Dire «crisi della cultura», luogo comune dei più manifatturieri, è pur sempre, oltre che comodo, pregnante d’indefinibile. Nella versione italiana, significa noncuranza del potere, perdita di bellezza, capitali e sovvenzioni sbaragliati, diseducazione progressiva dei cittadini. Cultura è tutela dell’identità nazionale: ce la stanno smerdando bravamente, senza un grido di rivolta, a colpi di intrusioni massicce di locuzioni e nomenclatura angloamericane. Scendi in strada un mattino qualunque e trovi che dal giorno prima si sono moltiplicate per contagio le insegne, e perfino targhe e targhette di professionisti, senza neppure la sminuzzata foglia di fico del bilinguismo, come le puoi leggere nelle vie commerciali di Londra o di New York. Oh guarda, il parrucchiere ha chiuso… Ma no, la bottega è rimasta, ma l’insegna per riconoscerla è diventata Hair Studio! Ho una speciale allergia per la parola design, oltre che per le Niagara Falls mostruose di O.K. Design è diffuso quanto il W.C., altro anglismo che per essere d’epoca di Queen Victoria si è da tempo impadronito del territorio nazionale a livello delle chiappe. Poiché i designers sono attivissimi e la ceramica sanitaria è un’industria italiana che funziona, sia pure a Tirana, a Ulan Bator, la produzione di W.C., bidet e lavabi dalle forme purgatoriali non manca di acquirenti dall’accentuato masochismo. La perdita di lingua è, per quanto intendiamo come cultura, una ferita mortale. Sarà bello e nobile essere difensori di Termopili, ma io, vecchio e indignabile per ogni bruttura, sono stufo di agitare lo scudo mentre il branco passa senza fine.
Da rilevare quanti venti di significato s’incrocino nel degenerare senza speranza della democrazia politica, nella perdita del senso dei valori, inseparabilmente etico-spirituali (riassumibili malamente come culturali), nel getto, come un gioiello in una discarica, dell’identità linguistica. Aggiungi che l’Italia non ha né tempo né capacità né volontà di integrare, assimilare, rifare mentalmente l’enorme afflusso di popolazioni indicibilmente estranee a tutto quanto l’Italia rappresenta di non-materiale, che è per loro impenetrabile, dunque gettabile, non conservabile. Per loro non contano che i bisogni primari, mangiare, dove dormire, come trovare un guadagno, sfogare sesso. Libri italiani non ne leggono. La televisione è distruttiva, sia per noi che per loro, per i bambini di ogni colore. I rapporti servili possono farsi anche affettuosi, mettere radici, stimolare la tolleranza, ma questo non sgattiglia che la superficie. Ho amato il cinema, ma è morto. Finanziarne i festival (Venezia, figuriamoci) è puro spreco. Violenza, pornografia, assenza totale di presa morale. A lunghezza di giorni, nel sordo duello tra il Cinema e il Teatro, il teatro ha vinto. Far vivere ad ogni costo il teatro sarebbe illuminato. Però è nell’irreperibilità di illuminati autentici il difetto di manico! Col teatro salvi ancora anime, col teatro puoi tentare ancora di rieducare un po’ di gente. Per l’esperienza che ne ho, chi frequenta e affolla i teatri ha fame di uscirne cambiato dentro. Perciò se dovessi ricominciare adesso mi sforzerei di essere un attore, il più vicino alla «santa prostituzione d’anima» dell’artista, una forma di sacerdozio superiore a ogni altra. Con un teatro ad altezza giusta puoi convertire alla verità. Ricordo con emozione un attore solitario, in Rue de la Gaîté, che in un apparente trionfo, lungo tutta la via, di fellazioni, cunnilatrie, pedofilie, sodomie, recitava intrepidamente l’Evangelo di Marco, a platea gremita. Far vivere gli Enti Lirici non è niente di famoso quanto a protezione e diffusione di cultura. Dall’Opera non esci mutato, ammiri le bacchette, le voci, i cori (di rado le regie), su quattro o cinque ore ne dormi senza valium due e mezza. Questo perché c’è l’obbligo di non uscire e rientrare per le arie più celebri, com’era nella tradizione. La cultura qui non c’entra: il 7 dicembre alla Scala è un evento mondano, non migliora nessuno. Invece l’ultima battuta di Sonja in Zio Vanja, se l’interprete è grande, ma grande davvero, ci trasfigura la pena di essere. L’addio di Maša a Veršinin in Tre sorelle è uno squarcio di verità sull’amore passionale.
Interculturale mi è incomprensibile. Il prefisso inter oscura il senso delle cose. Il più e il meglio di quel che è pubblico si concentra oggi nel museo, nelle fiere del libro, nella musica consolatrice, nel libro di sempre, nei teatri di attori e di figura, arti del mimo, del clown, del riacchiappapalle a volo. Vedi nella Quinta Elegia di Rilke i versi che esaltano i girovaghi (die Fahrenden), ispirati da un meraviglioso quadro di Picasso rosa. Tutta questa gente va protetta, da uno Stato, da collettività degne del nome, perché lasciata a morire di fame, costretta ad abbandonare l’attività, a limitarla, c’è un altro crimine che si affaccia, sociale: la distruzione della Festa, della sacralità della festa in sé, disinteressata, antimorte, fuori calendario ufficiale, salvagente contro l’ignoranza e la lingua violata.
Intervistandomi per «la Repubblica», Anna Bandettini (eravamo a Milano, al Teatro Strehler) annunciava uno spettacolo al Piccolo del mio umbratile Teatro dei Sensibili, dedicato ai cento anni della guerra 1914-1918, anniversario che ha cominciato a pungiglionare i depositi insepolti della ricordabilità.
Mi credo adatto a far questo perché l’argomento mi è familiare, e quegli anni sono stati il cuore del male del secolo che ne è seguito, e di quel che noi viventi siamo. Simpatico annuncio, e amara frustrazione mia nell’apprendere mancato il finanziamento necessario dell’Unione teatri d’Europa (UTE) e dunque compromessa fortemente la possibilità di realizzare fino in fondo il fachirico progetto, molto caro agli amici del Piccolo e al suo direttore Escobar. L’occasione, per chi abbia la mano sui bottoni, di mostrarsi intelligente, mi pare imperdibile. Ma novanta su cento avrà la coscienza tranquilla, perdendola. Tuttavia, senza mendicare con il piattino, l’aiuto di ipotetici privati mecenofili non lo respingerei. La modicità della spesa, secondo i miei algoritmi mentali, sarebbe considerevole. Ma nessuno di noi teatranti e girovaghi vive di solo Prana.
Cultura, disperato amore mio.1
1 Lo spettacolo, con meraviglioso esito, è andato in scena per il Piccolo al Teatro Grassi di Milano nel giorni 3-4-5 ottobre 2014. Nessun teatro straniero europeo lo ha richiesto.
Tratto da: Guido Ceronetti, Tragico Tascabile