società!».

Il clima era teso, dovevamo continuamente comparire davanti alla polizia, giustificare le nostre idee, ma eravamo spinti dalla convinzione di essere dalla parte del giusto. Non c’era tempo per la paura e la battaglia era lunga. Dopo le elezioni del 15 novembre 1978, quando i brasiliani respinsero con forza la dittatura aprendo al ritorno in Parlamento dei diritti politici, il cammino verso la libertà del paese non era però ancora compiuto.

I brasiliani erano stremati, stanchi di sottostare a un potere totalmente arbitrario. La dittatura aveva riportato il Brasile all’epoca della colonia, però la cruda realtà veniva nascosta dalla propaganda e dai falsi indici di crescita economica, vantaggiosi solo per chi si era associato ai militari.

C’era la necessità di nuove leggi che potessero assicurare i diritti politici e individuali e ristabilire la libertà di espressione, soppressa nel 1968 dall’AI-5 (Ato Institucional Número Cinco), il complesso di norme censorie che la dittatura aveva introdotto per soffocare una volta per tutte le forze di opposizione. La dittatura era cominciata nel 1964 e si era perfezionata dal 1968 in avanti, facendosi più dura, repressiva e violenta.

Dopo le elezioni del 1978, chiedevamo due cose: l’amnistia generale, perché nessun brasiliano si trovasse costretto a vivere fuori dal paese senza poter collaborare con il nuovo corso, e poi una nuova Carta costituzionale che ristabilisse le libertà fondamentali, di espressione, riunione e organizzazione. Entrambe le riforme sarebbero arrivate: l’amnistia nel 1979 e la Nuova Costituzione nel 1988. Ripenso al tono sarcastico di quel capitano: vogliono cambiare la società!

Nel 2002 un operaio, Luiz Inácio Lula da Silva, è diventato presidente della Repubblica e dopo di lui è stata eletta una donna, Dilma Rousseff, che da giovane aveva combattuto per i nostri stessi ideali e che fu torturata da quegli stessi militari.

Oggi è lei che governa…

Il sorriso è tornato sulle nostre labbra.

Però la lotta non è finita.

La mia lotta non si può certo paragonare a quella di chi scende in strada e protesta, ma avere coscienza di ciò mi dà una certa tranquillità.

Abbiamo apprezzato l’impegno di Lula per il cambiamento, ma la miseria continua, ci circonda in ogni dove. La lotta è chiara: i poveri devono diventare meno poveri e i ricchi meno ricchi. È possibile che sia così difficile accettare che anche i poveri, gli esclusi, nutrano il legittimo desiderio di voler partecipare alla costruzione di una società e non restarsene confinati ai margini?

È possibile che i ricchi vogliano continuare per l’eternità a dominare il mondo dall’alto dei loro privilegi?

 

 

Tratto da: Oscar Niemeyer, Il mondo è ingiusto

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Gli spiriti degli alberi

23 Luglio 2022

Nella storia religiosa della razza ariana europea il culto degli alberi ha avuto una parte importante. Nulla di più naturale, poiché agli albori della storia l’Europa era coperta di una immensa foresta primigenia, dove le sparse radure devono essere sembrate delle isolette in un oceano di verde. Fino al secolo I avanti Cristo, la selva Ercinia si estendeva dal Reno verso oriente per un’immensa e sconosciuta distanza; dei Germani, interrogati da Cesare, avevano viaggiato per due mesi attraverso di essa senza trovarne la fine. Quattro secoli più tardi fu visitata dall’imperatore Giuliano, e la solitudine, l’oscurità e il silenzio della foresta, sembra facessero una profonda impressione sul suo sensibile temperamento; egli dichiarò che non conosceva nulla di simile in tutto l’Impero romano. In Inghilterra le selve del Kent, del Surrey e del Sussex sono i resti della grande foresta di Anderida che ricopriva una volta tutto il sud-est dell’isola. Ad ovest sembra che si estendesse fino a unirsi con un’altra foresta che andava dallo Hampshire al Devon. Nel regno di Enrico II i cittadini di Londra andavano ancora a caccia al toro selvatico e al cinghiale nella selva di Hampstead. Sin sotto gli ultimi Plantageneti, le foreste regali ammontavano a sessantotto. Nella foresta di Arden si diceva che fino ai tempi moderni uno scoiattolo potesse andare da un albero all’altro per tutta la lunghezza del Warwickshire.

Gli scavi di antichi villaggi di palafitte nella valle del Po hanno mostrato che molto tempo prima del sorgere e probabilmente della fondazione di Roma, il nord dell’Italia era tutto coperto da fitte selve di olmi e di castagni e specialmente di querce. L’archeologia è qui confermata dalla storia, perché le opere degli scrittori classici contengono molte allusioni a foreste italiche ora scomparse. Fino al secolo IV a. C., Roma era divisa dall’Etruria centrale dalla temuta foresta del Cimino che Livio paragona alle selve della Germania. Nessun mercante, se vogliamo credere allo storico romano, era mai penetrato nella sua inaccessibile solitudine; e fu stimato grande ardire quando un generale romano, dopo aver mandato due vedette a esplorare i suoi intrichi, condusse l’esercito nella foresta e, aprendosi la strada fin dentro i gioghi dei boscosi monti, volse lo sguardo sulle ricche pianure etrusche che gli si stendevano ai piedi. In Grecia bei boschi di pini, querce e altri alberi rimangono ancora sulle pendici degli alti monti d’Arcadia, adornano ancora della loro verzura le profonde gole per cui il Ladon si precipita a raggiungere il sacro Alfeo, e fino a pochi anni fa si specchiavano ancora nel profondo azzurro del solitario lago di Feneo; ma non sono che piccoli residui delle grandi foreste dell’antichità che in un’epoca più remota ricoprivano forse tutta la penisola greca dall’uno all’altro mare.

Da un esame delle parole teutoniche significanti « tempio » il Grimm ha dimostrato che probabilmente tra i Germani i più antichi santuari non erano che boschi naturali. Comunque sia, il culto degli alberi è bene attestato fra tutte le grandi famiglie europee di razza ariana. Tra i Celti, il culto delle querce dei Druidi è familiare a ognuno, e la loro antica parola per santuario sembra identica nell’origine e nel significato al latino nemus, bosco o radura nel bosco, che ancora sopravvive nel nome di Nemi. Sacri boschetti erano comuni tra gli antichi Germani e il culto degli alberi non è del tutto estinto tra i loro discendenti di oggi. Quanto questo culto sia stato profondo nei tempi passati si può ricavare dalla pena feroce a cui le antiche leggi germaniche condannavano chi avesse osato strappare la corteccia di un albero. Si tagliava l’ombelico del colpevole, lo s’inchiodava a quella parte dell’albero che egli aveva scortecciato, e la vittima veniva trascinata intorno all’albero finché tutti i suoi intestini non si fossero avvolti intorno al tronco. Evidentemente il significato della punizione era di rimpiazzare la corteccia morta con un sostituto vivente preso dal colpevole; una vita per un’altra, la vita di un uomo per la vita di un albero. Ad Upsala, l’antica capitale religiosa della Svezia, vi era un boschetto sacro in cui ogni albero era considerato divino. Gli Slavi pagani adoravano alberi e boschi. I Lituani non si convertirono al cristianesimo che alla fine del secolo XIV e tra di loro in quel tempo il culto degli alberi era molto importante. Alcuni di essi veneravano delle grandi querce e altri grandi alberi ombrosi da cui ricevevano responsi d’oracolo. Alcuni conservavano dei sacri boschetti presso i loro villaggi e le loro case e persino spezzarne un rametto sarebbe stato peccato. Insegnavano che chi avesse tagliato un ramo di questi boschetti o sarebbe morto immediatamente o gli si sarebbe storpiato un membro. Molte sono le prove del culto degli alberi nella Grecia e nell’Italia antica. Nel santuario di Esculapio a Cos era proibito tagliare i cipressi sotto pena di mille dracme. Ma forse quest’antica forma di religione non era conservata in nessun luogo del mondo antico meglio che nel cuore della stessa grande metropoli. Nel foro, il centro degli affari della vita romana, il sacro fico di Romolo fu venerato sino ai tempi dell’Impero, e bastava che il suo tronco languisse per riempire la città di costernazione. Ugualmente sulle pendici del Palatino cresceva un corniolo che era stimato una delle cose più sacre di Roma. Se un passante si accorgeva che l’albero languiva, dava l’allarme a gran grida, la gente per le strade lo propagava e subito si vedeva da tutte le parti accorrere alla rinfusa una folla portando delle brocche d’acqua come se si fossero affrettati (dice Plutarco) a spegnere un incendio.

Tra le tribù di razza finnico-ugra, in Europa, il culto pagano si praticava per la maggior parte in sacri boschetti che erano sempre chiusi da una staccionata. Tali boschetti consistevano spesso in radure con pochi alberi sparsi nel mezzo, sopra cui in tempi antichi si appendevano le pelli degli animali sacrificati. Il punto centrale del boschetto, almeno tra le tribù del Volga, era l’albero sacro, di fronte a cui tutto il resto perdeva d’importanza. Davanti ad esso si riunivano gli adoratori e il sacerdote innalzava le sue preghiere; alle sue radici si sacrificava la vittima, e i suoi rami servivano spesso da pulpito. Nel sacro bosco non si poteva tagliare nessun pezzo di legno, né rompere nessun ramo e, in generale, alle donne era proibito d’entrarvi.

È necessario esaminare con qualche dettaglio le nozioni su cui si basa il culto degli alberi e delle piante. Per il selvaggio il mondo è tutto animato, e gli alberi e le piante non fanno eccezione alla regola. Egli crede che abbiano anime come la sua e li tratta di conseguenza. « Dicono – scrive l’antico vegetariano Porfirio, – che gli uomini primitivi conducessero una vita infelice, perché la loro superstizione non si fermava agli animali, ma si estendeva anche alle piante. Ma perché l’uccisione di un bove o di una pecora dovrebbe essere un peccato più grave che l’abbattimento di un pino e di una quercia, visto che anche negli alberi v’è radicata un’anima? ». Similmente gli indiani Hidatsa del Nord America credono che ogni oggetto naturale abbia il suo spirito o, meglio, la sua ombra.

A queste ombre si deve una certa considerazione o rispetto, ma non a tutte ugualmente. Per esempio, l’ombra del pioppo americano, il più grande albero della valle dell’alto Missouri, si crede abbia un’intelligenza, che, se convenientemente avvicinata, può aiutare gli Indiani in varie imprese; le ombre delle pianticelle e dell’erba non hanno importanza. Quando il Missouri, ingrossato dalle piogge di primavera, trascina via parte delle sue sponde e porta grandi alberi nella sua corrente impetuosa, si dice che lo spirito dell’albero pianga, mentre le radici stanno ancora attaccate alla terra e finché non cada con un tonfo nell’acqua. Tempo fa, gl’Indiani consideravano una cattiva azione l’abbattere uno di questi giganti, e quando c’era bisogno di grandi travi, usavano soltanto gli alberi già caduti. Fino a poco tempo fa i vecchi più creduli dicevano che molte disgrazie del loro popolo erano causate dalla moderna mancanza di rispetto per i diritti del pioppo vivente. Gli Irochesi credevano che ogni specie di alberi, piante, piantine, ed erbe avessero il loro spirito ed era loro costume di rendere grazie a questi spiriti. I Wanika dell’Africa orientale immaginano che ogni albero, specialmente ogni albero di cocco, abbia il suo spirito: « la distruzione di un albero di cocco è considerata equivalente al matricidio, perché quell’albero dà loro vita e nutrimento come la madre al figlio ». I monaci siamesi, credendo che vi siano anime dappertutto e che distruggere qualsiasi cosa ha l’effetto di spodestare un’anima, non romperebbero mai il ramo di un albero « così come non romperebbero il braccio di una persona innocente ». Questi monaci, naturalmente, sono buddisti. Ma l’animismo buddista non è una teoria filosofica; è semplicemente un comune dogma selvaggio incorporato nel sistema di una religione storica. Supporre, come il Benfey e altri, che le teorie dell’animismo e della trasmigrazione, correnti tra i rozzi popoli dell’Asia, derivino dal Buddismo, significa capovolgere i fatti.

Qualche volta sono soltanto particolari specie di alberi che si credono possedute da uno spirito. A Grbalj, in Dalmazia, si dice che tra i grandi faggi, le querce e altri alberi, ve ne sono alcuni dotati di spirito o di anima, e chiunque ne uccida uno deve morire all’istante o almeno restare malato per tutto il resto della vita. Se un boscaiuolo teme che l’albero che egli ha tagliato sia proprio uno di questi, deve tagliare la testa d’una gallina sul ceppo rimasto con la stessa scure con cui ha tagliato l’albero. Questo lo proteggerà da ogni danno anche se l’albero sia uno di quelli animati. I ceiba, che innalzano a meravigliosa altezza i loro stupendi tronchi molto al di sopra di tutti gli altri alberi della foresta, sono considerati con riverenza in tutta l’Africa occidentale, dal Senegal al Niger, e sono creduti esser la dimora di un dio o di uno spirito. Fra i popoli di lingua ewe della Costa degli Schiavi, il dio che ha la sua dimora in questo gigante della foresta si chiama Huntin. Gli alberi in cui specialmente egli abita – perché non ogni ceiba ha questo onore – sono circondati da una cintura di foglie di palma; e sacrifici di galline, e a volte anche di esseri umani, vengono legati al tronco o deposti ai piedi dell’albero. Un albero distinto da una cintura di foglie di palma non dev’essere tagliato o danneggiato in nessun modo, ed anche i ceiba che non sono creduti contenere un Huntin non possono essere abbattuti senza che il taglialegna gli offra prima un sacrificio di galline e di olio di palma per purificarsi dal sacrilegio che commette. Omettere il sacrificio è un’offesa che può essere punita di morte. Tra i monti Kangra del Punjab si soleva un tempo sacrificare ogni anno una fanciulla a un vecchio cedro, e le famiglie del villaggio fornivano la vittima a turno. L’albero fu tagliato non molti anni fa.

Se gli alberi sono dunque animati, essi sono anche necessariamente sensibili, e il tagliarli diventa una delicata operazione chirurgica che dev’essere eseguita con i più delicati riguardi possibili per le sensazioni del paziente, che altrimenti potrebbe farla pagare al trascurato o incapace operatore. Quando si abbatte una quercia, essa « emette delle strida o dei lamenti, che si possono udire lontano un miglio, come se il genio della quercia si lamentasse. Il signor E. Wyld li ha sentiti parecchie volte. » Gli Ojebway « tagliano raramente alberi vivi e verdi, per l’idea che dia loro dolore, e alcuni stregoni pretendono di aver udito il pianto degli alberi sotto la scure ». Alberi che sanguinano o emettono grida di dolore o d’indignazione quando son colpiti dall’ascia o bruciati s’incontrano spesso nei libri cinesi e anche nelle storie ufficiali. I vecchi contadini in alcune parti dell’Austria credono ancora che gli alberi della foresta siano animati, e non ne inciderebbero mai la corteccia senza una ragione speciale; essi hanno sentito dire dai loro padri che un albero sente il taglio quanto un uomo le sue ferite. Tagliando un albero gli domandano perdono. Si dice che anche nell’Alto Palatinato i vecchi boscaioli chiedono segretamente perdono a un albero sano prima di tagliarlo. Così in Jarkino il taglialegna chiede perdono all’albero che taglia.

Gli Ilocanes di Luzon (Filippine), prima di tagliare gli alberi della foresta vergine o delle montagne, recitano dei versi con questo significato: « Sta’ di buon animo, amico mio, se pure dobbiamo tagliare quel che ci è stato ordinato ». Fanno questo per non tirarsi addosso l’odio degli spiriti che vivono negli alberi e che possono vendicarsi mandando delle brutte malattie a chi deliberatamente li danneggi. I Basoga dell’Africa centrale credono che quando si taglia un albero lo spirito che l’abita adiratosi può causare la morte del capo e della sua famiglia. Per prevenire questo disastro prima di tagliare un albero consultano uno stregone. Se questi dà il nulla osta, il boscaiolo offre prima all’albero una gallina e una capra; poi, appena dato il primo colpo, applica la bocca al taglio e succhia un po’ della linfa. In tal modo stringe coll’albero una fratellanza, proprio come due uomini diventano fratelli succhiandosi rispettivamente il sangue. Dopo può abbattere senza pericolo il suo fratello albero.

Gli spiriti della vegetazione non sempre, però, sono trattati con deferenza e rispetto. Se le buone parole e i modi gentili non li commuovono, si ricorre spesso a più energiche misure. L’albero durian delle Indie orientali, il cui tronco liscio si eleva spesso a un’altezza di trenta metri senza produrre un ramo, porta un frutto del sapore più delizioso, ma del più disgustoso odore. I Malesi coltivavano l’albero per i suoi frutti e ricorrevano a una cerimonia speciale per stimolare la sua fertilità. Vicino a Jugra nel Selangor v’è un piccolo boschetto di alberi durian e in un giorno scelto apposta tutti gli abitanti del villaggio solevano riunirsi in esso. Allora uno degli stregoni del luogo prendeva un’accetta e tirava vari colpi al tronco del più sterile degli alberi dicendo: « Porterai frutti sì o no? Se non li porterai ti taglierò ». A questa minaccia l’albero rispondeva per bocca di un altro uomo che si era arrampicato su un mangostano vicino (sul durian non è possibile arrampicarsi): « Si, ora porterò frutti. Ti prego di non tagliarmi ». Similmente in Giappone per far produrre frutti agli alberi, due uomini se ne vanno nel frutteto. Uno di essi si arrampica su un albero e l’altro rimane ai piedi di esso con un’accetta. L’uomo con l’accetta domanda all’albero se l’anno venturo darà un buon raccolto, e minaccia di tagliarlo se non lo darà. A questo, l’altr’uomo risponde dietro i rami, in nome dell’albero, che darà un raccolto abbondante. Per quanto questo mezzo di frutticoltura ci possa sembrare stupido, esso ha la sua esatta corrispondenza in Europa. Alla vigilia di Natale più d’un contadino jugoslavo o bulgaro vibra minacciosamente un’accetta verso l’albero da frutta sterile, mentre un altr’uomo vicino a lui intercede per l’albero minacciato dicendo: « Non lo tagliare, porterà presto i frutti ». Tre volte l’accetta viene vibrata, e tre volte il colpo viene fermato dalla preghiera del suo intercessore. Dopo di che, l’anno seguente, l’albero, spaventato, certamente porterà i frutti.

La concezione degli alberi e delle piante quali esseri animati porta necessariamente a trattarli come maschio e femmina, così che possano essere maritati tra di loro nel senso reale e non soltanto figurativo o poetico della parola. Questa nozione non è puramente fantastica perché le piante, come gli animali, hanno i loro sessi e riproducono la specie per unione degli elementi maschili e femminili. Mentre in tutti gli animali superiori gli organi dei due sessi sono regolarmente separati fra i diversi individui, nella maggior parte delle piante coesistono insieme in ogni individuo della specie. Questa regola, tuttavia, non è affatto universale, e in molte specie la pianta maschio è distinta da quella femmina. Questa distinzione, sembra esser stata osservata da alcuni selvaggi perché i Maori « conoscono il sesso degli alberi, ecc., e hanno nomi distinti pel maschio e per la femmina di alcuni di essi ». Gli antichi conoscevano perfettamente la differenza tra il maschio e la femmina della palma dattifera, e la fecondavano artificialmente scuotendo il polline dell’albero maschio sui fiori della femmina. La fecondazione aveva luogo in primavera. Tra i pagani dello Harran, il mese in cui le palme venivano fecondate si chiamava « mese dei datteri » e in quel tempo celebravano la festività delle nozze di tutti gli dei e di tutte le dee. Ben diversi dal vero e fecondo matrimonio della palma sono i falsi e sterili matrimoni della superstizione indù. Per esempio, se un indù ha piantato un boschetto di manghi, né lui né sua moglie possono assaggiarne i frutti finché egli non abbia formalmente maritato uno degli alberi a un albero di specie diversa, comunemente un tamarindo, che cresca vicino al boschetto. Se non vi sono tamarindi per far da sposa, basterà un gelsomino. Le spese di tali nozze sono spesso considerevoli, perché più bramini sono invitati e più grande sarà la gloria del possessore del boschetto. Si sa di una famiglia che vendette tutte le sue gioie d’oro e d’argento e prese in prestito tutto il denaro che poté per maritare un mango a un gelsomino con la dovuta pompa. Alla vigilia di Natale i contadini tedeschi usavano legare insieme gli alberi da frutto con delle corde di paglia per farli produrre, dicendo che in tal modo venivano maritati.

Nelle Molucche, gli alberi di garofano in fiore vengon trattati come donne incinte. Non gli si può far rumore vicino, non gli si può passare accanto con un lume o con del fuoco; non si possono avvicinare con il cappello in testa, ma tutti se lo devono levare in loro presenza. Si osservano queste precauzioni per timore che l’albero si intimorisca e non porti più frutti, o li lasci cadere troppo presto, come il parto prematuro di una donna spaventata nella sua gravidanza. Così, in Oriente, il riso maturo è spesso trattato con gli stessi profondi riguardi di una donna incinta. Nell’Amboyna, (Molucche) quando il riso è in fiore, il popolo dice che è gravido e non spara fucili né fa altri rumori vicino al campo per timore che il riso così disturbato abortisca e il raccolto sia tutto paglia e niente grano.

Talvolta si crede che sian l’anime dei morti che animano gli alberi. La tribù Dieri dell’Australia centrale considera sacrosanti certi alberi che son supposti non esser altro che gli antenati trasformati: ne parlano con riverenza e stanno bene attenti perché non sian tagliati o bruciati. Se i coloni chiedono di tagliarli protestano violentemente dicendo che se lo facessero non avrebbero più fortuna e potrebbero esser puniti per non aver protetto i loro antenati. Alcuni abitanti delle isole Filippine credono che le anime dei loro antenati risiedano in certi alberi, che per conseguenza risparmiano. Se sono costretti a tagliarne uno, si scusano dicendo che è il prete che gliel’ha fatto fare. Gli spiriti prendon di preferenza la loro dimora in alberi alti e maestosi con grandi frondosi rami. Quando il vento stormisce tra le foglie, gli’indigeni dicono che è la voce degli spiriti e non passano mai vicino a uno di questi alberi senza inchinarsi rispettosamente e domandano perdono agli spiriti di aver disturbato il loro riposo. Tra gli Ignorroti ogni villaggio ha il suo albero sacro in cui risiedono le anime degli antenati del luogo. Si fanno all’albero delle offerte e ogni danno recatogli si crede porti al villaggio qualche sciagura. Se l’albero fosse tagliato, il villaggio e tutti i suoi abitanti dovrebbero inevitabilmente perire.

In Corea le anime di coloro che muoion di peste o per la strada, o delle donne che muoion di parto, prendono invariabilmente la loro dimora negli alberi. A tali spiriti si fanno offerte di dolci, vino e carne di maiale su monticelli di sassi accumulati sotto gli alberi. In Cina è stata usanza da tempo immemorabile di piantar degli alberi sulle tombe per rinforzare l’anima del morto e salvare il suo corpo da corruzione; e poiché i sempreverdi cipressi e i pini sono stimati aver più vitalità di tutti gli altri alberi, sono stati scelti di preferenza a questo proposito. Così, gli alberi che crescono sulle tombe sono talvolta identificati con le anime dei morti. Tra i Miao-Kia, una razza aborigena della Cina del sud e dell’ovest, vi è, all’entrata di ogni villaggio, un albero sacro, e gli abitanti credono che sia abitato dall’anima del loro primo antenato, che governa i loro destini. Talvolta v’è un sacro boschetto vicino al villaggio dove gli alberi si lasciano infradiciare e morire senza toccarli. I loro rami caduti ingombrano il suolo e nessuno li può levare senza averne prima domandato il permesso allo spirito dell’albero e avergli offerto un sacrifizio. Tra i Maravi dell’Africa australe, la terra dei sepolcri è sempre considerata come un luogo santo dove non si può tagliare un albero né uccidere un animale, perché ogni cosa è ivi supposta abitata dalle anime dei morti.

Lo spirito è considerato come incorporato nel legno, anima l’albero e deve soffrire e morire con lui. Ma secondo un’altra e, probabilmente, più tarda opinione, l’albero non è il corpo ma semplicemente la dimora dello spirito arboreo, che può a suo piacere lasciarla e tornarci. Gli abitanti di Siaoo, un’isola delle Indie orientali, credono in certi spiriti silvani che abitano nelle foreste o nei grandi alberi solitari. Al plenilunio lo spirito esce fuori dal suo nascondiglio e va errando all’ingiro. Ha una grossa testa, braccia e gambe lunghissime, ed un corpo voluminoso. Per propiziarsi gli spiriti silvani, si portano ai luoghi che essi frequentano offerte di cibo, galline, capre e via dicendo. Gli abitanti di Nias, presso Sumatra, credono che quando un albero muore, lo spirito che se ne libera diventa un demonio, il quale può uccidere una palma di cocco soltanto col posarsi sui suoi rami e causare la morte di tutti i bambini di una casa appollaiandosi sopra uno dei travi che la sostengono. Credono inoltre che certi alberi sono costantemente abitati da errabondi demonî, che, se gli alberi fossero danneggiati, resterebbero liberi di vagare pel mondo operando il male. Per questo il popolo rispetta quegli alberi e sta ben attento a non tagliarli.

Non poche cerimonie osservate al taglio di alberi indemoniati si basano sulla credenza che gli spiriti possano lasciarli a loro piacere o in caso di pericolo. Così quando gli abitanti delle isole Pelew tagliano un albero esorcizzano lo spirito a lasciar l’albero e a cercarsene un altro. Gli astuti negri della Costa degli Schiavi, quando vogliono tagliare un albero ashorin, sapendo che non possono farlo finché vi rimanga lo spirito, metton in terra come esca un po’ di olio di palma, e quando l’ingenuo spirito lascia l’albero per succhiarsi la leccornia, si affrettano a tagliare la sua dimora. Quando i Toboong-koo del Celebes voglion tagliare un tratto di foresta per piantare il riso, costruiscono una minuscola casetta e ci mettono dei vestitini, del cibo e dell’oro. Poi chiamano tutti gli spiriti del bosco, offrono loro la casetta con tutto quel che contiene, e li pregano di lasciare il luogo. Dopo di che possono in tutta sicurezza abbattere il bosco senza paura di ferirsi così facendo. Allo stesso modo i Tomori, altra tribù del Celebes, prima di tagliare un alto albero, gli mettono ai piedi un po’ di betel e invitano lo spirito dell’albero a cambiar casa. Per di più appoggiano al tronco una scaletta per farlo scendere comodamente. I Mandeling di Sumatra cercano di far cadere la responsabilità di tali misfatti sul capo delle autorità olandesi. Così quando un uomo deve aprire una strada in una foresta e deve abbattere un alto albero che gli blocchi la strada, non comincerà a menar la scure finché non abbia detto: « Spirito che abiti in quest’albero, non te l’avere a male che io abbatto la tua casa, perché non lo faccio di mia volontà ma per ordine del governatore ». E quando vuol radere un tratto di foresta per le piantagioni bisogna che venga a un’intesa con gli spiriti silvani che vi abitano, prima di buttar giù le loro frondose dimore. Per far questo si reca nel mezzo del bosco da tagliare, si china a terra e finge di raccogliere una lettera. Poi, spiegando un foglio di carta, legge forte un’immaginaria lettera del governo olandese, nella quale gli viene perentoriamente ordinato di tagliare la selva. Infine dice: « Spiriti! Avete udito? Devo cominciar subito a tagliare, altrimenti sarò impiccato ».

Anche quando un albero è stato tagliato, segato in tavole e usato per costruire una casa, è possibile che lo spirito silvano resti ancora nascosto nel legno; per questo i Toradja del Celebes quando entrano in una casa nuova uccidono una capra, un porco o un bufalo e spalmano tutto il legno del suo sangue. Se la casa è un lobo, o casa degli spiriti, uccidono una gallina o un cane sul culmine del tetto e ne fan gocciare il sangue dalle due parti. I Tonapù, più rozzi, in questi casi sacrificano sul tetto un essere umano. Il sacrificio sul tetto di un lobo o tempio serve allo stesso scopo che lo spalmare il sangue sul legno di una casa comune, e cioè a propiziarsi gli spiriti silvani che possono essere rimasti nel legno; questi vengon così messi di buon umore e non faranno alcun danno agli abitanti della casa. Per la stessa ragione gli abitanti del Celebes e delle Molucche han paura di piantare un trave capovolto nella costruzione d’una casa, perché lo spirito delle foreste che potrebbe esser rimasto nel legno si risentirebbe naturalmente dell’indegnità e farebbe del male agli inquilini. I Kayan del Borneo credono che gli spiriti arborei siano molto suscettibili in materia di onore, e fan pagare cara agli uomini ogni offesa recata loro. Dopo aver costruito una casa, per la quale sono stati obbligati a trattar male molti alberi, questo popolo si sottomette a un periodo di espiazione per un anno, durante il quale si astiene da molte cose, come uccidere orsi, tigri e serpenti.

tratto da: 2425, trad. it. Lauro De Bosis, vol I, cap. IX, Torino 1973.

Prima edizione The Golden Bough. A study in Magic and Religion, New York and London 1890.

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Il Tao dell’Ecologia – Edward Goldsmith

22 Luglio 2022

 

A prima vista sembrerebbe scontato che un libro onnicomprensivo di un autore importante assuma le vesti di un vero evento editoriale. Tanto più se il volume affronta esaustivamente tematiche di rilevanza epocale, che scarseggiano nell’offerta superficiale del “mercato” delle idee.

In realtà, quest’ultima fatica di Edward Goldsmith, difficilmente rintracciabile nel circuito mediatico-commerciale, è un libro semplicemente fondamentale, che emblematicamente non ottiene riscontro neppure negli ambienti di primo -anche se non esclusivo- riferimento: gli “ambientalisti” nostrani. Evidentemente, sono gli stessi ambienti “alternativi” a mancare colpevolmente di una visione del mondo realmente anticonformista, che darebbe loro ruolo e identità alle soglie del terzo millennio e, soprattutto, nella crisi profonda in cui si dibatte il paradigma tecno/scientifico dominante.

Ma partiamo dall’autore.

Edward Goldsmith è probabilmente uno dei più profondi pensatori ecologisti al mondo. Instancabile settantenne, dirige The Ecologist, una delle più importanti riviste di ecologia, con cui conduce battaglie culturali e sociali in prima persona. Nel 1991 gli è stato attribuito uno dei più ambiti riconoscimenti a livello internazionale, il Right Livelihood Award, il “Premio Nobel Alternativo” che viene presentato ogni anno al Parlamento svedese il giorno che precede la premiazione dei Premi Nobel. Tra i suoi libri più importanti ricordiamo La morte ecologica (Laterza, 1972), The Stable Society (1978), The social and environmental effects of large dams (1984), 5000 giorni per salvare il pianeta (Zanichelli, 1990), La grande inversione (Muzzio, 1993).

Quest’ultima sua opera Il Tao dell’Ecologia, è da considerarsi la summa della ricerca di un pensatore da sempre proteso a recuperare un rapporto armonico tra l’uomo e la natura, in quanto illustra le motivazioni scientifiche, etiche, psicologiche e religiose di un rapporto drammaticamente deteriorato.

La stessa organizzazione del testo è un richiamo olistico a ritrovare nella parte il tutto e viceversa. In effetti, si può affrontare la lettura di ognuno dei 65 capitoli che compongono l’opera indipendentemente dal restante, ma solo nell’interezza è possibile percepire la visione di totalità che Goldsmith vuole trasmetterci. Intuitivamente, ancor prima che speculativamente, in quanto oggetto primario è rimettere in discussione il paradigma scientifico dominante che nutre il proprio riduzionismo di neopositivismo empirico e presunta logica razionale.

Goldsmith definisce “modernismo” la visione del mondo, che attualmente gli accademici condividono con il resto della società. Esso si rispecchia fedelmente nel paradigma economicista e tecno/scientifico. L’assioma che li accomuna è che tutti i benefici (leggi “beni” e “servizi”), cioè il nostro benessere, derivano dalla civilizzazione umana; sono il prodotto della scienza, della tecnologia, dell’industria e dello sviluppo economico che li rende possibili. La salute è quindi considerata come qualcosa di dispensato negli ospedali, o almeno dalla professione medica, con l’aiuto delle apparecchiature tecnologiche e dei preparati farmaceutici. L’educazione viene considerata una merce che si può acquistare nelle scuole e nelle università. La legge e l’ordine pubblico, invece di essere caratteristiche naturali della società umana, sono considerati come elementi forniti dalle forze di polizia in combinazione con tribunali e sistema carcerario. Perfino la società diventa un prodotto umano, creato dal “contratto sociale”. Non sorprende quindi che la ricchezza di una nazione sia valutato in base al suo prodotto nazionale lordo (PNL), che fornisce una misura approssimativa della sua capacità di fornire ai cittadini tutti questi beni prodotti dall’uomo, principio, questo, che è fedelmente rispecchiato nell’economia moderna. Gli inestimabili benefici forniti dal normale funzionamento dell’ecosfera -un clima favorevole e stabile, il suolo fertile e l’acqua potabile, senza i quali la vita non è possibile su questo pianeta- sono ritenuti senza valore e totalmente ignorati; ne consegue che essere privati di questi “non-benefici” non costituisce un “costo” e che i sistemi naturali che li forniscono possono quindi essere distrutti impunemente, dal punto di vista economico.

Il secondo dogma fondamentale della visione del mondo del modernismo deriva, del tutto logicamente, dal primo: per massimizzare tutti i benefici, e quindi il nostro benessere e la nostra ricchezza, dobbiamo massimizzare lo sviluppo economico o “progresso”, che si rivela essere, in realtà, la sistematica sostituzione della tecnosfera o mondo surrogato -la fonte dei benefici artificiali- all’ecosfera o mondo reale -fonte dei benefici naturali. Porre in dubbio l’efficacia di questo processo fatale è una bestemmia per la religione del progresso. Per la “industria dello sviluppo” è sacrilego sostenere, ad esempio, che la modernizzazione dell’agricoltura nei Paesi del Terzo Mondo è la causa principale della malnutrizione e della carestia in quei Paesi (vedi di E. Goldsmith, La Fao e la fame, Macro, 1993); o che la medicina moderna non è riuscita a prevenire un aumento dell’incidenza globale di quasi tutte le malattie, fatta eccezione per il vaiolo. Così come nessun “credente” accetterà che la sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo sia causata da questo “sacro” processo. Essa sarà invece imputata a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione.

In questo modo, la visione del mondo del modernismo ci impedisce di comprendere il nostro rapporto con il mondo reale, quello in cui viviamo, e di adattarci ad esso in modo da massimizzare il nostro benessere e la nostra reale ricchezza. La visione del mondo del modernismo e, in particolare, i paradigmi della scienza e dell’economia servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico o “progresso”, che ci sta portando alla distruzione del mondo naturale.

Come è possibile che gli “oggettivi” scienziati si comportino in modo tanto poco oggettivo?

Semplice, la scienza non è oggettiva, e questo è stato ben provato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza come Thomas Khun e Michael Polanyi. Una ragione per cui gli scienziati accettano il paradigma della scienza e, quindi, la visione del mondo del modernismo, è che esso razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono. È molto difficile per una persona evitare di considerare il mondo in cui vive -l’unico che ha mai conosciuto- come la condizione normale della vita umana su questo pianeta.

Un’altra ragione per cui la nostra società scientifica accetta ancora il paradigma della scienza è che, sebbene dipinga un quadro fuorviante della realtà, esso è perfettamente coerente. Ed è necessariamente così, in quanto le teorie scientifiche vengono dimostrate empiricamente come confacenti al paradigma dominante, senza che vi sia oggettività di giudizio. Allo stesso tempo, le discipline costituite da queste teorie sono giudicate scientifiche solo se conformi al paradigma riduzionistico e meccanicista ispirato alla fisica newtoniana, malgrado che la fisica newtoniana sia ritenuta superata dalla teoria quantistica.

Negli ultimi sessant’anni, i comportamentisti hanno adeguato la psicologia a questo modello. I neodarwinisti e i sociobiologi hanno fatto altrettanto con la biologia. Anche la sociologia è diventata meccanicista e riduzionistica, e lo sviluppo della nuova ecologia negli anni Quaranta e Cinquanta ha creato un’ecologia newtoniana, che invece di fornire le basi teoriche del movimento ambientalista -come crede fermamente la maggior parte dei suoi aderenti- serve a razionalizzare ulteriormente, e quindi a legittimare, lo stesso processo di sviluppo economico, o progresso, che è la causa principale del degrado ambientale. In questo modo, tutte le conoscenze accademiche sono tali se conformi al paradigma dominante che informa una visione del mondo meccanicista, in base alla quale le persone sono ridotte a macchine con esigenze puramente materiali e tecnologiche, cioè le uniche che lo Stato e il sistema industriale sono capaci di soddisfare. Il circuito perverso si chiude nella considerazione di ogni problema sociale ed ecologico come malfunzionamento riconducibile ad una soluzione tecnologica che, razionalizzando, legittimerà ulteriormente il progresso.

Nei termini di questo falso paradigma non si favoriranno mai le politiche necessarie per fermare la distruzione del Pianeta e sviluppare uno stile di vita sostenibile. In tali condizioni è della massima urgenza una visione del mondo ecologica, alla luce della quale tutto questo diventi possibile. Grazie alle riflessioni di Goldsmith, abbiamo una proposizione, in questo senso, quanto mai completa e sostanziale.

Il suo libro è il tentativo riuscito di argomentare i principi fondamentali d’una visione del mondo ecologica. Questi principi sono tutti interrelati e formano un modello onnicomprensivo e coerente nei nostri rapporti con il mondo in cui viviamo.

L’ispirazione, dichiarata da Goldsmith, deve venire dalla visione del mondo delle società vernacolari (leggi “autogovernate”), in cui l’armonia naturale informava l’attitudine umana alla vita. Non è un caso che Goldsmith rinunci programmaticamente ad ogni utopia concettuale per immergersi in un esempio reale di esistenza e compararlo col presente. L’ecologia non ha il compito idealistico di aggiungere un nuovo mondo artificiale a quelli già prodotti dalla civiltà industriale, ma più semplicemente ri/adattarci al mondo reale.

La caratteristica che colpisce, nello studio delle antiche società vernacolari, è la loro sostanziale similitudine simbolica nella diversità delle culture e degli ambienti abitati. Esse ponevano in evidenza due principi fondamentali che stanno alla base di una visione del mondo ecologica. Il primo è che il mondo vivente -o “ecosfera”- è la fonte di tutti i benefici e quindi di tutta la ricchezza, dispensati, però, solo se ne conserviamo l’ordine cruciale. Da questo primo principio ne segue il secondo: l’obiettivo primario del modello di comportamento di una società ecologica deve essere quello di preservare l’ordine cruciale del mondo naturale o del cosmo (omeostasi -vedi di Goldsmith/Bunyard, L’ipotesi Gaia, RED, 1992).

In molte culture arcaiche ritroviamo una parola per tale modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano rta; nell’Avesta è chiamato a_a; gli antichi egiziani lo chiamavano maat; un altro termine indù, in seguito mutuato dai buddhisti, è dharma; i cinesi lo chiamavano Tao.

Il Tao come “principio primo” onnicomprensivo di tutte le cose. Tutti gli esseri viventi, uomini inclusi, fanno parte di questo ordine naturale onnicomprensivo, soggetto al Tao che ne è il principio regolatore. Il Tao come ordine della natura, ne governa l’azione. Gli esseri umani seguono il Tao, o la Via, comportandosi naturalmente. In termini taoisti ciò significa attenersi al principio del wuwei (non azione) di Lao-Tzu, perché «quando tutte le cose obbediscono alle leggi del Tao, esse formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato».

Se seguire la Via significa mantenere l’ordine cruciale del cosmo, si può ritenere che una società lo faccia quando il suo modello di comportamento, o di autogoverno, sia omeotelico. L’omearchia è il concetto chiave dell’intera visione olistica di Goldsmith ed indica il controllo di sistemi naturali differenziati da parte della gerarchia di sistemi più ampi, di cui essi fanno parte. Quando, al contrario, è eterotelico (il controllo delle parti di un sistema da parte di un agente esterno/estraneo alla gerarchia), si deve ritenere che la società segua l’anti-Via, quella che minaccia l’ordine del cosmo e provoca inevitabilmente la rottura degli equilibri.

Le unità di attività omeotelica sono le unità sociali naturali entro le quali gli esseri umani si sono evoluti: la famiglia, la comunità e la cultura che la sostanzia. Quando si disintegrano sotto l’impatto dello sviluppo economico, queste unità sono sostituite da istituzioni -politiche, economiche e sociali- il cui comportamento è sempre più eterotelico rispetto all’obiettivo di mantenere l’ordine cruciale della società e della gerarchia gaiana (Gaia, dea greca della terra, è la biosfera assieme al suo sostrato geologico e al suo ambiente atmosferico).

Così l’educazione non svolge più la sua funzione di socializzare i giovani in un contesto comunitario, i modelli d’insediamento non rispecchiano più la struttura sociale e quella del cosmo, la tecnologia e le attività economiche cessano di essere “parte” dei rapporti sociali e vanno rapidamente fuori controllo divenendo i principali fattori di disgregazione sociale e distruzione ecologica. La religiosità diventa universale e ultramondana e non sacralizza più il mondo naturale e la struttura sociale, lasciandoli esposti al disincanto e, quindi, allo sfruttamento.

Alla luce dell’analisi fornita da Goldsmith, ciò che viene comunemente inteso per “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo gaiano. Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine cruciale e quindi la stabilità dell’ecosfera, il progresso o antievoluzione può essere identificato con il comportamento eterotelico che sconvolge l’ordine cruciale pregiudicandone la stabilità.

Per i neodarwinisti, che considerano l’evoluzione come un processo casuale senza direzione, la tecnosfera industriale rappresenta il miglior risultato possibile nell’adattamento conflittuale e predatorio del genere umano. Esattamente al contrario, l’evoluzione nei termini di una visione del mondo ecologica è un processo orientato a un fine solidale e tende alla stabilità della gerarchia degli ecosistemi o climax (una volta raggiunto, non è richiesto nessun ulteriore sviluppo e le energie e le risorse sono usate solo per il mantenimento).

La civiltà industriale ha chiaramente deciso di scostarsi sistematicamente dalla Via. Il suo obiettivo primario è lo sviluppo economico o progresso, un’impresa altamente eterotelica che si può realizzare soltanto sconvolgendo metodicamente l’ordine cruciale dell’ecosfera per sostituirlo con un’organizzazione completamente artificiale, la tecnosfera, che trae le proprie risorse dall’ecosfera e in essa scarica i propri rifiuti, sempre più voluminosi e tossici.

Attualmente, con il processo avanzato di globalizzazione del progresso, stiamo rapidamente raggiungendo un disclimax ecosferico planetario, in cui l’uomo riuscirà effettivamente a cancellare tre miliardi di anni di evoluzione per regalarsi un mondo impoverito e degradato sempre meno capace di sostenere forme di vita complesse tra cui l’uomo stesso.

È ancora possibile invertire la rotta?
I tempi della natura sono lenti e profondi quanto la dimensione cosmica che sottendono. All’uomo spetta solo di ritrovare la Via che prescinde da considerazioni temporali.

Testo di: Eduardo Zarelli “Il Tao dell’Ecologia” Franco Muzzio Editore, Padova, 1997

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Poesia

17 Luglio 2022

“Vorrei essere il vento che muore nel paese.”

Pier Paolo Pasolini

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Il merito non ha alcun valore

13 Luglio 2022

“Il 90% di quelli che nascono poveri, muoiono poveri, per quanto intelligenti e laboriosi possano essere, e il 90% di quelli che nascono ricchi muoiono ricchi, per quanto idioti o fannulloni possano essere. Da ciò si deduce che il merito non ha alcun valore”. 

Joseph Stiglitz

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Dovrei paragonarti a un giorno d’estate?

23 Giugno 2022

Dovrei paragonarti a un giorno d’estate?
Tu sei più amabile e più tranquillo.
Impetuosi venti scuotono le tenere gemme di Maggio,
E il corso dell’estate ha fin troppo presto una fine.
Talvolta troppo caldo splende l’occhio del cielo,
E spesso la sua pelle dorata s’oscura;
E ogni cosa bella la bellezza talora declina,
spogliata per caso o per il mutevole corso della natura.

Ma la tua eterna estate non dovrà svanire,
Né perder la bellezza che possiedi,
Né dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua ombra,
Quando in eterni versi nel tempo tu crescerai:
Finché uomini respireranno o occhi potran vedere,
Queste parole vivranno, e daranno vita a te.

—

Shall I compare thee to a summer’s day?
Thou art more lovely and more temperate.
Rough winds do shake the darling buds of May,
And summer’s lease hath all too short a date.
Sometime too hot the eye of heaven shines,
And often is his gold complexion dimm’d,
And every fair from fair sometime declines,
By chance or nature’s changing course untrimm’d.

But thy eternal summer shall not fade,
Nor lose possession of that fair thou ow’st;
Nor shall Death brag thou wand’rest in his shade,
When in eternal lines to time thou grow’st.
So long as men can breathe or eyes can see,
So long lives this and this gives life to thee.

 

Tratto da: WILLIAM SHAKESPEARE, I Sonetti (nr. 28), 1609.

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Da cui in modo singolare non si ricava nulla

22 Giugno 2022

Sull’Atlantico incombeva un’area di bassa pressione; si muoveva verso oriente in direzione di quella di alta pressione che si trovava sulla Russia, senza manifestare ancora la tendenza a eluderla, spostandosi verso nord. Le isotere e le isoterme facevano il loro dovere. La temperatura dell’aria era nella norma rispetto alla temperatura media annua, rispetto a quella del mese più freddo come a quella del mese più caldo e all’oscillazione mensile aperiodica della temperatura. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi lunari, quelle di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri fenomeni significativi corrispondevano alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la elasticità massima e l’umidità era scarsa. In poche parole, che, seppure un po’ fuori moda, descrivono molto bene questo stato di cose: era una bella giornata di agosto dell’anno 1913.

Le automobili sbucavano da strade strette e anguste nella superficie luminosa delle piazze. Le macchie scure dei pedoni formavano cordoni di nubi. Dove linee di velocità più intensa ne intersecavano la corsa disordinata, quei cordoni si ispessivano, scorrevano più rapidamente e dopo poche oscillazioni riprendevano il loro ritmo regolare. Centinaia di suoni si sovrapponevano in un assordante groviglio di fili metallici, dal quale si distinguevano delle punte, spiccavano degli spigoli taglienti per smussarsi subito dopo, si staccavano chiare note volando via come schegge. Da quel frastuono, la cui particolarità è comunque indescrivibile, una persona, che pur fosse stata assente per anni, avrebbe capito a occhi chiusi di trovarsi nella capitale dell’impero e residenza della corte, a Vienna. Le città si fanno riconoscere al passo, come gli uomini. Aprendo gli occhi, quella persona sarebbe giunta alla stessa conclusione, ricavandola molto prima dal ritmo del traffico stradale piuttosto che da qualche dettaglio caratteristico. E seppure si fosse ingannata, poco male. Sopravvalutare la questione del dove ci si trova, deriva dall’epoca dalle orde di nomadi, in cui l’individuo doveva localizzare i pascoli. Sarebbe interessante comprendere perché di un naso rosso ci si accontenta di dire in modo molto approssimativo che è rosso, e mai ci si domanda di che tipo di rosso sia, sebbene lo si possa esprimere con esattezza al micromillimetro mediante la lunghezza d’onda. Mentre per qualcosa di molto più complesso, come la città in cui ci si trova, si vorrebbe sempre sapere esattamente quale particolare città sia. Questo distrae dall’essenziale.

Non daremo perciò particolare peso al nome della città. Come tutte le grandi città era un insieme di cose e circostanze irregolari, mutevoli, che scorrevano, non tenevano il passo, si scontravano, inframmezzate da immensi momenti di silenzio. Era una città fatta di strade regolari e zone impraticabili, attraversata da un battito ritmico, intenso, e dall’eterna scordatura e sfasamento di tutti i ritmi. Nel complesso assomigliava a una vescica messa a bollire in un recipiente fatto del materiale durevole delle case, delle leggi, dei regolamenti e delle tradizioni storiche. Le due persone che in questa città stavano percorrendo una strada ampia e movimentata non avevano naturalmente tale impressione. Appartenevano chiaramente a una classe sociale privilegiata, avevano un abbigliamento, un contegno e un modo di parlare distinto; portavano le iniziali del loro nome significativamente ricamate sulla biancheria, e allo stesso modo, ovvero senza farlo trapelare all’esterno, nella fine biancheria della coscienza. Sapevano chi erano e che una capitale e residenza di corte era il luogo adatto a loro. Ammesso che si chiamassero Arnheim ed Ermelinda Tuzzi, cosa che peraltro era errata, poiché ad agosto la signora Tuzzi si trovava a Bad Aussee1 in compagnia del marito e il dottor Arnheim a Costantinopoli, resta ancora il mistero di chi fossero in realtà. Le persone dotate di un’immaginazione vivace, quando sono per strada, si pongono molto spesso simili interrogativi e singolarmente li risolvono dimenticandoli, a meno che nei successivi cinquanta passi non si riesca a ricordare dove si erano già visti quei due. La coppia in questione si è ora fermata improvvisamente poiché ha notato davanti a sé un assembramento. Solo un attimo prima qualcosa era saltato fuori dalla propria corsia con una brusca sterzata e aveva girato su se stesso, finendo per mettersi di traverso: era un pesante autocarro che, dopo aver frenato di colpo – ora si poteva vedere – se ne stava bloccato con una ruota sul marciapiede. Come api intorno al buco dell’alveare, la gente aveva formato in un istante un capannello intorno a un piccolo spazio che aveva lasciato vuoto nel mezzo. Sceso dal veicolo, il conducente stava lì, grigio come carta da pacchi, e descriveva con gesti rozzi l’incidente. Gli sguardi di coloro che sopraggiungevano si posavano su di lui per poi calarsi con cautela nella profondità del buco, dove un uomo che sembrava morto era stato adagiato al bordo del marciapiede. Aveva subito quell’incidente per la propria sbadataggine, come fu riconosciuto da tutti. A turno la gente gli si inginocchiava accanto per dargli un qualche aiuto; gli sbottonarono la giacca e poi gliela riabbottonarono, cercarono di farlo alzare e poi lo distesero nuovamente. In realtà nessuno voleva far altro che occupare il tempo finché non fosse arrivato, con il pronto soccorso, un aiuto competente e autorizzato.

Anche la signora e il suo accompagnatore si erano avvicinati e avevano osservato l’uomo steso a terra al di sopra delle teste e delle schiene chinate. Quindi, esitanti, si ritrassero. La signora provava qualcosa di spiacevole nella zona cardio-epigastrica, e la ritenne, a ragione, compassione. Era un sentimento indeciso, paralizzante. Dopo qualche istante di silenzio il signore le disse: «Questi autocarri pesanti che circolano qui hanno uno spazio di frenatura troppo lungo». La signora se ne sentì sollevata e ringraziò con uno sguardo gentile. Aveva già sentito quella parola altre volte, ma non sapeva che cosa fosse uno spazio di frenata, né voleva saperlo. Le bastava mettere un qualche ordine a quell’orribile incidente e ricondurlo a un problema tecnico che non la riguardasse più direttamente. Si udì a questo punto anche il fischio acuto di un’ambulanza, e la tempestività del suo arrivo riempì di soddisfazione i presenti. Sono ammirevoli queste istituzioni sociali. Il ferito venne adagiato su una barella e caricato sull’ambulanza. Uomini in una specie di uniforme si presero cura di lui, e l’interno del veicolo, per quel che si poteva scorgere, appariva pulito e ordinato come una corsia d’ospedale. Se ne traeva la legittima impressione che l’operazione si fosse svolta in modo legale e regolare. «Secondo le statistiche americane», osservò il signore, «negli Stati Uniti muoiono ogni anno in incidenti stradali centonovantamila persone e quattrocentocinquantamila rimangono ferite».

«Lei ritiene che sia morto?», domandò la sua accompagnatrice che continuava a provare l’ingiustificata impressione di aver vissuto qualcosa di eccezionale. «Spero che vivrà», rispose il signore. «Quando lo hanno caricato sull’ambulanza ne aveva tutta l’aria».

1. Località termale austriaca sita nella regione del “Salzkammergut”.

Tratto da:Robert Musil, L’uomo senza qualità

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Thomas Seeley | L’uomo che sussurra nelle orecchie delle api

20 Giugno 2022

Il Dr. Thomas D. Seeley è Horace White Professor in Biology alla Cornell University. Ha sede presso il Dipartimento di Neurobiologia e Comportamento, dove tiene corsi sul comportamento animale e svolge attività di ricerca sul comportamento e la vita sociale delle api mellifere. Il suo lavoro è riassunto in tre libri: Honeybee Ecology (1985), The Wisdom of the Hive (1995) e Honeybee Democracy (2010).

Il mio lavoro scientifico si concentra sulla comprensione del fenomeno dell’intelligenza dello sciame (SI): la risoluzione di problemi cognitivi da parte di un gruppo di individui che mettono in comune le proprie conoscenze e le elaborano attraverso le interazioni sociali. È stato a lungo riconosciuto che un gruppo di animali, rispetto a un individuo solitario, può fare cose come catturare più facilmente grandi prede e contrastare i predatori in modo più efficace. Più recentemente ci si è resi conto che un gruppo di animali, con la giusta organizzazione, può risolvere anche problemi cognitivi con una capacità che supera di gran lunga la capacità cognitiva di ogni singolo animale. Quindi SI è un mezzo attraverso il quale un gruppo può superare alcuni dei limiti cognitivi dei suoi membri. SI è un argomento in rapido sviluppo che è stato studiato principalmente negli insetti sociali (formiche, termiti, vespe sociali, e api sociali) ma ha rilevanza per altri animali, compreso l’uomo. Ovunque ci sia un processo decisionale collettivo, ad esempio nelle elezioni democratiche, nelle riunioni dei comitati e nei mercati delle previsioni, c’è un potenziale per SI.

Per capire meglio come un gruppo è strutturato in modo ottimale per possedere l’intelligenza dello sciame, possiamo esaminare i sistemi naturali che hanno sviluppato meccanismi sofisticati per raggiungere l’IS. Negli ultimi 30 anni l’ho fatto studiando i meccanismi di SI nelle colonie di api mellifere. Una colonia di api mellifere è un sistema modello per lo studio dell’IS perché risolve collettivamente una varietà di problemi cognitivi con abilità impressionanti e perché i suoi meccanismi di SI sono accessibili all’analisi sperimentale. Nello specifico si possono descrivere le capacità di problem solving dell’intero sistema (colonia), caratterizzare le proprietà comportamentali dei componenti del sistema (api), tracciare i percorsi di flusso di informazioni tra i componenti (percorsi di segnalazione e di cuing),

Dal 1980 al 1995, ho diretto la maggior parte dei miei sforzi per capire come una colonia di api mellifere risolva il problema di allocare i suoi raccoglitori attraverso un paesaggio in continua evoluzione di appezzamenti di fiori in modo che raccolga il cibo in modo efficiente, in quantità sufficiente e con il corretto mix nutrizionale. Questo lavoro è esaminato in dettaglio nel mio libro The Wisdom of the Hive (1995, Harvard University Press). Dal 1995 mi sono concentrato sul capire come uno sciame di api scelga una nuova casa. Questo problema sorge quando una colonia si riproduce e la vecchia ape regina e circa diecimila api operaie lasciano l’alveare dei genitori per produrre una colonia figlia. Le api emigrate si posano su un ramo di un albero in un grappolo simile a una barba e poi restano lì insieme per diversi giorni. Durante questo periodo, questi insetti senzatetto fanno qualcosa di veramente sorprendente: tengono un dibattito democratico per scegliere i loro nuovi alloggi. Esattamente come lo fanno è recensito nel mio libro Honeybee Democracy (2010, Princeton University Press).

Sorprendentemente, ci sono intriganti somiglianze tra il modo in cui le api in uno sciame e i neuroni in un cervello sono organizzati in modo tale che, anche se ogni unità (ape o neurone) ha informazioni limitate e intelligenza limitata, il gruppo nel suo insieme prende decisioni collettive di prim’ordine . Ad esempio, in entrambi i sistemi il processo di scelta consiste fondamentalmente in una competizione tra le opzioni per accumulare supporto (visite di api o scarica di neuroni). E in entrambi i sistemi il vincitore della competizione è determinato da quale opzione accumula per prima un livello critico, o quorum, di supporto. Coerenze come queste indicano che esistono principi generali di organizzazione per la creazione di gruppi con SI, cioè gruppi che sono molto più intelligenti degli individui più intelligenti al loro interno.

Le mie analisi del processo decisionale collettivo da parte delle colonie di api indicano che un gruppo possiede un alto livello di SI se tra i membri del gruppo c’è:
1) diversità di conoscenza sulle opzioni disponibili,
2) condivisione aperta e onesta di informazioni sul opzioni,
3) indipendenza nella valutazione delle opzioni da parte dei membri,
4) aggregazione imparziale delle opinioni dei membri sulle opzioni e
5) leadership che favorisca ma non domini la discussione.

Le esplorazioni future esamineranno quando un gruppo trae vantaggio dall’utilizzo dei meccanismi organizzativi dell’IS (raccolta di dati distribuiti, elaborazione collettiva delle informazioni e scelta democratica) o quando è meglio che un gruppo sia guidato da individui ad alte prestazioni.

Ulteriori letture:

Seeley, TD 1995. La saggezza dell’alveare. Stampa dell’Università di Harvard.
Seeley, TD 2010. Democrazia delle api. Stampa dell’Università di Princeton.

 

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Vita Sackville-West

20 Giugno 2022

I tried to hold the courage of my ways
In that which may endure,
daring to find a world in a lost world,
a little world, a little perfect world,
with owlet vision in a blinding time,
and wrote and thought and spoke
these lines, these modest lines, almost demure,
what time the corn still stood in sheaves
what time the oak
renewed the million dapple of her leaves.
Yet shall the garden with the state of war
Aptly contrast, a miniature endeavour
To hold the graces and the courtesies
Against a horrid wilderness. The civil
Ever opposed the rude, as centuries’
Slow progress laboured forward, then the check,
the slow uphill climb again, the slide
back to the pit, the climb out of the pit,
advance, relapse, advance, relapse, advance,
regular as the measure of a dance;
so does the gardener in little way
maintain the bastion of his opposition
and by a symbol keep civility;
so does the brave man strive
to keep enjoyment in his breast alive
when all is dark and even in the heart
of beauty feeds the pallid worm of death.

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Mente e natura – Gregory Bateson

10 Giugno 2022

“Mente e natura” è un libro complesso, ma proprio per questo affascinante, che presenta una prospettiva olistica basata sulle teorie della cibernetica, dei tipi logici, della genetica,…
Il “filo rosso” di questo saggio è la struttura che connette, cioè l’epistemologia che connette tutti i saperi. Bateson propugna infatti l’idea della sacra unità della biosfera e sostiene che tutte le realtà viventi sono connesse, hanno le caratteristiche proprie della mente e per questo possono essere comprese attraverso un modello comune.
L’autore sostiene che il pensiero è un processo stocastico, con variabili casuali, proprio come lo è l’evoluzione della specie.
Per dimostrare la validità del suo punto di vista, Bateson parte dalla descrizione dei processi più elementari, basilari, ma non per questo consapevoli, coinvolti nella formulazione di teorie, spiegazioni, ecc. Per arrivare a questo l’autore descrive una prova alla quale sottopose alcuni suoi studenti: portò a lezione un granchio bollito e chiese ai giovani di spiegare in che modo avrebbero potuto sostenere che si trattava di un essere vivente. Gli studenti, dapprima spaesati, cominciarono presto a fare delle connessioni, che consistono nel mettere in relazione due aspetti fra loro. Dette connessioni, secondo Bateson, possono essere di ordine diverso: esistono connessioni di I ordine, che consistono in similitudini e simmetrie all’interno della stessa creatura (ad esempio tra parte anteriore e parte posteriore dei granchio) e danno luogo a una struttura. Le connessioni di II ordine sono quelle che derivano dal confronto tra due individui di specie diversa (ad esempio il granchio e l’aragosta), mentre le connessioni di III ordine derivano dal confronto di due coppie di realtà (ad esempio granchio/aragosta e uomo/cavallo). Perciò la struttura che connette è una metastruttura.
Applicando questa struttura teorica ai sistemi umani si può quindi quindi affermare che la relazione interpersonale è una connessione di I ordine in quanto avviene tra due individui; il contesto è una connessione di II ordine perché oltre ad esserci due individui, ci sono due storie e per conoscerle bisogna avere elementi in più rispetto alla relazione; infine il metacontesto è una connessione di III ordine, poiché per conoscerlo bisogna avere ulteriori informazioni appartenenti a categorie logiche differenti.
Ad essere pertinenti, in relazione, possono essere gli esseri umani fra loro, ma anche ad esempio, le singole parole di una frase, oppure i vari elementi anatomici che costituiscono il corpo umano, o anche la foglia con la gemma e il picciolo. Bateson sostiene perciò che la migliore descrizione di una creatura o di un fenomeno scaturisce da una descrizione della relazione che intercorre tra l’oggetto studiato e ciò che gli è pertinente e non da ciò che la cosa costituisce in sé.
Bateson non fu uno psicoterapeuta familiare, ma un teorico e attraverso i suoi studi sull’epistemologia diede una base teorica scientifica valida per tutti i processi di conoscenza, compreso il colloquio psicologico. Infatti, la rilevanza data al concetto di “relazione” ha portato gli psicoterapeuti a sviluppare l’approccio familiare considerando il sintomo dell’individuo come un comportamento emerso all’interno di un sistema di relazioni e di conseguenza a voler conoscere il sistema, il contesto, nel quale queste relazioni hanno luogo.
Bateson ritiene che le premesse sulle quali si basa la conoscenza e di conseguenza anche l’insegnamento, l’apprendimento e la ricerca scientifica, siano superate. In particolare la logica aristotelica di “causa-effetto” appare inadatta a comprendere la realtà, poiché genera paradossi quando si è di fronte a eventi circolari, quando cioé interviene la variabile “tempo”. L’autore abbraccia perciò il modello cibernetico, che consente una visione circolare anziché lineale degli eventi, in un mondo nel quale “le serie causali circolari sono piuttosto la regola che l’eccezione”. Con questa nuova ottica si ammette che un cambiamento in una parte qualsiasi del fenomeno causerà cambiamenti in altre parti di esso e sarà difficile stabilire dove il processo è iniziato.
Anche il classico paradigma di Stimolo-Risposta, da decenni proposto come un evento lineale, si rivela insufficiente a spiegare il fenomeno dell’apprendimento, poiché non considera la retroazione che la risposta può avere sullo stimolo (si pensi ad esempio all’effetto incentivante o demotivante che l’interesse dell’alunno può esercitare sull’insegnante e quindi alle reciproche influenze che ognuno avrà sull’altro).
Bateson descrive delle verità semplici e immediate che ogni scolaretto sa in modo piuttosto intuitivo. Sarebbe l’insegnamento scolastico, con i suoi presupposti scientifici errati, a traviare il sapiente scolaretto, trasformandolo in un individuo che ignora le basi della epistemologia.
Secondo l’autore la scienza non è altro che un modo di percepire i fenomeni; i presupposti sono alla base del pensiero scientifico, ossia lo influenzano. Tuttavia uno degli aspetti del pensiero scientifico è quello di revisionare i presupposti, accantonarli se non sono più adatti e elaborarne di nuovi. La difficoltà nell’attuare questo processo sta nel fatto che i presupposti sono inconsapevoli, ma sfociano in prodotti consapevoli, quindi premesse scientifiche errate conducono anche a conclusioni scientifiche sbagliate.
I primi cinque paragrafi discutono la tesi della impossibilità di essere obiettivi nei processi di codificazione delle informazioni.
1) La scienza non prova mai nulla: secondo Bateson pensare che la scienza spieghi qualcosa è una presunzione: in realtà bisogna sperare nella semplicità di un evento perché questo sia prevedibile. Si percepisce per differenza, dunque al di sotto di una soglia non si ha arricchimento di cognizioni.
2) La mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata: quando c’è un pensiero o percezione o comunicazione sulla percezione vi è una codifica. Con una frase piuttosto colorita Bateson ci ricorda che quando pensiamo a porci o noci di cocco nella nostra mente non ci sono porci o noci di cocco, ma rappresentazioni e classificazioni di questi oggetti. Spesso però non si ha una distinzione logica tra il nome o simbolo e la cosa designata e questo può dar luogo a reazioni irrazionali: ci si può commuovere, ad esempio, di fronte a una bandiera perché essa è il simbolo della patria piuttosto che un pezzo di stoffa colorato.
3) Non esiste esperienza oggettiva: l’esperienza del mondo è sempre mediata dagli organi di senso e dalle vie neurali predisposte alla codifica delle informazioni, perciò ogni evento reale si traduce in una rappresentazione interna. In altre parole il pensiero, così come la scienza, sono modi di percepire e di dare un senso a ciò che vediamo, perciò è impossibile che siano oggettive.
4) I processi di formazione delle immagini sono inconsci: non si è consapevoli del processo di percezione, tuttavia ciò sfocia in prodotti consci. Bateson con la descrizione degli esperimenti sulle illusioni ottiche ci dimostra che gli organi di senso possono essere facilmente ingannati e ciò conferma la impossibilità di essere obiettivi.
5) La divisione in parti o totalità dell’universo percepito è vantaggiosa e forse necessaria, ma nessuna necessità determina come ciò debba essere fatto: l’autore introduce questo concetto attraverso la descrizione di un esperimento proposto ai suoi allievi: veniva disegnata una figura geometrica somigliante ad un esagono e un rettangolo adiacenti fra loro, denominata “esarettangolo”, e si chiedeva agli allievi di dare una definizione dell’oggetto. La maggior parte degli studenti tracciava delle linee all’interno della figura, per frammentarla in figure geometriche meglio conosciute, altri preferivano interpretare l’esarettangolo nella sua totalità. Si evinceva dalle risposte ottenute che la spiegazione dell’oggetto scaturisce dalla descrizione , ma la descrizione contiene sempre elementi arbitrari.
I successivi tre presupposti riguardano gli aspetti del casuale e dell’ordinato. Qui l’autore introduce il parallelismo tra teoria evoluzionistica e pensiero come processi stocastici.
6) Le successioni divergenti sono imprevedibili: è errato pensare che la scienza possa prevedere tutto, poiché ci sono eventi imprevedibili. Ad esempio se colpiamo un vetro nessuno potrà stabilire a priori dove si verificherà la crepa, il modo in cui correrà la frattura; allo stesso modo se si sottopone una catena ad una trazione non sapremo quale sarà la maglia della catena che si spezzerà. Per prevedere queste cose non basta aumentare le conoscenze scientifiche.
7) Le successioni convergenti sono prevedibili: eventi quali il moto dei pianeti, la reazione chimica tra due elementi, la traiettoria delle palle da biliardo, ecc. sono prevedibili perché la descrizione si basa sul comportamento di una moltitudine di elementi; le leggi statistiche mediano tra le descrizioni del comportamento dell’individuo e quelle della massa.
8) Dal nulla nasce nulla: ciò è vero nel campo della materia e della energia, ma nel campo della comunicazione anche l’assenza di un messaggio ha significato in un determinato contesto. Creare significato è una abilità del ricevente: è impossibile non comunicare se sono presenti due individui e, contemporaneamente, non esiste comunicazione se un individuo è solo, dal momento che non c’è una persona a ricevere il messaggio.
Bateson evidenzia che il pensiero e l’evoluzione genetica sono costituiti da aspetti ordinati e aspetti casuali: è da quest’ultimo aspetto che gli organismi traggono le mutazioni genetiche e la scienza si riorganizza elaborando nuovi paradigmi.
9) Il numero è diverso dalla quantità: infatti il numero deriva dal contare, è una codifica, appartiene alla categoria del digitale, mentre la quantità consiste nel misurare, è una “idea formale immanente negli oggetti” perciò appartiene al mondo dell’analogico. Si pensi ad esempio al tipo di processo che avviene quando si guardano le carte da gioco (senza contare si sa immediatamente se si sta guardando un tre o un sette) o a quello che avviene quando si ha a che fare con quantità più grandi, che non possono essere desunte con una occhiata.
10) La quantità non determina la struttura: secondo Bateson questi sono concetti appartenenti a due tipi logici differenti, perciò non armonizzano bene entro la stessa operazione di pensiero. Al contrario vi è la tendenza a invocare quantità di energia, di tensione, per spiegare cambiamenti della struttura: secondo l’autore, se un agente provoca dei cambiamenti di una struttura, questi saranno imprevedibili e divergenti.
11) In biologia non esistono valori monotoni: cioé non esistono valori che o aumentano sempre o diminuiscono sempre, ma esistono valori minimi e massimi entro i cui intervalli gli organismi possono trarre i maggiori benefici.
12) Talvolta ciò che è piccolo è bello: la crescita impone delle strategie di adattamento agli esseri viventi, in particolare quando una soglia di tolleranza viene superata. La natura impone dei limiti di crescita, dal momento che spesso la crescita altera le proporzioni della creatura. I problemi relativi ai limiti di crescita sono risolti in modi diversi dai vari esseri viventi: alcune piante limitano il loro sviluppo in altezza, altre muoiono dopo aver prodotto la discendenza, negli animali la crescita semplicemente si arresta, ma non sappiamo esattamente come le cellule ricevono il messaggio di non riprodursi più.
Nei successivi enunciati l’autore mette in evidenza il fatto che la logica sia un modello inadatto a spiegare la realtà degli esseri viventi, poiché essa è applicabile a eventi lineali, ma nella natura è molto più frequente imbattersi in fenomeni circolari. Anche il linguaggio scientifico deve tenere conto della complessità dei fenomeni, definire gli oggetti in base alle relazioni con le altre cose e distinguendo i tipi logici a cui si fa riferimento.
13) La logica è un cattivo modello della causalità: secondo il ragionamento logico se si ha una certa condizione, allora si verificherà una certa conseguenza. Questo approccio non è applicabile però alle sequenze causali, poiché quando subentra la circolarità di un evento, e con questa il fattore tempo, il modello della logica lineale genera paradossi.
14) La causalità non opera all’indietro: mentre la logica lineale può essere rovesciata, questo non può avvenire nel ragionamento causale, perché la causa precede sempre l’effetto e non viceversa. Nei fenomeni circolari avviene che un cambiamento in qualunque punto del circolo può essere la causa di cambiamenti in altri punti del circolo; così, ad esempio, il termostato può essere considerato la causa del cambiamento di temperatura in una stanza, ma la temperatura della stanza può essere considerata la causa che agisce sull’interruttore del termostato, deteminandone il funzionamento.
15) Il linguaggio sottolinea di solito solo un aspetto di qualunque interazione: di solito si parla delle cose come se avessero degli attributi, ma nella epistemologia bisogna essere consapevoli che si può parlare delle cose solo mediante i loro nomi, le loro qualità e i loro attributi, cioé mediante resoconti delle loro relazioni e interazioni interne ed esterne.
16) Stabilità e cambiamento descrivono parti delle nostre descrizioni: il concetto di “stabilità”, come quello di “cambiamento” può avere molte sfumature perciò è necessario che gli enunciati relativi alla stabilità o al cambiamento degli esseri viventi abbiano sempre un riferimento a qualche proposizione descrittiva che tenga conto del tipo logico al quale le parole usate appartengono.
Nei capitoli finali di “Mente e natura” verrà spiegata la natura del parallelismo tra pensiero e processo evolutivo. Bateson evidenzia che l’adattamento degli organismi viventi è garantito per gli aspetti ambientali costanti dal cambiamento genetico, per gli aspetti ambientali mutevoli dal cambiamento somatico.
Allo stesso modo anche il pensiero, l’apprendimento, hanno un carattere stocastico, cioè un aspetto casuale combinato con uno selettivo, in modo che solo alcuni risultati del casuale possano perdurare, dal momento che sono caratterizzati da un lato da conformità e rigore e dall’altro dal rimescolamento casuale delle informazioni, ma le “idee” secondo cui agisce la genetica sono di tipo logico diverso rispetto alle idee riguardanti il pensiero. Conformità e coerenza sono i requisiti che il pensiero deve possedere, tuttavia solo da un rimescolamento, una ricombinazione delle precedenti acquisizioni e dalla casualità possono scaturire nuovi pensieri, nuove teorie scientifiche.

Tratto da: Cecilia Coccia

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I mille giardini

9 Giugno 2022

Un sentiero di lastre di pietra irregolari si snoda lungo tutta l’estensione della villa imperiale di Katsura. A differenza d’altri giardini di Kyoto fatti per la contemplazione immobile, qui l’armonia interiore si raggiunge seguendo passo a passo il sentiero e passando in rassegna le immagini che si presentano alla vista. Se altrove il sentiero è solo un mezzo e sono i luoghi a cui esso porta che parlano alla mente, qui è il percorso la ragione essenziale del giardino, il filo del suo discorso, la frase che dà significato a ogni sua parola.

Ma quali significati? Il sentiero al di qua del cancello è fatto di lastre lisce e al di là di ciottoli grezzi: è il contrasto tra la civiltà e la natura? Là il sentiero si biforca in un braccio diritto e in uno storto; il primo si blocca a un punto morto, il secondo va avanti: è una lezione sul modo di muoversi nel mondo? Ogni interpretazione lascia insoddisfatti; se c’è un messaggio, è quello che si coglie nelle sensazioni e nelle cose, senza tradurle in parole.

Le pietre che affiorano in mezzo al muschio sono piatte, staccate l’una dall’altra, disposte alla distanza giusta perché chi cammina se ne trovi sempre una sotto al piede a ogni passo; ed è proprio in quanto obbediscono alla misura dei passi, che le pietre comandano i movimenti dell’uomo in marcia, lo obbligano a un’andatura calma e uniforme, ne guidano il cammino e le soste.

Ogni pietra corrisponde a un passo, e a ogni passo corrisponde un paesaggio studiato in tutti i dettagli, come un quadro; il giardino è stato predisposto in modo che di passo in passo lo sguardo incontri prospettive diverse, un’armonia diversa nelle distanze che separano il cespuglio, la lampada, l’acero, il ponte ricurvo, il ruscello. Lungo il percorso lo scenario cambia completamente molte volte, dal fogliame fitto alla radura cosparsa di rocce, dal laghetto con la cascata al laghetto d’acque morte; e ogni scenario, a sua volta, si scompone negli scorci che prendono forma appena ci si sposta: il giardino si moltiplica in innumerevoli giardini.

La mente umana possiede un misterioso dispositivo, capace di convincerci che quella pietra è sempre la stessa pietra, sebbene la sua immagine – per poco che spostiamo il nostro sguardo – cambi di forma, di dimensioni, di colore, di contorni. Ogni singolo e limitato frammento dell’universo si sfalda in una molteplicità infinita: basta girare intorno a questa bassa lampada di pietra ed essa si trasforma in un’infinità di lampade di pietra; il poliedro traforato, maculato di licheni, si sdoppia e si quadruplica e sestuplica, diventa un oggetto completamente diverso a seconda del lato che si trova sotto il tuo sguardo, a seconda se t’avvicini o t’allontani.

Le metamorfosi che genera lo spazio si aggiungono a quelle generate dal tempo: il giardino – ognuno degli infiniti giardini – cambia col passare delle ore, delle stagioni, delle nuvole nel cielo. Gli imperatori che idearono Katsura predisposero piattaforme di canne di bambù per assistere in aprile alla fioritura dei fiori di pesco, o all’arrossarsi delle foglie degli aceri in novembre, costruirono quattro padiglioni da tè, uno per stagione, che s’affacciano ognuno su un paesaggio ideale in un momento dell’anno; ogni paesaggio ideale d’una stagione ha un’ora del giorno o della notte che è il suo momento ideale. Ma le stagioni sono quattro e le ore ruotano tra mezzogiorno e mezzanotte. Il tempo coi suoi ritorni allontana l’idea dell’infinito: è un calendario di momenti esemplari, che si ripetono ciclicamente e che il giardino cerca di fissare in un certo numero di luoghi.

E lo spazio, allora? Se c’è una corrispondenza tra i punti di vista e i passi, se ogni volta che s’avanza il piede destro o sinistro sulla pietra successiva s’apre una prospettiva stabilita da chi progettò il giardino, allora l’infinità dei punti di vista si restringe a un numero finito di vedute, ognuna staccata da quella che la precede e da quella che la segue, caratterizzata da elementi che la contraddistinguono dalle altre, una serie di modelli precisi che rispondono ognuno a una necessità e a un’intenzione. Ecco cos’è il sentiero: un congegno per moltiplicare il giardino, certamente, ma anche per sottrarlo alla vertigine dell’infinito: le pietre lisce che compongono il sentiero della villa di Katsura sono in numero di 1716 – questa cifra, che ho trovato in un libro, mi pare verosimile, considerando due pietre su mezzo metro per una lunghezza complessiva di mezzo miglio –, dunque il giardino si percorre in 1716 passi e lo si contempla da 1716 punti di vista. Non c’è ragione per lasciarci prendere dall’angoscia: quel ciuffo di bambù lo si può vedere da un certo numero di prospettive diverse, non più e non meno, variando il chiaroscuro tra i fusti ora più spaziati ora più fitti, provando sensazioni e sentimenti distinti a ogni passo, una molteplicità che ora mi pare di poter padroneggiare senza venirne soverchiato.

Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi. Perciò gli antichi maestri della cerimonia del tè decisero che per giungere al padiglione dove il tè sarà servito, l’invitato percorra un sentiero, sosti su una panca, guardi gli alberi, attraversi un cancello, si lavi le mani in un bacile scavato in una roccia, segua il cammino tracciato dalle pietre lisce fino alla semplice capanna che è il padiglione del tè, alla sua porta bassa bassa, dove tutti si devono inchinare per entrare. Nella sala, solo stuoie per terra, uno sgabello con tazze e teiera di fattura sopraffina, un vano nella parete – il tokonoma – dove viene esposto un oggetto squisito, o un vaso con due rami in fiore, o un dipinto, o un foglio vergato di calligrammi. È limitando il numero delle cose intorno a noi che ci si prepara ad accogliere l’idea d’un mondo infinitamente più grande. L’universo è un equilibrio di pieni e di vuoti. Parole e gesti nel versare il tè schiumante devono avere intorno spazio e silenzio, ma anche il senso del raccoglimento, del limite.

L’arte del più grande maestro della cerimonia del tè, Sen-no Rikyu (1521-1591), sempre ispirata alla massima semplicità, s’espresse anche nel progettare giardini intorno alle case del tè e ai templi. Gli avvenimenti interiori si presentano alla coscienza attraverso movimenti fisici, gesti, percorsi, sensazioni inattese.

Un tempio vicino a Osaka aveva una vista meravigliosa sul mare. Rikyu fece piantare due siepi che nascondevano completamente il paesaggio, e vicino ad esse fece collocare una vaschetta di pietra. Solo quando un visitatore si chinava sulla vaschetta per prendere dell’acqua nel cavo delle mani, il suo sguardo incontrava lo spiraglio obliquo tra le due siepi, e gli si apriva la vista del mare sconfinato.

L’idea di Rikyu probabilmente era questa: chinandosi sulla vasca e vedendo la propria immagine rimpicciolita in quel limitato specchio d’acqua, l’uomo considerava la propria pochezza; poi, appena sollevava il viso per bere dalla mano, lo coglieva il bagliore dell’immensità marina e acquistava coscienza d’essere parte dell’universo infinito. Ma sono cose che a volerle spiegare troppo si sciupano: a chi lo interrogava sul perché della siepe, Rikyu si limitava a citare i versi del poeta Sogi:

Qui, un po’ d’acqua.

Laggiù tra gli alberi

il mare!

(«Umi sukoschi/ Niwa ni izumi no/ Ko no ma ka na.»)

Tratto da: Italo Calvino, Collezione di sabbia, Mondadori 

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Non far niente è il miglior metodo agricolo

6 Giugno 2022

Masanobu Fukuoka – Non far niente è il miglior metodo agricolo

15: traduzioni
Alice Pantaleone: voce narrante
Ambrogio Vario: voce Masanobu Fukuoka
Toni Ferrara: Editing

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Walt Whitman

30 Maggio 2022

Poesia del tramonto

Alta marea del fiume, che scorre sotto di me! Ti guardo dritto in faccia,

Nubi dell’ovest, sole alto ancora per mezz’ora, anche voi vi vedo faccia a faccia.

Folle di uomini e donne con addosso i soliti abiti, quanto mi sembrate strani!

Sui traghetti le centinaia e centinaia di persone che attraversano il fiume mi sembrano più strane di quanto tu possa immaginare,

E tu che attraverserai da una riva all’altra fra molti anni, sei per me e per le mie meditazioni più di quanto tu possa immaginare.

L’impalpabile sostentamento che traggo da ogni cosa ad ogni ora del giorno,

Il semplice schema, compatto e ben organizzato – io stesso disintegrato, tutti disintegrati, e tuttavia parte dello schema –

Le similitudini del passato e quelle del futuro,

Le glorie, infilate come perline sull’esile filo – di ciò che vedo e sento – delle passeggiate per strada – delle traversate sul fiume,

La corrente che rapida irrompe e nuota con me, via lontano,

Gli altri che mi seguiranno, i legami fra me e loro,

La certezza degli altri – la vita, l’amore, la vista, l’udito degli altri.

Altri attraverso i cancelli dei traghetti passeranno da sponda a sponda,

Altri osserveranno l’alta marea che monta,

Altri guarderanno il traffico navale di Manhattan a nord e a ovest, e le colline di Brooklyn a sud e a est,

Altri guarderanno le isole, grandi e piccole,

Fra cinquant’anni altri le osserveranno attraversando il fiume, il sole alto sull’orizzonte ancora per mezz’ora,

Fra cent’anni o fra tante centinaia di anni, altri le osserveranno,

Si rallegreranno del tramonto, del montare dell’alta marea e del ritrarsi dell’acqua alla bassa marea.

Non serve né tempo né luogo – la distanza non serve,

Io sono con voi, voi uomini e donne di una generazione o di tutte le generazioni a venire,

Mi proietto e poi rientro – sono con te, e so com’è.

E tutto ciò che tu provi quando guardi nel fiume e nel cielo, l’ho provato anch’io,

E proprio come ognuno di voi è parte di una folla viva così anch’io sono stato parte di una folla viva,

E proprio come tu ti senti ristorato dalla freschezza del fiume e dal suo flusso luminoso, mi sento ristorato anch’io,

E proprio come tu, anche se fermo e chino sulla ringhiera, scorri con l’onda veloce, anch’io da fermo, in piedi scorrevo veloce,

E proprio come tu guardi gli innumerevoli alberi delle navi, e i fumaioli corti e larghi dei vaporetti, così li ho guardati anch’io.

Anch’io molte e molte volte ho attraversato il fiume, con il sole alto sull’orizzonte ancora per mezz’ora,

Ho osservato i gabbiani di dicembre, li ho visti alti nel cielo fluttuare con ali immobili e corpi oscillanti,

Ho visto dell’oro brillante illuminare parte dei loro corpi, lasciando il resto nell’ombra più nera,

Ho visto i loro lenti cerchi roteanti e il progressivo spostarsi verso sud.

Ho visto anche il riflesso del cielo d’estate nell’acqua.

Con gli occhi abbagliati dalle scie luminose dei raggi,

Ho visto i bei raggi centrifughi di luce attorno all’ombra del mio capo riflesso nell’acqua illuminata dal sole,

Ho visto la nebbia sulle colline a sud e a sud est,

Ho visto il vapore che si disperdeva in riccioli violetti,

Ho guardato verso la baia giù in basso per vedere le navi in arrivo,

Le ho viste arrivare, ho visto a bordo quelli che erano vicino a me,

Ho visto le bianche vele delle golette e dei vascelli, ho visto le barche alla fonda,

I marinai al lavoro sulle sartie o a cavalcioni sui pennoni,

Gli alberi tondi, il lento rollio degli scafi, gli affusolati pennoni guizzanti,

I vaporetti grandi e piccoli in manovra, i timonieri nella sala di pilotaggio,

La bianca scia al loro passaggio, il rapido fremente mulinare delle ruote,

Bandiere di tutte le nazioni, che venivano ammainate al tramonto,

Le onde frastagliate al crepuscolo, le ciotole scodellate, le creste lucide e spumeggianti,

La distesa lontana sempre più velata, i muri grigi dei magazzini di granito sulle banchine,

Lungo il fiume un gruppo in ombra, il grosso rimorchiatore

fiancheggiato ai due lati da chiatte – la nave del fieno, il barcone in ritardo,

Lungo le rive vicine le fiamme dai fumaioli della fonderia che si levano alte e accecanti nella notte,

E proiettano ombre guizzanti, contrastate da vivide luci rosse e gialle, sui tetti delle case, e giù sugli anfratti delle strade.

Queste e tante altre immagini sono state per me ciò che sono ora per voi,

Mi protendo un attimo per dirtelo – e poi rientro.

Ho molto amato queste città,

Ho molto amato il rapido fiume maestoso,

Gli uomini e le donne che ho visto erano tutti vicino a me,

E altri ancora – altri che si voltano indietro per guardarmi, perché io mi sono proteso in avanti per guardarli,

Arriverà quel tempo, anche se oggi e stanotte io mi fermo qui.

Che c’è dunque fra noi? Come tenere il conto di lustri o secoli fra noi?

Qualunque cosa sia, non serve a nulla – non serve la distanza, e non il luogo.

Anch’io ho vissuto,

Anch’io ho camminato per le vie di Manhattan e mi sono tuffato nelle acque lì intorno;

Anch’io ho sentito strane domande inaspettate agitarsi dentro di me,

Di giorno, fra la folla, a volte calavano su di me,

Di sera tardi, al mio rientro a casa, o quando ero steso sul letto, calavano su di me.

Anch’io ero stato colpito da questa massa sempre allo stato fluido,

Anch’io avevo ricevuto un’identità dal mio corpo,

Ciò che ero, sapevo che dipendeva dal mio corpo, e ciò che sarei stato, sapevo che sarebbe dipeso dal mio corpo.

Non è solo su di te che calano le ombre scure,

L’oscurità stende la sua ombra anche su di me,

La cosa migliore che avevo fatto, mi sembrava ambigua e vana,

I miei pensieri, nobili all’apparenza, non erano invece solo miseri?

Non avrebbe la gente riso di me?

Non sei tu il solo a sapere che significa essere malvagio,

Io sono colui che sapeva cosa voleva dire essere malvagio,

Anch’io ho annodato l’antico nodo della contraddizione,

Ho blaterato, sono arrossito, mi sono offeso, ho mentito, rubato, invidiato,

Ho ingannato, provato rabbia, lussuria, brame ardenti che non ho mai osato confessare,

Sono stato ribelle, vanitoso, avido, superficiale, scaltro, un solitario, un codardo, una persona maligna,

Sono stato lupo, serpe, maiale,

Lo sguardo che inganna, la parola frivola, il desiderio illecito, non mi sono mancati,

Rifiuti, odi, rinvii, viltà, pigrizia, nulla di tutto ciò mi è mancato.

Ma sono stato un vero uomo di Manhattan, libero, disponibile e fiero!

Sono stato chiamato con familiarità da limpide voci sonore di giovani che mi vedevano arrivare o andar via,

Ho sentito le loro braccia al collo, quando mi fermavo o l’abbandono distratto della loro carne contro la mia, quando sedevo,

Ho visto molti che amavo per la strada, o sul ferry o nelle pubbliche assemblee, ma non ho mai rivolto loro la parola,

Ho vissuto la loro stessa vita, lo stesso solito godere, mangiare, dormire,

Ho recitato la parte che ancora caratterizza l’attore o l’attrice,

La stessa vecchia parte, la parte che è come la vogliamo noi grande quanto la vogliamo, o piccola quanto la vogliamo, o sia grande che piccola.

Vengo ancora più vicino a te,

I pensieri che tu hai su di me, anch’io li ho avuti su di te – ci ho pensato con anticipo,

Ho riflettuto a lungo e seriamente su di te, prima ancora che tu fossi nato.

Chi poteva sapere cosa me ne sarebbe venuto?

Chi può sapere che questo non mi piaccia?

Chi può sapere che io non riesca a vederti ora, anche se tu non puoi vedermi?

Non sei solo tu, né solo io,

Non qualche razza, né qualche generazione o qualche secolo,

È che ognuno è venuto, viene o verrà dalla sua debita secrezione, sia ora, che allora o in futuro.

Ogni cosa lo attesta – la più piccola come la più grande,

Un velo inevitabilmente avvolge tutto, e avvolge l’anima temporaneamente.

Ora voglio sapere quale vista potrà mai essere per me più maestosa e spettacolare della mia Manhattan incoronata dagli alberi delle navi, del mio fiume e del mio tramonto, e delle onde frastagliate dalla marea, dei gabbiani che ondeggiano, della barca del fieno al tramonto, delle chiatte ormai al buio,

Voglio sapere quali dèi possono superare questi che mi stringono la mano e con voce che amo mi chiamano subito ad alta voce con i nomi più intimi quando m’avvicino,

Voglio sapere cosa c’è di più misterioso di ciò che mi lega alla donna o all’uomo che mi guarda in faccia,

Che mi fonde ora con te e riversa in te il mio significare.

Noi ci capiamo, allora, non è vero?

Ciò che ti avevo promesso senza neppure dirlo, non l’hai forse accettato?

Ciò che lo studio non può insegnare – ciò che con le prediche non si può ottenere, non è forse ora realizzato?

Ciò che non è stato sollecitato dalla lettura, non scaturisce forse da me, personalmente?

Continua a scorrere, fiume! Cresci con l’alta marea e cala con la bassa marea!

Continuate a guizzare onde con le creste sfrangiate!

Fulgide nubi al tramonto, con il vostro splendore inondate me o gli uomini e le donne delle generazioni dopo di me!

Attraversate da una riva all’altra, innumerevoli folle di passeggeri!

Innalzatevi alberi alti di Manhattan! – Innalzatevi splendide colline di Brooklyn!

Bene per te, orgoglioso, aperto libero uomo di Manhattan!

Pulsa cervello stupito e curioso! Lancia le tue domande e risposte!

Resta in bilico qui e ovunque, soluzione eternamente sospesa!

Singhiozza, arrossisci, menti, ruba tu o io o chiunque dopo di noi!

Guardate occhi avidi d’amore la casa o la strada o l’assemblea pubblica!

Squillate voci di giovani! Con voce sonora e musicale chiamatemi con il mio nome più segreto!

Vivi, vecchia vita! Recita la parte che caratterizza l’attore o l’attrice!

Recita la vecchia parte, che è importante o banale, a seconda di come la si interpreta!

Considera, tu che mi leggi attento, se io non possa, in qualche modo, stare ad osservarti!

Sta saldo, parapetto sul fiume, per reggere chi, sulla nave, pigro ti si appoggia, ma va veloce con la rapida corrente!

Volate, uccelli marini! Volate inclinati o ruotate in ampi cerchi, alti nel cielo!

Rifletti il cielo d’estate, tu acqua e con cura trattienilo, fino a che tutti gli occhi abbassati abbiano il tempo di raccoglierlo!

Irraggiate, sottili lame di luce, dall’ombra della testa mia o di chiunque altro, nelle acque radiose di sole!

Venite navi dalla baia lì sotto! Scivolate su e giù golette con le vele bianche, barche, chiatte!

Siano issate al vento le bandiere di tutte le nazioni e quando è l’ora, ammainate al tramonto!

Alzate le vostre lingue di fuoco, fumaioli delle fonderie! Proiettate ombre scure al cadere della notte! Illuminate di luci rosse e gialle i tetti delle case!

Apparenze, ora e da ora in poi, indicate ciò che realmente siete!

Tu, velo insostituibile, continua ad avvolgere l’anima!

Attorno al mio corpo per me e al tuo per te siano sospesi i nostri aromi più divini!

Prosperate, città! Trasportate le vostre merci, trasportate i vostri spettacoli,1 voi fiumi ampi e navigabili!

Espanditi tu, essere, che sei forse di tutti il più spirituale!

Mantenete il vostro posto voi oggetti, che siete forse di tutti i più duraturi!

Noi scendiamo su di voi e su ogni cosa, e vi catturiamo tutti,

Noi comprendiamo l’anima solo attraverso voi, voi fluidi e solidi attendibili,

Attraverso voi colore, forma, posizione, sublimità,idealità,

Attraverso voi ogni prova, confronto, ogni nostra proposta e decisione.

Avete aspettato, siete sempre in attesa, voi muti splendidi ministri! Voi novizi!

Vi accogliamo con un sentimento alla fine libero e saremo d’ora in poi insaziabili,

Non riuscirete più a nascondervi o a sfuggirci,

Vi usiamo senza mettervi da parte – vi accogliamo per sempre dentro di noi,

Non vi misuriamo – ma vi amiamo – c’è perfezione anche in voi,

Voi recate il vostro contributo all’eternità,

E grande o piccolo, voi recate il vostro contributo all’anima.

 

1 Sui fiumi americani, specie sul Mississippi, navigavano le show-boats, battelli su cui si allestivano spettacoli teatrali.

Tratto da:  Walt Whitman, Foglie d’erba: poesia dell’insurrezione

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