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LESSICO NATURALE

Da un oceano all’altro

23 Settembre 2023

Dall’isola di Mount Desert a Montreal, in auto, attraverso la foresta del Maine e la pianura canadese; poi da Montreal a Vancouver, con un treno che attraversa in quattro giorni il continente, si passa dall’Atlantico al Pacifico. Corre voce che questo servizio passeggeri verrà presto soppresso per lasciar circolare su binari unicamente le merci. L’“operazione viaggiatori”, a quanto pare, non è più “redditizia”, per usare questo termine che esce dal gergo del nostro tempo. Sarà un peccato. Con la Transiberiana, questo treno è il solo che colleghi due mondi. La linea divide dapprima la zona boschiva in due parti: i villaggi e i grossi borghi isolati, i paesini in cui abbondano quelle specie di vagoni senza ruote che sono le abitazioni semimobili, trasportabili altrove quando si presenta un impiego più rimunerativo, si susseguono, sparsi qua e là, separati gli uni dagli altri da ore di strada ferrata, ma ravvicinati oggi dall’aereo. Le case di legno, più o meno grezze, non sono affatto meglio delle abitazioni mobili; un’assenza di proporzioni dovuta al fatto che è facile aggiungervi una camera, affiancarvi un garage o farvi crescere un piano a mansarda, finisce per conferire loro l’aspetto di una serie di scatole dipinte di bianco-grigio. (Gli Stati Uniti rurali soffrono dello stesso male.) Villaggi insignificanti, dominati soltanto da una chiesa pesante e imperiosa. Si sente che questa terra aspra, colonizzata troppo tardi perché le sue foreste fossero, come in Europa, il rifugio degli eremiti e il regno delle fate, non è mai stata amata teneramente né appassionatamente.

“Ci sono posti della terra così belli che si vorrebbe stringerli al petto.” Nessuno sembra aver avuto voglia di stringere al petto la terra canadese. I cacciatori l’hanno percorsa per procurarsi le pellicce destinate a foderare il manto del cancelliere d’Inghilterra o a ornare la scollatura delle dame di Versailles; immigranti, che custodivano nel cuore la loro Bretagna o la loro Normandia natale, hanno dissodato e coltivato con fatica questa terra difficile. Da nessuna parte si ha la sensazione di un paesaggio umano che affondi amichevolmente nel terreno le proprie radici, congiunto a esso come lo sono i più piccoli villaggi italiani alle loro vigne, o le fattorie scandinave ai loro campi fiancheggiati da abetaie. Nessuno ha ornato l’esterno delle case per il piacere degli occhi, né riempito di fiori i giardini, né tracciato dei sentierini sul limitare dei boschi solo per il gusto di farlo. La vita dura in un clima duro ha consigliato all’uomo soltanto l’aggressione e lo sfruttamento. I prototipi virili sono rimasti il cacciatore di pelli, quello di grossa selvaggina, il massacratore di foche e il taglialegna. So bene che questi scarsi modelli umani non rappresentano tutto il Canada. Comunque, pochi di questi villaggi visti dal finestrino di un vagone ispirano la voglia improvvisa di scendere, come lo si farebbe in un borgo della Provenza o dell’Inghilterra, con l’intenzione di trascorrervi la vita. Luoghi, al tempo stesso, aperti e chiusi.

Ma le confidenze talvolta aprono spiragli in queste case troppo chiuse. Il treno si ferma a lungo in una stazione deserta dell’Abitibi o dell’Ontario del Nord, dove, in mancanza di meglio, faccio amicizia con un cane bianco. Penso ai ricordi di uno dei miei amici canadesi la cui infanzia e la cui giovinezza sono trascorse in qualche località simile a questa. Il padre, ricco imprenditore, cui non passò mai per il capo di uscire dal proprio borgo natio (quando suo figlio, al rientro dall’Italia, mostrò una sera delle diapositive di Firenze o di Roma, lo si sentì dire, affermazione che non è senza scabra grandezza: “Non sono altro che terra e pietre”); la solida casa di famiglia situata di fronte alla chiesa, e il libero pensatore, comodamente seduto con i piccoli sulla veranda, che guardava la mamma entrare tutta agghindata nel luogo santo dove lui non aveva mai messo piede e che ripeteva di tanto in tanto con compiacimento ai bambini: “Vostra madre è una bella donna”; sempre lo stesso che, avendo perduto le chiavi della sua auto, la demoliva a colpi di accetta (non si è stati boscaioli per niente), impaziente di riprendere gli oggetti che vi si trovavano; la sorella, per trent’anni suora in Congo, che era ritornata moribonda e un po’ amareggiata, lamentandosi sommessamente delle implacabili abitudini del suo ordine, ma che il fratello non aveva voluto rivedere, “perché lei non è più dei nostri”; le libertà prese dagli uomini nelle capanne della foresta, lontano dalla famiglia e dalle donne; gli sposati che dividevano tra la casa e la chiesa una vita che, forse a torto, ci sembra grigia; la brama di vivere dei figli che sognavano la grande città. L’universo umano come dappertutto. Una certa nobiltà primitiva; ancora maggior durezza e anche maggior generosità, talvolta, che nei contadini francesi; una bruma di oscurantismo (sia esso religioso o ateo) e un materialismo quasi irrespirabile.

Durante una traversata simile, circa sette anni fa, avevo osservato quasi giorno e notte dal finestrino del mio scompartimento gli animali selvatici; mi ricordo, tra gli altri, un alce che attraversava un fiume e si scrollava sull’altra riva. Questa volta, non ho visto che pochi cervi al pascolo sul limitare dei boschi, forse perché in questi primi giorni di settembre, meno caldi di quelli di giugno, le possenti bestie della foresta non si tuffano più nei laghi e nei fiumi per proteggersi dai tafani. Non ho sentito menzionare nemmeno gli incidenti dell’autunno, quando, si dice, degli alci ingannati dal muggito del treno si gettano tra i binari, credendosi sulle tracce di femmine in calore, ma probabilmente è ancora troppo presto per questi drammi nuziali. In capo a due giorni, la regione boschiva lascia il posto alla pianura già mietuta dai trattori; e, di nuovo, quei campi smisurati, il cui prodotto è quotato in Borsa, si umanizzano ai miei occhi quando l’amico che mi accompagna mi racconta che una volta, all’età di quindici anni, è salito dagli Stati Uniti fin qui per il raccolto. Ancora più in là, sorge una città selvaggiamente americanizzata, che sembra nata dall’unione di un silos e di una pompa di benzina, benedetta da un computer. I segni dell’intervento umano diminuiscono man mano che le dirupate Montagne Rocciose vengono verso di noi. Ma questa volta non vedrò i grandi parchi: niente orsi bruni, avidi degli avanzi del picnic dei turisti, e nemmeno, lungo i binari, per ragioni stagionali o altre, i cani della prateria: quegli scoiattoli terricoli dell’Ovest, schierati a distanza appena rispettosa dalla strada ferrata, che se ne stanno ritti sui posteriori come se fossero dei cani da salotto, dondolando le loro zampette anteriori. Il ricordo dello stesso tragitto compiuto sette anni prima con un’amica malata riappare a tratti in filigrana dietro a questo. Ma è caratteristico della filigrana l’essere visibile solo quando si mette il foglio in controluce. Il resto del tempo, non ci si accorge che c’è.

tratto da Marguerite Yourcenar, Il giro della prigione, trad. it. Fabrizio Ascari, Milano 1999.

 

 

Titolo originale Le tour de la prison, Parigi 1991.

Archiviato in:Paesaggi letterari Contrassegnato con: Éditions Gallimard, Il giro della prigione, LE TOUR DE LA PRISON, Marguerite Yourcenar

Se niente importa

7 Settembre 2023

Forse il primo desiderio di mio figlio, inarticolato e ancora inconsapevole, fu quello di mangiare. Pochi secondi dopo essere nato, stava poppando al seno. Lo guardai con una soggezione che non aveva precedenti nella mia vita. Senza spiegazioni o esperienza, sapeva che cosa fare. Milioni di anni di evoluzione gli avevano infuso quel sapere, così come avevano inscritto il battito nel suo cuoricino minuscolo e l’espansione e la contrazione nei suoi polmoni appena liberati.

Quella soggezione mi era sconosciuta, ma mi legava agli altri attraverso le generazioni. Vidi gli anelli del mio albero: i miei genitori che mi guardavano mangiare, mia nonna che guardava mia madre mangiare, i miei bisnonni che guardavano mia nonna mangiare… Mio figlio mangiava come i figli degli uomini delle caverne.

Quando mio figlio cominciò a vivere e io cominciai questo libro sembrava che per lui tutto ruotasse intorno al cibo. O stava poppando, o dormiva dopo la poppata, o faceva le bizze prima di poppare, o si sbarazzava del latte che aveva poppato. Mentre sto terminando questo libro, mio figlio riesce a gestire conversazioni abbastanza articolate e sempre più spesso digerisce il cibo che mangia con le storie che noi gli raccontiamo. Nutrire mio figlio non è come nutrire me stesso: è più importante. È importante perché il cibo è importante (la sua salute fisica è importante, il piacere di mangiare è importante), e perché le storie che accompagnano il cibo sono importanti. Sono storie che cementano la nostra famiglia e che la legano ad altre. Le storie sul cibo sono storie su di noi: la nostra epopea, i nostri valori. Assorbendo la tradizione ebraica dalla mia famiglia, a poco a poco ho imparato che il cibo serve a due scopi paralleli: nutre e aiuta a ricordare. Mangiare e raccontare sono atti inseparabili: le lacrime sono acqua salata; il miele non solo è dolce, ma ci fa pensare alla dolcezza; il pane azzimo è il pane della nostra afflizione.

Sul pianeta ci sono migliaia di cibi commestibili e per spiegare perché ne mangiamo una frazione relativamente piccola è necessario spendere qualche parola. Dobbiamo spiegare che il prezzemolo sul piatto è solo decorativo, che la pasta non si mangia a colazione, perché mangiamo le ali ma non gli occhi, le mucche ma non i cani. Le storie fondano la narrazione; le storie fondano le regole.

In molte fasi della mia vita ho dimenticato che avevo storie da raccontare sul cibo. Mi limitavo a mangiare quel che era disponibile o appetitoso, quel che sembrava naturale, sensato e sano: che cosa c’era da spiegare? Ma il tipo di genitore che ho sempre pensato di voler essere non può sopportare un simile disinteresse.

Questa storia non è cominciata sotto forma di libro. Volevo solo sapere – per me stesso e per la mia famiglia – che cos’è la carne. Volevo saperlo nel modo più concreto possibile. Da dove viene? Com’è prodotta? Come sono trattati gli animali e in che misura è importante? Quali effetti ha mangiare gli animali sul piano economico, sociale e ambientale? La mia indagine personale non è rimasta a lungo tale. I miei scrupoli di genitore mi hanno messo di fronte a fatti che come cittadino non potevo ignorare e che come scrittore non potevo tenere per me. Ma trovarsi di fronte a certi fatti e scriverne in modo responsabile non è la stessa cosa.

Volevo affrontare la questione in modo esauriente. Per cui, nonostante più del novantanove per cento della carne che si consuma in America provenga da allevamenti intensivi – e passerò gran parte del libro a spiegare che cosa significa e perché è così importante -, il restante uno per cento della produzione di carne è una parte non meno importante di questa storia.2 La sproporzione con cui questo libro si occupa dei migliori allevamenti a gestione familiare riflette la rilevanza che vi attribuisco ma, al tempo stesso, quanto siano irrilevanti: sono l’eccezione che conferma la regola.

A essere del tutto onesti (e con il rischio di perdere la mia credibilità già a pagina 21), prima di cominciare la mia ricerca credevo di sapere cos’avrei trovato: non nel dettaglio, ma in generale sì. E non ero il solo. Quasi sempre, quando spiegavo che stavo scrivendo un libro sul «perché mangiamo gli animali», i miei interlocutori davano per scontato, pur senza sapere nulla del mio punto di vista, che fosse a favore del vegetarianismo. È un presupposto rivelatore, e implica non solo che un’indagine approfondita sull’allevamento animale spinga ad abbandonare il consumo di carne, ma che la maggior parte delle persone sappia che le cose stanno così. (Da quale presupposto siete partiti vedendo il titolo di questo libro?)

Anch’io credevo che il mio libro sarebbe diventato un manifesto del vegetarianismo. Non è stato così. Un libro che promuova il vegetarianismo varrebbe la pena di essere scritto, ma non è questo il caso.

L’allevamento animale è un argomento estremamente complicato. Non esistono due animali, due razze di animali, due allevamenti, due allevatori o due consumatori uguali. Al di là della montagna di ricerche – letture, interviste, visite dirette – che sono state necessarie per cominciare anche solo a pensare a questo argomento in modo serio, mi sono dovuto chiedere se fosse possibile dire qualcosa di coerente e di significativo su una pratica tanto eterogenea. Forse non esiste la «carne». Esiste invece questo animale, cresciuto in questa fattoria, macellato in questo mattatoio, venduto in questi tagli e mangiato da questa persona, ciascuno così distinto dagli altri da rendere impossibile ricomporre i vari tasselli a formare un mosaico.

Mangiare gli animali è, come l’aborto, una di quelle tematiche in cui è impossibile conoscere con assoluta certezza alcuni dei dettagli più importanti (quando un feto è una persona, e non più una persona potenziale? Cosa prova davvero l’animale?) e che va a toccare i disagi più profondi di ognuno di noi, provocando spesso reazioni aggressive o di difesa. È un argomento spinoso, frustrante e di grande risonanza. Ogni domanda ne suscita un’altra ed è facile scoprirsi a difendere una posizione molto più estremista di quanto si creda o si ritenga rispettabile. O peggio ancora, non troviamo una posizione rispettabile o che valga la pena di difendere.

Poi c’è la difficoltà di distinguere tra le sensazioni che una cosa dà e ciò che una cosa è. Troppo spesso le riflessioni sul perché mangiamo gli animali non sono affatto riflessioni, ma affermazioni di gusto. E dove ci sono dei fatti – ecco quanta carne di maiale mangiamo; ecco quante foreste di mangrovie sono state distrutte dall’acquacoltura; ecco come si uccide un manzo – occorre chiedersi che cosa dobbiamo farne in concreto. Dovrebbero essere cogenti dal punto di vista etico? pubblico? legale? O sono solo informazioni che ognuno di noi digerisce e assimila come meglio crede?

Nonostante questo libro sia il frutto di un’immensa quantità di ricerche e abbia l’obiettività che può avere un lavoro giornalistico – ho usato le statistiche più prudenti (servendomi quasi sempre di fonti governative o di riviste scientifiche e industriali) e ho assunto due collaboratori esterni perché le verificassero -, io lo vedo come una storia. I dati a disposizione sono moltissimi, ma spesso sono scarni e malleabili. I fatti sono importanti, ma di per sé non forniscono significati, specie quando sono così legati alle scelte linguistiche. Che cosa significa esattamente misurare la reazione al dolore di un pollo? Significa dolore? Che cosa significa dolore? Per quanto possiamo imparare sulla fisiologia del dolore – durata, sintomi e così via – nulla ci dice qualcosa di definitivo. Ma inserendo i fatti in una storia, una storia di compassione o prevaricazione, o forse entrambe le cose, inserendoli in una storia sul mondo in cui viviamo e su chi siamo e chi vogliamo essere, allora potremo cominciare a parlare con cognizione di causa del perché mangiamo gli animali.

Noi siamo fatti di storie. Penso a quei sabati pomeriggio al tavolo della cucina di mia nonna, noi due soli: il pane nero nel tostapane acceso, il frigorifero che brontola invisibile dietro la cortina delle foto di famiglia. Tra pane di segale e Coca-Cola, mia nonna mi raccontava della sua fuga dall’Europa, del cibo che era stata costretta a mangiare e di quello che non era stata disposta a mangiare. Era la storia della sua vita – «Ascoltami» implorava – e io sapevo che mi stava trasmettendo una lezione vitale, anche se, da bambino, non sapevo quale fosse.

Adesso so qual era. E seppure i dettagli non potrebbero essere più diversi, sto cercando, e cercherò, di trasmettere la lezione di mia nonna a mio figlio. Questo libro è il mio tentativo più serio. Provo grande trepidazione in questo inizio, perché le ripercussioni sono moltissime. Mettendo da parte, per un momento, i più di dieci miliardi di animali macellati a fini alimentari ogni anno in America, mettendo da parte l’ambiente, i lavoratori e altri temi direttamente correlati come la fame nel mondo, le epidemie influenzali, la biodiversità, c’è anche la questione di come noi pensiamo noi stessi e ci pensiamo gli uni con gli altri. Dopotutto, noi non siamo soltanto i narratori delle nostre storie, ma siamo quelle storie. Se io e mia moglie cresciamo nostro figlio con una dieta vegetariana, non mangerà l’unico piatto della sua bisnonna, non riceverà questa peculiare e più diretta espressione del suo amore, e forse non penserà mai a lei come alla Cuoca Migliore Che Ci Sia. La sua storia fondante, la storia fondante della nostra famiglia, dovrà essere modificata.

Le prime parole di mia nonna quando vide mio figlio per la prima volta furono: «La mia rivalsa». Dell’infinito numero di cose che avrebbe potuto dire, ecco quella che scelse, o che fu scelta per lei.

Ascolta:

«Non eravamo ricchi, ma non ci mancava niente. Il giovedì si cuoceva il pane e la challà e i panini, e bastavano per tutta la settimana. Il venerdì si facevano le frittelle. Lo shabbat mangiavamo sempre pollo e pasta in brodo. Andavamo dal macellaio a chiedere un po’ di grasso in più. I pezzi più grassi erano i pezzi migliori. Non era come adesso. Non avevamo il frigorifero, ma avevamo latte e formaggio. Non avevamo tutte le verdure, ma ne avevamo abbastanza. Le cose che hai qui e che dai per scontate… Ma eravamo felici. Non conoscevamo di meglio. E anche noi davamo per scontato quello che avevamo.

«Poi cambiò tutto. Durante la guerra ci fu l’inferno in terra e io non avevo niente. Avevo lasciato la mia famiglia, sai. Scappavo sempre, giorno e notte, perché i tedeschi mi stavano alle calcagna. Se ti fermavi eri morto. Il cibo non bastava mai. Mi ammalavo sempre di più a forza di non mangiare. Non solo ero pelle e ossa. Avevo piaghe in tutto il corpo. Facevo fatica a muovermi. Non era un granché mangiare dai bidoni della spazzatura. Mangiavo quello che gli altri non erano disposti a mangiare. Se ti adattavi, potevi sopravvivere. Io prendevo tutto quello che riuscivo a trovare. Mangiavo cose che non ti direi mai.

«Anche nei periodi peggiori c’erano persone buone. Uno mi insegnò come legare il fondo dei pantaloni per imbottirmi le gambe con le patate che riuscivo a rubare. Camminavo per chilometri e chilometri in quel modo, perché non sapevi mai quando avresti avuto di nuovo fortuna. Uno mi diede un po’ di riso, una volta, e io camminai due giorni per andare a un mercato e lo barattai con del sapone, e poi andai a un altro mercato e barattai il sapone con dei fagioli. Dovevi avere fortuna e intuizione.

«Il peggio arrivò verso la fine. Moltissime persone morirono proprio alla fine, e io non sapevo se avrei resistito un altro giorno. Un contadino, un russo, Dio lo benedica, vide in che stato ero, entrò in casa e ne uscì con un pezzo di carne per me.»

«Ti salvò la vita.»

«Non lo mangiai.»

«Non lo mangiasti?»

«Era maiale. Non ero disposta a mangiare maiale.»

«Perché?»

«Che vuol dire perché?»

«Come? Perché non era kosher?»

«Certo.»

«Ma neppure per salvarti la vita?»

«Se niente importa, non c’è niente da salvare.»

Tratto da: Jonathan Safran Foer, Se niente importa, Perchè mangiamo gli animali?

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Risolvere la sofferenza facendo saltare in aria l’universo? La dubbia filosofia dell’estinzione umana

5 Settembre 2023

In un momento in cui gli umani minacciano l’estinzione di così tante altre specie, potrebbe non sembrare così sorprendente che alcune persone pensino che l’estinzione della nostra stessa specie sarebbe una buona cosa. Prendiamo, ad esempio, il Movimento per l’estinzione umana volontaria , il cui fondatore crede che la nostra estinzione metterebbe fine ai danni che ci infliggiamo a vicenda e agli ecosistemi più in generale.

Oppure c’è il filosofo sudafricano David Benatar , che sostiene che portare le persone all’esistenza fa sempre loro del male. Raccomanda di smettere di procreare e di abbandonare gradualmente la Terra. Ma gli umani non sono gli unici esseri a provare dolore . Gli animali non umani continuerebbero a soffrire senza di noi. Quindi, spinti dal desiderio di eliminare completamente la sofferenza, alcune persone hanno scandalosamente sostenuto di portare con noi il resto della natura. Raccomandano di abolire attivamente il mondo, piuttosto che abbandonarlo semplicemente.

Questa posizione inquietante ed estremista risale sorprendentemente molto indietro nella storia.

Circa 1600 anni fa, sant’Agostino suggerì che gli esseri umani smettessero di procreare. Ha approvato questo, tuttavia, perché voleva affrettare il giudizio finale e l’eternità di gioia da allora in poi.

Se non credi nell’aldilà, questa diventa un’opzione meno attraente. Dovresti essere motivato esclusivamente rimuovendo la sofferenza dalla natura, senza alcuna promessa di ottenere ricompense soprannaturali. Probabilmente la prima persona a sostenere l’estinzione umana in questo modo è stata Arthur Schopenhauer . Lo fece 200 anni fa, nel 1819, esortando a “risparmiare” alle “generazioni future” il ” fardello dell’esistenza “. Schopenhauer vedeva l’esistenza come dolore, quindi credeva che dovremmo smettere di portare all’esistenza gli esseri umani. Ed era chiaro sul risultato se tutti avessero obbedito : “La razza umana sarebbe morta”.

Ma per quanto riguarda il dolore degli animali non umani? Schopenhauer aveva una risposta, ma non era convincente. Era un idealista filosofico , credendo che l’esistenza della natura esterna dipenda dalla nostra autocoscienza di essa. Quindi, con l’abolizione del cervello umano, anche le sofferenze degli animali meno consapevoli di sé sarebbero ” svanite ” poiché cessavano di esistere senza che noi li percepissimo.

Anche alle stesse condizioni di Schopenhauer, c’è un problema. E se esistessero altri esseri intelligenti e autocoscienti? Forse su altri pianeti? Sicuramente, quindi, il nostro sacrificio non significherebbe nulla; l’esistenza e la percezione dolorosa di esso continuerebbero. Toccò al discepolo di Schopenhauer, Eduard von Hartmann, proporre una soluzione più completa.

Hartmann , nato a Berlino nel 1842, scrisse un sistema di filosofia pessimista lungo quasi quanto la sua imponente barba. Famigerato ai suoi tempi, ma completamente dimenticato nel nostro, Hartmann propose una visione incredibilmente radicale.

Scrivendo nel 1869 , Hartmann rimproverò Schopenhauer di pensare al problema della sofferenza solo in un senso locale e temporaneo. La visione del suo predecessore dell’estinzione umana “per continenza sessuale” non sarebbe sufficiente. Hartmann era convinto che, dopo pochi eoni, un’altra specie autocosciente si sarebbe ri-evoluta sulla Terra. Questo semplicemente “perpetuerebbe la miseria dell’esistenza”.

Hartmann credeva anche che la vita esistesse su altri pianeti. Data la sua convinzione che la maggior parte fosse probabilmente non intelligente , la sofferenza di tali esseri sarebbe stata impotente. Non sarebbero in grado di farci niente.

Quindi, piuttosto che distruggere solo la nostra specie, Hartmann pensava che, in quanto esseri intelligenti, siamo obbligati a trovare un modo per eliminare la sofferenza, in modo permanente e universale. Credeva che spetta all’umanità “annientare” l’universo: è nostro dovere, scriveva , “far scomparire l’intero kosmos”.

Hartmann sperava che se l’umanità non si fosse dimostrata all’altezza di questo compito, alcuni pianeti avrebbero potuto evolvere esseri che lo sarebbero stati , molto tempo dopo che il nostro sole si fosse congelato. Ma non pensava che questo significasse che potessimo essere compiacenti. Ha notato il rigore delle condizioni necessarie affinché un pianeta sia abitabile (per non parlare dell’evoluzione di creature con cervelli complessi) e ha concluso che il compito potrebbe ricadere esclusivamente sugli umani, qui e ora.

Hartmann era convinto che questo fosse lo scopo della creazione : che il nostro universo esiste per far evolvere esseri compassionevoli e abbastanza intelligenti da decidere di abolire l’esistenza stessa. Ha immaginato questo momento finale come un’onda d’urto di eutanasia mortale che si increspa verso l’esterno dalla Terra, cancellando l ‘”esistenza di questo cosmo” fino a quando “tutte le sue lenti del mondo e le nebulose non saranno state abolite”.

Non era chiaro come esattamente questo obiettivo sarebbe stato raggiunto. Parlando vagamente della crescente unificazione globale e della disillusione spirituale dell’umanità , ha accennato a future scoperte scientifiche e tecnologiche. Per fortuna era un metafisico, non un fisico.

La filosofia di Hartmann è affascinante. È anche inimmaginabilmente sbagliato. Questo perché confonde l’eradicazione della sofferenza con l’eradicazione dei malati. Confondere questa distinzione porta a visioni folli di omnicidio. Per sbarazzarsi della sofferenza non è necessario sbarazzarsi di chi soffre: potresti invece provare a rimuovere le cause del dolore. Dovremmo eliminare la sofferenza, non il malato.

In effetti, finché ci sono esseri intelligenti in giro, c’è almeno l’opportunità di una rimozione radicale della sofferenza. Filosofi come David Pearce sostengono addirittura che, in futuro, tecnologie come l’ingegneria genetica saranno in grado di eliminarla completamente, abolendo il dolore dalla Terra. Con i giusti interventi, sostiene Pearce, gli esseri umani e i non umani potrebbero essere plausibilmente guidati da ” gradienti di beatitudine “, non da privazioni e dolore.

Questo non dovrebbe necessariamente essere un Brave New World , popolato da esseri estasiati e stupefatti: plausibilmente, le persone potrebbero ancora essere altamente motivate, semplicemente perseguendo una gamma di gioie sublimi, piuttosto che evitare sentimenti negativi. Pearce sostiene anche che, in un lontano futuro, i nostri discendenti potrebbero essere in grado di effettuare lo stesso cambiamento su altre biosfere, in tutto l’universo osservabile.

Quindi, anche se pensi che rimuovere la sofferenza sia la nostra priorità assoluta , c’è un valore astronomico in noi che ci resta . Forse lo dobbiamo ai malati in generale.

Tratto da: Thomas Moynihan, Researcher, Future of Humanity Institute, University of Oxford

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Il cinismo dei falchi NATO USA

28 Agosto 2023

In apparenza sembra davvero un’estate di sconfitte, quella subita dai falchi occidentali che pretendono di stabilizzare il pianeta scatenando guerre distruttive a ripetizione o inasprendo guerre iniziate da altri.
Lo constata Seymour Hersh, che in un articolo del 17 agosto parla di Africa oltre che di Ucraina, e conferma quanto vanno dicendo da giorni i servizi Usa: la controffensiva ucraina sta fallendo, e c’è chi nella Nato comincia a prospettare cessioni di territori a Mosca, per metter fine a una guerra che Kiev combatte e prolunga per procura.
Biden ancora non si espone, ma si espongono gli uomini della sua intelligence, che smettono di incensare Zelensky: il Washington Post riporta la loro opinione, secondo cui Kiev, non potendo riprendersi la porta d’accesso alla Crimea che è Melitopol, sta mancando la riconquista che si era promessa.
Negli stessi giorni, ricorda Hersh, la Francia di Macron è espulsa quasi completamente dalla sua sfera d’interesse nelle nazioni del Sahel. Dopo aver perso il Mali a seguito del golpe del 2022, dopo aver perso alleati stabili in Ciad, ora perde il Niger, ricco di uranio e crocevia delle migrazioni dal Sahel. Il golpe militare del 26 luglio ha spodestato il presidente Mohamed Bazoum, amico obbediente di Parigi e Washington. Le popolazioni hanno festeggiato la liberazione dal neocolonialismo francese in Africa centro-occidentale.
A ciò si aggiunga che il cosiddetto Sud Globale si riconosce sempre più nel gruppo non allineato dei Brics (Russia, Cina, Brasile, India, Sudafrica: il 40% della popolazione mondiale) riunito da martedì a Johannesburg. Sono circa 23 gli Stati che chiedono di entrare nel gruppo, ritenendolo l’unica alternativa al disordine prodotto dalla bellicosità Usa contro Russia e Cina, e dal dominio globale del dollaro. Aggressività e dominio che sottendono quella che Washington considera la missione sua e della Nato: il rules-based international order. La regola base può essere riassunta così: se gli Stati Uniti vogliono dominare il mondo, come nel 1945 quando abbatterono Hitler e sganciarono l’atomica su Hiroshima e Nagasaki, devono ripetere senza sosta, spalleggiati da Europa e alcuni Paesi asiatici, le guerre “di civiltà” contro il Male Assoluto che da allora incessantemente si reincarna. Male che assume di volta in volta il volto di Milosevic, di Saddam Hussein, dei Talebani, di Gheddafi, e oggi di Putin e Xi Jinping.
Sembrerebbe dunque l’estate dello scontento, per i neoconservatori occidentali, se non fosse che questi ultimi già stanno cercando il modo di uscire immacolati dalla prova ucraina, pronti per nuovi disordini e guerre. Come potranno riuscirvi? Come già hanno fatto in Vietnam o Afghanistan: scaricando le colpe sul Paese belligerante a cui è stata affidata la delega di combattere a oltranza, non solo per proteggere le sue terre dall’invasore ma per difendere addirittura la civiltà occidentale fino a piegare la potenza russa. Zelensky si è infilato volontariamente nella micidiale trappola e per questo punta ancora sulla guerra lunga: se non fosse così, Danimarca e Olanda non gli darebbero i caccia F-16 utilizzabili solo nel 2024.
Vale la pena leggere attentamente il Washington Post del 17 agosto sulla controffensiva ucraina. Scrivono gli articolisti che se Kiev non vince, è perché non ha seguito le direttive Usa, che prescrivevano un assalto ben più massiccio lungo la linea del fronte minata dai russi a difesa delle zone conquistate a sud-est: “Le simulazioni congiunte di guerra (joint war games) condotte da militari statunitensi, britannici e ucraini avevano anticipato perdite massicce di uomini, e calcolato che Kiev le avrebbe accettate se questo era il prezzo per rompere la linea di difesa russa. Ma l’Ucraina ha voluto limitare i morti nel campo di battaglia, preferendo puntare su unità di combattimento più piccole”. In altre parole: se Kiev perde è perché al momento decisivo non ha avuto l’ardire di far morire in massa i propri soldati.
L’accusa è ripresa il 18 agosto dal New York Times, che enumera i morti (500.000 uccisi o feriti tra ucraini e russi, secondo l’intelligence) e indica i “difetti” della controffensiva. I funzionari Usa interrogati avrebbero oggi un grande timore: che “l’Ucraina sia diventata casualty adverse”, ostile alle perdite di vite umane, e che “per questo stia mostrando prudenza nella controffensiva”. Il giornale non sembra colpito dall’indecenza delle condizioni dettate a Kiev in una guerra dove vinci se non sei casualty adverse.
È così che l’Amministrazione Biden e la Nato escono dalle guerre per procura: addossando i fallimenti all’agente belligerante. Senza batter ciglio si apprestano a dar ragione con ritardo a Mark Milley, capo dello Stato Maggiore congiunto, e a quel che disse nello scorso novembre quando suggerì l’avvio di negoziati, visto che “la vittoria ucraina non era ottenibile”. Il ritardo ha comportato e comporta migliaia di morti, ma gli occidentali che aizzano senza combattere ne vorrebbero di più.
Da icona del Bene che è stato per un anno e mezzo, Zelensky potrebbe divenire, d’un tratto, l’uomo che pagherà gli errori e misfatti di chi, nella Nato, ha voluto che questa guerra durasse e s’impelagasse. Di chi ha avversato ogni accordo di tregua o di pace, a cominciare da quello negoziato tra Kiev e Mosca poche settimane dopo l’invasione, e pronto per la firma nell’aprile 2022. L’accordo fu affossato per volontà britannica e statunitense, e prevedeva vantaggi per Kiev non più ottenibili. Da allora Zelensky è incastrato nella strategia Usa e Nato, con un Paese ridotto a moncone senza più industrie vitali. Oggi rischia d’esser scaricato come lo fu Thieu a Saigon, quando Washington si stancò di seminare morte in Vietnam.
Nel frattempo, in solo un anno e mezzo i morti ucraini hanno superato i morti statunitensi in due decenni di guerra in Vietnam (58.000 circa). Il loro numero è simile a quello dei soldati di Kabul morti nella guerra di Afghanistan fra il 2001 e 2021 (circa 69.000). Colpa di Kiev, se rischia di perdere la guerra perché agisce di testa sua e non manda ancora più i soldati a saltar per aria sulle mine. Stati Uniti ed europei possono da un giorno all’altro scrollarsi di dosso i perdenti e senza tema di contraddirsi vantare vittorie inesistenti.
È quello che fa Josep Borrell, responsabile/irresponsabile della politica estera europea, quando dice che una trattativa potrebbe iniziare a settembre, ma proclama al contempo che “in ogni caso chi ha davvero perso è Putin, che voleva una guerra lampo ed è oggi sulla difensiva”. Infatti cos’è la Russia ai suoi occhi? “Nient’altro che un nano economico, un distributore di benzina il cui proprietario ha la bomba atomica” (intervista a El País, 20 agosto). La guerra di Ucraina non è finita, ma l’ebetudine illimitata del socialista Borrell conferma che l’Europa unita, avendo perso ogni aspirazione all’autonomia e alla sovranità, e dimenticando d’esser nata come artefice di pace, non impara più nulla dai propri fallimenti.

Il cinismo dei falchi NATO USA | di Barbara Spinelli | Il Fatto Quotidiano del 23-8-2023

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Nel capitalismo non c’è salvezza

12 Agosto 2023

Joshua Clover è docente di inglese e letteratura comparata all’Università della California Davis. Nel 2016 ha scritto “Riot. Strike. Riot” che dallo scorso febbraio è disponibile anche nella traduzione italiana con il titolo “Riot. Sciopero. Riot”(edizioni Meltemi). Il libro è un tentativo di elaborare una teoria di queste mobilitazioni. Un’analisi utile anche per decifrare quanto accaduto in questi mesi, dalle imponenti proteste francesi alle più contenute manifestazioni contro l’abolizione del reddito di cittadinanza, e quello che potrebbe accadere in un futuro prossimo. “Una teoria del riot (rivolta, ndr) è una teoria della crisi”, scrive Clover nell’introduzione aggiungendo che questi accadimenti possono essere compresi solo se riusciamo a decifrare il movimento storico che dà loro forma e significato. Per questo l’attenzione si sposta inevitabilmente sulla crisi del capitalismo.

Professor Clover, nel libro lei sottolinea come le rivolte contemporanee siano sempre più dirette contro lo Stato piuttosto che contro il sistema economico. Non è un controsenso visto che gli stati subiscono dinamiche economiche che si determinano a livello sovranazionale? In fondo l’unica vera speranza per lavoratori e disoccupati non sarebbe quella di un maggiore coordinamento e unità di azione tra diversi paesi?

Sono due domande complicate. Consentitemi di rispondere prima alla seconda, ammesso che questa valga come risposta: il libro non si pone lo scopo di dire alle persone quali siano le strategie che offrono loro maggiori possibilità di realizzare i loro obiettivi. Spesso però viene letto in questo modo e così si pensa di fare critiche sensate, affermando che gli scioperi sono qualcosa di positivo ed efficace mentre le rivolte non funzionano. Io non sono un avanguardista, sono solo uno studente. Descrivo le cose per come stanno. Cerco di spiegare l’attualità e di farlo in modo da aiutarci a pensare a come lotte potenzialmente liberatorie potrebbero svolgersi in futuro, comprendendo le loro basi nel passato e le loro caratteristiche nel presente. Le rivolte esistono. Sono sempre più frequenti e pressanti. Questo è fuori discussione. Il libro cerca di capire perché questo accade, non di indicare l’idea giusta; alla fine, le idee vengono dalle lotte e non il contrario.

Ma anche la contraddizione di cui parla è reale. Non sono sicuro che le rivolte che studio siano in sé contradditorie, semplicemente riflettono una contraddizione che è nella realtà. In un certo senso parliamo sempre della contraddizione che lega insieme il politico e l’economico sotto il titolo di economia politica. Questa dinamica assume una forma curiosa nel presente. Da un lato, proprio come afferma, gli Stati sono sempre più trascinati nel vortice del mercato mondiale e del capitalismo globale, con le sue spinte a produrre valore in ogni trimestre e in ogni secondo. D’altra parte, il capitalismo globale richiede sempre più il supporto del potere politico degli stati per stabilizzarsi e rendere possibile il profitto. Ciò include fenomeni che si intersecano tra loro, come regimi giuridici che legittimano il potere di classe; il controllo sul territorio, in particolare per l’estrazione di risorse; eun’rafforzamento della polizia per gestire le comunità per le quali non ci sono più “lavori fissi” che possano imporre la disciplina del salario. Sono tutte forme di violenza che, sebbene dettate da forze “economiche”, sono percepite come violenza di Stato. È inevitabile che le lotte insurrezionali si orientino contro questa violenza. Ma la magia della contraddizione risiede nella sua unità, nel fatto che quando lo stato e l’economia sono così interamente interdipendenti, quando l’uno richiede all’altro di funzionare, una rivolta contro l’uno è necessariamente una rivolta contro l’altra.

Lei scrive che il capitalismo è giunto ormai ad una fase di crisi conclamata di cui le rivolte sono una delle evidenze. Perché?

Ci sono risposte tecniche che richiederebbero pagine e pagine e che sfocerebbero in dibattiti accademici su come un’economia può o deve essere misurata. Ma c’è anche una risposta semplice: guardati intorno, stai scherzando? Scegliamo un compromesso tra queste due impostazioni: il capitalismo ha bisogno di crescere, altrimenti muore. Non può sopravvivere in uno stato stazionario. E ci sono un gran numero di indicazioni che mostrano come, a livello mondiale (non in ogni singola impresa o nazione), la crescita si sia sostanzialmente arrestata alla fine degli anni ’70. Un utile riassunto per non addetti ai lavori è contenuto nell’eccellente recente articolo di Jamie Merchant, “The Economic Consequences of Neo-Keynesianism”. Per rispondere dal punto di vista dell’Italia: da tempo la zona euro èun gioco a somma zero, con alcune nazioni che hanno la meglio su altre con una crescita complessiva carente, questo non è solo il segale ma la forma della crisi. Esprimo questo concetto spiegando che il capitalismo è la produzione della non produzione.

Genera quantità sempre maggiori di cose che non può impiegare con profitto, il che ha conseguenze pesanti per noi come esseri umani. Significa fabbriche che non possono essere gestite, capitali che non possono essere investiti, lavoratori che non possono essere impiegati e che quindi rimangono senza nulla da fare. Questa è la formula per le rivolte. Il fatto che il capitale non stia crescendo non significa però che non provi a farlo; infatti, deve muoversi sempre più velocemente solo per rimanere in equilibrio, dando vita ad una specie di frenetica stagnazione. Brucerà sempre più petrolio, estrarrà sempre più litio, produrrà sempre più rifiuti, per ritardare il collasso finale. Questo è il meccanismo fondamentale con cui la fine della crescita economica è inseparabile dall’altra grande crisi rappresentata dal disastro climatico.

Il paese europeo dove si sono verificate più proteste negli ultimi anni è la Francia. Qui assistiamo sia a rivolte che a scioperi. Prima la forte protesta contro la riforma delle pensioni, poi quelle di carattere razziale. Alcuni osservatori hanno evidenziato come le proteste siano andate ben al di là di richieste specifiche ma siano, più o meno consapevolmente, segnali più profondi di rifiuto del modello di sviluppo neoliberista, siete d’accordo?

Non penso che le lotte francesi siano un rifiuto del neoliberismo, perché non credo che il neoliberismo esista. Quantomeno non come un sistema coerente. Nella migliore delle ipotesi è un nome vago per una serie di tattiche, molto diverse da luogo a luogo e di volta in volta, adottate per cercare di sollevare la redditività sin dalla fine del boom del dopoguerra. Per usare una metafora, non possiamo definire una squadra da baseball migliaia di burocrati che tirano mazzate a caso nel buio. Se per brevi periodi e in qualche posto sono stati in grado di indirizzare delle ricchezze verso se stessi e i loro amici, non sono stati comunque capaci di stabilizzare le condizioni della povertà globale e neppure di quella occidentale. In definitiva quello che voglio dire è che, sebbene le proteste siano spesso innescate da un episodio specifico, a generarle non è il neoliberismo ma quell’instabilità di fondo del sistema che il neoliberismo, se fosse davvero esistito, si sarebbe posto l’obiettivo di controllare.

Professor Clover, non so quanto conosca la situazione italiana. In breve, il paese è governato da un esecutivo di estrema destra, la crescita economica è debole e la perdita di potere d’acquisto dei salari è la più marcata tra i paesi OCSE. Servizi primari come la sanità sono a rischio. Sono elementi che in altri Paesi hanno dato vita a grandi mobilitazioni.Eppure l’Italia resta molto “tranquilla”, gli scioperi sono settoriali e poco efficaci mentre di rivolte non c’è traccia. Hai idea del perché?

Non sono certo un esperto di questioni italiane ma mi affascina ragionare sul diverso tipo di mobilitazione e militanza di cui parla. Non credo che il conflitto sociale segua sempre immediatamente le trasformazioni sociali, che sono sempre complesse e prolungate. A volte le reazioni sembrano immediate, come le rivolte greche del 2008 che si scatenano nel mezzo della crisi economica globale. Altre volte hanno tempi più lunghi. È vero che l’Italia ha avuto un decennio tranquillo. Ma dobbiamo anche chiederci, perché il paese ha vissuto in passato i suoi anni di piombo? Non era chiaro se in Italia ci fossero condizioni particolarmente favorevoli al manifestarsi di quel fenomeno e a mantenere alta l’intensità di quelle azioni per un decennio. Eppure, seppur in modi complessi, questo è quello che è accaduto. A ben vedere, anche quel periodo fa parte della “Lunga Crisi” che ha seguito il boom economico, così come lo è il periodo relativamente tranquillo che lei menziona.

Potremmo chiederci, è vero che non c’è traccia di militanza? Le rivolte hanno molta visibilità e richiamano attenzione poiché sono “spettacolari”. Ma la categoria fondamentale che analizzo nel libro è quella delle “lotte di circolazione”: lotte combattute per la circolazione da chi si trova escluso da circuiti di produzione tradizionale. La rivolta ne è solo l’esempio più drammatico. La categoria è più ampia è ciò che conta per comprendere il presente. Le proteste legate ai territori (piuttosto che quelle legate a questioni di lavoro) generalmente rientrano in questa categoria; il movimento No TAV è un esempio preminente di lotta alla circolazione. L’Italia in questo senso ha svolto un ruolo significativo nell’articolazione del “repertorio dell’azione collettiva” contemporaneo.

Come mettono in guardia molti osservatori, e come accennava lei prima, le conseguenze della crisi climatica sono destinate ad accrescere notevolmente le tensioni sociali. Ci stiamo avviando verso un futuro in cui rivolte e scioperi saranno sempre più frequenti?

Le rivolte per il clima sono già iniziate. Ma penso che la vera domanda sia se ci stiamo muovendo verso un futuro in cui l’intensificazione del conflitto sociale può trasformarsi in lotta rivoluzionaria. Una vera rivoluzione, voglio dire, quella che non mette al potere un nuovo partito o un capo, ma annulla le costrizioni e i vincoli che attualmente strutturano tutte le nostre relazioni. Qualcosa che rifà le nostre vite, non i nostri leader. Questa è l’unica cosa che merita il nome di rivoluzione. Non credo sia impossibile ma è difficile che questo accada. Purtroppo quello che è certo è che se non accadrà siamo spacciati. Non esiste un percorso per la sopravvivenza all’interno del sistema capitalistico.

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Guerra

2 Luglio 2023

«Se tutti gli uomini non volessero andare in guerra, è molto semplice, direbbero “io non ci vado”, ma hanno il desiderio di morire, c’è un desiderio, c’è una misantropia nell’uomo. Ad esempio, quando vedete accadere degli incidenti, non pensate che siano tutti involontari. C’è qualcosa dentro di loro, qualcosa di perverso, che li spinge ad andare contro un albero. Ovviamente il buon uomo non sale in macchina dicendosi “Vado a schiantarmi contro un albero!”; ma il desiderio c’è, si, e l’ho notato io stesso a più riprese.
In particolare tra i chirurghi, persone distinte, li ho visti guidare le auto in maniera sospetta. Tutti gli uomini della terra non devono che andare presso i governi a dire: “Sapete, non voglio andare in guerra”. Beh, allora non ci sarà la guerra. Se vogliono conservarlo è perché lo amano, questo generale senso di distruzione. Come diceva Montlue, maresciallo di Enrico IV: “Signori e capitani, quelli che conducono gli uomini alla morte. Perché la guerra non è che questo…”».
Céline

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Lev Tolstoj

30 Giugno 2023

“Se i macelli avessero le pareti di vetro saremmo tutti vegetariani”

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A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde

30 Giugno 2023

“Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta, alla sua gestione, all’umanità che ne scaturisce; a costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati; a non divenire uno sgomitatore sociale; a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. E’ un esercizio che mi riesce bene e mi riconcilia con il mio sacro poco”.
Pier Paolo Pasolini

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Catherine Clément

10 Giugno 2023

Cosa so di Claude Lévi-Strauss? Quando l’ho conosciuto, nel 1962, era già, a cinquantatré anni, il più grande antropologo del suo tempo, fondatore dello strutturalismo francese insieme a Georges Dumézil ed Émile Benveniste. Avevo ventidue anni e grazie a uno dei suoi libri, Il pensiero selvaggio, ero risultata prima alla selezione per la scuola di filosofia. Eravamo, come dire, nella piena gioventù. Oggi, ricoperto di onori, membro dell’Académie française, il mio vecchio amico è unanimemente rispettato come un “Tesoro Nazionale Vivente”, secondo la bella definizione giapponese; e anche se l’età ha leggermente curvato la sua statura, l’acutezza del suo spirito non è cambiata. Nel 1970 ho pubblicato il primo libro francese dedicato a Lévi-Strauss; trent’anni più tardi, mi è impossibile scriverne un secondo senza prima fare il punto sui tanti anni affettuosi che abbiamo diviso. È un modo per dire che non sarò imparziale. Filosofo di formazione, Lévi-Strauss è diventato etnologo in Brasile, dove era stato trascinato da una fase di rigetto del mestiere di professore di filosofia – troppo ripetitivo – e una curiosità mista a commozione per il modo in cui vivevano i suoi simili. Come si diventava etnologi nel 1930? A quel tempo i percorsi di studi non erano strutturati come oggi; l’apprendista doveva procurarsi il “terreno” con le sue sole forze. Lévi-Strauss organizzò diverse difficili spedizioni nel Mato Grosso e in Amazzonia, studiò gli indiani caduveo, bororo, nambikwara e tupi kawahib e se ne ritornò in Francia forte di una tesi che la seconda guerra mondiale interruppe bruscamente: la minaccia nazista l’obbligò all’esilio, e la sua tesi vide la luce negli Stati Uniti d’America prima di poter essere sostenuta a Parigi nel 1949. Le strutture elementari della parentela ebbe l’effetto di una rivoluzione: dopo cinquantatré anni se ne discute ancora. Fondato sull’intuizione che esistano strutture inconsce che preordinano fino al minimo dettaglio il funzionamento delle società, il pensiero di Lévi-Strauss si svilupperà in seguito in tutta la sua ampiezza esplorando la magia, la religione, le forme artistiche, le forme di classificazione e infine i miti, che sono il supporto per l’espressione delle emozioni collettive. Pochi pensatori hanno setacciato campi di interpretazioni tanto vasti, spiegando così acutamente il loro lavoro: “Se ci sono delle leggi da qualche parte, devono essercene dovunque”, questa è la frase di Taylor che Lévi-Strauss mette in esergo alle Strutture elementari della parentela. Quest’inventario di “recinti mentali”, come li definì nelle Mitologiche, è di una tale straordinaria ricchezza da far riflettere, ben oltre gli specialisti di scienze umane, chiunque abbia la voglia di osservare il mondo; poiché ogni suo libro è un manuale di pensiero che obbliga l’intelligenza ad aprirsi, e una specie di Vangelo laico che aiuta a commuoversi davanti alla vita.

Claude Lévi-Strauss è anche un affermato conservatore con capacità di preveggenza largamente superiori a quelle dei suoi contemporanei. Se volete comprendere il presente, leggete Tristi tropici, e troverete quello che cercate. Ecco cosa scrive sull’Islam nel 1949:

Che l’Occidente risalga alle fonti del suo laceramento: interponendosi fra il Buddhismo e il Cristianesimo, l’Islam ci ha islamizzati; quando l’Occidente si è lasciato trascinare dalle crociate ad opporglisi e quindi ad assomigliargli, piuttosto che prestarsi – se non fosse mai esistito – a quella lenta osmosi col Buddhismo che ci avrebbe cristianizzati di più e in un senso tanto più cristiano in quanto saremmo risaliti al di là dello stesso Cristianesimo. Fu allora che l’Occidente ha perduto la sua opportunità di restare femmina (Lévi-Strauss, Tristi tropici, 1955, p. 398).

L’Occidente donna, che idea strana! Su quali basi poteva sentirsi di avanzarla? Le intuizioni affiorate in un umile tempio buddista lungo la frontiera birmana, dove l’androginia degli officianti si esprimeva senza mezzi termini, o la visione precaria, ma giusta, del Pakistan appena nato, teocrazia musulmana fondata sulla purezza: questi fatti erano stati il miele dell’etnologo che aveva avvertito, con più di cinquant’anni di anticipo, l’orrore che i fondamentalisti musulmani hanno delle donne, il futuro integralista dell’attuale Pakistan, la persecuzione dei buddisti e la spaccatura forzata tra l’Occidente e l’Islam, problema per noi attuale. Da dove gli arrivava questo talento di profeta? Non so, ma iniziando questo libro mentre i talebani terrorizzavano le donne e le uccidevano in pubblico per le strade di Kabul, questa frase, apparentemente insensata, sull’Occidente che non può restare femmina, trova tutto il suo senso.

Anche il difficile dialogo tra i due sessi non fu mai così appassionante come con questo grand’uomo. E lui non ha mai dimenticato di pensare la dimensione femminile dell’universo, materiale primario dei suoi lavori. Nonostante questo, nessun compromesso: Lévi-Strauss disapprovava l’entrata delle donne nella sua Académie, perché non si cambiano le regole di un’istituzione secolare. Conservatore, ho detto. A dire la verità le mie conoscenze su di lui sono continuamente cambiate. Nel 1970 credevo di averlo fissato una volta per tutte, come quando, con uno spillo, si trapassa l’addome di una farfalla per distenderne le ali nel loro splendore: ai miei occhi, Lévi-Strauss era un filosofo mascherato da etnologo, un costruttore di sistemi incoscienti che detronizzano il soggetto a beneficio di potenti determinismi. Che sciocchezza! Mi strigliò debitamente, prove alla mano, e mi scrisse che avevo confuso gli stadi necessari a costruire la casa con la casa stessa. Da allora sono diventata più prudente e so che in caso di stallo del pensiero, quando mi si presenta una questione insolubile, rileggendo Lévi-Strauss trovo le risposte.

Non è un filosofo: la filosofia può servirgli da impalcatura, ma il suo pensiero nasce dal confronto con il reale. Il mestiere di etnologo passa, con il lavoro sul campo, attraverso una realtà paragonabile a quella della guerra: condizioni di vita difficili e sconosciute, pericoli per la salute, alimentazione precaria, promiscuità forzata in- consueta per gli occidentali e, davanti a sé, dei simili il cui pensiero poggia su altri valori, contrastanti ma altrettanto forti dei suoi. Esperienze che spiazzano al punto di cambiare profondamente la persona che si è.

Il divenire dell’etnologo

Pare che sia impossibile diventare etnologi senza aver provato profondi turbamenti.

Il ricordo più tenace che mi hanno lasciato queste esperienze è prima di tutto quello di un costante sfiancamento fisico e mentale. Gli etnologi vi reagiscono in due modi: alcuni si mettono a lavorare giorno e notte accumulando appunti, osservazioni e documenti; altri, al contrario, concentrano la propria attenzione su se stessi lasciandosi quasi trascinare, e si affidano a quel lavorio incosciente e autonomo che appunta osservazioni e riflessioni che potranno manifestarsi alla coscienza anche anni dopo il soggiorno sul campo. Penso che non si debba mai decidere in anticipo cosa si cerca e come cercarlo (colloquio per «La Nouvelle Critique», discorso raccolto da Catherine Clément e Antoine Casanova, febbraio 1973).

Al ritorno nel suo paese, l’etnologo fatica a vivere tra i suoi. È come Lazzaro, smarrito tra il mondo dei morti e quello dei vivi. Quale dei due mondi è vivo, quello che la- scia o quello che ritrova? Entrambi, perché un po’ di pelle mentale resta attaccata alla capanna di palme o di legno, e comunque anche sotto questi tetti soffre il male del paese lasciato. Un abisso separa le condizioni di vita di un grup- po di amerindiani del Brasile da quelle di un intellettuale allevato in Europa in una famiglia borghese: senz’acqua né elettricità, la nuda terra come letto, divorato dalle zanzare, assalito dalle formiche, succhiato dalle api, l’europeo sopporta ma non si abitua. E, una volta fuori, gli è difficile accettare le esagerate comodità del suo paese: perché tanta distanza tra poveri e ricchi?

Il giovane Lévi-Strauss si recò in Brasile in nave, partendo da Marsiglia. La traversata seguì più o meno le orme di Cristoforo Colombo perché i transatlantici incrociavano la Fossa Nera 1, sulla linea equatoriale. Qui l’oceano resta inerte e i due mondi, l’Antico e il Nuovo, sono separati solo da questa bonaccia durante la quale i venti smettono di soffiare. Passaggio mistico, inerzia pericolosa. La scoperta del Nuovo Mondo, i massacri che ne seguirono, i rovesciamenti economici, teologici, geopolitici e la tratta degli schiavi, uno dei più terribili eventi della storia.

Mai l’umanità aveva conosciuto una prova più ardua e mai ne conoscerà una simile, a meno che un giorno, a migliaia di chilometri dal nostro, non si riveli un altro globo, abitato da esseri pensanti (Tristi tropici, 1955, p. 70).

Da una costa all’altra dell’Atlantico, gli uomini pensano come torturare “creature” che si suppongono “diaboliche o animali” (p. 71). Per verificare l’eventuale divinità degli europei, gli indiani li affogarono, montando la guardia accanto ai cadaveri per controllare se sarebbero putrefatti; quanto agli europei, compilarono il catalogo dei comportamenti disumani che permettevano di riconoscere, in ogni indiano, una bestia. Così, nel 1525, Ortiz dichiarò, davanti al Consiglio delle Indie: “Essi mangiano carne umana, vanno in giro nudi, si nutrono di pulci, ragni, vermi crudi… Non hanno barba e si affretta- no a depilarsela quando cresce” (ib.). La conclusione è ovvia: “È meglio per gl’Indiani diventare uomini schiavi che restare animali liberi (…)” (ib.).

L’etnologo non può ignorare il rimorso di appartenere al mondo che si è reso colpevole del massacro di un altro. Si ha un’idea assai imprecisa della situazione demografica in America Latina all’epoca dei Conquistadores, ma un esempio consente di misurarne la scala. Nell’isola un tempo chiamata Hispaniola, oggi divisa tra Haiti e Santo Do- mingo, gli indigeni erano, nel 1492, circa 100.000; un seco- lo dopo ne restavano solo 200. Al contrario, e nonostante le sue interminabili guerre intestine, l’Occidente non cessa- va di crescere e arricchirsi. Qualunque sia il suo paese d’origine, l’etnologo d’oggi non può rimuovere questa sto- ria per il semplice fatto di appartenere a un paese sufficientemente ricco da permettergli di esercitare il lussuoso mestiere di studiare, nel corso della sua vita, le altre culture. Là si muore di fame; qui si paga per dimagrire. E nel mondo intero, l’ammassarsi di milioni di persone negli spazi cittadini produce rifiuti ogni giorno maggiori. Da qui la famosa invettiva, una delle frasi più celebri di Tristi tropici:

Ciò che per prima cosa ci mostrate, o viaggi, è la nostra sozzura gettata sul volto dell’umanità (p. 36).

Ma Lévi-Strauss non restò in collera per tutta la vita; di questa indignazione, che non lo abbandonò più, fece il fermento della sua opera. La condizione di Lazzaro tra vivi e morti finì per attenuarsi; con il tempo e il lavorio dell’inconscio, l’etnologo diviene preda del pensiero. Aveva provato con le note e i documenti, ma Lévi-Strauss appartiene alla seconda categoria di etnologi, quelli che iniziano facendosi trascinare. Così abbozza la prima descrizione di sé: Lévi-Strauss, etnologo francese, si definisce come un analista delle società.

Ma non di tutte le società; soprattutto non del “sociale” e ancor meno del “societario”, termine barbaro inventato alla fine del XX secolo. Le società che avvicina Lévi-Strauss sono piccoli gruppi senza scrittura né documenti, completamente deprivati, erosi dal progresso moderno. L’occidentalizzazione delle Americhe espose gli indiani del Nord e del Sud al contatto con i bianchi, che portarono mali contro i quali gli autoctoni non erano immunizzati. Un semplice raffreddore può devastare una tribù; e lo stesso accade se si erigono case in mattoni dove c’erano capanne di palme. L’etnologo è preso costantemente in un dilemma insolubile: studiandoli, mette in pericolo coloro che vuole preservare; e non ama il progresso, origine delle terribili mutilazioni delle società primitive.

Non c’è più nulla da fare: la civiltà non è più quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica, occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche, indubbiamente minacciose per il loro rigoglio, ma che permettevano anche di variare e rinvigorire le sementi. L’umanità si cristallizza nella mono cultura, si prepara a produrre la civiltà in massa, come la barbabietola (Tristi tropici, 1955, p. 36).

L’etnologo diventa naturalmente ecologista, conservatore dei fragili equilibri tra natura e cultura che ha visto con i suoi occhi.

Non smetterò mai di ripetere che il solo vero pensatore ecologista in Francia si chiama Claude Lévi-Strauss. Ma il suo pensiero non si basa sull’ottimismo: per piacere o per una forma di superstizione i suoi libri si concludono sempre con una dichiarazione disincantata: non siamo altro che una goccia nell’acqua universale, un semplice brivido nella storia evolutiva. Questo solido punto di partenza permette di pensare con libertà, avanzando là dove altri arrancano. E consente di vedere il pensiero di Lévi-Strauss come quello di un monaco buddista senza abiti arancioni o ciotola per le elemosine, attaccato a qualche enunciato fondamentale: nulla è fondamentale, tutto è sofferenza, è importante solo vivere secondo il giusto mezzo, con precauzione.

1 La Fossa Nera, in francese Pot au Noir, indica la “zona di convergenza intertropicale”, un passaggio la cui estensione varia di anno in anno e che a volte abbraccia tutto l’Atlantico, dove le navi restano immobilizzate per giorni. In francese prende il nome dal fatto che le navi dei mercanti di schiavi, durante la traversata dell’oceano, gettavano questi ultimi a mare per “alleggerire” il carico delle navi (questa, e tutte le note che seguono, sono a cura della traduttrice del volume).

tratto da Catherine Clément, Lévi-Strauss,  2004 Meltemi editore, Roma Traduzione di Luisa Capelli

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L’epidemia di coronavirus aiuta l’ambiente: in Cina fabbriche chiuse, a picco le emissioni di Co2

10 Giugno 2023

NASA says the outbreak is ‘partly related’ to the decline in NO2 over China. Pic: NASA

Secondo uno studio del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA), in Finlandia, pubblicata su carbonbrief.org, le emissioni di carbonio della Cina sarebbero diminuite di almeno 100 milioni di tonnellate nelle ultime due settimane. Su scala globale si tratta di quasi il 6% in meno di emissioni rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

L’epidemia di coronavirus che sta mettendo provocando la morte di migliaia di persone e mettendo in seria crisi l’economia cinese, con gravi conseguenze anche su quella europea, sta avendo effetti positivi sull’ambiente: secondo un’analisi del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA), in Finlandia, pubblicata su carbonbrief.org, le emissioni di carbonio della Cina sarebbero diminuite di almeno 100 milioni di tonnellate nelle ultime due settimane. Su scala globale si tratta di quasi il 6% in meno di emissioni rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La rapida diffusione dell’epidemia, che ha causato quasi 2000 morti e contagiato più di 74mila persone in Cina, ha fatto diminuire la domanda di carbone e petrolio con il conseguente crollo delle emissioni.

I ricercatori hanno rilevato che nelle ultime due settimane la produzione giornaliera di energia elettrica delle centrali a carbone ha raggiunto il picco più basso degli ultimi quattro anni, mentre la produzione di acciaio è ai minimi dal 2015. Anche la produzione di carburante presso le raffinerie di Shandong non vedeva un simile calo da cinque anni, malgrado la Cina sia il più grande importatore e consumatore al mondo di petrolio.

La messa in quarantena di decine di migliaia di persone, tra le quali operai e manager, nel tentativo di contenere la diffusione dell’epidemia sta avendo serie conseguenze sulla produzione industriale cinese, con un calo compreso tra il 15 e il 40 per cento. “Questo – si legge nel rapporto – ha verosimilmente comportato una diminuzione di circa un quarto, o più, delle emissioni di CO2 del paese nelle ultime 2 settimane, periodo in cui normalmente si riprendono le attività dopo il capodanno cinese”.

In uno scenario che continua ad essere preoccupante la riduzione di inquinamento è da considerare certamente come una buona notizia, anche se gli ambientalisti invitano alla prudenza avvertendo che questa temporanea riduzione delle emissioni potrebbe generare un effetto opposto, qualora il governo cinese dovesse reagire sollecitando un incremento della produzione industriale. “È molto verosimile che, nel momento in cui la diffusione del coronavirus dovesse rallentare, potremmo assistere a un aumento della produzione delle fabbriche per compensare le perdite del periodo di inattività” ha detto Li Shuo, portavoce di Greenpeace China. “Sono dinamiche già testate e dimostrate”.

Testo di: Davide Falcioni

Archiviato in:Lessico

La sigurya

6 Giugno 2023

Benché nell’intervallo secolare fra la prima descrizione di Eroclito (630 a.C.) e le recenti ricostruzioni di Maanen e Palladino non vi siano stati che pochi sporadici cenni sulla sigurya, abbiamo oggi una conoscenza abbastanza esauriente di questa pianta, grazie specialmente alla paziente opera di ricerca svolta al Laboratorio Botanico di Saragozza.

Il nome “sigurya” fu dato alla pianta dall’insigne flamencologo Donado Malgueña, fratello del botanico Juan Domingo Malgueña che per molti anni fu preside della facoltà di biologia dell’Università di Saragozza e che, ancora oggi, dirige l’Orto Botanico di quella città. Fu nella Biblioteca Reale, ricca di antiche opere scientifiche e pseudoscientifiche, che Juan Malgueña vide per la prima volta un’immagine della pianta a lui sconosciuta. Gli era capitato fra le mani il rarissimo De plantarum mysteriis di Paulus Aversus, un erbario fantastico del XV secolo, e lo sfogliava lentamente quando, in una delle grandi xilografie del Van Wittens che illustrano il magnifico volume, accanto alle raffigurazioni di ibridi mostruosi, in parte pianta, in parte animale, scorse alcune piante dalle apparenze stranamente plausibili. Non gli fu difficile riconoscere il Laudanus umbrosus, la Clariola foliata e l’Opercus espinatus, ma nella sua memoria non riuscì a trovar traccia di quell’altra pianta dalle piccole radici aeree e lo strano fior-frutto, tutto bitorzoluto, che si staccava chiaramente dallo sfondo. L’immagine gli ritornò alla mente la mattina dopo, quando, solo nel grande viale palmato, s’incamminò verso il palazzetto dell’amministrazione dell’Orto Botanico. Fu allora che Juan Malgueña decise di documentarsi su quella pianta sconcertante, dall’aspetto così normale ma inequivocabilmente appartenente a un’altra flora. È soprattutto alle ricerche del grande, anziano botanico spagnolo che dobbiamo le nostre attuali conoscenze della sigurya.

Marcello Vanni racconta, in un articolo pubblicato l’anno scorso negli “Annali di botanica parallela”, come egli ebbe la conferma delle ambigue caratteristiche morfologiche della sigurya che tanto colpirono l’immaginazione del Malgueña. «Avevo eseguito» scrive «su indicazione della mia assistente Paola Samonà, responsabile della documentazione iconografica del mio laboratorio, alcuni disegni a matita della sigurya, disegni assai dettagliati e particolarmente convincenti. Li volevo portare a Parigi per farne omaggio a Juan Malgueña che avrebbe presieduto il Congresso di Botanica Parallela che quell’anno si doveva svolgere al Jardin des Plantes. Appena arrivai a Parigi telefonai al vecchio amico per un appuntamento e decidemmo d’incontrarci al Café de Flore, a Saint-Germain des Prés, dove molti dei congressisti erano alloggiati. Quando arrivai, trovai l’anziano scienziato in compagnia della moglie e di alcuni amici comuni, fra cui il noto fotografo italiano Ugo Mulas. Nel corso della conversazione scoprimmo che quel giorno era il settantesimo compleanno della señora Malgueña. Approfittai dell’occasione per presentare a lei i disegni che avevo portato a suo marito. Tutti li studiarono con grande attenzione e, mentre si parlava animatamente dell’esotica pianta, Ugo Mulas lasciò il tavolo, ma nessuno ci fece caso. Ce ne accorgemmo quando riapparve una decina di minuti dopo con un gran mazzo di fiori che offerse alla neosettantenne. Vi furono applausi e grida di “Buen compleaño”, a cui partecipò anche un gruppo di giovani turisti americani dall’aria un po’ hippy che intonarono “Happy birthday, dear Señora”. Nella confusione festosa Mulas mi mise nelle mani un pacchettino di carta velina e mi guardò con aria misteriosa. Lo aprii pieno di curiosità e non potei credere ai miei occhi: un fiore secco, o forse un frutto, quasi identico a quello della sigurya dei disegni. Il fotografo mi raccontò che, quando l’aveva visto dal fioraio dove aveva comperato il mazzo per la señora Malgueña, non era rimasto meno sbalordito.

«Dopo la festicciola improvvisata andammo tutti dal fioraio, sperando di trovare altri esemplari dello strano fiore-frutto. Il fioraio disse di non averne più. Gli chiedemmo il nome della pianta. L’uomo frugò a lungo fra vecchi cataloghi e mazzi di fatture, ma inutilmente.

«Juan Malgueña si assunse l’incarico di documentarsi alla piccola biblioteca del Jardin e la sera seguente, all’inaugurazione del Congresso, egli mi consegnò un foglietto con le sue annotazioni. Si trattava del frutto della Santilana panamensis, della famiglia dei Felinoteni, originariamente del Panama, ma sopravvissuta in alcune isole del Mar dei Caraibi. Gli indigeni delle isole fanno seccare il frutto che poi vendono agli esportatori di piante decorative. È una pianta abbastanza comune, pare, ma che stranamente era sconosciuta a tutti i botanici e biologi del nostro gruppo. Mentre il frutto floreato assomiglia a quello della sigurya, il resto della pianta ha caratteristiche assai diverse. Si tratta di una pianta a fusto endinodeo di media altezza e dalle grandi foglie coriolate. La radice è rizomata e si propaga sotto terra producendo in media una decina di piante individuali».

Il filosofo greco Eroclito, capo della scuola di Gynos che fiorì nel VI secolo a.C. e che inventò la teoria strobologica del linguaggio, fu il primo a fornire una descrizione abbastanza dettagliata della sigurya, alla quale aveva dato il nome di “gynospa”. Le sue osservazioni ci sono giunte attraverso una traduzione, purtroppo priva dello stile martellante tipico di Eroclito, nella quale la sigurya è descritta come «una pianta il cui fiore sembra una testa piena di nasi e che porta una gonna frangiata che ricorda quelle portate dalle vestali dell’oracolo di Markos». In quanto alla grandezza della pianta, dice che «è alta come mio figlio decenne Demoklitos: una capra dovrebbe alzar la testa per mangiarne il frutto». Eroclito fa confusione fra il frutto e il fiore, ma descrive con sorprendente accuratezza il suo primo incontro con la pianta. James Fadden ha tentato di ricostruire il racconto nel bizzarro stile originale quasi incomprensibile, caratteristico della scuola strobologica, e che ha suggerito a poeti moderni come Burroughs e altri il cut up della poesia contemporanea.

Eccone l’allucinante inizio:

«A Tha (retrostante) mos (Es-tor) Demoklitos (Teostate) ed io co (olive)gliere Demo (Teo) klitos (state) chiamare. Pian (ta pian) ta (pian) ta gonna Mar (vestali) kos tes (naso naso na) (so) ta».

In termini più banali, ma certo di maggior chiarezza, è la descrizione di Maanen e Palladino che accompagna la ricostruzione in legno che i due scultori-scienziati hanno eseguito della pianta. Maanen e Palladino erano già noti per i modelli lignei del Museo Oesterman di Nimega che riproducono in misura enormemente ingrandita minuscoli dettagli di piante normali come il pistillo e il cromostene dei colidotteni. Famoso il loro modello di una colonia di cellule della folia antrex ingrandita 1.500 volte e che mostra con chiarezza la tendenza orientativa di cellule perimetriche nel processo di crescita direzionale e selettiva. Fu Juan Malgueña a interessare i due ricercatori alle piante parallele e in particolare alla sigurya da lui studiata con tanta passione. Lo stupendo modello di Sigurya barbulata che è esposto nella vetrina che si trova al centro del grande ingresso dell’Istituto di Botanica di Saragozza è delle loro mani. È diventata una specie di punto di riferimento per tutte le descrizioni della pianta, anche se presenta caratteristiche particolari, difficilmente generalizzabili. Il modello è in grandezza naturale e riproduce una Sigurya barbulata così come era stata studiata e ricostruita dal Malgueña, che strettamente collaborò con Maanen e Palladino.

Il testo che si riferisce al modello e che è fornito gratuitamente ai visitatori del laboratorio contiene le seguenti informazioni. Si conoscono oggi sei varietà di sigurya, ma è probabile che nei prossimi anni il numero aumenterà notevolmente. Sono, in ordine di grandezza: la Sigurya geans grandiceps (bigheaded); la Sigurya montalbana; la Sigurya barbulata; la Sigurya afrocarpus (darkfruited); la Sigurya microthele (smallnippled); la Sigurya minima. È stata poi segnalata da Peter Foreman una varietà acquatica, nativa della Ottogonia, che si chiama Sigurya natans.

La barbulata di Saragozza (TAV: XXXI) è la prima che fu segnalata in Occidente. L’altezza totale della pianta, così com’è, è di 62 centimetri. Il Malgueña calcolò che, drizzando la curva dello stelo che porta il cefalocarpus, l’altezza aumenterebbe di 17 centimetri. Lo stelo o fusto si chiama corpus e ha qualche rassomiglianza con la colunna del giraluna, benché sia assai più sottile e slanciato. È munito di tre collane di radici aeree, che Malgueña chiama bàrbole e che si sovrappongono disordinatamente. Hanno un diametro massimo di 4 millimetri, e sono l’equivalente delle pendolane del giraluna. Il corpus ha un diametro di 22 centimetri alla base e di 3 centimetri nella parte più alta, quella che si curva in giù e regge il cefalocarpus.

Il cefalocarpus è la parte più caratteristica della sigurya. È una specie di frutto dalla forma del tutto irregolare e dal quale sporgono torno torno delle protuberanze di varia lunghezza. Sulla natura del cefalocarpus, che ha forti rassomiglianze con il frutto della Santilana panamensis, vi sono molte contrastanti ipotesi. Il Malgueña rifiuta di considerarlo l’equivalente parallelo di un vero frutto, benché del frutto abbia l’apparenza. I suoi collaboratori, nel corso dei lavori di ricostruzione, ne parlavano come della testa e fu così che Malgueña coniò il nome cefalocarpus. Per il Malgueña il cefalocarpus è la pianta vera e propria, il resto (corpus) non essendo che un sostegno necessario, come lo sarebbe la base per una lampada. A conferma della sua tesi vi sarebbero le segnalazioni di due Sigurya afrocarpus, dove il corpus è totalmente assente, nonché di una minima anch’essa dal fusto quasi inesistente, scoperta da John Harpers nelle vicinanze di Opanò, sull’isola di Venderas.

Olaf Rasmussen, che dirige il Centro di Ricerche Parabotaniche di Omlo¯e, nella sua relazione al Congresso di Copenhagen espresse il suo disaccordo con la tesi del Malgueña. Secondo lo scienziato norvegese, non esiste in tutta la botanica un frutto o parafrutto che non sia in qualche maniera sorretto. Perfino la Miniprotorbis, osserva, ha una base che tiene la parte più espressiva della piantina sollevata da terra. Per il Rasmussen gli esemplari citati dal Malgueña sarebbero solo frammenti di piante spezzate, prima o dopo la parallelizzazione. In una lettera aperta, nel bollettino del centro di Omlōe, egli esorta i colleghi del Ghana a ritornare al fiume Tarno, dove gli esemplari di afrocarpus furono scoperti, alla ricerca degli eventuali fusti.

Il fatto è che, purtroppo, specie per piante del gruppo beta come la sigurya, le notizie che arrivano da terre lontane sono spesso frammentarie, approssimative e quasi sempre di seconda mano. Ma a parte la ricostruzione meticolosamente fedele del Malgueña abbiamo la fortuna di avere le informazioni che ci sono giunte per la generosità di Ricardo Martinez, uno degli archeologi responsabili dei recenti scavi effettuati nelle vicinanze di Oaxaca in Messico, non lontano dal sito della famosa “tomba n.7” di Monte Albán.

Nell’opuscolo Omaggio a Gutierrez il Martinez ci racconta come egli scoprì, nel piccolo atrio dal quale parte il corridoio sotterraneo che doveva condurre alla cameretta centrale della piramide n.3 (“la Desnuda”), un grande bucchero nero ornato di graffiti aztechi e contenente antiche armi. Dapprima, pensando che si trattasse di armi azteche di foggia sino allora sconosciuta, la scoperta fu considerata sensazionale. Ma un esame più accurato ben presto ne ridimensionò l’importanza. Il Martinez infatti si rese conto, da esami carboscopici, che mentre il recipiente era sicuramente azteco, le armi vi erano state poste in un secondo tempo, probabilmente per nasconderle. Alla delusione dell’archeologo doveva sostituirsi l’esultanza del professor Pedro Gutierrez, l’anziano direttore onorario della Scuola di Botanica di Vera Cruz, il quale, sofferente di un grave enfisema polmonare, si trovava in vacanza allo stesso albergo, il “Marqués del Valle”, dove era alloggiato il Martinez. I due si conoscevano da tempo e la sera s’incontravano sulla terrazza dell’albergo, che dava sulla piazza alberata dove la sera, dal chiosco liberty, un gruppo di Mariaches a ogni improvviso squillo di tromba faceva esplodere dagli alberi nuvole di uccelli, mentre nei viali ragazzi oltecos giocavano a nascondersi dietro ai grandi tronchi dei giacaranda in fiore. Fu in una di quelle magiche sere messicane, quando il tramonto sembra aver dimenticato un po’ del suo rosso dorato nel nero della notte, che Martinez confessò al Gutierrez le sue perplessità sulle armi che aveva scoperte nella “Desnuda”. Egli invitò l’amico a visitarlo al sito.

Il giorno dopo Gutierrez si fece condurre a Monte Albán dove l’archeologo alzò il coperchio di una grande scatola per mostrargliene il deludente contenuto. Vi erano machetes da combattimento, lame di lance decorate con simboli stilizzati e altri oggetti di metallo. E sul mucchio giaceva, legata a una sottile e logora cinghia di cuoio, una forma bizzarra, vagamente rassomigliante alle mazze medievali, uno strano oggetto un po’ arrugginito che Gutierrez prese in mano con cura ma con ovvia emozione. La forma era organica e poco più grande di un pugno. Era totalmente coperta da grosse protuberanze, specie di tentacoli di vario spessore e disegno. Sembravano dita o piccole pendolane e ve ne erano una trentina. Non v’era dubbio: la forma era quella del cefalocarpus della sigurya. Nella mente di Gutierrez le domande cominciarono a rincorrersi disordinatamente. Era una coincidenza? Una pianta metallizzata? Una copia? Un concrezione di ferro? Un fossile?

L’anziano scienziato si fece imprestare l’oggetto e lo portò nella sua camera al “Marqués del Valle”. «Gutierrez» scrive Martinez «rimase in incomunicado per tre giorni. La sera del quarto apparve al caffè all’ora dell’aperitivo, tutto arzillo nel suo vestito di lino bianco e, accompagnato dalle note dolcemente echeggianti di un duetto di Marimba che la Pro loco di Oaxaca aveva ingaggiato per una settimana, egli mi confermò la sua intuizione sullo strano oggetto». Consegnò poi all’amico alcuni fogli con annotazioni e disegni schematici che Martinez riprodusse in fac-simile nell’opuscolo. Gutierrez morì a Vera Cruz poche settimane dopo il suo ritorno da Oaxaca.

Insieme con la ricostruzione di Saragozza il racconto di Martinez e le note di Gutierrez costituiscono la documentazione più completa e più seria sulla sigurya. Non vi è dubbio ora che il cefalocarpus di Monte Albán è una pianta completa, confermando così la tesi del Malgueña. Appoggiate sulla terra, come la vediamo in una fotografia del Martinez, le protuberanze sembrano proprio delle corte pendolane di cui alcune, come normali radici, sembrano ancorare la pianta alla terra, mentre altre sembrano cercare disperatamente, come le braccia di un cieco, qualche inesistente appiglio nell’aria. Quello che né Gutierrez né Malgueña sono riusciti a spiegare in modo convincente è la natura metallica della pianta. Nelle sue note Gutierrez parla di un processo simile alla pietrificazione degli alberi nella foresta del Yosemite, in California. Il punto di vista implicherebbe un processo per rendere permanente una pianta che, già per la sua natura parallela, è permanente: la trasformazione, attraverso i lentissimi processi della mineralizzazione, di una non materia che esiste fuori dal tempo. Tutto ciò non è compatibile con le premesse teoriche della botanica parallela. Ci sembra più plausibile l’ipotesi di Van der Haan che vedrebbe la sigurya di Monte Albán come una concrezione formatasi nell’impronta di una pianta vera. Ciò sarebbe avvenuto durante il violentissimo terremoto che fece crollare gran parte dell’acropoli azteca. Il terremoto sconvolse grandi estensioni di terreno, liberando dal centro della Terra gas e liquidi ad altissima temperatura, capaci di fondere i minerali ferrosi di cui la zona era particolarmente ricca.

La sigurya di Monte Albán è ora visibile nel piccolo Museo di Oaxaca, assieme ai preziosi reperti della tomba n.7. Un orefice di Taxco ne ha fatto una piccolissima versione in argento, usabile come pendolo, e che si può acquistare nelle botteghe di souvenir sotto i portici della suggestiva plaza.

Malgueña, adducendo l’esempio della sigurya di Oaxaca come pianta completa, e quindi né frutto né fiore, porta la tesi alle sue logiche conclusioni. Egli definisce il “corpo” come un inganno, un autentico ed estremo esempio di paramimesi. Le accese discussioni sulla natura di quell’ambiguo fusto, che tuttora agitano il mondo della botanica, sono forse la più efficace riprova del suo punto di vista. La paramimesi, dopo tutto, non ha altra funzione che quella di seminare dubbio e confusione, per proteggere la pianta dalle forze che per troppo zelo e per troppo amore tenderebbero a distruggerla.

La Sigurya natans (TAV. XXXII), per il fatto stesso del suo essere pianta acquatica, non rientra negli schemi della botanica parallela. Ne conosciamo due soli esemplari. Il più noto è quello descritto da Jacopo della Barcaccia, che fece con Magellano il secondo “grande viaggio”, in una lettera alla moglie Dorotea, scoperta a Padova dallo storico Tchobersky. L’altra è la copia lignea eseguita, come la Sigurya barbulata di Saragozza dai ricercatori-scultori Maanen e Palladino.

Per la natans del Barcaccia non ci resta che riprodurre la parte della lunga lettera che la riguarda:

«In quelle acque purissime [il lago di una delle isole Termadores] vedonsi notare granchi cornuti come cervi e pesci in grandissima quantitate di piume vestuti come augelli e anguille lunghe come barche tutte ricoperte di squame che paion ducati d’oro e che diconsi perigliosi molto. Vedonsi ancora grandissime tortughe che gli uomini che sull’acqua han dimora montan come cavalli d’acqua per navigar dall’una all’altra isola. E negli alberi vedonsi augelli pescatori dal becco lungo come una spada che sono una meraviglia a vedersi e altri ancora che cantan che invidia farebbono a fra Simone [compositore-liutista della chiesa di Santa Teresa a Padova, 1460-1498]. In quelle acque vedesi uno strano frutto con dita che non si puote toccare perché esso subito al tatto si scioglie e che ai giovanetti è proibito guardare perché essi si sciolgono alla vista e fansi invisibili. Questo frutto si chiama panalà e ne ricevetti grandissima emozione e non è di albero alcuno, o arbusto o fiore e suole galleggiare e da esso pendono radici. È nero come la tinta del calamaro e all’imbrunire gli uomini e le donne tutte dell’isola pregano al frutto come il Sacro Osso di San Barnabeo».

Per Tchobersky la descrizione di ser Jacopo ha notevoli analogie con certe descrizioni, assai più succinte, dello storiografo ufficiale di Magellano, Pigafetta. «Nella mia mente non vi è dubbio» scrive «che il magico frutto che galleggiava nel lago dell’isola fosse una Sigurya natans. Molti altri viaggiatori che hanno ripetuto l’itinerario di Magellano alle isole Termadores hanno confermato la descrizione di ser Jacopo Barcaccia. La panalà era certamente la forma finale di un gruppo di piante che, una dopo l’altra, si sono dileguate al contatto con l’uomo».

Il modello scolpito da Maanen e Palladino è basato solo parzialmente sulle descrizioni dei viaggiatori del Sei e del Settecento. Le informazioni raccolte dal frate missionario Beaulant, studioso appassionato di flora esotica che visse per molti anni con gli aborigeni delle isole Termadores, hanno fornito agli scultori i dati necessari perché essi potessero completare con grande esattezza di dettaglio il loro lavoro di ricostruzione. Il modello è anch’esso esposto al Laboratorio di Botanica di Saragozza e, grazie all’inclusione delle pendolane acquatiche in un blocco di plexiglas di notevoli dimensioni, dà un senso di convincente realtà. Le pendolane sono lunghe e sottili rispetto a quelle che adornano il fusto della Sigurya erecta (così Malgueña chiama la sigurya a fusto) e si pensa che nell’acqua dei fiumi dovessero ondeggiare come le alghe nella corrente. Che la sigurya fosse originaria dei numerosi ruscelli che dai monti scendevano ai laghi centrali delle isole e al Pacifico è suggerito da certe preghiere degli aborigeni che nel periodo delle piene invocano lo spirito della panalà per fermare il rovinoso furore delle acque. Il Maanen, forse echeggiando dichiarazioni ufficiose del botanico di Saragozza, avanza l’ipotesi che la panalà delle Termadores possa essere la madre di tutte le sigurye. Come tutti gli organismi del nostro pianeta, avrebbe lontane origini acquatiche, e la varietà erecta non rappresenterebbe che uno stadio di sviluppo recente, un secondo momento della parallelizzazione.

Tratto da:  Leo Lionni, La botanica parallela, Roma 2012. Prima edizione 1976

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CHI CI LIBERERÀ DALLA «CERTEZZA DEL FUTURO»?

10 Maggio 2023

Chi pretende gli sia data «certezza di futuro» o di «un futuro», e la voglia dallo Stato – futuro pronto, ben confezionato, addirittura preconfezionato e personalizzato – certamente non dimostra che un poco di pensiero lo abiti. Un vertice d’imbecillità è proprio del politico d’opposizione che rimprovera un governo di «non pensare al futuro dei giovani», e del politico al potere che replica al rimprovero con la formula di uguale forza che, al contrario, non fa che pensare «al futuro dei giovani» o perché «i giovani abbiano un futuro certo». Sono manette mentali. Si può dire che è giovane chiunque preservi la sua mente dalle manette e non ponga limiti all’inevitabile, necessaria, nobile, liberatrice incertezza del futuro. I venditori di futuri sono anime vendute. L’uomo pensa, altro non ha che il pensare – non al futuro, ma a Ciò-che-è. Ci sarebbe moltissimo da fare ripulendo le Napoli del linguaggio dai sacchi di materia guasta che si buttano per le vie della parola (e là rimangono) e diffondono colera e diossina ogni giorno. A volte mi stupisco: possibile, è appena uscito dall’infanzia e già in quella mente si sono ammucchiate tante immondizie da impedire alla mente di pensare! Lamento dell’incertezza di futuro: uguale città, cittadella mentale invasa dai rifiuti. I luoghi comuni non sono innocue scempiaggini senza senso. Sono banditi assetati di sangue, nemici osceni, maschere smorte, vampiri. Guardarsi da questo popolo dell’ombra. Qualunque cosa sia per essere, senza essersi ancora manifestata, è schiumare d’ombre. Stralcio due osservazioni fondamentali dal meraviglioso, inesauribile libro La filosofia degli assassini di Colin Wilson (Longanesi, 1972): «L’Occidente ha raggiunto da oltre cent’anni la società opulenta, e non è mai stato più chiaro d’oggi che l’uomo non è un essere che possa accontentarsi di benessere e comodità». All’inizio dell’ultimo capitolo ricorda il concetto fondamentale di Maslow: «La natura dell’uomo ha dei piani superiori ai quali innalzarsi». So ancora a memoria la conclusione del libro: «Privato dei significati che oltrepassano la sua esistenza quotidiana, l’uomo si riempie di disgusto e di livore, e in qualche caso passa alla violenza. E una società che non sappia aprire vie di sfogo alle passioni ideali degli uomini chiede di essere ridotta in macerie dalla violenza». La frustrazione dei giovani di questo oltreduemila che si annuncia violentissimo, e prodigiosamente insaziabile di comodità, benessere e lotterie, ha qui le sue radici. Nessuna università al mondo mi sembra in grado di poter comprendere una verità così semplice; così povera da non essere neppure discutibile. In grado di comprendere che dai binari dove corrono le locomotive dell’Alta Velocità verso il ponte crollato dove confluiscono, non arrivano voci che avvertano che fin dalla stazione anteriore alla partenza il binario era sbagliato. Fin dal 1968 le rivolte e le proteste sono e saranno segnate da una oscura barbarie, per ignoranza del fine del contendere: perché volere le stesse cose che il sistema tecno-industriale e la società dei consumi propongono è attrazione verso il proprio futuro male. Non c’è incertezza del futuro: c’è sciaguratamente la certezza che un altro futuro non sia neppure concepibile, sia di qua che di là dalle zone dove i cortei vanno a cozzare perché fondamentalmente ancora una volta incapaci di comprendere che dall’altra parte degli scudi alzati c’è uno smarrimento anche maggiore (non solo da noi ma dovunque): «Ma se gli offriamo proprio le stesse cose che pretendono!». Nel pensiero dominante non ci sono smagliature: l’opposizione legalitaria sostiene con un conformismo delirante: «È ridicolo quel che offrite! Noi gli daremo il doppio, il triplo, la certezza dalla nascita alla pensione, della casa, eccetera…». Non c’è analista politico che, sia pure senza pompa, con un secchiello di buon senso illuminato, versi altro che benzina in questi cori di demenze incrociate. Che gli sussurri la parola di Maslow: l’uomo ha dei piani superiori ai quali innalzarsi. Smaniosi di salire dietro a quella locomotiva, ne seguirete il destino. Ma la greca infallibile Némesis, chi ha studiato un po’, se l’è proprio scordata? È sempre viva. È sempre là. Se gli occhi mirabilmente si aprissero, sarebbe visibile dappertutto.

Tratto da: Guido Ceronetti, Tragico tascabile

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Il poeta e il tempo

8 Maggio 2023

Essere uomo è più importante perché più necessario. Il medico e il sacerdote sono più necessari del poeta perché accanto al letto di morte ci sono loro, non noi. Il medico e il sacerdote sono umanamente più importanti, tutti gli altri lo sono socialmente. (Se la società stessa sia importante — questo è un altro problema, e avrò il diritto di parlarne soltanto da un’isola deserta). A eccezione dei parassiti, nelle loro diverse specie, tutti sono più importanti di noi. E, conscia di questo, in assoluta lucidità di mente e fermezza di memoria, con non minore lucidità e fermezza affermo che non cambierei con nulla al mondo ciò che faccio. Conoscendo il più creo il meno. È per questo che per me non c’è assoluzione. Solo quelli come me dovranno rendere conto all’Ultimo Giudizio della coscienza. Ma se esiste l’Ultimo Giudizio della parola — davanti ad esso sono pura.
(1932)

Tratto da: Marina Cvetaeva, Il poeta e il tempo, Biblioteca Adelphi 144

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Gilles Clément

2 Maggio 2023

Il genio naturale

Se, in nome della salvaguardia della diversità, ovvero della vita sulla Terra, l’informazione biologica deve prendere il sopravvento sulla forma come cardine nel progetto di paesaggio o di giardino, l’artista deve allora usare strumenti diversi per far emergere la sua opera, e, prima ancora, deve mutare sguardo. Considerare la densità del vivente, in un terreno incolto, come un sistema ordinato nel quale ciascun essere e ciascun comportamento rispondono a una logica biologica per entrare in dialogo – o anche solo per renderlo possibile –, significa rinunciare alla violenza della formalizzazione architettonica per iniziare un dialogo in cui il giardiniere, prima di intervenire, interpella il genio naturale.

Per genio naturale si deve intendere la capacità, propria delle specie animali e vegetali, di regolare naturalmente i loro rapporti al fine di potersi sviluppare al meglio nella dinamica quotidiana dell’evoluzione. La natura, nella sua complessità, ha messo a punto un considerevole numero di segnali, avvertimenti, innescatori di reazioni a catena, regolatori della sovrappopolazione, aiuti e predazioni che «giardinano» il territorio senza alcun intervento umano. Quest’orgia energetica avviene in realtà in un’economia di scambio, al ritmo di una musica naturale che chiunque può capire: il verso di un uccello, la stridulazione di un ortottero, il vento tra le foglie veicolano l’informazione criptata di un predatore o di un amico, mentre la distanza tra le fronde lascia vedere il cielo (fig. 6). Tutto è messaggio.

Tutta energia gratuita: il giardiniere non deve far altro che mettersi in ascolto, per approfittarne, non deve far altro che capire prima di agire, limitando così il suo intervento. Fare il più possibile con, il meno possibile contro. L’artista del giardino futuro dovrà così accettare la formidabile collaborazione della natura quale coautrice della sua opera. Non potrebbe certo essere l’autore dell’insieme, bensì, e soltanto, d’un frammento di spazio, e, per far durare la sua opera, deve adattarsi al tempo, imprimendo una flessione alle direzioni prese dalla natura, senza tuttavia contraddirle.

Se si volesse raffigurare la parte attiva dell’artista nell’avventura del giardino, bisognerebbe ridurla a un tratto, forse addirittura a un punto posto nell’insieme sontuoso e ampio del territorio lasciato alla natura. Il giardino è sempre il risultato dell’azione combinata dell’uomo e della natura, ma qui la spesa d’energia contraria è ricondotta alla sua più debole espressione: dev’esser collocata al posto giusto perché l’insieme dovuto al genio naturale divenga finalmente giardino. Qui interviene l’eccellenza dell’artista: egli esercita la sua arte nel trattamento dei limiti.

L’artista del paesaggio felice, capace di conservare e sviluppare la vita nel suo giardino, non interferisce nel rapporto naturale degli scambi, ma lo valorizza mediante un’appropriata scenografia. Uno zoccolo, una demarcazione, un dislivello, un limite – anche fitto come la bordura di un bosco – la cui forma si accordi sia al senso del progetto che si è proposto sia al rispetto della vita. Come si diventa artista dei limiti? Assegnare all’artista i soli interventi sui limiti non significherà confinarlo a un compito minore?

Entriamo qui nel campo allargato dell’immateria, nel territorio della conoscenza. In realtà, è ben più difficile trattare il limite in modo impercettibile, lasciando che il genio naturale si esprima al suo meglio, che non intervenire con violenza sull’insieme vivente al fine di far emergere unicamente il gesto finale dell’architettura. La prima strada presuppone infatti un sapere. L’intervento specifico e marginale del giardiniere dei limiti nasce dal riconoscimento preciso delle specie e dei comportamenti in gioco: osservare, determinare e comprendere il vivente. Ma, oggi, dove si viene addestrati all’osservazione, alla determinazione e alla comprensione del vivente? Esiste forse una scuola del giardino planetario, una scuola del genio naturale, un sistema educativo a disposizione di tutti ove la comprensione del vivente – a partire dall’alfabeto: saper nominare (ciò che ha un nome esiste, ciò che non ha un nome non esiste) – prevalga su tutte le altre discipline?

A parte rarissime eccezioni, in Francia questo sistema educativo alla portata di tutti non esiste. La botanica (l’alfabeto della flora), progressivamente abbandonata, viene insegnata, e in termini specifici e parziali, soltanto negli istituti specializzati per la formazione agricola, orticola e paesaggista. Le discipline fondamentali per la comprensione dell’ecosistema – l’entomologia e l’ornitologia, per esempio –, assenti nell’insegnamento ufficiale, sono materia per dilettanti ed eruditi isolati, come se la natura, troppo complicata, dovesse definitivamente restare appannaggio degli iperspecialisti o dei poeti9.

Abbiamo cambiato regno, abbiamo cambiato era, l’Antropocene ci assimila d’ufficio alla natura. Se non avremo l’umiltà di accettare questa assimilazione, continueremo a crederci distanti dalla natura per poterla dominare, vale a dire, in definitiva, per distruggerla. Nel mo mento in cui riconosciamo di essere al termine della catena di dipendenza che ci lega alla natura, non possiamo far altro che agire in un rapporto di cooperazione e di condivisione con essa.

Tratto da: Gilles Clément, Giardini, paesaggio e genio naturale, trad. it. Giuseppe Lucchesini, Macerata 2013.

Titolo originale Jardins, paysage et génie naturel; prima edizione Parigi 2012.

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L’uccel bel verde

1 Maggio 2023

Un Re era ficcanaso. Andava, a sera, sotto le finestre dei sudditi, a sentire cosa si diceva nelle case. Era un tempo di turbolenze, e il Re sospettava che il popolo covasse qualcosa contro di lui. Cosí, passando, già a buio, sotto una casuccia di campagna, sentí tre sorelle sulla terrazza, che discorrevano fitto fitto tra loro.

Diceva la maggiore: – Potessi sposare il fornaio del Re, farei pane in un giorno solo quanto ne mangia la Corte in un anno: tanto mi garba quel bel giovane fornaio!

E la mezzana: – lo vorrei per sposo il vinaio del Re, e vedreste che con un bicchier di vino ubriacherei tutta la Corte, quanto quel vinaio mi va a genio!

Poi chiesero alla piú piccina, che restava zitta: – E tu, chi sposeresti?

E la piccina che era anche la piú bella, disse: – Io invece vorrei in sposo il Re in persona, e gli farei due figli maschi di latte e sangue coi capelli d’oro e una figlia femmina di latte e sangue coi capelli d’oro e una stella in fronte.

Le sorelle le risero dietro: – Va’, va’ poverina, ti contenti di poco!

Il Re ficcanaso, che aveva sentito tutto, tornò a casa e l’indomani le mandò a chiamare tutte e tre. Le ragazze furono prese da sgomento, perché erano tempi di sospetti, e non sapevano cosa potesse loro capitare. Arrivarono lì tutte confuse e il Re disse: – Non abbiate paura: ripetetemi cosa stavate dicendo, ieri sera, sulla terrazza di casa vostra.

Loro, piú confuse che mai, dicevano: – Mah, noi, chissà, niente…

– Non dicevate che volevate sposarvi? – disse il Re. E a furia d’insistere fece ripetere alla piú grande il discorso che voleva sposare il fornaio. – Bene, ti sia concesso, – disse il Re. E la maggiore
ebbe il fornaio in sposo.

La seconda confessò che voleva il vinaio. – Ti sia concesso, disse il Re, e le diede il vinaio.

– E tu? – chiese alla piú piccina. E quella, tutta rossa, gli ripeté quel che aveva detto la sera.

– E se ti fosse concesso davvero di sposare il Re, – disse lui, – manterresti la promessa?

– Le prometto che farei tutto il mio meglio, – disse la ragazza.

– Allora, ti sia concesso di sposarmi, e tra tutte e tre vedremo chi tien fede meglio a quel che ha detto.

Di fronte alla fortuna della piú piccina, divenuta Regina tutt’a un tratto, le sorelle maggiori, sposate col fornaio e col vinaio, non s’adattarono a essere da meno, e nacque in loro un’invidia che non sapevano come sfogare, e che ancor crebbe quando si seppe che la Regina aspettava già un bambino.

Intanto il Re dovette partire per la guerra contro un suo cugino. Disse alla sposa: – Ricordati quel che mi hai promesso -. La raccomandò alle cognate, e partì.

Mentre lui era in guerra, la sposa diede alla luce un bambino di latte e sangue coi capelli d’oro. Le sorelle, cosa pensarono? Portarono via il bambino, e al suo posto misero una scimmia. Il bambino lo diedero a una vecchia che lo annegasse. La vecchia andò al fiume col bambino in un canestro; arrivata al ponte, buttò giú canestro e tutto.

Nel fiume passò il canestro, galleggiando, e lo vide un barcaiolo che gli corse dietro via per la corrente. Lo prese, vide quella creatura così bella e la portò a casa sua, per darla a balia a sua moglie.

Al Re, in guerra, le cognate mandarono la notizia che la moglie aveva fatto una scimmia invece del bambino di latte e sangue coi capelli d’oro: cosa ne devono fare? «O scimmia o bambino, – risponde il Re, – tenete conto di lei».

Finita la guerra, tornò a casa. Ma verso la moglie non riusciva piú a esser come prima. Sì, le voleva sempre bene, ma era rimasto deluso perché non aveva mantenuto la parola. Nel mentre, la moglie tornò ad aspettare un bambino e il Re sperava che questa volta sarebbe andata meglio.

Per tornare al bambino, successe che un giorno il barcaiolo gli guardò bene i capelli e disse alla moglie: – Ma guarda, non ti pare siano d’oro?

E la moglie: – Ma si, è oro! – Tagliano una ciocca e vanno a venderla. L’orefice la pesa sulla bilancia e la paga come oro zecchino. D’allora in poi, ogni giorno il barcaiolo e la moglie tagliavano una ciocca al bambino e la vendevano: così in breve tempo diventarono ricchi.

Intanto, al Re il cugino impose guerra un’altra volta. Il Re andò via e lasciò la moglie che aspettava il bambino. – Mi raccomando!

Anche stavolta, mentre il Re era lontano, la Regina diede alla luce un bambino di latte e sangue coi capelli d’oro. Le sorelle prendono il bambino e al suo posto ci mettono un cane. Il bambino lo danno alla solita vecchia che lo butta nel fiume in un canestro come suo fratello.

– Ma che storie sono queste? – dice il barcaiolo vedendosi capitare un altro bambino giú per il fiume. Poi pensò subito che coi capelli di questo avrebbe raddoppiato i suoi guadagni.

Il Re, sempre là in guerra, ricevé dalle cognate: «L’ha fatto un cane, Maestà, la vostra sposa; scriveteci cosa si deve far di lei». Il Re scrisse in risposta: «Cane o cagna che sia, tenete da conto la mia moglie». E tornò in città, scuro nel volto. Ma a questa sposa s’era proprio affezionato, e sperava sempre che la terza volta le sarebbe andata bene.

Anche stavolta, mentre la Regina aspettava un bambino, ecco il cugino che gli fa guerra una terza volta; guarda che destino! Il Re deve proprio andare; dice: – Addio, ricordati la promessa. I due maschi coi capelli d’oro non me li hai dati; vedi di darmi la bambina con la stella in fronte.

Lei diede alla luce la bambina, una bambina proprio di latte e sangue, coi capelli d’oro e con la stella in fronte. La vecchia preparò il canestrino e la buttò nel fiume: e le sorelle in letto misero una tigre, piccolina. Scrissero al Re della tigre che era nata e chiesero cosa voleva fosse fatto della sua sposa. Lui scrisse: «Quello che volete, purché quando torno non la riveda nel palazzo».

Le sorelle la prendono, la levano dal letto, la portano giú in cantina, la murano dal collo in giú, che le restava fuori solo la testa. Ogni giorno le andavano a portare un po’ di pane e un bicchier d’acqua, e le davano uno schiaffo per una: questo era il suo cibo quotidiano. Le sue stanze furono murate, e di lei non restò piú alcuna traccia; il Re, finita la guerra, non ne disse parola, né nessuno gliene parlò. Però era restato triste per tutti i suoi giorni.

Il barcaiolo che aveva trovato anche il canestrino della bimba, ora aveva tre bei ragazzi che crescevano a vista d’occhio, e coi capelli d’oro aveva fatto tanta e tanta ricchezza. E disse: – Ora bisogna pensare a loro, poverini: bisogna fabbricargli un palazzo, perché stanno diventando grandi -. E fece fabbricare, proprio in faccia a quello del Re, un palazzo piú grande ancora, con un giardino dov’erano tutte le meraviglie del mondo.

Intanto, i bambini s’erano fatti giovanetti e la bambina una bella ragazzina. Il barcaiolo e sua moglie erano morti e loro, ricchi da non si dire, vivevano in questo bel palazzo. Tenevano sempre il cappello in testa e nessuno sapeva che avevano i capelli d’oro.

Dalle finestre del palazzo del Re, la moglie del fornaio e la moglie del vinaio li guardavano; e non sapevano d’essere le loro zie. Una mattina queste zie videro i fratelli e la sorellina senza cappello seduti a un balcone che si tagliavano i capelli l’uno all’altro. Era un mattino di sole e i capelli d’oro splendevano tanto che abbagliavano lo sguardo. Alle zie venne subito il sospetto che fossero i figli della sorella buttati nel fiume. Cominciarono a spiarli: videro che tutte le mattine si tagliavano i capelli d’oro e il mattino dopo li avevano di nuovo lunghi. Da quel momento, le due zie cominciarono ad aver paura dei loro delitti.

Intanto, anche il Re, dai cancelli, s’era messo a guardate il giardino vicino e quei ragazzi che ci abitavano. E pensava: «Ecco i figlioli che mi sarebbe piaciuto avere da mia moglie. Paiono proprio quelli che mi aveva promesso». Ma non aveva visto i capelli d’oro perché portavano sempre il capo coperto.

Cominciò a discorrere con loro: – Oh, gran bel giardino. che avete!

– Maestà, – rispose la ragazza. – C’è tutte le bellezze del mondo in questo giardino. Se lei ci fa degni, può venire a passeggiarci.

– Volentieri, – e così entrò a far amicizia con loro. – Visto che siamo vicini, – disse, – perché non venite domani da me a desinare?

– Ah, Maestà, – risposero, – ma sarà troppo incomodo per tutta la Corte.

– No, – disse il Re, – mi fate un regalo.

– E allora accetteremo le sue grazie e domani saremo da lei.

Quando le cognate seppero dell’invito, corsero dalla vecchia cui avevano dato le creaturine da ammazzare: – O Menga, che ne faceste di quelle creature?

Disse la vecchia: – Nel fiume le buttai, col cesto e tutto, ma il cesto era leggero e stava a galla. Se poi è andato a fondo o no, non stetti mica lì a vedere.

– Sciagurata! – esclamarono le zie. – Le creature sono vive e il Re le ha incontrate, e se le riconosce, siamo morte noi. Bisogna impedire che vengano a palazzo, e farle morire per davvero.

– Ci penso io, – disse la vecchia.

E fingendosi una mendicante, si mise al cancello del giardino. Proprio in quel momento, la ragazza stava guardandosi intorno e dicendo, come soleva: – Cosa manca in questo giardino? Di piú non ci può essere! C’è tutte le bellezze del mondo!

Ah, tu dici che non manca nulla? – disse la vecchia. – Io vedo che ci manca una cosa, bambina.

– E quale? – domandò lei.

– L’Acqua che balla.

– E dove si può trovare … ? – cominciò a dire la bambina. Ma la vecchia era sparita. La ragazza scoppiò in pianto: – E io che credevo che non mancasse nulla nel nostro giardino, e invece, invece ci manca l’Acqua che balla; l’Acqua che balla: chissà che bella cosa è! – E così andava piangendo.

Tornarono i fratelli e a vederla disperata: – Cos’è? Cos’hai?

– Oh, vi prego, lasciatemi stare. Ero qui nel giardino e mi dicevo che qua erano tutte le bellezze del mondo, ed una vecchia è venuta al cancello e ha detto: «Lo dici tu che non ci manca nulla: ci manca l’Acqua che balla».

– Tutto qui? – fece il fratello maggiore. – Vado io a cercarti questa cosa, così sarai felice -. Aveva un anello al dito e lo infilò in dito alla sorella. – Se la pietra cambia colore, è segno che son
morto -. Montò a cavallo e corse via.

Aveva già molto galoppato, quando incontrò un eremita che gli chiese: – Dove vai, dove vai, bel giovane?

– Vado in cerca dell’Acqua che balla.

– Poverino! – disse l’eremita. – Ti vogliono mandare alla morte! Non sai che c’è pericolo?

Rispose il giovane: – Pericolo quanto volete, io quella roba devo trovarla.

– Sta’ a sentire, – disse l’eremita, – vedi quella montagna? Va’ in cima, troverai una gran pianura e in mezzo un bel palazzo. Davanti al portone ci sono quattro giganti con le spade in mano. Sta’ attento: quando hanno gli occhi chiusi non devi passare, hai capito? Passa invece quando hanno gli occhi aperti. C’è il portone: se lo trovi aperto non passare, se lo trovi chiuso spingi e passa. Troverai quattro leoni: quando hanno gli occhi chiusi non passare, passa quando li trovi con gli occhi aperti, e troverai l’Acqua che balla -. Il ragazzo salutò l’eremita, montò a cavallo e prese su per la montagna.

Lassú vide il palazzo col portone aperto, e i quattro giganti con gli occhi chiusi. «Si, aspetta che passi…», pensò, e si mise lì di guardia. Appena i giganti apersero gli occhi e il portone si chiuse, passò; aspettò che i leoni aprissero gli occhi anche loro e passò ancora. C’era l’Acqua che balla: il ragazzo aveva una bottiglia e la riempi. Appena i leoni riaprirono gli occhi, scappò via.

Immaginatevi la gioia della sorellina, che era stata tutti quei giorni a guardare con ansia l’anello, quando vide tornare il fratello con l’Acqua che balla. S’abbracciarono e baciarono, e subíto misero due catinelle d’oro in mezzo al giardino e ci misero l’Acqua che balla: e l’Acqua saltava da una catinella all’altra catinella, e la bambina la stava a guardare piena di gioia, sicura ormai d’avere tutte le bellezze del mondo nel suo giardino.

Venne il Re, e le chiese come mai non erano venuti a desinare, che li aveva tanto aspettati. La bambina gli spiegò che non c’era l’Acqua che balla in giardino e suo fratello maggiore era dovuto andare a prenderla. Il Re lodò molto il nuovo acquisto e invitò di nuovo i tre ragazzi per l’indomani. La vecchia mandata dalle zie ritornò, vide l’Acqua che balla nel giardino e inghiotte bile. – Ora l’Acqua che balla ce l’hai, – disse alla bambina, – ti manca ancora l’Albero che suona, – e se ne andò.

Vennero i fratelli. – Fratelli miei, se mi volete bene, sapete cosa dovete portarmi, l’Albero che suona.

E stavolta fu il secondo fratello a dire: – Si, sorellina mia, vado e te lo porto.

Diede il suo anello alla sorella, montò a cavallo e corse fin dall’eremita che aveva aiutato suo fratello.

– Ahi! – disse l’eremita, – l’Albero che suona è un osso duro. Senti cosa devi fare: sali sulla montagna, guardati dai giganti, dal portone, dai leoni, tutto come ha fatto tuo fratello. Poi troverai una porticina con sopra un paio di forbici; se le forbici sono chiuse non passare; se sono aperte, passa. Troverai un albero enorme che suona con tutte le sue foglie. Tu arrampicati e stacca il ramo piú alto: lo pianterai nel tuo giardino e metterà radici.

Il giovane andò fin sulla montagna, trovò tutti i segni propizi ed entrò. S’arrampicò sull’albero tra tutte le foglie che suonavano, e prese il ramo piú alto. Accompagnato dal suo canto tornò a casa.

Quando fu piantato il ramo diventò l’albero píú bello che ci fosse nel giardino, e lo riempiva tutto col suo suono.

Il Re che era piuttosto offeso perché per la seconda volta i fratelli avevano mancato all’invito, fu così contento d’ascoltare quel suono che li riinvitò tutti e tre per l’indomani.

Subito le zie mandarono la vecchia. – Sei contenta dei consigli che ti ho dato? L’Acqua che balla, l’Albero che suona! Ora ti manca solo l’Uccel bel-verde e hai tutte le bellezze del mondo.

Vennero i ragazzi. – Fratellini, chi mi va a prendere l’Uccel bel-verde?

– Io, – disse il primo, e partì.

– Questo si che è un guaio, – gli disse l’eremita. – Tanti ci sono andati e tutti ci sono rimasti. Andare alla montagna sai, entrare nel palazzo sai, troverai un giardino pieno di statue di marmo. Sono nobili cavalieri che come te volevano prendere l’Uccel bel-verde. Tra gli alberi del giardino volano centinaia d’uccelli. L’Uccel bel-verde è quello che parla. Ti parlerà, ma bada, tu qualsiasi cosa dica, non devi mai rispondergli.

Il giovane arrivò nel giardino pieno di statue e di uccelli. L’Uccel bel-verde si posò sulla sua spalla e gli disse: – Sei venuto, cavaliere? E credi di prendere me? Ti sbagli. Sono le tue zie che ti mandano a morte. E tua madre la tengono murata viva…

– Mia madre murata viva? – disse il giovane e come parlò subito diventò anche lui statua di marmo.

La sorella guardava l’anello ogni minuto. Quando vide che la pietra diventava azzurra, gridò: – Aiuto! Muore! – E l’altro fratello sali subito in sella, e partì.

Anch’egli arrivò nel giardino e l’Uccel bel-verde gli disse: – Tua madre è murata viva.

– Eh? mia madre murata viva! – gridò lui e diventò di marmo.

La sorella guardava l’anello del secondo fratello e lo vide diventar nero. Non si perse d’animo, si vesti da cavaliere, prese una boccetta d’Acqua che balla, un ramo d’Albero che suona, sellò il migliore dei loro cavalli, e parti.

L’eremita le disse: – Apri l’occhio, che se quando l’Uccello parla gli rispondi, sei finita. Strappagli una penna delle ali, invece, bagnala nell’Acqua che balla e poi tocca tutte le statue…

Appena l’Uccel bel-verde vide la ragazza vestita da cavaliere, le si posò su una spalla e disse: – Anche tu qui? Ora diventerai come i tuoi fratelli… Li vedi? Uno e due, e con te tre… Tuo padre in guerra… Tua madre murata viva… E le tue zie se la ridono…

Lei lo lasciò cantare e l’uccello si sgolava a ripeterle le sue parole all’orecchio, e non fu lesto a volar via quando la ragazza l’afferrò, gli strappò una penna delle ali, la bagnò nella boccetta d’Acqua che balla, poi la passò sotto il naso dei fratelli impietriti, e i fratelli si mossero e l’abbracciarono. Poi fecero lo stesso con tutte le altre statue ed ebbero un seguito di nobili cavalieri, baroni, principi e figli di re. Fecero annusare la penna anche ai giganti e si svegliarono anche i giganti, e così fecero coi leoni. L’Uccel bel-verde si posò sul ramo d’Albero che suona e si lasciò mettere in gabbia. E tutti insieme in un gran corteo lasciarono il palazzo sulla montagna, che per incanto sparì.

Quando dal palazzo reale videro il giardino con l’Acqua che balla, l’Albero che suona e l’Uccel bel-verde, e i tre fratelli con tutti quei principi e baroni che facevano festa, le zie si sentirono venir meno, e il Re volle invitare tutti a pranzo.

Vennero e la sorellina portava l’Uccel bel-verde su una spalla. Quando furono per sedersi a tavola, l’Uccel bel-verde disse: Manca una! – e tutti si fermarono.

Il Re cominciò a mettere in fila tutta la gente di casa, per vedere chi era quell’una che mancava, ma l’Uccel bel-verde continuava a dire: – Manca una!

Non sapevano piú chi far venire. A un tratto si ricordano: – Maestà! Non sarà la Regina murata viva? – e il Re diede subito ordine di farla smurare, e i figli la abbracciarono e la bambina con la stella in fronte le fece fare il bagno in una tinozza d’Acqua che balla, e tornare sana come se nulla fosse stato.

Così ci si rimise a pranzo, con la Regina vestita da Regina a capo della tavola, e le due sorelle invidiose gialle in viso che parevano avere l’itterizia.

Stavano per portare alla bocca il primo cucchiaio, quando l’Uccel bel-verde disse: – Solo quello che becco io! – perché le due zie avevano messo del veleno nel mangiare. I convitati mangiarono solo le pietanze che l’Uccel bel-verde beccava, e si salvarono.

– Adesso sentiamo l’Uccel bel-verde cosa ci racconta, – disse il Re.

L’Uccel bel-verde saltò sulla tavola davanti al Re e disse: – Re, questi sono i tuoi figli -. I ragazzi si scopersero il capo e tutti videro che avevano i capelli d’oro, e la sorellina anche la stella d’oro in fronte. L’Uccel bel-verde continuò a parlare e raccontò tutta la storia.

Il Re abbracciò i figli e chiese perdono alla moglie. Poi fece comparire innanzi a sé le due cognate e la vecchia e disse all’Uccel bel-verde: – Uccello, ora che hai svelato tutto, dà la sentenza.

E l’uccello disse: – Alle cognate, una camicia di pece e un pastrano di fuoco, alla vecchia giú dalla finestra.

Così fu fatto. Re, Regina e figlioli vissero sempre felici e contenti.

(Firenze).

Tratto da Italo Calvino, a cura di, Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino, 1a ed. Torino 1956.

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Maurice Maeterlinck

28 Aprile 2023

”La pianta tende a un’unica meta: elevarsi verso il cielo per sfuggire alla fatalità che la avvince alla terra; infrangere la pesante e tetra legge, liberarsi, rompere la sua angusta sfera, inventarsi o invocare ali, evadere il più lontano possibile, vincere lo spazio nel quale il destino l’ha relegata, avvicinarsi a un’altro regno, penetrare in un mondo animato e in movimento.” 

Maurice Maeterlinck

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La sera scende sulle colline

22 Aprile 2023

La sera del 19 giugno (sera per modo di dire, essendo il cielo chiarissimo e il sole ancora fisso a mezzo il mare, con uno sguardo intento), presi un tram della linea 3, che percorre tutta la Riviera di Chiaia e termina a Mergellina, sedetti in un angolo, vicino a una donna senza naso, che portava in grembo una grossa pianta, e mi misi a pensare con quali parole avrei giustificato la mia visita a Luigi Compagnone, impiegato all’Ufficio Prosa di Radio Napoli, che non vedevo da molto tempo, e dal quale appunto stavo andando. Avevo bisogno di alcune informazioni sui quattro o cinque scrittori giovani di Napoli, Prisco, Rea, Incoronato e La Capria (che aveva il suo primo romanzo in via di stampa presso un editore del Nord); non escludevo Pratolini, benché l’autore di Cronache di poveri amanti non potesse dirsi napoletano, né alle prime armi, ma avevo saputo ch’era sul punto, se già non lo aveva fatto, di lasciare definitivamente la città. Dal Compagnone, che per un certo tempo in casa li aveva avuti tutti, speravo qualche notizia più particolare, maliziosa, di quelle che sollevano tanto il tono di un articolo. Che cosa fanno i giovani scrittori di Napoli era il titolo del mio articolo, destinato a un settimanale illustrato.

Non si poteva dire che quel tram corresse. Andava con un ritmo così lento, benché a piazza Vittoria, quando ero salita, si potesse dire normale, da favorire il sospetto che il conducente si fosse addormentato, oppure, con un mezzo occhio aperto, giacesse ferito sul suo seggiolino. In realtà, quell’uomo dalla giubba sbiadita e priva di bottoni sedeva regolarmente alla guida, ma rallentava sempre più l’andatura, a causa delle cattive condizioni della strada che appariva addirittura sconvolta.

Sporgendomi dal finestrino, vidi, per l’estensione di un chilometro e più, quanto è lunga la Riviera di Chiaia, un vero formicolio di uomini seminudi, grigio il dorso, grigi i calzoncini, grigia la testa e le mani con cui lavoravano a rompere le pietre. I basoli della strada erano tutti smossi, conferendole l’aspetto di un torrente in piena, le torbide acque, precipitose e oblique, improvvisamente drizzate e pietrificate. Molte strade, quando certi lavori sono in corso, assumono questa espressione agitata e squallida. Ma qui si avvertiva qualcosa di diverso, che in breve costringeva a rifiutare, per una definizione, i due aggettivi nominati. No, non si poteva parlare né di agitato né di squallido; questa strada, piuttosto, rimaneva ridente e terribile, come appunto l’espressione d’intelligenza e bontà che appare talora sul viso ai defunti. Era una strada defunta, così almeno la definii nel mio cuore, sperando poterle trovare in seguito un attributo meno intenso ed irrazionale, cosa che invece non fu possibile.

Ritrovavo a destra del percorso le medesime case dell’Ottocento e i palazzi del Sei-Settecento, che un tempo si erano sostituiti lentamente alle povere case dei pescatori, numerose, due secoli fa, in quella zona urtata direttamente dal mare. Nulla di più grazioso e ridente, anche dopo i selvaggi anni ’40-45: la pioggia di forellini che aveva macchiato le facciate dopo i mitragliamenti, e le grandi e solenni lacerazioni aperte dalle bombe, avevano per qualche tempo conferito una certa animazione a quelle mura, in perfetto accordo con gli elementi umani formicolanti alla base. Quel qualcosa di nero e colorato, quell’interminabile nastro di plebe che si agitava perennemente alla radice delle case, aveva emesso, per la prima volta, in quegli anni successivi alla tempesta, un rumore nuovo, imprevedibile, incantato, pari al fruscio della risacca sulla rena, dopo l’uragano. Vi era dell’inquietudine, e soprattutto della speranza, in quel sordo continuo rumore. Ecco perché i vetri delle case avevano brillato, e le facciate rosa e gialle erano parse battute da un altro sole, vivide, rinnovate. A distanza di qualche anno (era tanto che mancavo da Napoli), la famosa Riviera di Chiaia appariva un’altra. Una patina, misterioso intruglio di piogge, polvere e soprattutto di noia, si era distesa sulle facciate, velandone le ferite, e riconducendo il paesaggio a quella immobilità rarefatta, a quell’espressivo equivoco sorriso che appare in volto ai defunti. Forse, ove fosse mancata l’eterna folla di Napoli, semovente come un serpe folgorato dal sole, ma non ancora ucciso, tra quelle distinte apparenze di un’età remota, quel paesaggio non sarebbe apparso spettrale. Ma quegli uomini e donne e bambini seminudi, e cani e gatti ed uccelli, tutte forme nere, sfiancate, svuotate, tutte gole che emettono appena un suono arido, tutti occhi pieni di una luce ossessiva, di una supplica inespressa – tutti quei viventi che si trascinavano in un moto continuo, pari all’attività di un febbricitante, a quella smania tutta nervosa che s’impadronisce di certi esseri prima di morire, per un gesto che gli sembra necessario, e non è mai il definitivo – quella grande folla di larve che cucinava all’aperto, o si pettinava, o trafficava, o amava, o dormiva, ma mai veramente dormiva, era sempre agitata, turbava la calma arcaica del paesaggio, e mescolando la decadenza umana alla immutata decenza delle cose, ne traeva quel sorriso equivoco, quel senso di una morte in atto, di vita su un piano diverso dalla vita, scaturita unicamente dalla corruzione.

Il sole brillò un momento sulla lastra di un finestrino, e per un attimo macchiò di rosso le ginocchia della mia vicina. Essa stava guardando, attraverso i vetri, la strada e quella folla silenziosa di operai e di miserabili che l’animavano; un sorriso leggerissimo, compiaciuto, vagava nei suoi occhi neri al disopra della cicatrice. Con la familiarità di questa gente, per cui gli altri non esistono se non come motivo di colloquio, e questo colloquio è più che altro un monologo senza freni, mi disse che per l’8 settembre, festa di Piedigrotta, i lavori sarebbero stati ultimati, e la strada pronta per l’impianto delle luminarie, che quest’anno, col nuovo sindaco, si annunciavano straordinarie. Un uomo magro e dall’aspetto seriamente ammalato, che sedeva di fronte a noi, annuì col capo. Disse sottovoce queste parole, che riferisco più per la stranezza del loro suono, su quelle labbra, che per la loro importanza: «Lassa fa’ a Dio». Poco dopo la vettura, che aveva rallentato, fin quasi a fermarsi, a causa di un gruppo più folto di operai, riprese la sua andatura normale, e, intanto, il sole era calato.

Per qualche momento potei osservare, alla sinistra del percorso, le macchie scure degli alberi della Villa Comunale, che fronteggia Chiaia per quasi tutta la sua lunghezza, separandola dal mare. Questo parco, che nei primi anni del Settecento consisté solo di un doppio filare di alberi e di tredici fontane fatte sistemare sulla spiaggia dal duca di Medina, alla fine del secolo fu convertito in giardino da Ferdinando IV, e da allora costituì una delle zone più decantate di Napoli. Sul lato verso via Caracciolo possiede un lungo galoppatoio, frequentato tuttora dall’aristocrazia, mentre i viali centrali sono continuamente affollati da bambini e bambine della borghesia, che vi portano le loro biciclette e i monopattini. I giovani della plebe, invece, esseri dai cinque ai quindici anni, ne invadono volentieri i punti più ombrosi: vi si recano a fare i loro bisogni, oppure a torturare degli animali; o seggono pensando cose d’amore, ruffianerie, canti; i tisici vi sono condotti dai parenti per consiglio del medico, e si vedono consumarsi su quelle pietre come bianche ali di farfalla. Benché il Circolo della Stampa, con la sua lussuosa palazzina, gli conferisca certo decoro formale, la notte quel luogo, attraversato da militari statunitensi e da giovani napoletani, non è affatto sicuro.

Neppure in quel momento che gli ultimi raggi del sole sfioravano i rami più alti dei lecci, delle palme, delle araucarie, indorando pallidamente le statue e i busti decapitati, mostrava un aspetto sicuro. Via via che se ne accostava l’ultimo limite, quel giardino diveniva più cupo. A un tratto, vidi questo. Cinque ragazzi di età indefinibile erano seduti su un muretto, aspettando con volti assolutamente inespressivi che la vettura passasse. Quando questa fu alla loro altezza, uno di loro si alzò in piedi, e rapidamente, imitato dagli altri, si sbottonò il davanti dei calzoni. Poi, tenendo il sesso tra le dita, come un fiore, si misero a correre sul muro, tentando di seguire il tram, con richiami striduli, dolenti, appassionati, che volevano attrarre la nostra attenzione su tutto quanto essi possedevano.

Non una delle persone ch’erano sedute da quel lato della vettura, e avevano visto, discusse la cosa, e neppure sorrise. Il conducente, che si era alzato un momento in piedi, temendo di mettere sotto qualcuno, tornò a sedersi, sospirando di noia, e affrettò l’andatura, così che presto i cinque infelici disparvero.

Ma ne apparivano degli altri, sempre con le stesse facce pallide e intente, e si temeva di capire i motivi di quella malata intensità. Due avevano impiccato una bestiola a un ramo, altri erano intenti a trafiggere una farfalla. Qualcuno orinava qua e là. Non avevano occupazioni ragionevoli. Una pazzia tenera li sollevava. C’era perfino chi levava qualche breve inno alla Vergine.

La donna senza naso mi guardava ora quietamente, e guardava la strada, e guardando me e la strada insieme, doveva aver pensato qualche cosa intorno a quello che io potevo pensare, perché il sorriso con cui aveva accennato ai festeggiamenti era scomparso, per lasciar posto a un breve scintillio sospettoso, raccolto. Infine, mi accorsi che essa aveva smesso di pensare, e guardava attentamente nel centro del mio volto. In questo guardare, essa non metteva alcun pensiero, eppure la sua intensità e curiosità mi causavano un vero malessere. Anche l’uomo, ora, guardava nel mezzo del mio volto, poi guardava le mie mani, i piedi. Non poteva suscitare nessuna collera, perché sembrava moribondo, e tuttavia procurava un certo fastidio. Così non aspettai l’ultima fermata, scesi nella piazza Principe di Napoli. La vettura riprese a correre senza di me, e per un poco, aspettando di attraversare, vidi ancora quelle due macchie – macchie di cristiani, appoggiate ai vetri – seguirmi con lo sguardo, meccanicamente, pensierose.

La casa del Compagnone era in viale Elena, la seconda delle tre strade che partono da piazza Principe di Napoli, e sono: via Caracciolo (proseguimento), viale Regina Elena e la forbice via Mergellina-Piedigrotta. Mentre la via Piedigrotta piega verso quella piazza Piedigrotta, dove sorge la chiesa omonima, sede degli annuali festeggiamenti, l’altro gruppo sfocia in piazza Sannazzaro, vicino alla nota darsena di Mergellina. Da questo porticciuolo, chiamato in origine Mergoglino, sempre pieno di barche colorate, immerso in una luce e un silenzio superiori ai colori, ai gridi, al tonfo dei remi che fendono l’acqua chiarissima, parte la Via Nuova di Posillipo, che segue tutta la collina. E qui si può dire finisca la Napoli plebea (ch’è tutta Napoli) e cominci quella sezione civile e borghese, che per dimora non usa case o casupole, ma solo ville circondate da grandi e scuri giardini, con spiaggia propria. In realtà, la divisione non è così netta, trovandosi dovunque, per Napoli, palazzi bellissimi, cinti da folti giardini, con saloni e scale di marmo, oltre i quali non è possibile immaginare l’oscurità e il fetore dei vicoli. Dove però, in Napoli, le zone di bellezza e di gioia sono isole, a cominciare da viale Elena, isole, o eccezioni, sono la bruttezza e lo stento. Cominciano da Mergellina, poi, quelle alte pareti di tufo giallo, alte come il più alto dei cieli, dove si annidano le tombe di Leopardi e Virgilio, e che difendono i giardini di Posillipo da quei Campi Flegrei, che continuano dietro l’altro versante, disseminati di vulcani spenti e di zolfatare, intorno ai centri abitati o fatti deserti, di Bagnoli, Pozzuoli e Cuma.

Il Compagnone abitava in viale Elena da vari anni, e non ricordo se ne fosse mai compiaciuto. Lo disgustava soprattutto, poiché occupava un ammezzato, la vista della gente che gli appariva mentre stava seduto al suo tavolo, certe facce lerce provenienti dalla vicina Mergellina, che altamente contrastavano con la dignità della zona, e il sentire quasi ogni sera gli spari in onore di questo o quel patrono, e vedere sul terrazzino cadere i fuochi. Ma, in seguito, non vi aveva fatto più tanto caso. Era un giovane alto, distinto, con una piccola testa dai lineamenti classici, coperta di capelli castani. Gli occhi, dal taglio delicato, erano di un azzurro purissimo, velati da lunghe ciglia. Ugualmente delicati, e si può dire greci nella fattura, erano il naso e la bocca dalle labbra finemente unite, e solo di quando in quando piegate all’angolo da un sorriso torbido. Vi era qualcosa, in quel volto, tra l’estrema gioventù e la vecchiaia, e, da anni, si era fatta sempre più evidente una lotta tra certa nobiltà e gentilezza ch’erano in lui, e una disperazione e perfidia che erano ugualmente in lui, e poco alla volta, specialmente per chi lo rivedeva dopo un po’ di tempo, quella parte inferiore di lui, come un male nascosto, era avanzata. Non di molto, e si poteva anche non avvedersene.

Attraversai la piazza Principe di Napoli ed entrai in via Mergellina, pensando di raggiungere viale Elena da via Galiani, che taglia queste due parallele, e passa proprio davanti alla casa del Compagnone. Ero a pochi passi dal Caffè Fontana, quando mi parve di vederlo. Veniva avanti dal marciapiede opposto, con la sua andatura un po’ stanca di claudicante, senza fretta. Il viso era leggermente pallido, come di chi ha freddo, e gli occhi guardavano intorno senza gioia, anzi con una rabbia muta, greve. Stavo per salutarlo, quando mi accorsi di averlo soltanto ricordato.

Mi accorsi anche di un’altra cosa: che la tranquillità con cui mi ero disposta a recarmi dal Compagnone, quasi fosse, come finora lo avevo pensato, un semplice funzionario della Radio, quella tranquillità era sparita. Esitai, prima di entrare in via Galiani, quasi che il suolo sotto i miei piedi si muovesse leggermente. Anche le case mi parvero leggermente torte, e che qua e là si affacciassero figure inquiete, molto pallide, piene di rassegnazione e di collera.

Fatti, in tale stato d’animo, tra stupito e oppresso, pochi passi, scorsi subito, in fondo, l’asfalto di viale Elena, poi il proseguimento della via Galiani, poi ancora l’asfalto di via Caracciolo, illuminato dal chiarore celeste del mare. La casa del funzionario era situata su quell’ultimo tratto della via Galiani, in un palazzo d’angolo tra questa e viale Elena. Vidi il cancello e il terrazzino dell’ammezzato. Il cancello era accostato, come sempre, e il terrazzino deserto. Avrei potuto entrare dall’ingresso principale, ma preferii obbedire a una vecchia abitudine che, negli anni passati, mi conduceva alla casa del Compagnone solo dal lato del cancello, dove quasi tutte le sere, e anche a notte alta, era possibile vedere il salottino illuminato, il funzionario seduto in un angolo, con la sua aria disfatta e mordace, e intorno i giovani amici di lui. Questa volta non mi sbagliavo, il salottino era completamente spento, perché dai vetri della porta non trapelava il benché minimo filo di luce, e, solo, si distinguevano vagamente le forme dei mobili. Anche il balcone dell’attiguo terrazzino era chiuso e, alle cordelle sottili tese tra due muri, non dondolava né un fazzoletto né un calzino, dal che dedussi che anche la giovane Anita, moglie del Compagnone, era uscita col bambino. Tuttavia, spinto il cancello, e superati pochi scalini, appoggiai il dito sul bottone di porcellana infisso nel muro, e rimasi in attesa, vagamente impensierita, che qualcuno rispondesse. Non sentivo nessuna vibrazione, perché quel campanello ha un meccanismo particolare, e il suo suono è avvertito solo in fondo alla casa, e pensando di vedere spuntare a un tratto la magra figura del giovane, accostai il viso ai vetri.

Poco dopo, abituandosi l’occhio a quella oscurità, la stanza mi fu chiara in tutti i suoi particolari.

Era un comune salotto borghese, pieno di mobili vecchi ma scrupolosamente puliti. Quattro porte, compresa quella sulla strada, sembravano disegnate più che incise su quei pallidi muri. Una, sulla parete di fondo, era quella che comunicava col corridoio e la cucina, dove spesso la famiglia del funzionario s’intratteneva; un’altra, a sinistra, divideva la casa del Compagnone da un appartamento attiguo, e questa era sbarrata; la terza, sulla destra, immetteva nella stanza dei coniugi, e neppure da questa trapelava luce.

Proprio vicino alla porta di strada, sporgeva l’angolo di un grosso tavolo, coperto da un tappeto di lana grigia; sopra, in una confusione che, in qualche modo, non era più quella dei primi anni, stavano ammonticchiati certi libri, si vedevano allineati esigui fasci di carte, ed era visibile il fianco di una macchina da scrivere chiusa nella sua custodia.

Sulla parete di destra, sotto una lunga stampa grigia, raffigurante il Ratto delle Sabine, era appoggiato un divanetto vecchio e scomodo, coperto di una stoffa rossa, lacerata in più punti. Di fronte al divano, sulla parete opposta, una consolle di marmo bianco, guarnita di una specchiera dorata, continuava la linea del grosso tavolo. Sulla consolle, un orologio di bronzo, con degli amorini, non segnava più alcun tempo; la lancetta si era spezzata. Sia ai lati del divanetto, che della consolle, quattro medaglioni di terracotta, raffiguranti una testa di selvaggio del Nord America, a grandezza naturale, fortemente colorata, avevano sguardi fissi, gelidi. Infine, tutto era gelido, in quella stanza. Non un tappeto, né un fiore, né una luce, né un quadro rivelavano qualche compiacenza del padrone di vivere in quella casa, e comunque di vivere: il senso era una quiete rarefatta, profonda.

Continuavo a premere il dito sul bottone di porcellana, da cui non proveniva nessun suono, e a fissare turbata, intenta, la vecchia stanza.

Nella prima parte di essa, e precisamente intorno al divano, mi pareva scorgere delle figure, e avrei creduto udire il suono di voci familiari. Quella risata singolarmente lenta e agghiacciante, dove un pensieroso bambino si mescolava a un automa, era di Giovanni Gaedkens. Il ragazzo, in divisa alleata (acquistata alla Sanità per cinquecento lire), seduto nel centro del sofà, così reagiva alla lettura di uno sketch di Luigi Compagnone. Questi, con le sue lunghe gambe ancora sane, distese, in un atteggiamento felice, tra le sedie occupate dagli amici, sedeva accanto al Gaedkens, e ora leggeva, con una certa maligna grazia, ora pensieroso osservava. Accanto al Gaedkens, era anche il figlio del colonnello Prunas, piccolo di statura quanto una bambina, e stranamente silenzioso, immobile. Intorno al tavolo, ecco Lorenza, moglie del Gaedkens, piccola, grassa, coi capelli tirati e gli occhiali; Anita, moglie del Compagnone, dalla figura slanciata e sbiadita, il volto mite e freddo delle colline al tempo delle nebbie. Queste figure si trattenevano per qualche istante in quell’ambiente, con tutta la precisione e gli inganni ineffabili di una realtà; poi, come i numeri nel quadretto bianco di un tassametro, venivano sostituite, senza che aveste veduto come, da altre ugualmente giovani, seppure non così intense.

Quel ragazzo altissimo, dalla piccola testa d’uccello, e il profilo da una parte infantile, dall’altra vecchissimo, è l’avvocato Giuseppe Lecaldano, anch’egli occupato alla Radio, devoto amico di Luigi e fervente ammiratore della dottrina marxista; l’uomo bruno, dall’aspetto dimesso, che siede al suo fianco, è l’operaio specializzato Alfredo Barra, comunista, che vide con gioia i primi passi di Luigi nella vita delle federazioni, e anche ora che il giovane si rifiuta, lo segue come un caro morto; quell’incrocio, poi, tra la serenità di Fidia e la depressione di Sartre, quelle belle labbra, quei begli occhi, quello sguardo freddo, quella fronte perfetta, adombrata da ciocche di pallido bronzo, quell’euforia e quell’angoscia, appartengono al giovane sindacalista Aldo Cotronei, che già una volta tentò il suicidio, e ora si aggrappa di nuovo al Partito, per non morire. Quale malinconia, tenero ricordo di una bellezza che non può ripetersi, sospetto della grandiosità della vita, vela quei puri lineamenti, e schiude in un triste sorriso le labbra avvezze a ripetere dure formule. Anche a queste persone, il Compagnone leggeva degli sketch radiofonici, poi, nauseato, le osservava.

Dissolte anche queste figure di marxisti, e con esse le voci un po’ monotone e fisse di chi agisce in sogno, la stanza si popolava delle più squisite figurine napoletane degli anni ’45-50, e vi si potevano riconoscere note personalità intellettuali del luogo, da Guido Mannaiuolo, proprietario del Blu di Prussia, piccola galleria d’arte moderna, a Gino Capriolo, di Radio Napoli; da John Slingher, poeta anglo-napoletano, alla signora Etta Comito, redattrice della terza pagina del «Corriere di Napoli»; da Samy Fayad, giovane venezuelano, a Franco, Gino e Antonio Grassi, rispettivamente figli e fratello di Ernesto, il decano dei giornalisti napoletani; e tutte insieme, queste persone ascoltavano anche loro gli sketch del Compagnone, senza avvertire il ribrezzo e l’insulto ch’erano nella sua voce quasi femminile. Svanite queste figurette, ecco farsi un nero, e in quell’oscurità illuminarsi certi contorni quasi tragici: il pingue e delicato Prisco, ragazzo perfettamente educato, l’inquieto La Capria, il chiassoso e pallido Rea, gli scrittori comunisti Incoronato e Pratolini, dagli sguardi freddi e immaturi. Davanti a questi, il Compagnone non leggeva più: preso da un fitto, impercettibile tremito, lasciava che i fogli pieni di spiritose battute gli scivolassero dalle mani, abbassava sul petto, invaso da un misterioso terrore, il suo mento aguzzo di vecchio.

 

 

 

Tratto da: Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi 

 

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La provincia dell’uomo

10 Aprile 2023

 

 

Sarebbe una bella cosa se, a partire da una certa età, si diventasse di anno in anno più piccoli e si ripercorressero all’indietro gli stessi gradini su per i quali ci si è arrampicati una volta con orgoglio. Cariche e onori dell’età dovrebbero però restare come oggi; così, persone piccole piccole, alte come un bambino di sei o otto anni, verrebbero considerate le più sagge, le più esperte. I re più vecchi sarebbero i più piccoli; in genere si avrebbero solo dei papi piccolissimi; i vescovi guarderebbero dall’alto in basso i cardinali, e i cardinali il papa. Nessun bambino potrebbe più augurarsi di diventare qualcosa di alto. La storia, diventando vecchia, perderebbe importanza; si avrebbe l’impressione che avvenimenti di tre secoli fa si siano svolti tra creature simili a insetti, e il passato avrebbe la fortuna di essere finalmente negletto.

La parola libertà serve a esprimere una tensione importante, forse la più importante. L’uomo vuole sempre andare via, e se il luogo dove si vuole andare non ha nome, se è indefinito, senza confini, allora lo si chiama libertà.

L’espressione spaziale di questa tensione è il violento desiderio di valicare un confine, come se non ci fosse. La libertà nel volo si estende sino all’antico, mitico sentimento dell’ascesa verso il sole. La libertà nel tempo è il superamento della morte, e si è già soddisfatti anche soltanto quando si riesce a spostare la morte sempre più in là. La libertà fra le cose è il dissolversi dei prezzi, e il prodigo ideale, un uomo molto libero, desidera più di ogni altra cosa una variazione dei prezzi inaudita, senza alcun criterio, una loro fluttuazione sregolata, come soffia il vento, mai influenzabile e mai veramente prevedibile. Non esiste libertà «per qualcosa»; la sua grazia e la sua felicità sono la tensione dell’uomo che vuole oltrepassare le proprie barriere e ogni volta fissa questo suo desiderio sulle barriere più maligne. Uno che voglia uccidere ha a che fare con le terribili minacce che accompagnano il divieto di uccidere, e se non fosse tanto tormentato da quelle minacce si sarebbe certo caricato di tensioni più felici. – L’origine della libertà sta però nel respirare. Chiunque ha potuto respirare qualsiasi aria, e la libertà di respirare è l’unica che fino ad oggi non sia stata realmente distrutta.

Tratto da: Elias Canetti, La provincia dell’uomo, Adelphi

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Serge Latouche

8 Aprile 2023

La decrescita come progetto politico urbano e locale

La città lacerata

La distruzione delle città in tempo di pace – con l’esplodere dei vecchi centri storici, la speculazione immobiliare sfrenata che caccia i ceti inferiori e medi verso le periferie, il proliferare dei centri commerciali, l’estensione delle zone residenziali, l’emergere dei grattacieli, la lacerazione dello spazio dalle autostrade e la proliferazione dei non-luoghi (stazioni, aeroporti, ipermercati, ecc.), l’asfissia del traffico automobilistico – è uno dei sintomi di una crisi più ampia generata dalla “super” o “iper” modernità (parola che trovo più giusta di “post”-modernità).

La modernità con l’industrializzazione dell’Ottocento aveva distrutto la città medioevale e barocca, generando problemi di ogni sorta e sofferenze enormi di cui testimoniano i romanzi di Dickens o di Zola; tuttavia, un certo equilibrio si era mantenuto o ricostituito attorno ai grandi viali (basta pensare all’esempio della Parigi di Haussman). Questo equilibrio tutto relativo traduceva nel tessuto urbano un equilibrio altrettanto relativo tra la società con la sua moralità tradizionale resiliente (etica del lavoro, senso del dovere, dell’onore e dell’onestà), le istituzioni (esercito, giustizia, educazione, belli arti, ecc.) e l’economia capitalista con la sua accumulazione illimitata. La rottura di questo equilibrio è stata compiuta con la cosiddetta “globalizzazione” o “mondializzazione”, che si può datare in modo simbolico dalla caduta del muro di Berlino nel 1989. Non è tanto l’estensione degli scambi o della finanza su scala planetaria che è nuova (che esiste almeno dal 1492), è invece la mercificazione e la finanziarizzazione del mondo. Con ciò che i Francesi chiamano le tre “D”, dérèglementation, désintermediation, décloisonnement (assenza di regolazione, assenza di intermediazione, assenza di barriere), deciso in 1986 da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, si assiste letteralmente a l’onnimercificazione del mondo. Distruzione della società salariale e dello stato sociale, dischiusura delle economie e dei mercati e delle transazioni finanziarie. Tutto diventa oggetto di traffico, fino al corpo umano, al sangue, ai geni. Si passa da una società con mercato ad una società di mercato, da una società con crescita ad una societa di crescita. Si può definire la società di crescita come una società dominata da una economia di crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo principale, se non l’unico, della vita. Il cancro della Crescita (con la “C” maiuscola) non distrugge soltanto la città, ma distrugge anche il senso dei luoghi lacerando il territorio. Per questa ragione, i tentativi onorevoli degli urbanisti di porre rimedio alla crisi urbana proponendo schemi ingegnosi – regioni urbane, città giardino, città totale, reti urbane, conurbazioni (Geddes), Broadacre city (Wright), città compatta, città diffusa, ecc., che cercano una nuova articolazione tra città e campagna, sono condannati allo scacco per mancanza di un’analisi globale del fallimento della società della crescita. Secondo la profezia di Lewis Mumford, la megapolis si trasforma in tyrannopolis, poi finisce come nekropolis3. Solo con l’inserimento dentro il progetto di costruzione di una società di decrescita il tessuto locale e urbano può essere ricomposto.

Negli anni Sessanta, i professori di economia e i tecnocrati si riempivano la bocca con i circoli virtuosi della crescita. A questo periodo, chiamato dagli economisti francesi «i trent’anni gloriosi» (1945/1975), è seguita un’altra epoca che gli stessi (o i loro critici) hanno designato come «i trent’anni pietosi» (les «trente piteuses»). In realtà, i trenta anni “gloriosi”, anch’essi, se facciamo il bilancio dei guasti fatti all’ambiente e all’umanità, sono stati «trent’anni disastrosi» («trente désastreuses») come dice il “giardiniere planetario”, Gilles Clément4. Alla fine, i circoli virtuosi si sono rivelati piutosto perversi. Il deregolamento climatico che ci minaccia oggi è il risultato delle nostre “follie di ieri”.

Invece il cambiamento reale di prospettiva necessario per costruire una società autonoma di decrescita può essere realizzato attraverso il programma radicale, sistematico, ambizioso delle otto “R”: rivalutare, ridefinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti innescano un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile5.

Durante i trent’anni gloriosi, non era possibile denunciare i misfatti della crescita e dello sviluppo se non nel Sud, laddove erano più evidenti: deculturazione, omologazione, pauperizzazione. Se, nel Nord, la pauperizzazione nel senso economico del termine era contraria a ciò che pareva evidente durante l’epoca consumista, la deculturazione e la depolicitizzazione avanzavano comunque a grandi passi. Alcuni li analizzavano e denuciavano in modo più o meno raffinato, come Ivan Illich, Guy Debord o Pasolini. «Il potere, scrive quest’ultimo nei suoi Scritti corsari (1975), è divenuto un potere consumistico, infinitamente più efficace nell’imporre la propria volontà che qualsiasi altro potere al mondo. La persuasione a seguire una concezione edonistica della vita ridicolizza ogni precedente sforzo autoritario di persuasione»6. L’esplosione urbana, con la “periferizzazione” dei nuovi ceti medi o immigrati (secondo modello delle villette residenziali, periferie dormitorio popolari, habitat pavillonnaire, grands ensembles) è centrale in questo processo di corruzione politica dovuta alla crescita. La potente affermazione della grande distribuzione (super e ipermercato), andando di pari passo con quella dell’automobile e della televisione, aggrediva silenziosamente l’essere cittadini, creando un altro popolo invisibile e muto, e facilmente manipolato da un potere mediatico privo di scrupoli legato alle grandi compagnie transnazionali. La globalizzazione, favorendo un processo di deteritorializzazione e di delocalizzazione ha provocato lo smantellamento delle reti di protezione sociale e portato a termine la distruzione della cultura popolare. L’affermarsi di questi processi ha aperto la strada a una classe politica populista corrotta, persino criminale, di cui in Italia il fenomeno “Berlusconi” costituisce una illustrazione caricaturale. Ma la berlusconizzazione, con o senza il “Cavaliere”, continua a far danni in tutta l’Europa e non solo. Il fenomeno delle “maggioranze soddifatte”, secondo la felice intuizione di John Kenneth Galbraith, precipitando i ceti medi dalla solidarietà all’egoismo individuale, e gli stati occidentali nella contro-rivoluzione neo-liberale che ha distrutto lo stato previdenziale, al tempo stesso ha permesso questo processo e lo ha mascherato.

È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis, la città.

Il progetto della società della decrescita si articola intorno al circolo virtuoso delle otto “R”. Si può dire delle otto “R” che sono tutte altrettanto importanti. Mi sembra comunque che tre abbiano un ruolo più “strategico” delle altre: la rivalutazione, perché dà origine a tutti cambiamenti, la riduzione perché tiene in sé tutti i comandamenti pratici della decrescita e la rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita quotidiana e il lavoro di milioni di persone7. Il problema della città ormai distrutta e tutta da ripensare si inscrive nel contesto più ampio del territorio lacerato, della perdita dei punti di riferimento e della crisi del locale.

Rilocalizzare significa certo produrre localmente ciò che serve a soddisfare i bisogni della popolazione, partendo da imprese locali finanziate dal risparmio raccolto localmente. Ogni produzione che si possa svolgere su scala locale per i bisogni locali, deve essere realizzata localmente. Se le idee non devono conoscere frontiere, i movimenti delle merci e dei capitali devono essere ridotti all’indispensabile. Internalizzando i costi esterni del trasporto (infrastrutture, inquinamento, come l’effetto serra e lo sregolamento climatico) si rilocalizzerebbero un gran numero di attività. E sicuramente il famoso vasetto di yogurt alla fragola non incorporerebbe più 9000 km!8.

Ma nell’ottica della costruzione di una serena società di decrescita, la rilocalizzazione non può essere solo economica. Sono la politica, la cultura, il senso della vita che debbono ritrovare il loro ancorarsi territoriale. A ciò consegue che ogni decisione di natura economica che possa essere presa su scala locale per i bisogni locali deve esse presa localmente. Un principio fondato sul buon senso e non sulla razionalità economica. «Cosa importa guadagnare qualche franco su un oggetto, quando poi bisogna contribuire con migliaia di franchi, per spese diverse, alla sopravvivenza di una frazione della popolazione che non può più, a giusto titolo, partecipare alla produzione dell’oggetto?». Questo significa che tutte le decisioni economiche, politiche, culturali, che possono essere prese a livello locale debbono essere prese localmente.

La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta e feconda della decrescita, e si articola quasi subito in un programma politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli ecologisti: pensare globalmente, agire localmente. Rilocalizzare l’economia e la vita è una condizione non trascurabile della sostenibilità. Se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo partendo dai territori. Il progetto di decrescita urbana e locale richiede due volani interdipendenti: l’innovazione politica e l’autonomia economica.

Inventare la democrazia ecologica locale

Per contrastare la periferizzazione urbana e politica generata dalla crescita, la soluzione potrebbe consistere nel riprendere “l’utopia” dell’“ecomunicipalismo” di Murray Bookchin9. «Una comunità ecologica ricorrerebbe alla municipalizzazione della propria economia, e si unirebbe ad altre municipalità in modo da integrare le proprie risorse in un sistema federativo su base regionale». «Non è totalmente assurdo, scrive Bookchin, pensare che una società ecologica possa essere costituita da un municipio di piccoli municipi, ognuno dei quali sarebbe costituito da un “comune di comuni” più piccoli […] vivendo in una armonia perfetta con il loro ecosistema». La riconquista o la re-invenzione dei “commons” (il demanio comunale, i beni comuni, lo spazio comunitario) e l’auto-organizzazione di “bioregioni” costituiscono una illustrazione possibile di questo procedimento. La bioregione o ecoregione può essere definita come un’entità spaziale coerente che traduce una realtà geografica, sociale e storica. Può essere più o meno rurale o urbana – distinzione che oggi purtroppo sta per sparire.

La bioregione urbana, costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati di una forte capacità di autosostenibilità, mira a ridurre il consumo di energia e le diseconomie esterne (o esternalità negative, cioè i danni provocati dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i costi alla collettività). Politicamente, una bioregione potrebbe essere concepita come una città di città, città di municipi, municipio di municipi o forse una città di villaggi, in breve una rete policentrica o multipolare10. Si può pensare all’esperienza condotta a Milano con il progetto “Ecopolis città di villaggi” alla fine degli anni Ottanta, dove il villaggio era inteso come superamento delle periferie e della condizione di perifericità.

Per alcuni ci troviamo confrontati ad un “dilemma democratico”, che, in particolare nel campo dell’ecologia, si può formulare così:

Più un’unità politica è piccola e quindi direttamente controllabile da parte dei suoi cittadini, maggiori sono i campi su cui non ha sovranità. La sua capacità di decisione e di azione non si esercita infatti su questioni che travalicano l’ambito territoriale di sua competenza, che tuttavia subisce l’influenza delle dinamiche extraterritoriali.11

D’altra parte, tanto più si espande l’ambito territoriale di governo, tanto più calano le opportunità di partecipazione dei cittadini. C’è qui una constatazione di fatto, ma Paola Bonora suggerisce di non affrontare la questione sul versante dimensionale, dato che «non esiste una “misura” ottima, un confine perfetto, per l’esercizio della sovranità». Conviene allora affrontare il problema partendo dall’identità. La cosa importante è l’esistenza di un progetto collettivo radicato in un territorio concepito come luogo del vivere insieme e dunque da preservare e curare per il bene di tutti. La partecipazione è quindi implicita nell’azione e diviene «custode e promotrice dello spirito dei luoghi». La dimensione scompare dunque come problema topografico o di entità demica, insomma di misuratori descrittivi astratti, ma si configura come questione sociale di riconoscimento identitario e di capacità di azione coordinata e solidale. Di un agire collettivo che, in maniera indipendente dalla scala, si muove su obiettivi condivisi in direzione del bene comune. Considerare un’area metropolitana come una articolazione di quartieri autonomi che funzionano come dei comuni giustapposti, secondo la proposta di Bookchin, è interessante ma può aver successo solo se le organizzazioni di quartiere partecipare alla produzione dell’oggetto?». Questo significa che tutte le decisioni economiche, politiche, culturali, che possono essere prese a livello locale debbono essere prese localmente.

La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta e feconda della decrescita, e si articola quasi subito in un programma politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli ecologisti: pensare globalmente, agire localmente. Rilocalizzare l’economia e la vita è una condizione non trascurabile della sostenibilità. Se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo partendo dai territori. Il progetto di decrescita urbana e locale richiede due volani interdipendenti: l’innovazione politica e l’autonomia economica.

Inventare la democrazia ecologica locale

Per contrastare la periferizzazione urbana e politica generata dalla crescita, la soluzione potrebbe consistere nel riprendere “l’utopia” dell’“ecomunicipalismo” di Murray Bookchin9. «Una comunità ecologica ricorrerebbe alla municipalizzazione della propria economia, e si unirebbe ad altre municipalità in modo da integrare le proprie risorse in un sistema federativo su base regionale». «Non è totalmente assurdo, scrive Bookchin, pensare che una società ecologica possa essere costituita da un municipio di piccoli municipi, ognuno dei quali sarebbe costituito da un “comune di comuni” più piccoli […] vivendo in una armonia perfetta con il loro ecosistema». La riconquista o la re-invenzione dei “commons” (il demanio comunale, i beni comuni, lo spazio comunitario) e l’auto-organizzazione di “bioregioni” costituiscono una illustrazione possibile di questo procedimento. La bioregione o ecoregione può essere definita come un’entità spaziale coerente che traduce una realtà geografica, sociale e storica. Può essere più o meno rurale o urbana – distinzione che oggi purtroppo sta per sparire.

La bioregione urbana, costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati di una forte capacità di autosostenibilità, mira a ridurre il consumo di energia e le diseconomie esterne (o esternalità negative, cioè i danni provocati dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i costi alla collettività). Politicamente, una bioregione potrebbe essere concepita come una città di città, città di municipi, municipio di municipi o forse una città di villaggi, in breve una rete policentrica o multipolare10. Si può pensare all’esperienza condotta a Milano con il progetto “Ecopolis città di villaggi” alla fine degli anni Ottanta, dove il villaggio era inteso come superamento delle periferie e della condizione di perifericità.

Per alcuni ci troviamo confrontati ad un “dilemma democratico”, che, in particolare nel campo dell’ecologia, si può formulare così:

Più un’unità politica è piccola e quindi direttamente controllabile da parte dei suoi cittadini, maggiori sono i campi su cui non ha sovranità. La sua capacità di decisione e di azione non si esercita infatti su questioni che travalicano l’ambito territoriale di sua competenza, che tuttavia subisce l’influenza delle dinamiche extraterritoriali.11

D’altra parte, tanto più si espande l’ambito territoriale di governo, tanto più calano le opportunità di partecipazione dei cittadini. C’è qui una constatazione di fatto, ma Paola Bonora suggerisce di non affrontare la questione sul versante dimensionale, dato che «non esiste una “misura” ottima, un confine perfetto, per l’esercizio della sovranità». Conviene allora affrontare il problema partendo dall’identità. La cosa importante è l’esistenza di un progetto collettivo radicato in un territorio concepito come luogo del vivere insieme e dunque da preservare e curare per il bene di tutti. La partecipazione è quindi implicita nell’azione e diviene «custode e promotrice dello spirito dei luoghi». La dimensione scompare dunque come problema topografico o di entità demica, insomma di misuratori descrittivi astratti, ma si configura come questione sociale di riconoscimento identitario e di capacità di azione coordinata e solidale. Di un agire collettivo che, in maniera indipendente dalla scala, si muove su obiettivi condivisi in direzione del bene comune. Considerare un’area metropolitana come una articolazione di quartieri autonomi che funzionano come dei comuni giustapposti, secondo la proposta di Bookchin, è interessante ma può aver successo solo se le organizzazioni di quartiere dispongono di un vero potere e non sono soltanto intermediari. Per questo è importante che esista un progetto collettivo di riappropriazione dello spazio politico locale. Purtroppo, «i quartieri nella maggior parte dei casi vengono visti al più come organi di ascolto».

Una delle iniziative più originali e promettenti è certamente la “Rete del Nuovo Municipio” che, basandosi su esperienze come il bilancio partecipativo, propone un’idea di futuro locale alternativo e buone pratiche di democrazia.

Si tratta di un’associazione formata da ricercatori, movimenti sociali e numerosi responsabili locali provenienti di piccoli comuni, ma anche di enti più grandi come la Provincia di Milano e la Regione Toscana, che a livello locale vogliono risolvere in un modo onesto i problemi generati dalla dismisura della società della crescita. L’originalità della rete, alla cui ultima riunione a Bari (ottobre 2005) hanno partecipato 500 persone, testimonia di una realtà che vede una grande partecipazione di chi a partire dalla dimensione locale vuole cercare di risolvere seriamente i problemi generati dagli eccessi della società della crescita. L’originalità di questa Rete sta nella scelta di una strategia che si fonda sul territorio, ovvero nella concezione della realtà locale come campo di interazione tra attori sociali, ambiente fisico e patrimonio territoriale. Come sostiene la Carta, la Rete promuove «un progetto politico che valorizzi le risorse e le differenze locali promuovendo processi di autonomia cosciente e responsabile, di rifiuto della eterodirezione del mercato unico»12. In altre parole, si tratta di un laboratorio d’analisi critica e di autogoverno per la difesa dei beni comuni.

Nella stessa direzione va l’esperienza delle “città lente” (slow city). Questo movimento completa quello di “Slow food” al quale aderiscono ormai in tutto il mondo centomila produttori, contadini, artigiani e pescatori che lottano contro l’omologazione del cibo per ritrovare il gusto e i sapori. La rete mondiale “Slowcities” raccoglie città che limitano volontariamente la loro crescita demografica ad un massimo di 60000 abitanti per ritrovare la lentezza (oltre ciò diventa impossibile parlare di locale e di lentezza). Si ritrovano qui le idee di uno dei socialisti utopici più importanti, William Morris, precursore per molti versi della decrescita13.

La società della decrescita implica un protezionismo forte contro la concorrenza selvaggia e sleale. Ma questo non esclude una apertura larga verso “spazi” che adotteranno misure paragonabili. Se, come diceva Michel Torga nel 1954, «l’universale altro non è che il locale senza i muri», si può dedurre che, viceversa, il locale altro non è che l’universale con delle frontiere, dei limiti, delle zone cuscinetto, interpreti e traduttori (e anche guide per i clandestini). L’identità scelta, più o meno plurale eppure legata ad una visione comune del suo destino, è un elemento essenziale per dare consistenza all’unità bioregionale14. Benché profondamente radicato, il progetto locale non è chiuso ed egoistico, ma al contrario presuppone aperture ed idee generose del dare e dell’accogliere15.

Singleton nota che chi parla di locale e di comunità, mettendo in dubbio la possibilità o l’opportunità d’un universalismo politico astratto (ossia, un governo mondiale),

rischia molto di vedersi affibbiare tutti i nomi che la Modernità ha colpito d’anatema: fascismo, nazionalismo, machismo, paternalismo, elitismo, passatismo… Come far comprendere che la decrescita non è un ritorno alla relittualità comunitaria (della piccola famiglia nucleare, del quartiere di alto rango, dell’egoismo regionale), ma a una ritramatura organica del locale (permettere alle persone di essere maggiormente insieme come lo sono state fino agli anni Sessanta grazie, tra l’altro, a scuole di villaggio e a imprese “familiari”, a negozi all’angolo e a cinema di quartiere, invece de passare la loro vita a fare la spola fra complessi scolastici, zonizzazioni industriali e grandi superfici di periferia)16.

Nella prospettiva qui offerta, il locale non è un microcosmo chiuso ma un nodo in una rete di relazioni trasversali virtuose e solidali, allo scopo di sperimentare pratiche di rafforzamento democratico capaci di resistere al dominio liberista (per esempio i bilanci participativi).

Ritrovare l’autonomia locale

Urbana o rurale, la bioregione deve raggiungere la sua autonomia economica. Il programma della rilocalizzazione implica prima la ricerca dell’autosufficienza alimentare, e poi l’autonomia economica e finanziaria. Bisognerebbe mantenere e sviluppare le attività di base in ogni regione: agricoltura e orticultura, di preferenza organica, nel rispetto delle stagioni. Willem Hoogendick si è interrogato su una interessante inchiesta olandese (l’Olanda costituisce un caso limite). Secondo i calcoli dell’istituto di economia rurale olandese (LEI) fatti nel 1980, l’autosufficienza agricola era allora una scelta sostenibile per i Paesi Bassi, malgrado una densità di popolazione tra le più alte del mondo. Più recentemente, lo stesso istituto ha calcolato – i ricercatori stessi ne sono rimasti sorpresi – che i 16 milioni di abitanti potrebbero da subito consumare cibo proveniente da una agricoltura biologica domestica. Si dovrebbe solo ridurre il consumo di carne e aumentare quello dei prodotti stagionali. Si tratterebbe di una agricoltura estensiva all’aria aperta con aziende agricole miste (allevamento, prodotti vegetali e uso del letame), e anche di una orticultura estensiva con attività di conservazione, essicamento dei prodotti e rispettive trasformazioni. Poi, i nostri rifiuti, compresi alla fine i nostri escrementi, dovranno ritornare alla terra come fertilizzanti e concimi. Sottoscrivendo i “Panieri di prodotti freschi” (“paniers fraicheur”) con singoli contadini e aiutandoli nella raccolta (come già si pratica un po’ ovunque nel mondo con le AMAP, i GAS, ecc. ) possiamo stabilire legami più stretti tra coltivatori/allevatori e consumatori dei loro prodotti. E questi alimenti saranno più freschi e più sani. La loro impronta ecologica sarà infinitamente più leggera (meno frigorifero, meno stoccaggio, meno trasporti)17. I GAS (gruppi di acquisto solidale) e gli AMAP (associations pour le maintien de l’agriculture paysanne) vanno in questa direzione. Un passo ulteriore consiste nell’organizzarsi in reti per garantirsi reciproca complementarità ed estendere la loro assise (esperienza di Brioude). Questa autonomia comunque non significa ancora un’autarchia completa. Si potrà stimolare il commercio con le regioni che avranno fatto la stessa scelta e “lasciar stare” (abbandonare) il produttivismo: scambi equilibrati che rispettano l’indipendenza delle regioni, significano commercio dei surplus regionali mutuali senza sovraccaricare gli uomini e gli ecosistemi (scambiare burro contro ulivi e così via).

Si ricercherà anche l’autonomia energetica locale: le energie rinnovabili sono adatte alle società decentralizzate, senza grandi concentrazioni umane. Questa dispersione ha il vantaggio che ogni regione del mondo possiede un potenziale naturale per sviluppare una o più filiera di energia rinnovabile18. Si incoraggerà il commercio locale: un posto di lavoro precario creato nella grande distribuzione distrugge cinque posti fissi nei negozi di vicinato19. Secondo l’Istituto Nazionale Francese di Statistica e di studi economici (l’INSEE), la nascita delle “grandi superfici” (grandes surfaces=centri commerciali) alla fine degli anni Sessanta ha eliminato il 17 % dei panifici (17800), l’84 % dei negozi alimentari (73 800), il 43 % delle ferramenta (4300). Si tratta di una parte importante della sostanza stessa della vita locale che scompare e del tessuto sociale che si disfa20. Dato che oggi, in Francia, le cinque centrali d’acquisto della grande distribuzione coprono il 90 % del commercio al minuto, c’è molto lavoro da fare… Infine, bisogna pensare di inventare una vera politica monetaria locale. Per mantenere il potere d’acquisto degli abitanti, i flussi monetari dovrebbero rimanere il più possibile nella zona, mentre le decisioni economiche devono essere prese il più possibile a livello regionale. Secondo un esperto (uno degli inventori dell’Euro): «Incoraggiare lo sviluppo locale o regionale e conservare allo stesso tempo il monopolio della moneta nazionale è come provare a disintossicare un alcolizzato con il gin»21. Il ruolo delle monete locali, sociali o complementari è di mettere in relazione i bisogni insoddisfatti con risorse che altrimenti rimarrebbero inutilizzate. Le microesperienze sono numerose, dagli assegni dei sistemi di scambi locali, le monete fondenti, i creditos argentini, fino ai buoni d’acquisto specifici (trasporto, pranzi, fureai kippu in Giappone, “coupon de relation fraternelle”, per la cura degli anziani, ecc). Tuttavia, il riappropriarsi sistematico della creazione e dell’uso locale del denaro non è mai ancora stato tentato. La scala ideale per tale esperienza sarebbe senza dubbio ancora la bioregione. Bisogna pensare a immaginare delle monete “bioregionali”.

In sintesi, la regionalizzazione significa: meno trasporti, catene di produzione più trasparenti, incentivi per produrre e consumare in modo sostenibile, minore dipendenza dai flussi di capitali e dalle multinazionali e alla fine una maggior sicurezza in tutti i sensi del termine. Regionalizzare e ricontestualizzare l’economia nella società locale preserverà l’ambiente che è in ultima analisi la base di tutta l’economia,

– apre a ciascuno un accesso più democratico all’economia,

– riduce la disoccupazione,

– rafforza la partecipazione (e dunque l’integrazione) e anche la solidarietà,

– fortifica la salute dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione dello stress22.

Per concludere: iniziative locali e urbani decrescenti

In attesa dei cambiamenti necessari della governance mondiale e della salita al potere di governi nazionali intonati all’obiezione di crescita, numerosi sono gli attori locali che hanno implicitamente o esplicitamente imboccato la strada dell’utopia feconda della decrescita.

Se il progetto locale comporta evidenti limiti, non si deve sottovalutare la possibilità di fare dei passi avanti nella politica a questo livello. L’esperienza del comune di Mouans Sartoux sotto l’impulso del suo sindaco André Aschieri è interessante: riapertura controcorrente della stazione e del collegamento ferroviario, moltiplicazione delle aziende statali autonome per i beni comuni (acqua, trasporti, ma anche pompe funebri), creazione di piste ciclabili, di spazi verdi, mantenimento dei contadini locali e di piccoli negozi, rifiuto della speculazione immobiliare e dell’installazione dei supermercati. Tutto questo ha permesso di evitare una periferizzazione della città, considerata inevitabile trent’anni fa, e ha ridato senso al vivere localmente. L’organizzazione di un festival annuale del libro che coinvolge tutta la popolazione e la cui risonanza aumenta è un simbolo forte di questo rinnovamento. `

È importante fare conoscere le iniziative di ogni tipo e coordinarle. Collettività locali, dalla Carolina Nord a Châlon-sur-Saône, prendono l’iniziativa prima dello Stato e mettono a punto piani di lotta contro il cambiamento climatico. La riduzione di consumo di energia può ispirarsi all’esempio di BedZED (Beddington Zero Energy Development). Alcune regioni decidono di rifiutare gli OGM (L’Alta Austria, la Toscana, e addirittura la Polonia). Le ordinazioni delle collettività locali e degli stabilimenti pubblici (scuole, ospedali, ecc.) rappresentano una parte significativa delle ordinazioni pubbliche (12 % del Pil in Francia). Questo rappresenta una leva per diffondere la conversione ecologica nell’insieme dell’economia; basta imporre ai beneficiari buone pratiche ambientali attraverso il capitolato d’oneri d’appalto23. I municipi possono, per gli stabilimenti di loro pertinenza, prevedere rifornimenti che favoriscano imprese e negozi locali (Chambéry), imporre prodotti provenienti dell’agricoltura biologica per le mense e i ristoranti pubblici (Lorient, Pamiers), rifiutare l’uso dei pesticidi a vantaggio di tecniche meccaniche o termiche per la diserbatura (Rennes, Grenoble, Mulhouse), scegliere il compost piuttosto che i concimi chimici24. La promozione dei trasporti pubblici si sviluppa in alcune regioni francesi: il consiglio regionale della regione Rhône-Alpes, per esempio, ha approntato 400 treni in più dal 1997, rinnovato 115 stazioni e il 60 % del materiale. Il risultato è una crescita annuale della frequentazione dal 5 al 6 %25.

Fin da ora, conclude Yves Cochet, dobbiamo svolgere un ruolo attivo nella vita comunale participando alle elezioni, assistendo alle riunioni del Consiglio, diventando membri di associazioni che promuovono pratiche e culture della sobrietà; più zone pedonali e piste ciclabili invece di strade per il passaggio di automobili; più negozi di vicinato invece dei grandi centri commerciali; più piccoli edifici invece di grandi palazzi; meno spostamenti, più servizi in prossimità, meno circonvallazioni, meno zonizzazione urbana ecc.26. Bisogna sostituire il WTO (OMC) con l’OML (Organizzazione mondiale per la Localizzazione) con lo slogan: proteggere il locale globalmente27.

Note

1. Secondo l’espressione di Jean-Claude Michea, L’enseignement de l’ignorance et ses conditions modernes, Micro-Climats, Paris 1999.

2. Cfr. M. Augé e M. Revelli.

3. T. Paquot, Terre urbaine. Cinq défis pour le devenir urbain de la planète, La découverte, Paris 2006 e Utopies et utopistes. Repères, La découverte, Paris 2007.

4. G. Clément et Louisa Jones, Une écologie humaniste, Aubanel, Paris 2006. 5. Si potrebbe allungare la lista delle “R” con: radicalizzare, riconvertire, ridefinire, ridimensionare, rimodellare, riabilitare, reinventare, rallentare, restituire, rendere, riscattare, rimborsare, rinunciare, ripensare, rieducare ecc., ma tutte queste “R” sono più o meno incluse nelle prime otto.

5. Si potrebbe allungare la lista delle “R” con; radicalizzare riconvertire, ridefinire, ridimensionare, rimodellare, riabilitare, reinventare, rallentare, restituire, rendere, riscattare, rimborsare, rinunciare, ripensare, rieducare, ecc., ma tutte queste “R” sono più o meno incluse nelle prime otto.

6. P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975.

7. «Quattro tematiche possono strutturare lo spazio in divenire delle società di sobrietà, sottolinea Yves Cochet: l’autosufficienza locale e regionale, il decentramento geografico dei poteri, la rilocalizzazione economica e il protezionismo, la pianificazione concertata e il razionamento» (Y. Cochet, Pétrole apocalypse, Fayard, Paris 2005, p. 208).

8. Secondo la tesi di Stéphanie Böge pubblicata nel 1993 dal Wuppertal Institut, un vasetto di yogurt alla fragola di 125 grammi venduto a Stoccarda nel 1992, ha percorso 9115 km, se si sommano il percorso del latte, quello delle fragole coltivate in Polonia, quello dell’alluminio per l’etichetta, la distanza dalla distribuzione, ecc. (“Silence”, 167, 1993).

9. M. Bookchin, Pour un municipalisme libertaire, Atelier de création libertaire, Lyon 2003.

10. A. Magnaghi, Dalla città metropolitana alla (bio)regione urbana, in A.Marson (a cura di), Il progetto di territorio nella città metropolitana, Alinea, Firenze 2006, pp. 69-112.

11. R.A. Dahl, I dilemmi della democrazia pluralista, Il Saggiatore, Milano 1988.

12. Cfr. Carta del Nuovo Municipio, in www.nuovomunicipo.org.

13. News of nowhere/Nouvelles de nulle part.

14. Se la lingua è, come dice Martin Heidegger, la “casa dell’essere”, «la babelizzazione, come dice Thierry Paquot, permette non soltanto la diversità delle culture, ma anche modi di essere e di pensare». Essa participa di ciò che definisce una ecologia delle lingue (T. Paquot, Terre urbaine, cit., p. 181).

15. P. Bonora, op. cit., p. 118.

16. M. Singleton, “Entropia”, n.1, 2006, p. 52.

17. W. Hoogendick, Let’s regionalise the economy – and cure ourselves of a host of ills!

18. Y. Cochet, op. cit., p. 140.

19. C. Jacquiau, Les coulisses du commerce équitable, Mille et une nuits, Paris, 2006.

20. Cfr. N. Ridoux, La décroissance pour tous, Parangon, Lyon 2006, p. 11.

21. B. Lietaer, Des monnaies pour les communautés et les régions biogéographiques: un outil décisif pour la redynamisation régionale au XXIème siècle, in Jérôme Blanc, Exclusion et liens financiers, Monnaies sociales, Rapport 2005/2006, Economica, Paris 2006, p. 76.

22 W. Hoogendick, op.cit.

23 P. Canfin, L’économie verte expliquée à ceux qui n’y croient pas, Les petits matins, Paris 2006, p. 72.

24 Hulot, op. cit., p. 170.

25 N. Ridoux, La décroissance pour tous, cit., p. 86.

26 Cochet, op. cit., p. 200.

27 Secondo il suggerimento di Y. Cochet, op. cit., p. 224.

Tratto da: Serge Latouche, La decrescita come progetto politico urbano e locale26

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I vegetariani

7 Aprile 2023

Non sembra facile, oggi, una difesa del vegetarianismo. Non solo tutti idolatrano il vitello carneo; il nutrimento alternativo, da contrapporgli, è scadente, povero e pericoloso. Nei catechismi vegetariani tradizionali si agita un mondo d’ombre. La polpa matura dei frutti, la potenza degli alimenti crudi, la virtù risuscitativa del miele, la perfezione del latte, lo splendore del burro, l’incanto dei formaggi, l’inesauribile bellezza del pane, l’eccellenza curativa del vino, la regalità dell’olio d’oliva, le profondità energetiche dell’uovo di gallina. Guai a sbucciare un frutto; lavare poco; seguire sempre i ritmi stagionali. In autunno, fra i tralci, a sguazzare nell’uva nera; noci umide di mallo, pannocchie di granturco dorate nel burro. Inverno: agrumi e castagne. Primavera: grandi vasi di fragole di bosco, condite con pòllini. Estate: tutto il giallo, tutto il rosso. E tutto piamente masticato cento volte, benedicendo la Natura datrice, fuggendo il sale, il fumo, il caffè. A Jasnaia Poliana era un regime possibile: ma qui, ora? Quei buoni manuali insegnano il ballo a una corsia di amputati. Nelle illustrazioni, donne sanissime aprivano le stanze ai raggi del Maturatore appena levato per il suo giro nei frutteti, mentre una bambina in fiore correva addentando mele non proibite, perché non sbucciate. C’era, a Praga, ai primi del secolo, una Pomologische Schule, una scuola di frugivorismo, che ebbe tra i suoi frequentatori Franz Kafka, vegetariano tra i più ascetici – crauti senza salsicce – finché la tubercolosi non lo costrinse a mangiarli con salsicce. Ma, a Zurigo, nella clinica Bircher-Brenner c’erano, per tubercolotici, speciali diete vegetariane. Un vegetarianismo di moltitudini, nel mondo occidentale, è impensabile, e quello di élite vive con difficoltà. Per essere vegetariani bisogna credere anzitutto in certi principia filosofici piuttosto estranei a questa cultura, e adeguarvi una disciplina igienica, uno stile personale di vita. Sembrano sogni: tutta l’Intelligenza europea studiosa e creatrice è un Mammut carbonizzato per quanto riguarda i problemi morali con proiezione e dipendenze metafisiche. Non parlo dei Russi: in loro qualcosa vive, da loro qualcosa di eterno ogni tanto arriva a confonderci e a ferirci; ma in Occidente sulle vivendi causas non si piega quasi più nessuno e la parola scritta, anche la migliore, porta con faccia suicida questa sua barbarie muta. Tra muraglie di libri, i letterati vivono come un presentatore televisivo o il più ottuso dei dirigenti industriali. Allora carne carne carne carne; finché ci sono bestie da ammazzare carne; quando saranno finite, provvederanno Burke e Hare: l’importante è che il piatto sia pieno, inoltre la guerra feroce della medicina contro il vegetarianismo ha scoraggiato molti onesti principianti, ai quali è mancato il cuore di sfidarla. «Se non mangi la carne muori!». La medicina vede il vegetariano come un suicida, che abbia scelto la zuppa d’avena invece della pistola a tamburo per finirla con ogni tipo di cena.
E poi siamo immersi in un’esaltazione continua e rabbiosa della sopraffazione dell’uomo sulla bestia e di chiunque sopra chiunque, e il nutrimento carneo è visto come il fondamento necessario di tutta la gerarchia della paura, è l’olio benedetto che consacra i re della vita. Perciò scrivo queste piccole note per incoraggiamento dei vegetariani timidi e per approvazione dei clandestini, punti di refrigerio nelle fornaci del carnivorismo. Da molti anni sono vegetariano e posso dire di averci guadagnato in salute fisica e mentale. Non ho perduto che le macabre catene del conformismo onnivorista.
Dati i prezzi del mercato delle carni, una famiglia volontariamente vegetariana galleggia meglio, può spendere in raffinatezze quel che risparmia in pezzi di cadavere, ha un bilancio meno pesante e lo stomaco meno guasto. Meglio sia un’intera famiglia a nutrirsi vegetarianamente, e non un solo componente, perché così non c’è separazione a tavola, tutti unisce in un magico circolo l’ideale comune. Siate diversi, sostanzialmente diversi da come vi vogliono, da come fanno essere! E per esserlo infallibilmente, bisogna cominciare dal nutrimento, tutto è lì.  Il vegetarianismo familiare è un’ incrinatura sensibile dell’uniformità sociale, una piccola porta chiusa al male, in questa universale condanna a essere tutti uguali a servirlo. I bambini non sono problema: quasi tutti sono, spontaneamente vegetariani, e un vegetariano avveduto non li priva certo di proteina. La carne gli viene imposta dall’idiozia carnivorista degli adulti. I padri permettono ai bambini anche d’impiccarli, ma guai se respingono il piatto di carne! E dall’implacabilità dell’affetto deluso, le vendette più atroci! E quando una gaia coppia vegetariana scoprisse, in un figlio delle sue viscere, funeree inclinazioni carnivore dovrà reprimerle? C’è un destino, anche qui, e si può contrastarlo solo entro limiti di buon senso. Ma un’educazione vegetariana fondata sulla pietà e sulla bhakti, dovrebbe resistere bene alle violenze dell’istinto.
Un vero vegetarianismo esclude qualsiasi tipo di carni, e anche i brodi carnei, tanto meno consumabili quanto più consommés. È un modesto Verboten nell’immensità del mangiabile… La dieta vegetariana è di solito amatissima da chi la pratica, rare le riconversioni non forzate.
Il vegetarianismo, idea liberatrice, è da riproporre, ma i suoi vecchi testi sono da riscrivere tutti. Una separazione certa tra alimenti vitali e alimenti assassini non è più possibile, perché tutto quel che ci nutre riceve un permesso di nuocere dai demoni dell’inquinamento. Provati a cercare i frutti maturi! a mangiarli da sbucciare! E a fare la cura dell’uva non lavata! Sui vigneti, un teschio gentile ti avverte che i grappoli sono avvelenati. E riempiono ormai un grande cimitero, le ossa dei bambini assassinati da una mela, da una pesca prese nei campi! Frutti enormi, senza una macchia: immangiabili. Crescono sotto i calci del chimico, sovente al buio, i famosi alimenti solari dei vegetarianisti! Che cosa potrebbe fare la Scuola Pomologica? Contemplare rovine…
Che cosa sono nei negozi ortofrutticoli quei bubboni lucidi, deformi e rossi come nasi di ubriachi, esposti in piccoli bidè di plastica? Dai letterati ritenuti Fragole, sono in realtà ormoni capponati, fatti ingrassare tra due striscioline luttuose di plastica nera, truccati da fragole per compratori che tanto non ne vedranno mai una. Gli agrumi, le patate… Non si creda che soltanto le bucce siano pericolose.
Il vegetariano è colpito nei punti del suo antico giubilo, bisogna ammetterlo. Impegna allora un combattimento strano: mentre arricchisce la sua dieta di rinunce, esplora l’ignoto in cerca dell’incontaminato. Batte le campagne per trovare un vero uovo, nei misteri della città scopre un formaggio lunare. Vita di monaco vagabondo, non priva di attimi radiosi. I funesti prodotti del terricidio li schiva con ribrezzo.
«Se il vegetarianismo è così difficile, perché non la carne?». Perché se il vegetarianismo è oggi purgatorio, la carne è due volte inferno. Una tabellina del grado di sconsigliabilità degli alimenti, così come sono oggi in natura e in commercio, non avrà ai primi posti quelli del vegetariano, ma dell’onnivoro. Si sa che cosa sono le carni in genere: quel che c’è di più devitalizzato, di più sporcato dai medicinali (antibiotici, estrogeni, tranquillanti, antitiroidei) tra i prodotti alimentari. L’allevamento del bestiame non ha scrupoli per raggiungere i pesi e i profitti desiderati.
Ripulitelo, lucidatelo quanto volete, il mattatoio, chiamatelo Paradiso dei Millefiori: sarà come versare i profumi d’Arabia sulle mani di Lady Macbeth. Meglio che abbia odore di morte, che non mentisca, che si possa vederla, toccarla e mangiarla, la sua misteriosa somiglianza con l’uomo. Il mattatoio è la nostra ombra; qualsiasi città, Stato, società civile proietta quest’ombra che impoverisce la luce dell’astro. Fatelo periferico, chiudetelo sottoterra: sarà sempre dietro ogni porta, e la sua presenza ci maledice tutti.
E tuttavia il mattatoio non è che il beato punto finale di un transito nell’esistenza tra i più tormentosi. L’allevamento industriale, col suo commercio mondiale, è una planetaria camera di tortura: i lunghi viaggi strazianti per mare e ferrovia, le isterectomie per mettere i feti nelle incubatrici, le continue iniezioni, le fecondazioni artificiali, le nutrizioni intensive, impregnate di orrore chimico, nel buio e nella semiparalisi, per fare lombi più grassi e carni più anemiche, i terrori, le catene, le mutilazioni, ne sono i principali strumenti. L’allevamento all’aria aperta è quasi scomparso, e l’animale nasce e muore in una prigione perpetua.
Vedere l’eccellente lavoro inglese edito da Bompiani, Il dominio dell’uomo di Hutchings-Caver (naturalmente, se n’è parlato pochissimo), capitoli 7 e 8, che tuttavia non contengono che un panorama di orrori limitato (gli autori non sono vegetarianisti) e, per una idea di un grande mattatoio, quel che scrive Mailer degli stock yards nella sua cronaca della Convenzione di Chicago del ‘68. Sugli alimenti contaminati, carni e no, c’è l’importante saggio di Maurice Pasquelot, La terre chauve, edito dalla Table Ronde.
Argomentando della tossicità delle carni, non va trascurato quel che l’analisi non può rivelare: l’energia negativa di cui è imbevuta ogni molecola di un essere sensibile trattato come una quantità inanimata, il concentrarsi in chi se ne ciba dei residui psichici del suo terrore e della sua disperazione. Lamenti di macchine da allevamento, miserabili lamenti di bruti subumani che cosa contano? Siamo una civiltà cartesiana: l’animale è come un orologio, puro movimento automatico, niente anima… Trattiamo anche noi stessi come quantità inanimate. In questo c’è giustizia. (pp. 64-70)

419. […] [Male di laurea] Università è seme di malavita, di storpiature e brutalità della mente, di fame di vento. Incorporata nella malattia della grande e sterminata città, dove è giusto che seguiti a schizzare i suoi germi di Sapienza afflitta dai mali del Pistoia e degli Accademici di Bedlam, non può crescere a spese della città piccola senza disfarla.
Fatevela e vedrete. Contaminando una civile popolazione con germi universitari, sarà la fine della buona alimentazione locale. Arrivano le nutrizioni senza volto, l’olio e il vino schifosi, si aprono le immonde rosticcerie e i micidiali supermercati, gli studenti mangiano tutto, hanno la colica permanente stampata in faccia. Allo stomaco rovinato corrisponde cervello guasto. Come lo stomaco fa merda di pizze, polli, patate fritte, cornetti, polpette, bigné, spaghetti innominabili, così il cervello si trangugia cretinismo politico, vernice scientifica, slogan latrinario, odio insulso, amore balordo, pubblicità, carta, ultrasuoni infernali. Il prodotto di tutto questo è un malato, un tipo generalmente aggressivo e melenso, stupito di ritrovarsi disoccupato e insignificante. È filantropico fabbricare tutto questo?  […] (pp. 144-145)

Tratto da: Guido Ceronetti,  Il silenzio del corpo, Adelphi Edizioni, Milano 1979

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Première soirée

6 Aprile 2023

PRIMA SERATA xxvii (Première soirée)

– Lei era assai svestita
e i grandi alberi indiscreti buttavano sui vetri il loro fogliame maliziosamente, vicino, vicino.

Seduta sulla mia grande sedia,
seminuda, incrociava le mani.
Sul pavimento rabbrividivano senza disagio i suoi piedini minuti, minuti.

– Io guardavo, color della cera,
un piccolo raggio fuggiasco svolazzare sul suo sorriso
e sui suoi seni, – mosca sul rosaio.

– Io baciavo le sue caviglie fini. Lei un dolce riso brutale
che s’allungava in trilli luminosi, un riso amabile di cristallo.

I piedini sotto la camicia Trovarono scampo: “La fai finita!” – La prima audacia concessa,
il riso fingeva di punire!

– Sommessi palpitanti sul mio labbro, io baciavo i suoi occhi dolcemente:
– lei ritirò la sua testolina
indietro: “Oh! è meglio ancora!…

signorino, ho due parole da dirti…” – il resto io glielo gettai sul seno con un bacio, che la fece ridere
di un riso quieto, compiacente…

– Lei era assai svestita
e i grandi alberi indiscreti buttavano sui vetri il loro fogliame maliziosamente, vicino, vicino.

 

 

Tratto da:  ARTHUR RIMBAUD / POESIE

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Elsa Morante

1 Aprile 2023

3.

Resta dunque da raccontare per ultima quella primavera-estate del ’47, coi vagabondaggi di Useppe e della sua compagna Bella, in libera uscita nel quartiere Testaccio e dintorni. Senza la guardia di Bella, certo, una simile libertà sarebbe stata negata a Useppe. Lui non di rado era ripreso da voglie avventate di fuga, ossia di camminare avanti avanti senza saper dove; e non c’è dubbio che si sarebbe sperduto, se non ci fosse stata Bella a frenarlo, e a riportarlo a casa all’ora solita. Inoltre, ogni tanto, inopinatamente, lo scuotevano delle paure: bastava il movimento d’un’ombra, o d’una foglia, per metterlo all’erta o dargli dei sussulti. Ma per fortuna, non appena girava le pupille inquiete, la prima cosa che vedeva era la faccia di Bella, coi suoi occhi marrone contenti della bella giornata e i suoi respiri a bocca aperta, che applaudivano l’aria.

Nel corso della stagione, ai due, per quanto solitari, non mancarono incontri e avventure. La prima avventura fu la scoperta di un luogo meraviglioso. Era questo, appunto, il luogo di «sua conoscenza» dove Useppe aveva progettato di portare l’animaluccio senza coda. E la scoperta, difatti, era stata di poco antecedente alla visita del Professor Marchionni. Fu di domenica mattina; dopo il breve intervallo della loro clausura, Useppe e Bella avevano di nuovo via libera per uscire. E tanto smaniosi che alle nove, salutata Ida, erano già fuori casa.

La tramontana, nel suo passaggio veloce dopo le piogge, aveva lasciato l’infinito così limpido che perfino i muri vecchi ringiovanivano a respirarlo. Il sole era asciutto e ardente, e l’ombra era fresca. Nel piccolo soffio dell’aria, si camminava senza peso, come portati da una barca a vela. E oggi, per la prima volta, Useppe e Bella valicarono i loro confini soliti. Senza nemmeno accorgersene, cammina e cammina, superarono Via Marmorata, seguendo tutta la lunghezza del Viale Ostiense; e raggiunta la Basilica di San Paolo, presero a destra, dove Bella, chiamata da un odore inebriante, incominciò a correre, seguíta da Useppe.

Bella correva al grido: «Uhrrr! uhrrr!» che significa: «Il mare! il mare!», mentre invece, si capisce, quello laggiù non era altro che il fiume Tevere. Ma non più, invero, lo stesso Tevere di Roma: qua esso correva fra i prati, senza muraglie né parapetti, e rifletteva i colori naturali della campagna.

(Bella possedeva una specie di memoria matta, errante e millenaria, che d’un tratto le faceva fiutare in un fiume l’Oceano Indiano, e la maremma in una pozzanghera di pioggia. Era capace di riannusare un carro tartaro in una bicicletta e una nave fenicia in un tranvai. E con ciò si spiega perché si slanciasse fuor di proposito in certi zompi monumentali; o perché a ogni tratto si fermasse a frugare con tale interesse frammezzo ai rifiuti o a salutare con mille cerimonie certo odori di minima importanza).

Qui la città era finita. Di là, sull’altra riva, si scorgevano ancora fra il verde poche baracche e casupole, che via via si diradavano; ma da questa parte, non c’erano che prati e canneti, senza nessuna costruzione umana. E nonostante la domenica, il luogo era deserto. Con la primavera appena agli inizi, specie di mattina, nessuno ancora, difatti, frequentava queste rive. C’erano solo Useppe e Bella: i quali correvano avanti un tratto, poi si buttavano a scapriolare nell’erba, poi zompavano su e correvano avanti un altro tratto.

In fondo ai prati, il terreno si avvallava, e incominciava una piccola zona boscosa. Fu lì che Useppe e Bella a un certo punto rallentarono i passi, e smisero di chiacchierare.

Erano entrati in una radura circolare, chiusa da un giro di alberi che in alto mischiavano i rami, così da trasformarla in una specie di stanza col tetto di foglie. Il pavimento era un cerchio d’erba appena nata con le piogge, forse ancora non calpestata da nessuno, e fiorita solo di un’unica specie di margherite minuscole, le quali avevano l’aria di essersi aperte tutte quante insieme in quel momento. Di là dai tronchi, dalla parte del fiume, una palizzata naturale di canne lasciava intravedere l’acqua; e il passaggio della corrente, insieme all’aria che smuoveva le foglie e i nastri delle canne, variava le ombre colorate dell’interno, in un continuo tremolio. All’entrare, Bella fiutò in alto, forse credendo di ritrovarsi in qualche tenda persiana; poi levò appena gli orecchi, al suono di un belato della campagna, ma súbito li riabbassò. Anche lei, come Useppe, si era fatta attenta al grande silenzio che seguì la voce singola di quel belato. S’accucciò vicino a Useppe, e nei suoi occhi marrone comparve la malinconia. Forse, si ricordava dei suoi cuccioli, e del suo primo Antonio a Poggioreale, e del suo secondo Antonio sottoterra. Pareva proprio di trovarsi in una tenda esotica, lontanissima da Roma e da ogni altra città: chi sa dove, arrivati dopo un grande viaggio; e che fuori all’intorno si stendesse un enorme spazio, senz’altro rumore che il movimento quieto dell’acqua e dell’aria.

Un frullo corse nell’alto del fogliame, e poi, da un ramo mezzo nascosto, si udì cinguettare una canzonetta che Useppe riconobbe senza indugio, avendola imparata a memoria un certo mattino, ai tempi che era piccolo. Rivide anzi la scena dove gli era capitato di ascoltarla: dietro la capanna dei guerriglieri, sul monte dei Castelli, mentre Eppetondo cuoceva le patate e si aspettava Ninnuzzu-Assodicuori… Il ricordo gli si presentò un poco indistinto, in un tremolio luminoso, simile all’ombra di questa tenda d’alberi; e non gli portò tristezza, ma anzi il contrario, come un piccolo saluto ammiccante. Anche Bella parve gustare la canzonetta, perché alzò la testa di sotto in su, tenendosi in ascolto accucciata, invece di slanciarsi in uno zompo come avrebbe fatto in altra occasione. «La sai?» le bisbigliò Useppe pianissimo. E in risposta essa agitò la lingua e alzò mezzo orecchio, per intendere: «Altro che! e come no?!» Stavolta, i cantanti non erano due, ma uno solo; e a quanto se ne distingueva giù da sotto, non era né un canarino né un lucherino, ma forse uno storno, o piuttosto un passero comune. Era un uccellino insignificante, di colore castano-grigio. A scrutare in alto, badando a non fare movimento né rumore, si poteva scorgere meglio la sua testolina vivace e perfino la sua minuscola gola rosea che palpitava nei gorgheggi. A quanto pare, la canzonetta s’era diffusa, nel giro degli uccelli, diventando un’aria di moda, visto che la sapevano anche i passeri. E forse, costui non ne conosceva nessun’altra, visto che seguitava a ripetere questa sola, sempre con le stesse note e le stesse parole, salvo variazioni impercettibili:

«È uno scherzo

uno scherzo

tutto uno scherzo!»,

oppure

«Uno scherzo uno scherzo

è tutto uno scherzo!»,

oppure

«È uno scherzo

è uno scherzo

tutto uno scherzo uno scherzo

uno scherzo ohoooo!»,

Dopo averla replicata una ventina di volte, fece un altro frullo e se ne rivolò via. Allora Bella soddisfatta si allungò meglio sull’erba, con la testa riposata sulle due zampe davanti, e si mise a sonnecchiare. Il silenzio, finito l’intervallo della canzonetta, s’era ingrandito a una misura fantastica, tale che non solo gli orecchi, ma il corpo intero lo ascoltava. E Useppe, nell’ascoltarlo, ebbe una sorpresa che forse avrebbe spaventato un uomo adulto, soggetto a un codice mentale della natura. Ma il suo piccolo organismo, invece, lo ricevette come un fenomeno naturale, anche se mai prima scoperto fino a oggi.

Il silenzio, in realtà, era parlante! anzi, era fatto di voci, le quali da principio arrivarono piuttosto confuse, mescolandosi col tremolio dei colori e delle ombre, fino a che poi la doppia sensazione diventò una sola: e allora s’intese che quelle luci tremanti, pure loro, in realtà, erano tutte voci del silenzio. Era proprio il silenzio, e non altro, che faceva tremare lo spazio, serpeggiando a radice più in fondo del centro infocato della terra, e montando in una tempesta enorme oltre il sereno. Il sereno restava sereno, anzi più abbagliante, e la tempesta era una moltitudine cantante una sola nota (o forse solo un accordo di tre note) uguale a un urlo! Però dentro ci si distinguevano ci sa come, una per una, tutte le voci e le frasi e i discorsi, a migliaia, e a migliaia di migliaia: e le canzonette, e i belati, e il mare, e le sirene d’allarme, e gli spari, e le tossi, e i motori, e i convogli per Auschwitz, e i grilli, e le bombe dirompenti, e il grugnito minimo dell’animaluccio senza coda… e «che me lo dài, un bacetto, a’ Usè?»

Questa multipla sensazione di Useppe, non facile né breve a descriversi, fu in se stessa, invece, semplice, rapida, quanto una figura di tarantella. E l’effetto che ebbe su di lui, fu di farlo ridere. Si trattava, invero, anche oggi, a detta dei medici, di uno dei diversi segni del suo morbo: certe sensazioni allucinatorie sono «sempre possibili in soggetti epilettici». Ma chi si fosse trovato a passare, in quel momento, nella tenda d’alberi, non avrebbe visto altro che uno spensierato morettino dagli occhi azzurri, il quale rideva di niente, con lo sguardo in aria, come se una piuma invisibile gli vellicasse la nuca.

tratto da Elsa Morante, La Storia, Torino 1974.

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Boris Pahor

20 Marzo 2023

Ci sono voluti quarant’anni perché Boris Pahor fosse conosciuto in Italia. Ci sono voluti decine di libri stampati all’estero, una Légion d’honneur, premi negli Stati Uniti, traduzioni in inglese, tedesco, francese, persino esperanto e finlandese. Troppo a lungo non si è saputo che nella città di Trieste c’era un grande scrittore in quella lingua slovena che il fascismo ha invano tentato di cancellare con la forza. Necropoli, dedicato alla prigionia nei Lager nazisti, ha fatto conoscere questo autore ormai novantacinquenne (il libro è del 1967). Giunto all’età di 95 anni, Pahor vede finalmente la sua opera acclamata come capolavoro anche in Italia, il Paese in cui è nato ed è sempre vissuto. Nato nel 1913 a Trieste, studia nei seminari di Capodistria e Gorizia, senza completare gli studi teologici, che abbandona nel 1938. Nel 1940 viene arruolato e mandato in Libia e poi assegnato a un campo di prigionia per ufficiali jugoslavi a Riva del Garda. Tornato a Trieste dopo l’armistizio, aderisce al Fronte di Liberazione Nazionale Sloveno. Viene arrestato e consegnato alla Gestapo, che lo manda a Dachau. Da lì sarà internato nei campi di Natzweiler-Struthof, Hartzungen e Bergen- Belsen, dove riesce a sopravvivere grazie anche ai suoi compiti di infermiere. Nel 1966 torna, con una comitiva di turisti, al lager di Natzweiler-Struthof, nei Vosgi. Quella visita innesca la memoria e ne viene fuori il capolavoro dello scrittore. Attraverso lo sconcerto del ricordo, la narrazione si svolge nel breve ma interminabile tempo della passeggiata che l’autore compie nel “suo” campo, divenuto oggi meta turistica. Pahor si scopre all’improvviso geloso custode di «uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi non potranno mai penetrare nell’abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana». Scrive nel libro: «L’umanità ha sempre un certo numero di propri membri che vanno in pellegrinaggio, che visitano tombe e santuari, e di solito queste persone vengono considerate le migliori, le più nobili; ma nessuno può assicurarci che grazie a queste anime buone la storia dell’uomo possa migliorare. La mia impressione è che i cuori pietosi accompagnino semplicemente lo sviluppo degli eventi, senza provocarli; salici piangenti che si incurvano sul luogo in cui, dopo uno sterminio muto o fragoroso, si è distesa una quiete infinita»(p. 135). La quiete che regna nel lager-museo è appena turbata dalle parole dell’anziana guida: «Magari è solo un pensionato che, con questa occupazione, rimpingua il suo reddito, ma preferisco immaginarlo come uno degli ex abitanti di questa dimora perduta. Così, quando entra con la gente nella baracca, mi pare di essere una spia che si aggiri lì intorno alle mura esterne per sorvegliare, in nome di compagni invisibili, questo signore incaricato di parlare per conto delle lingue ammutolite. La sua voce nell’inferno della prigione è sobria e seria; parla in un modo che non mi ripugna: adagio, senza enfasi ciceronica, con cosciente attenzione affinché le parole aderiscano alle immagini» (p. 135). Ma Necropoli è una riflessione sull’impossibilità di capire quella storia e sulla nostra incapacità di comprendere. Libro intenso e tragicamente poetico, animato dal bisogno di affermare il diritto di ogni essere umano alla sua inalienabile libertà. Una sorta di tentativo di proteggere la memoria del dolore indicibile, ma anche la consapevolezza della necessità che quanto accaduto diventi pubblico, perché il mondo sappia e faccia in modo che non accada più. «Ma perché? Perché l’aureola di eroi per quelli che caddero col fucile in mano o aggrappati alla mitragliatrice, e un ricordo appena accennato, se non il silenzio assoluto, per quelli che furono rosi dalla fame? Perché vi siete sbarazzati in modo così arrogante di un ospite sgradito? Chi nella retroguardia rendeva possibile la battaglia al combattente non era forse eroico quanto il ribelle armato? Non era addirittura più eroico, dal momento che, una volta catturato, poteva confidare soltanto nella propria forza di carattere, mentre l’eroe che adesso è coronato di gloria aveva tra sé e il corpo del nemico un’arma da fuoco con cui sostenere il proprio coraggio? Perché due pesi e due misure? E se è vero che alcuni si comportarono male, e perfino collaborarono con gli sterminatori, perché dovrebbe ricadere un’ombra maligna su tutta la moltitudine dei morti e sui pochi superstiti? Ma colpevoli siamo anche noi, noi reduci, perché non abbiamo reagito. Delusi dal mondo del dopoguerra, ci siamo raggomitolati in noi stessi e allontanati in punta di piedi verso paesi abbandonati dove dalla terra piagata cresceva zizzania. Avremmo dovuto parlare non solo in nome dei compagni diventati cenere e del nostro onore, ma ancor più per sottolineare l’importanza della nostra abnegazione, che appartiene, come e più dell’abnegazione sul campo di battaglia, al tesoro dell’esperienza umana». (pp. 232-233). Con lucidità analitica, spietata e pur poetica, Pahor ci fa vedere le terribili sofferenze per la fame e il freddo, le infinite umiliazioni per le percosse e gli insulti, la pena profondissima per quanti, la maggioranza, non ce l’hanno fatta. Così si snodano le vicende che parlano di un orrore che in nessun modo si riesce a spiegare e che pongono ancora oggi tanti, troppi interrogativi senza risposta di fronte alle responsabilità di un popolo come quello tedesco che tanto ha dato alla cultura e alla musica. «A ogni modo, so per esperienza quanto piaccia ai tedeschi unire il mostruoso alla musica. La fanfara a Dora, l’orchestra sui nostri ripiani morti. Le note agiscono su di loro come un narcotico particolare. Una specie di hashish, che prima suscita visioni fantastiche, poi eccita l’organismo fino al furore e alla pazzia. Si dovrebbe ricercarla davvero l’origine di questa disumanizzazione, perché le spiegazioni economiche e sociologiche non bastano; e neppure la teoria delle razze di Gumplowitz o i libri di Friedrich von Gagern» (p. 244). Tra i nitidi ricordi di rabbia e di dolore che accompagnano la visita al campo di concentramento, nelle baracche trasformate in museo, Pahor rivede anche i tanti episodi di solidarietà tra prigionieri, di una umanità mai del tutto sconfitta, di un desiderio di vivere che non si è mai spento completamente. I racconti si intrecciano coi ricordi di una vita intensa, imprigionata dalle maglie di troppe libertà negate e dal bisogno di affermare il diritto di ogni essere umano alla sua inalienabile libertà. Afferma Pahor in una intervista: «E ancora il dramma della non libertà: in quegli anni Trieste, oltre a Berlino, è il luogo in cui si è giocato con maggiore ferocia lo scontro tra Oriente e Occidente». Convinto sostenitore del dialogo tra le culture, Pahor è da sempre anche un fermo difensore dell’identità dei popoli. Un’identità basata sulla cultura. E questo gli sloveni hanno imparato a farlo sopravvivendo a una storia che da sempre ha cercato di assorbirli e omologarli: prima la germanizzazione dell’Impero Asburgico, poi il Fascismo e l’Italianizzazione forzata e infine gli anni iugoslavi. Nel 1975 Pahor pubblica, assieme all’amico triestino Alojz Rebula, il libro Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca, dedicato al dissidente nel regime comunista jugoslavo. Il libro provoca durissime reazioni da parte del governo jugoslavo. Le opere di Pahor vengono proibite nella Repubblica Socialista di Slovenia e a Pahor viene vietato l’ingresso in Jugoslavia. Per Pahor l’Europa è una vecchia stanca che nel dopoguerra si è lasciata applicare occhi di vetro «per non spaventare i bravi cittadini con le sue occhiaie vuote». L’uomo europeo, ogni tanto, prova vergogna per questa sua situazione, ma esso ha già abbondantemente «scialacquato in anticipo il patrimonio di onestà e di giustizia che avrebbe dovuto trasmettere alle nuove generazioni».

 

 

Testo di: Claudio Magris, prefazione e Necropoli di Boris Pahor

 

 

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Scemi di guerra

15 Marzo 2023

“Mi piacciono gli italiani”, diceva Winston Churchill: “Vanno alla guerra come se fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come se fosse la guerra”. Infatti, da quando un anno fa la Russia dell’autocrate criminale Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina, abbiamo trasformato quella tragedia in una farsa. Con un dibattito politico-giornalistico da bar sport, umiliante, primitivo, cavernicolo, ridicolo: tutto slogan, grugniti e clave. Fino al giorno prima eravamo tutti virologi ed epidemiologi, poi siamo diventati tutti strateghi esperti di geopolitica e questioni militari…

Ma gli scemi di guerra non sono soltanto i foreign fighter da salotto che ogni sera, nei talk show, fanno il presentat’arm in soggiorno e marciano in assetto di guerra sul divano con l’elmetto di cartapesta sulle ventitré: quelli semmai sono i furbi di guerra, perché ci guadagnano sempre. Gli scemi di guerra siamo tutti noi cittadini italiani ed europei che, a parte rare eccezioni (come la manifestazione del 5 novembre 2022 in piazza San Giovanni a Roma), non ci siamo ancora ribellati a questa propaganda, sempre più tragicomica a mano a mano che i sondaggi fotografano la realtà: un Paese in gran parte pacifista tenuto in ostaggio da politici e opinionisti… No Pax. Tutti impegnati in una mission impossible: giustificare l’ingiustificabile per trascinarci in una guerra per procura, nata come conflitto regionale, che lorsignori hanno trasformato in conflitto mondiale al fianco di un Paese che non è nostro alleato né nell’Ue né nella Nato. Un Paese aggredito, certo, ma come centinaia di altri dal 1946 a oggi, ai quali non abbiamo mai inviato neppure un fucile a tappo. Anzi, gli altri aggrediti continuiamo a non aiutarli e ad abbandonarli: dai curdi bombardati dalla Turchia di Erdogan agli yemeniti massacrati dall’Arabia Saudita e dall’Iran. Il dovere della cobelligeranza incostituzionale vale solo per l’Ucraina. E solo perché ce lo ordinano gli Stati Uniti…

In questo anno abbiamo subìto, accettato e digerito di tutto. Si cita spesso la massima di Eschilo: “In guerra la verità è la prima vittima”. Magari fosse soltanto quella. Se in Russia è vietato parlare di guerra (chi lo fa si becca 15 anni di galera), in Italia è vietato parlare di pace (chi lo fa finisce alla gogna, linciato e lapidato sulla pubblica piazza). Perciò sono state abolite tutte le basi del discorso pubblico di una democrazia evoluta.

Abbiamo abolito la Costituzione, che all’articolo 11 “ripudia la guerra come strumento di offesa agli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Siccome poi aggiunge che “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”, i giureconsulti di regime l’hanno stiracchiata come la pelle delle palle per attribuire ai Padri costituenti l’intenzione di autorizzare, anzi di imporre invii di armi a Paesi in guerra purché “aggrediti”.

Tantopiù che l’articolo 52 prescrive come “dovere” la “difesa della patria”. A parte il fatto che ci vuole molta fantasia per vedere una “condizione di parità” fra Italia e Usa e una finalità di “assicurare la pace e la giustizia” nella continua escalation a base di armamenti sempre più devastanti, se avessero voluto dire questo i nostri Padri costituenti sarebbero stati affetti da schizofrenia: al comma 1 usavano il verbo “ripudiare” e al comma 2 lo contraddicevano, per imporre la cobelligeranza in tutti i conflitti dell’orbe terracqueo. Già, perché in ogni guerra che si rispetti c’è sempre un aggressore e un aggredito. Dunque l’Italia dovrebbe intervenire in tutte le guerre del pianeta. La verità è semplice come la lingua in cui è stata scritta la Costituzione. L’unica guerra giusta è quella per difendere la patria: la nostra, non quella degli altri, a meno che con gli altri non abbiamo stipulato trattati che ci vincolino al soccorso armato. E non è il caso dell’Ucraina.

Abbiamo abolito i valori della pace, del disarmo e dell’antifascismo. Ora pace e disarmo sono disvalori perché disturbano i “valori” atlantisti del riarmo e del bellicismo. Si esaltano le stragi, purché compiute dagli ucraini ai danni dei russi, e addirittura gli atti terroristici come l’assassinio di Darya Dugina, saltata in aria a Mosca a 29 anni soltanto perché era figlia di suo padre, filosofo nazionalista e putiniano. Si esaltano i neonazisti del battaglione Azov e delle altre milizie ucraine di estrema destra, con le SS e il sole nero stilizzati sulle bandiere e le svastiche tatuate sulla pelle. La svastica, se è ucraina, è chic: sfina.

Abbiamo abolito la geografia. Proibito mostrare la cartina dell’allargamento della Nato a Est negli ultimi 25 anni (da 16 a 30 membri). E chi la mostra muore, almeno professionalmente: Marc Innaro, storico corrispondente della Rai a Mosca, prima imbavagliato e poi trasferito al Cairo; il professor Alessandro Orsini censurato dalla sua università, la Luiss, e dal Messaggero, il suo ex giornale, poi linciato da tutti. Eppure, che la Nato si sia allargata a Est, accerchiando e assediando la Russia, minacciandone la sicurezza con installazioni di missili nucleari sempre più vicine al confine, in barba alle promesse fatte a Gorbaciov nel 1990, fino all’ultima provocazione di annunciare l’imminente ingresso nell’Alleanza dei vicini di casa della Russia – Georgia e Ucraina – è un fatto storico indiscutibile. Che non giustifica l’invasione, ma aiuta a spiegarla. L’ha detto anche quel pericoloso putiniano del Papa: “La Nato abbaiava alla porta di Putin”. L’altra cartina proibita è quella dei Paesi che non condannano o non sanzionano la Russia, o se ne restano neutrali: quasi tutta l’Asia, l’Africa e l’America Latina, cioè l’87% della popolazione mondiale. Ma al nostro piccolo mondo antico occidentale piace far credere che Putin è isolato e noi lo stiamo circondando. Sul fatto che Cina, India, Brasile e altri paesucoli stiano con lui o non stiano con noi, meglio sorvolare: altrimenti lo capiscono tutti che le sanzioni non funzionano.

Abbiamo abolito la storia. È vietato raccontare ciò che è accaduto in Ucraina prima del 24 febbraio 2022: gli otto anni di guerra civile in Donbass dopo il golpe bianco (anzi, nero) di Euromaidan nel 2014 e le migliaia di morti e feriti causati dai continui attacchi delle truppe di Kiev e delle milizie filo-naziste al seguito contro le popolazioni russofone e russofile che, col sostegno di Mosca, chiedevano l’indipendenza o almeno l’autonomia. Il tutto in barba ai due accordi di Minsk. La versione ufficiale, l’unica autorizzata, è che prima del 2022 non è successo niente: una mattina Putin s’è svegliato più pazzo del solito e ha invaso l’Ucraina. Se la gente scoprisse la verità, capirebbe che il mantra atlantista “Putin aggressore e Zelensky aggredito” vale solo dal 2022: prima, per otto anni, gli aggressori erano i governi di Kiev (l’ultimo, quello di Zelensky) e gli aggrediti i popoli del Donbass. Fra le vittime, c’è il giornalista italiano Andrea Rocchelli, ucciso dall’esercito ucraino. Un caso simile a quello di Giulio Regeni, che però nessuno conosce, perché “Andy” ha avuto il torto di farsi ammazzare dai killer sbagliati. Chiunque faccia un po’ di storia per “spiegare” la guerra e le sue cause viene scambiato per un putiniano che “giustifica” l’aggressore. Solo abolendo la storia si possono azzardare assurdi paragoni fra Putin e Hitler e fra Zelensky e Churchill, per farci credere che oggi, come nel 1938, un dittatore folle vuole impadronirsi dell’intera Europa. Ergo dobbiamo armare gli ucraini perché difendono anche noi: caduti loro, toccherebbe a noi. Solo abolendo la storia si può bestemmiare parlando di “nuova Shoah”, “nuovo Olocausto”, “nuova Auschwitz”, “genocidio”, “pulizia etnica” e via delirando… E si può raccontare che la Nato è un’“alleanza difensiva” (infatti, solo nell’ultimo quarto di secolo ha attaccato la Serbia, l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia che non ci avevano fatto un bel nulla) e “difende i valori della liberaldemocrazia” (infatti fra i suoi membri c’è la Turchia di Erdogan, che arresta gli oppositori, chiude i giornali e stermina i curdi). Solo abolendo la storia si può credere al presidente Sergio Mattarella quando ripete che “l’Ucraina è la prima guerra nel cuore dell’Europa nel dopoguerra”. E Belgrado bombardata anche dall’Italia nel 1999 dov’è, in Oceania? E chi era il vicepremier del governo D’Alema che bombardava Belgrado? Un certo Mattarella.

Abbiamo abolito l’economia. Altrimenti l’avrebbero capito tutti, guardando i precedenti dell’Italia fascista dopo l’avventura africana, e poi di Cuba, dell’Iran e della stessa Russia, che le sanzioni servono a poco e spesso danneggiano più i sanzionatori dei sanzionati, che peraltro tendono a stringersi attorno al loro regime (Mussolini, Castro, gli ayatollah e ora Putin). Invece il noto economista Draghi, il 31 maggio 2022, oracolava: “Il momento di massimo impatto delle sanzioni alla Russia sarà da questa estate in poi”. Il professor Enrico Letta, il 9 marzo 2022, vaticinava: “La Russia andrà in default entro qualche giorno”. E Fmi, università anglo-americane, agenzie di rating facevano a gara nel prevedere immediati crolli del Pil russo del 40, del 30, del 20, del 15%, salvo poi rassegnarsi a un misero 2 virgola qualcosa.

Abbiamo abolito la medicina. Siccome la Russia non va in default, mentre rischiano di andarci le economie europee, ci hanno raccontato che il sacrificio durerà poco, pochissimo, perché Putin sta per essere destituito, è solo al mondo, ha tutti contro anche dentro il Cremlino e soprattutto è malatissimo, ha le ore contate, anzi forse è già morto e quello che vediamo è un sosia… Ha praticamente tutte le malattie note in letteratura, da quelle psichiatriche a quelle muscolari e ossee, a ogni varietà di tumore e di leucemia, al Parkinson, a mezze paresi qua e là, per non parlare del diabete… Ed è pure completamente pazzo, visto che tutti ripetono che si era illuso di occupare l’Ucraina (grande due volte l’Italia) in una settimana e di essere accolto con i tappeti rossi da un popolo che per due terzi odia i russi da almeno un secolo e da dieci anni viene armato da Usa e Gran Bretagna.

Abbiamo abolito il comune senso del pudore. Diciamo che le sanzioni sono un sacrificio indispensabile per difendere la democrazia liberale dalla tirannide di Putin. Infatti, per sostituire il gas e il petrolio russi, li compriamo da Algeria, Egitto, Angola, Mozambico, Congo, Emirati, Arabia Saudita, Qatar: tutti regimi al cui confronto Putin è un’educanda. Per colpire un dittatore, ne ingrassiamo una decina.

Abbiamo abolito il vocabolario. Draghi fa approvare dal Parlamento il primo invio di armi italiane all’Ucraina e fa scrivere nella risoluzione che servono alla “de-escalation”. Più armi, meno escalation. E quando il leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte si oppone all’aumento della spesa militare al 2% del Pil, i grandi giornali titolano: “Escalation anti-armi”, “escalation grillina”. Meno armi, più escalation. Una neolingua da far impallidire quella del Ministero della Verità di George Orwell in1984: “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”. Non solo. “Pace” diventa sinonimo di “resa”: chi chiede un negoziato e un cessate il fuoco ai due eserciti viene accusato di negare la legittimità della splendida ed eroica resistenza ai tanti ucraini e di pretendere che questi si arrendano, anche se non l’ha mai detto né pensato. Anzi tutti riconoscono loro il sacrosanto diritto di difendersi: ma con le loro armi e con quelle di chi può inviarle, non con quelle dell’Italia che non può per Costituzione.

Abbiamo abolito la libertà di pensiero. Chi non pende dalle labbra di Biden, Zelensky e Stoltenberg, ma li critica se sbagliano o pubblica notizie a loro sgradite, è un venduto a Putin. E viene linciato, infilato in liste di proscrizione come “putiniano” con tanto di foto segnaletiche sui grandi giornali.

Abbiamo abolito il dovere di cronaca e anche la deontologia professionale dei giornalisti. Tutte le notizie diffuse da Kiev vengono prese per oro colato, tutte quelle targate Mosca bollate come fake news, anche se spesso si scopre l’opposto. Papa Francesco attacca Draghi e la Nato per l’aumento delle spese militari al 2% del Pil e viene censurato da Tg1, Corriere della Sera e Repubblica… Nei primi mesi di guerra, mentre l’armata russa occupava oltre un sesto dell’Ucraina (un terzo dell’Italia), i nostri giornaloni descrivevano l’avanzata di Mosca come un rosario di disfatte militari inflitte dall’invincibile armata ucraino-occidentale, ribaltando di 180 gradi la realtà della (tristissima) situazione sul campo di battaglia. Tant’è che, quando a settembre è partita la controffensiva ucraina con le prime sconfitte russe, l’opinione pubblica si domandava incredula: ma come, gli ucraini non stanno stravincendo dal primo giorno?

Abbiamo abolito la diplomazia e le sue regole-base. Il refrain è: “Non si tratta col nemico”. Oh bella, e con chi si tratta? Con l’amico? E su cosa? “Con la Russia si tratta solo se prima si ritira”. Oh bella, ma il ritiro delle truppe, da che mondo è mondo, viene dopo le trattative, non prima. “I tempi e le condizioni dei negoziati li decide Zelensky”. Cioè mai, visto che ha firmato un decreto che vieta di negoziare con la Russia di Putin. E poi, con tutti i miliardi e le armi che invia all’Ucraina, è mai possibile che l’Occidente non debba avere voce in capitolo? Possibile che possa contribuire solo alla guerra, ma non alla pace? E se Zelensky ritiene che il negoziato possa iniziare solo dopo la riconquista completa delle regioni occupate dai russi, Crimea inclusa, e non riesce a riprenderle nei prossimi 10 o 20 anni, l’Europa che fa: si dissangua economicamente con le auto-sanzioni e invia armi su armi e miliardi su miliardi a Kiev, come in Afghanistan, finché l’ultimo ucraino resterà in vita? E perché non lasciare che siano i popoli del Donbass e della Crimea a decidere con chi vogliono stare, con un referendum sotto l’egida dell’Onu? Il diritto all’autodeterminazione per loro non vale? O si teme di scoprire che abbiamo trasformato un conflitto locale in una guerra mondiale per difendere dalla Russia popolazioni che vogliono stare con la Russia?

Abbiamo abolito il rispetto per le altre culture. In una folle ondata di russofobia, abbiamo visto ostracizzare direttori d’orchestra, cantanti liriche, pianiste di fama mondiale, fotografi, atleti (anche paralimpici), persino gatti e querce, soltanto perché russi. E poi censurare corsi su Dostoevskij, cancellare dai teatri i balletti di Cajkovskij, addirittura estromettere la delegazione russa dalle celebrazioni per la liberazione di Auschwitz. Come se il lager l’avessero liberato gli americani o gli ucraini e non l’Armata Rossa…

Abbiamo abolito il senso del ridicolo. Infatti, quando Draghi pose l’assurdo aut-aut fra “la pace e i condizionatori o i termosifoni accesi” (non spenti), nessuno gli rise in faccia. Una sera il noto stratega Beppe Severgnini, a Otto e mezzo, ha sentenziato: “Se non ci fosse la Nato, Putin sarebbe già a Lisbona” (meno male che c’è l’Oceano). E poi: “Vinciamo noi: siamo 40 contro uno”. Come se la guerra russo-ucraina fosse il derby Milan-Inter. Solo che nei derby, di solito, nessuna delle due squadre possiede 6 mila testate atomiche. Invece Putin le ha e l’Ucraina no. E, quando un uomo con l’atomica incontra uno senza atomica, quello senza atomica è un uomo morto. Ma anche quello con l’atomica. Perché tutti fingono di ignorarlo, ma questa è una guerra che non può avere vincitori, ma solo sconfitti. Almeno in Europa, dove arrivano le radiazioni: negli Stati Uniti no. Infatti gli Usa sono l’unico soggetto belligerante (per procura) che, comunque vada, non rischia nulla. Anzi, ci guadagna… Eppure i trombettieri della Nato propagandano la bufala dell’“euroatlantismo” e gli scemi di guerra se la bevono, senz’accorgersi che mai come oggi gli interessi dell’Europa sono opposti a quelli dell’America.

 

Marco Travaglio

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Il capitalismo non è un’idea, è una malattia che ci è passata nelle cellule

10 Marzo 2023

«Quello che mi preoccupa di più è che non vedo una rivolta contro il capitalismo. Dove ci sta portando il capitalismo? Non posso lasciare fuori questa domanda. La crisi, le crisi che stiamo vivendo non sono nate dalla gente semplice, ma dalla vittoria del denaro su tutto e tutti. Stéphane Hessel, che è stato in campo di concentramento con me, scrisse “Indignatevi!”. Ma io non vedo più nemmeno questo: vedo piccoli fuochi, proteste, frustrazione… ma non la rivolta morale contro il capitalismo. Viviamo in una società egoista, che fa schifo; il capitalismo non è un’idea, è una malattia che ci è passata nelle cellule, glielo dice un anticomunista».

È come un grido questo congedo di Boris Pahor, dopo oltre un’ora di colloquio. Nonostante il sillabare lento, il tono basso della voce, come può esserlo quello di un uomo che il prossimo agosto compirà 106 anni. Che ha attraversato il buio del Novecento raccontandolo in migliaia di pagine. Soprattutto in “Necropoli”, il capolavoro che ha preso forma nel campo di concentramento nazista di Natzweiler-Struthof e che l’Italia ha scoperto nel 2008, con quasi 40 anni di ritardo da quando fu pubblicato per la prima volta, in sloveno.

«Necropoli riesce a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessità della storia», scrisse Claudio Magris nell’introduzione alla prima edizione italiana (fatta eccezione per un una piccola traduzione apparsa nel ’97 con diffusione locale) dell’opera. E con la complessità della storia, con il dovere della memoria, Boris Pahor continua il suo corpo a corpo quotidiano. Lavora ancora lo scrittore della minoranza slovena di Trieste, più volte candidato al Nobel. Qualche pagina al giorno.

Nel tinello, su un piccolo tavolo c’è una vecchia macchina da scrivere, una Remington Deluxe, con un foglio infilato che attende l’inchiostro. «L’ho acquistata a Lubiana tanto tempo fa. L’ho fatta pulire bene, vede? Batte forte… La uso da 40 anni».

In veranda ci sono dei panni appena stesi dalla badante con cui Boris Pahor parla solo in sloveno. Tra i panni si intravede l’azzurro. Chiediamo di uscire. Là sotto c’è il golfo di Trieste: la vista spazia da Pirano, gioiello veneziano incastonato nella piccola fetta di Istria slovena, al castello di Miramare. La Storia in uno sguardo, da questa villetta sul Carso: la Serenissima, gli Asburgo, la Resistenza, la pulizia etnica e linguistica dei fascisti in quest’altopiano slavofono di pietre e boscaglia, le leggi razziali annunciate laggiù a sinistra, tra quei palazzi imperiali un po’ sfuocati da qui, in piazza Unità. L’Italia in attesa fino al 1954, quando finisce l’amministrazione alleata, la cortina di ferro, il confine del “nostro mondo” che passava qui, qualche centinaio di metri più su.
Al numero di cellulare aveva risposto lui, che a 105 anni fa ancora il segretario di se stesso. «Chi? Ah, l’Espresso? Venga, venga a trovarmi, ma io i 105 anni li ho compiuti ad agosto… di cosa vuole parlare?».

Della storia professore, di quella che stiamo vivendo, e di quella che si annuncia. Del passato, del Novecento, lei forse ha già detto e scritto tutto…..

«Molto, forse. O forse non abbastanza, visto che voi giornalisti in Italia non vi siete mai occupati veramente della comunità slovena di Trieste… Noi eravamo la pietra dello scandalo, sa. L’Italia voleva Trieste ma noi triestini sloveni eravamo qui da secoli… Eravamo una comunità culturale forte. Poi è arrivato il fascismo e ci hanno caricati sui treni. In Francia conoscono la nostra storia, nelle scuole italiane non se ne è mai parlato».

E sarebbe più che mai necessario, al risorgere dei nazionalismi, di nostalgie di regime…
«La memoria non è necessaria, è indispensabile. Ma quando si parla di nazionalismo io distinguo. Finché c’era l’Unione sovietica anche l’Europa aveva costretto i popoli alla sottomissione. Appena è crollata l’Urss i popoli hanno cominciato a respirare, a sentirsi liberi».

Ci sono nazionalismi buoni e cattivi? È questo che sta dicendo, professore?
«Senta, le faccio un esempio: i poeti e gli scrittori classici sloveni sono fioriti sotto l’impero austro-ungarico. Li lasciavano fare, non erano oppressi, era un nazionalismo onesto… Poi arrivano il fascismo e il nazismo, e oggi spuntano funghi velenosi qua e là. Ma io sono un disgraziato, ho visto i campi di concentramento e dopo questo non vedo nulla di simile all’orizzonte».

Insomma i “funghi velenosi” non prenderanno il sopravvento?
«Questo dipenderà… Se rinascerà una sinistra più persuasiva resteranno fenomeni isolati e probabilmente non duraturi. Per il momento la sinistra è andata a ramengo, ovunque. Per essere di sinistra non serve essere rivoluzionari: sarebbe stato sufficiente ascoltare il popolo. Invece non sono riusciti a proporre nulla, a costruire uno scenario di sinistra senza comunismo che potesse convincere il popolo. Dire questo non è populismo. Bastava essere di sinistra “a metà” invece di inseguire la destra. E se insegui la destra, se costruisci un modello sociale fatto solo di arrivismo, se non riesci a trovare punti di mediazione e vivi di contrasti interni… beh, allora vince la destra, è ovvio».

Le cronache, e non da oggi, raccontano di un razzismo che rialza la testa, in molti luoghi d’Europa. E in Italia.
«Io sono al limite delle mie forze… questo forse mi induce a non voler vedere? Non credo sia così. Nella società europea in generale non vedo ancora spinte così forti verso il razzismo. Certo i bulbi per una a rinascita di questo fenomeno ci sono ma sono minoranze e io ho visto altro… e come le dicevo sono al limite delle mie forze».

Lei è stato definito nazionalista da una parte della sinistra della Slovenia, poi c’è stato l’episodio di quel sindaco di colore nella cittadina slovena di Pirano e qualcuno le ha dato anche del razzista, quando lei fece intendere di non aver gradito quell’elezione. O almeno così fu interpretato…
«È stato un gigantesco malinteso. Io mi sono incontrato con quel sindaco e mi ha detto: “Forse sono l’unico che ha capito quello che lei voleva dire”».

E che cosa aveva capito?
«Che la memoria, la storia di un luogo, contano. Il che non vuol dire che in loro nome non si debba accogliere. Lui mi disse “vengo dall’Africa e ci sono legato, quello resta il mio essere. Ora sono qui e provo a fare del mio meglio”. Io avevo solo detto che non poteva conoscere, sentire profondamente la storia di Pirano, non che non potesse essere un buon sindaco. Ecco, era tutto qui».

La memoria, la storia…
«Purtroppo siamo senza memoria, senza storia. E quando accade questo tutto viene rimesso in discussione, libertà compresa. Anche gli sloveni hanno interpretato la libertà in modo sbagliato e hanno cominciato presto e rubare».

Ha votato alle ultime elezioni politiche?
«No, non ho seguito le elezioni italiane. Noi della minoranza slovena votavamo sempre con la sinistra, ma vista la malaparata della sinistra italiana mi sono disinteressato. Del resto nemmeno in Slovenia avrei votato la sinistra. Quale sinistra?».

Provi a immaginarne una.
«E come? Come si fa a creare un governo sociale se si è completamente immersi nel credo capitalista? È la grande domanda. Sicuramente avrà sentito anche lei la favola dei cospirazionisti che racconta dei grandi capitalisti del mondo riuniti attorno a un tavolo per mettere i popoli l’uno contro l’altro con lo scopo di dominarli meglio… È una favola, naturalmente. Ma non la vediamo questa tendenza al dominio inarrestabile del capitale, del denaro?».

Professore, qualcuno potrebbe leggere queste sue parole come un’evocazione dei “poteri forti”, categoria che va per la maggiore tra i leader di questo governo.
«Questo governo? Lasciamo stare. Sto cercando di capire come pensano di rovinare ancora l’Italia. Non riesco a capire che qualità abbiano per fare questa rivolta di cui io parlo, quella necessaria. Facendo debiti invece di pagarli? Non si può governare con le illusioni. Mai».

Tornando al dominio del denaro, “inarrestabile” suona come una sentenza definitiva. Se la politica nulla può, cos’altro? Una fede? Un miracolo?
«I miracoli non esistono o può farli l’uomo… Io sono un panteista. E mi riconosco nelle parole di Einstein: “sono religioso ma non credente”. Mi inchino davanti alla natura, lo faccio ogni giorno da quando sono uscito dal campo di concentramento. Possono distruggere loro stessi gli uomini e con sé stessi questa palla che chiamiamo mondo, il nostro mondo. Uno mi può dire: ma cosa te ne importa che tu fra poco sarai sottoterra? Dico che me ne importa perché c’è gente che vive, gente che nasce. Pensare a questo è un vivere onesto. La natura è senza coscienza, ma noi ce l’abbiamo, o dovremmo averla».

Che cosa significa “i miracoli può farli l’uomo”?
«Io ricordo noi dei “triangoli rossi”… gli internati politici nei campi di lavoro nazisti. Un pezzo di pane, una minestra di rape, nient’altro. Ho preso la tisi, dovevamo morire come tutti gli altri: gli ebrei gli zingari… Sono qui».

In questo mondo che non le piace.
«Ma potrebbe. Una sola cosa ci vuole: non il tavolo dei capitalisti che tengono in pugno il mondo come nella favola (ma neanche tanto) dei cospirazionisti. Ci vuole un altro tavolo, un incontro universale per l’uomo e la sua sopravvivenza. Durerà un giorno? Un anno? Dieci anni? Non importa. Dobbiamo cercare uno scopo per l’uomo finalmente, interrompere una storia che da Alessandro Magno a Hitler ha significato sterminio. Un incontro universale tra medici, poeti, ingeneri, religiosi… Mi si dice che è un’utopia? Se un uomo è capace di fare “miracoli” come quelli che ogni giorno ci fanno vedere le tecnologie, perché non è in grado di fare questo? Una ricerca per l’uomo, per vivere con senso una vita diversa da quella dell’avere, del conquistare. Nessuno che si chiami uomo resti senza pane. Si può. Solo così l’umanità della grande innovazione avrà creato qualcosa di Nuovo».

Lei è uno scrittore. Che contributo può dare la letteratura, se può darlo, a questa “innovazione”?
«La letteratura vale dove c’è già disposizione di spirito. Vale quando c’è chi accetta, è all’altezza, per ricevere questa ricchezza. Ma che con la letteratura si possa innescare questa rivoluzione morale, intellettuale, psicologica… non ci credo. Altrimenti ci sarebbe riuscito il cristianesimo».

Come trascorre le sue giornate?
«Ho molti incontri, vengono a trovarmi. Ho una biblioteca a Prosecco dove ho messo quasi tutti i libri. Porto lì chi viene a trovarmi, e parliamo. Poi scrivo ancora qualche paginetta. Leggo, possibilmente in lingua originale… Mi sono appena riletto “Vita di Gesù” di Renan».

C’è ancora il tempo per un caffè, che si raffredda nella tazza mentre Boris Pahor ha un’ultima parola da aggiungere: rivolta.

Intervista di MARCO PACINI link

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