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LESSICO NATURALE

La nostra unica arma

27 Gennaio 2023

Sembra un secolo che ci siamo ritrovati in oltre 100 mila in piazza San Giovanni a Roma per un’iniziativa italiana sul cessate il fuoco e il negoziato in Ucraina. Invece era solo il 5 novembre. Speravamo che quella marea umana scalfisse il monolite della lobby delle armi che soffia sul fuoco attraverso i suoi camerieri infiltrati nei governi europei, compreso il nostro. Ma ci vuol altro per intaccarlo. A questo serve l’ossessiva e tragicomica caccia a giornalisti, spie, hacker, troll, influencer e hater putiniani che s’infilano pure nelle urne, ribaltando le elezioni dell’intero orbe terracqueo: a nascondere le asfissianti e scandalose ingerenze americane in Europa. Non solo in Italia dove, sotto il duo Draghi-Meloni, si obbedisce agli ordini yankee ancor prima di riceverli. Ma anche in Germania, dove il saggio cancelliere Scholz ha dovuto rinunciare alla saggia ministra della Difesa Christine Lambrecht perché osava difendere l’interesse nazionale ed europeo dalle pressioni Usa sui Leopard. Scholz ha resistito fino all’altroieri. Poi Biden, di nuovo in mano ai falchi, ha ignorato gli inviti alla prudenza del Pentagono e del generale Milley (anche lì le teste più lucide sono i militari) e annunciato l’invio di 21 Abrams per piegare Berlino, salvo poi precisare che – pur avendone migliaia in giro – quei 21 tank gli Usa devono ancora costruirli. Invece i Leopard tedeschi arrivano a marzo.

Quando si scoprirà che non bastano neppure quelli, l’escalation salirà ancora. Fino all’invio di truppe, che poi è l’unica mossa in grado di fare la differenza sul campo, dove la controffensiva ucraina s’è fermata e si attende quella russa. Sarebbe ‘ufficializzazione della terza guerra mondiale che, nella dottrina militare di Mosca (ma anche della Nato), prevede l’atomica tattica. Qua e là, nei talk, le Sturmtruppen da divano già ne parlano: “Eh certo, se ci verrà chiesto anche questo sacrificio, dovremo pensarci.. “. Non sanno, gli idioti, che una guerra atomica non ti dà neppure il tempo di telefonargli, alle truppe. Ma a questo siamo Giorgia Meloni l’aveva detto il 26 ottobre alla Camera in un passaggio, da tutti sottovalutato, della sua replica prima della fiducia: “A una pace giusta non si arriva sventolando bandiere arcobaleno nelle manifestazioni… L’unica possibilità di favorire un negoziato nei conflitti è che ci sia un equilibrio tra le forze in campo”. Quindi, siccome la Russia possiede 5.977 testate nucleari e l’Ucraina zero, per garantire “l’equilibrio delle forze in campo” invieremo a Kiev anche 5.977 testate nucleari e fino ad allora non sosterremo alcun negoziato? In attesa di risposte, è l’ora di tornare in piazza a sventolare bandiere arcobaleno: l’unica arma che abbiamo contro questa banda di squilibrati

Marco Travaglio

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Banana Yoshimoto

16 Gennaio 2023

IL POLLICE VERDE

  In treno avevo dormicchiato, e così avevo per metà la sensazione di sognare. Quando sentii il nome della mia stazione, scesi precipitosamente. Nell’aria pungente dell’inverno, il marciapiede sembrava ghiacciato. Mi strinsi bene la sciarpa e uscii dal controllo biglietti.

  Salita in taxi, chiesi all’autista di portarmi all’albergo, ma lui disse di non conoscerlo. Ricordai che si trattava di un albergo nuovo, piccolo, probabilmente poco pubblicizzato, e così mi feci lasciare in una zona da cui avrei potuto facilmente raggiungerlo.

  Tutt’intorno non c’erano altro che campi, e in lontananza si vedeva il profilo dolce delle montagne. Quando trovai una piccola insegna che indicava l’albergo, la seguii inerpicandomi per una stretta salita.

  Ora che mi ero abituata al freddo, assaporavo con gioia l’aria pulita. Ero sempre più sveglia, e stavo cominciando a sudare un po’ quando davanti a me percepii la presenza di qualcuno che conoscevo.

  Era stato durante l’inverno precedente che era venuto fuori il discorso dell’aloe nella stradina davanti casa, cresciuto troppo e diventato di intralcio.

  Mio padre, mia madre e io avevamo completamente dimenticato l’aloe che mia sorella più piccola aveva comprato per trecento yen e che, per mancanza di spazio in giardino, avevamo piantato accanto alla porta d’ingresso. Anche lei che, sotto l’influenza di una rivista o non so cosa, ci aveva continuamente ripetuto che “l’aloe cura tutto! Bisogna berlo, applicarlo sui brufoli”, alla fine era guarita da questa fissazione e aveva smesso persino di occuparsene. Ma anche se non veniva innaffiato regolarmente e l’esposizione al sole non era molto buona, l’aloe era cresciuto. Anzi, era cresciuto anche troppo, fino a diventare in breve tempo una specie di albero che sporgeva invadendo parte della strada, e in più ricoperto di fiori rossi dalla forma sgradevole.

  Ricordo bene quella volta. Mio padre, mia sorella e io eravamo intorno al piccolo tavolo di cucina nella casa dove eravamo nate e cresciute. Stava per cominciare una sera come tutte le altre.

  Quando eravamo piccole, era quello il luogo della casa dove tutto si svolgeva. Lì cenavamo, litigavamo, guardavamo la tivù, mangiavamo i dolci che io e mia sorella avevamo comprato con i soldi di entrambe. Capitava che sul tavolo ci fossero la busta dei grandi magazzini con la biancheria intima della mamma e il pesce secco che avremmo mangiato quella sera per cena. Era lì che una volta il babbo era crollato addormentato per i postumi di una sbornia, lì che mia sorella ai tempi delle medie, per la sua prima delusione d’amore aveva bevuto del vino tutto d’un fiato, si era ubriacata ed era scivolata dalla sedia battendo la testa. Quel piccolo rettangolo era il simbolo della nostra famiglia. Era un luogo che odorava di vita, tiepido, morbido, caldo. Da poco tempo mia sorella si è sposata ed è andata via, e il tavolo è sempre lì ma è raro che la famiglia vi si riunisca al completo. Adesso la mamma ci si siede spesso per lavorare a maglia guardando la televisione. E così, piano piano, il paesaggio si trasforma.

  Quella sera mio padre disse: “L’aloe è cresciuto troppo, ho paura che dia fastidio al vicino quando va a prendere la macchina dal garage”. Io e mia sorella facemmo finta di non sentire, che seccatura sarebbe stata doverlo trapiantare da qualche altra parte! “Se non ve ne occupate voi lo strappo e lo butto via” minacciò mio padre, ma noi rispondemmo: “Fai pure” e seppellimmo il naso nelle riviste.

  Mentre si svolgeva questa scena, rientrò la mamma carica di sacchetti con la spesa fatta al supermercato vicino casa. Io e mia sorella la salutammo come al solito, senza neanche guardarla bene in faccia. Poiché non ci rispose, alzammo gli occhi e ci accorgemmo che era molto pallida. “Che hai?” chiese mia sorella.

  “La nonna si era fatta ricoverare per una lombalgia, ma in ospedale le hanno trovato un cancro all’utero in uno stadio molto avanzato. Pare che da tempo soffrisse parecchio, ma non aveva detto nulla. Dicono che non si può nemmeno operare.”

  La nonna viveva da sola in un appartamento nelle vicinanze. Due giorni prima aveva detto di avere una lombalgia, e così mia sorella aveva tirato fuori l’automobile e l’aveva portata in ospedale.

  I miei genitori sono entrambi figli unici, quindi abbiamo pochi parenti, e questo ci rende molto uniti. Così tutti, incluso mio padre, andavamo ogni giorno a turno in ospedale. Non era certo più il caso di stare a pensare all’aloe. La nonna fu dimessa dall’ospedale una volta, poi di nuovo ricoverata.

  Un giorno preparai dei dorayaki di cui la nonna era golosa e glieli portai, ma la trovai che dormiva serena. Ne fui sollevata, dato che la mamma mi aveva detto che il giorno prima le aveva fatto una gran pena vederla piangere lamentandosi per i dolori alla pancia.

  Quando vado in ospedale, nel momento stesso in cui entro nel portone avverto un disagio, un senso di agitazione, e vorrei subito andarmene via, ma dopo un po’ che ci sto mi abituo. E quando ne esco, il mondo di fuori mi sembra troppo intenso. Mi stupisco delle auto che avanzano tutte insieme a un incrocio, del tono alto con cui parlano le persone, convinte che vivranno in eterno, del diluvio di colori. Poi, il tempo di arrivare a casa e mi ci sono abituata di nuovo. Mi rendo conto che questo andirivieni dall’ospedale mi fa sentire in una posizione particolare. Mi torna in mente la storia di Orfeo che lessi quando ero bambina. Non era riuscito a riportare indietro sua moglie che era diventata un’abitante del regno dei morti. L’odore era diverso. L’odore intenso che sprigiona la vita in quell’altro mondo si trasforma in un odore penetrante, nauseabondo, acuto. Viceversa, gli uomini detestano l’odore della morte. L’odore di morte che sprigionano le persone indebolite al sole si dissolve subito, come neve, eppure quel lieve odore, come muschio, lo si riesce a distinguere anche da lontano. Gli uomini hanno paura dei loro simili indeboliti. Suggestionati, credono sia la loro stessa vita che si va spegnendo. Anche se, quando ci si abitua, tra gli uni e gli altri non c’è nessuna differenza.

  Mentre sistemavo i fiori nel vaso, mia nonna aprì gli occhi e disse:

  “Chissà se le piante a casa mia staranno bene?”

  Andavo a innaffiarle ogni giorno: la nonna amava le piante e ci teneva moltissimo. A vederle non è che avessero un aspetto molto attraente. Non erano bonsai, e non erano particolarmente pregiate. Gelsomini, cycas, un alberello con delle specie di fagioli, mimose e altre piante di poco prezzo … eppure ogni giorno, quando le innaffiavo, avevo la sensazione che cercassero spasmodicamente la nonna. Forse era solo la mia immaginazione: prima che nascesse mia sorella i miei genitori, che lavoravano entrambi, mi avevano affidato alla nonna e mi ero attaccata a lei in modo spudorato. La sua morte era per me inaccettabile. La nonna alla quale dormivo incollata quando mi sentivo sola. La nonna che si accorgeva prima di me quando qualche piccola ombra sfiorava il mio cuore e mi preparava il tenpura di patate dolci di cui andavo matta. Giorno dopo giorno, l’interesse della nonna si allontanava sempre più da questo mondo e da me. Il mio stato d’animo era simile a quello delle piante, che si sentivano abbandonate. Forse era per questo che avevo avuto quella sensazione. E mentre le innaffiavo, mi dissi, come per convincermi: È arrivato il momento in cui la persona che si è sempre occupata di voialtre e di me più che se stessa, pensi finalmente a sé.

  La nonna parlò un poco ma subito si addormentò. Quando le persone cominciano a dormire così ogni giorno, di colpo la loro presenza si assottiglia. Rendermene conto mi stringeva il cuore. E così anch’io prendevo parte a un evento che si ripeteva da sempre nella vita delle persone. Con la strana sensazione di guardarlo da lontano.

  Ero ormai abituata a questa routine quando un pomeriggio, entrando nella stanza della nonna con delle pietanze che aveva cucinato mia madre, la trovai inaspettatamente sveglia.

  “Sai, un tempo odiavo i ciclamini” disse.

  “Si, lo dicevi spesso. Anche a me non piacciono molto. Non so, danno una sensazione di umidiccio.”

  “Tu capisci le piante, ne sono sicura. Saresti portata per un lavoro che ha a che fare con le piante. Smettila di fare la hostess.”[*]

  La nonna era sempre stata contraria al fatto che io mi dedicassi a quel genere di lavoro. Le avevo spiegato che io non facevo la hostess, ma lavoravo al banco nel bar di mio padre, però era inutile: lei non ci vedeva nessuna differenza

  “Se lo dici tu, nonna, ci rifletterò. Ma perché parlavi dei ciclamini?”

  “Vedi che lì ci sono dei ciclamini, vicino alla finestra? Adesso sono rimaste solo le foglie. Fino a poco tempo fa i fiori spuntavano in continuazione. Me li ha portati la Nakahara. All’inizio mi sembravano fiori tristi. Non mi sono mai piaciuti, se sbagliavo a dargli l’acqua si afflosciavano subito e quei grossi gambi simili a vermi li trovavo orribili. Ma dopo essere venuta qui, avendo più tempo a disposizione, ho cambiato idea. Quei gambi servono per assorbire l’acqua. A vedere come, dopo averli innaffiati, i fiori sollevano la testa con tutte le loro forze per ricevere il sole, penso: Siete vivi, eh, voialtri! A guardarli non ci si annoia. È questa la bellezza di avere del tempo. Adesso che ho fatto amicizia con i ciclamini, sento che sarò capace di curarli anche quando sarò da quell’altra parte.”

  “Non dire così.”

  Ci sarà un posto dove si va solo dopo che le cose che abbiamo detestato hanno cominciato a piacerci? Questo pensiero mi stringeva il cuore.

  Fu in primavera che la nonna perse quasi del tutto conoscenza. Circa una volta ogni tre giorni ritornava in sé ma riusciva a parlare orami pochissimo. Ci salutava, dicendo i nostri nomi.

  Quella sera, le tenevo stretta la mano. Era fredda. L’ago della flebo le aveva procurato un livido, e io continuavo a fissare quello strano colore bluastro. Provavo tenerezza perfino per la saliva che le si era seccata bianca agli angoli della bocca. Tutt’a un tratto la nonna disse:

  “L’aloe…dice… di non tagliarlo”.

  La sua voce era flebile e spezzata, e all’inizio non capii cosa volesse dire.

  “L’aloe… all’ombra del parcheggio… è schiacciato dalle macchine… soffre… dice…”

  E poi:

  “Guarisce i brufoli, le ferite, fa crescere i fiori, perciò non tagliatelo”.

  La nonna disse queste frasi un poco alla volta, tra sogno e realtà, come se stesse ripetendo le parole pronunciate da qualcuno. Ebbi un brivido. Perché l’ho sentita solo io? Mi chiesi.

  “E poi, sai, io penso che tu capisca questa sensibilità. Le piante sono così. Se aiuti una sola pianta di aloe, da quel momento in poi, in qualunque posto andrai, tutte le piante di aloe che vedrai ti avranno in simpatia. Le piante sono in contatto tra di loro, sono tutte compagne.”

  La nonna disse questo in un unico filo di voce, quindi si addormentò.

  Subito dopo arrivarono mia madre e mia sorella per darmi il cambio, ma io non riuscii a raccontare ciò che era avvenuto. Non mi uscivano le parole, come se avessi la gola bloccata. “Allora io vado” dissi, e lasciai l’ospedale. Fuori il cielo era limpido, ed era spuntata la luna. Le persone si affrettavano verso casa con un’espressione gentile sul viso. I fari delle auto illuminavano le strade buie come in un paesaggio visto in sogno. Arrivai in silenzio a casa della nonna, dissi: “Scusate, ho fatto tardi” e mi misi a innaffiare le piante. Quando accesi la luce, tutta la piccola esistenza della nonna, che era iscritta in ogni angolo della sua casa, affiorò alla luce bianca della lampada al neon. I soffici cuscini per terra, un vasetto di cristallo. Il pennello e la vaschetta per sciogliere l’inchiostro, un grembiule bianco accuratamente piegato. La teca di vetro con allineati i souvenir comprati durante i viaggi all’estero, carichi delle emozioni di paesi stranieri, gli occhiali, i libri in edizione economica, un piccolo orologio d’oro. L’odore della nonna, come di vecchia carta. Straziata, spensi la luce. E in quel momento vidi che le piante dall’altra parte del vetro respiravano. Erano di un verde vivo, che sembrava incorniciato dalla luce della luna. Le goccioline d’acqua dell’innaffiatura di poco prima brillavano. Nel buio rimasi seduta immobile sul tatami a guardarle, e gradualmente cominciai a sentirmi un po’ meglio. Quelle erano le semplici tracce di una persona che aveva vissuto, e mi ero resa conto che non erano né tristi né dolorose ma anzi buone, felici. Mi sembrò che le piante mi avessero comunicato che non si deve giudicare in base alla prima impressione, quella ricevuta guardando con occhi annebbiati dalla tristezza. Belle creature che vivono semplicemente cercando il sole, l’acqua, l’amore.

  Tornata a casa, invece di passare dalla porta principale, aprii con la chiave il cancello del giardino, andai nel ripostiglio e tirai fuori vanga e carriola. Poi tornai all’ingresso e con cura sradicai dalla terra la pianta di aloe. Con tutte le radici era diventata di una grandezza enorme, e le spine mi ungevano le mani nude, ma riuscii a trasportarla e la piantai in un punto del giardino che di giorno era ben esposto al sole. Illuminato dalla luce vaga della grande luna di primavera, l’aloe, che si era sporcato di terra bagnata nel corso del trapianto, emanava energia vitale. Vorrei poter dire che la pianta, diventata umana, esclamò “Grazie”, ma non fu così: era semplicemente viva e piena di energia, tendeva le radici in diverse direzioni, e aveva allargato le foglie. E io ancora una volta ebbi la sensazione di avere ricevuto un po’ di forza.

  La nonna morì, ci fu il funerale, e io decisi, continuando a lavorare, di frequentare una scuola specializzata per aprire un negozio di fiori. Era il futuro che avevo immaginato, giudicando un po’ difficile per me riuscire ad aprire un vivaio. Volevo diventare una fiorista di quelle che danno un tocco di colore alla vita normale di case normali. La nonna diceva sempre che per comprare i fiori non ci voleva disponibilità di denaro ma di spirito. Quando riferii a mio padre quali erano state le ultime volontà della nonna, mi promise: “Siccome prima o poi mi ritirerò dal lavoro e ti lascerò il bar, tu potrai trasformarlo in un negozio di fiori”. Nel frattempo però avrei dovuto lasciare il lavoro attuale, fare un po’ di tirocinio presso qualche fioraio e imparare la disposizione dei fiori. A cambiare lavoro di punto in bianco si incontrano un bel po’ di difficoltà, ma pensai che avendo una base avrei potuto darmi da fare, e così decisi di procedere. Se uno si impegna assiduamente ogni giorno, le strade si aprono. Non c’era altro da fare se non riprendere i ritmi di quando avevo studiato per diventare barista. Ma le ultime parole della nonna continuavano a risuonarmi nelle orecchie. Per quanto mi voltassi indietro, la persona che ero stata prima, quella infantile e carina che oziando senza pensieri intorno al tavolo di casa aveva trattato con indifferenza la vita della pianta di aloe, non poteva più tornare. Quando un giorno fossi morta, avrei voluto lasciare anch’io una stanza pulita come quella della nonna, non importava se sarebbe stata piccola e se ci sarei stata da sola. La stanza di mia nonna quella sera, abitata da piante che avevano ricevuto tanto amore, non abbandonava più la mia mente.

  Io e mia sorella saremmo dovute partire insieme per una vacanza a lungo attesa, ma lei aveva dovuto rinunciare perché al marito era venuta la febbre, e così mi misi in viaggio da sola. E adesso ero lì, su quella montagna, e percepivo una presenza. Era il primo inverno dopo la morte della nonna, ma sembrava un fatto lontano, come se fossero passati anni. La luce arancione del tramonto invernale era così intensa da fare quasi male, e mi guardavo intorno con gli occhi socchiusi. Avevo la sensazione di essere avvolta da qualcosa di caldo e familiare, da uno sguardo dolce.

  Quasi mi aspettavo di vedere da un momento all’altro il fantasma di mia nonna. Avrei tanto voluto incontrarla, fosse stato pure in forma di fantasma. Ma quello che vidi, nel giardino di una piccola casa rurale, furono soltanto innumerevoli piante di aloe, talmente tante da lasciare senza fiato, che crescevano fitte come in una giungla.

  Ricevevano il sole e sembrava volessero dirmi qualcosa. Alte, aprivano le loro foglie carnose e acuminate nel cielo invernale, sovrapponendosi l’una all’altra, piene di fiori rossi e ruvidi, come volessero trasmettere la loro gioia di vivere. Avvolta nell’affetto dell’aloe, ebbi la sensazione di essere stata riscaldata nella luce del sole. È così? pensai, è così dunque che si crea il contatto? Per quanto mi riguarda, ogni volta che avessi visto un aloe, dovunque fosse stato, mi avrebbe certamente messo in contatto con qualcosa di caldo e di dolce. Ogni aloe era amico dell’aloe che avevo trapiantato quella notte. Pensai che in questo modo avrei comunicato con tante piante, stringendo legami come si fa con le persone. Ciò che avevo ereditato dalla nonna, quella energia utile che potrebbe anche sembrare una sorta di fede senza fondamento, era quella che in genere chiamano “il pollice verde”. Se avevo questo talento, le piante avrebbero fatto brillare la loro vita nel mio braccio in tutta la sua forza. E cos’ anch’io e le persone che facevano questo lavoro saremmo stati tutti collegati.

  Mi tolsi il guanto e accarezzai dolcemente quelle foglie che, acuminate com’erano, un tempo detestavo e che trattavo con indifferenza utilizzandole solo per l’abbronzatura. Il loro verde brillava come pietre preziose, e le foglie erano morbide e fresche come seta. Rinvigorita come se avessi stretto la mano a una persona, mi avviai su per il sentiero di montagna.

[+] La hostess intrattiene i clienti di bar, night-club ecc., chiacchierando e versando loro da bere. Le sue mansioni, a seconda dei casi, oscillano tra quelle della cameriera e quelle della entraîneuse. [N.d.T.]

tratto da: Banana Yoshimoto, Il corpo sa tutto, trad. it. Giorgio Amitrano, Milano 2004.

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Incontro con Guido Ceronetti

10 Gennaio 2023

Incontro con Guido Ceronetti

Ho fatto un viaggio lunghissimo per arrivare da Guido Ceronetti, che da anni si è ritirato in un piccolo paese in provincia di Siena. Ero stata il giorno prima a Forte dei Marmi, per un altro servizio. Dunque sono arrivata dal maestro di corsa e piuttosto stremata, su un regionale veloce, sporco e tutto rotto. Il tassista che dalla stazione mi portava a casa sua, quando gli ho dato l’indirizzo, mi ha detto: «Ah, ma lei va a trovare Ceronetti!» E ho capito che il paese, in un certo senso, ruota tutto attorno a lui. Ad esempio, se gli vuoi mandare un fax, lo devi inviare al tabaccaio sotto casa. Cose di un altro secolo, guareschiane per come io ho sempre pensato tutti i mondi piccoli, nella presunzione che assomiglino al mio.

Ceronetti, ovviamente, mi aspettava senza aspettative, senza fastidi. Era una cosa da fare e lui l’ha fatta al meglio possibile, nonostante la stanchezza dell’età. Naturalmente, anche se scrive sui giornali da molto, molto prima che io venissi al mondo, non ho mai pensato di considerarlo un collega. Eppure a lui piace parlare di giornali, lo fa con molta dimestichezza. Credo sia perché non è persona da temere le classificazioni: è stato molte cose. E infatti, qualche settimana dopo il nostro incontro, mi ha fatto avere una copia di un suo libro di poesie con una dedica. E io ho pensato: un gesto che farebbe solo un uomo del secolo scorso, un secolo infinitamente più interessante di questo, così frettoloso, così confuso. Poi ho letto con piacere il libro, pur non essendo un’assidua consumatrice di versi e strofe. Mi ha colpito molto la sua analisi delle differenze tra i sessi. E della natura matrigna che ti porta fino alla vecchiaia, un’età ostile, poco confortevole specie nella solitudine. Mi ha detto: «Le donne anziane, quando sono sole, se la cavano meglio di noi uomini. Per un uomo restare solo è più difficile»

Nell’ultimo capitolo dei Promessi sposi si incontra il più coraggioso prelato della storia della letteratura: sta tergiversando su un matrimonio che ancora non è sicuro s’abbia da fare, in attesa di esser certo che don Rodrigo abbia tirato le poco naobili cuoia. Temporeggiando, don Abbondio si aggrappa a Cicerone: «La patria è dove si sta bene». E quindi, attraversando la Toscana su un regionale veloce solo di nome, si cercano tracce del benessere che ha portato un torinese come Guido Ceronetti a scegliere un paesino tra le colline in provincia di Siena. La risposta è lapidaria: «Era destino che ci abitassi». È una piccola casa, ci sono quasi solo libri e sono dappertutto: dunque meglio dire una biblioteca con camera e cucina. Bisogna fare molta attenzione a come si saluta il poeta, avendo presente una sua celebre affermazione: «La domanda più indiscreta, più insolente, più insoffribile, e la più comune anche, la più poliglotta, la più persecutoria, al telefono e faccia a faccia, la domanda che mette alla tortura chi ama la verità perché la si formula per avere in risposta una miserabilissima bugia è: ’Come stai?’»

Sulla porta, senza domande di circostanza e dopo i saluti, è subito il tempo di un’invettiva sull’età canuta: «Contro la vecchiaia sei impotente, devi solo subire. Vai dal medico, ti dà qualcosa ma non fa quasi nulla. Il Salmo novanta dice: l’uomo vive settant’anni, in qualche caso può arrivare agli ottanta. Ma dopo è catastrofico. Sa, gli uomini soli patiscono la vecchiaia molto di più delle donne: a loro basta la famiglia». Chiarito questo, si può cominciare.

In quasi tutte le epoche si è gridato alla decadenza. Un vezzo nostalgico o nel caso della nostra Italia è proprio vero?

L’Italia mi fa soffrire, per motivi di passione civile. Mi vedo come un patriota vissuto in una ininterrotta perdizione di patria, in una non-patria. L’assenza di patria, scriveva Heidegger nel 1946, sta diventando un destino mondiale. Dappertutto, le patrie stanno scomparendo o s’immaginano di esserci ancora. Migrazioni di popoli e globalizzazione tecnologica abbattono le frontiere per le quali abbiamo combattuto e penato tanto. Posso dire come Lucrezio: «In questo tempo di sciagure per la patria». Ma se ci rifletto, a una patria che c’è ormai così poco non toccano sciagure.

L’idea di patria ha avuto decisamente più fortuna a destra che a sinistra, forse come retaggio marxiano, «Gli operai non hanno patria».

Non si capisce bene perché la destra si sia impadronita di questo concetto, anche se il vecchio dogma operaista certamente dà una spiegazione. Il patriottismo moderno nasce con la Rivoluzione francese, c’è quello del Risorgimento e poi si arriva a quello dei totalitarismi. L’ultra-patriottismo del fascismo ha dato l’ultimo colpo di piccone al sentimento di patria. Dopo il ’45 la parola «patria» era del tutto squalificata: il termine è sparito, ed è stato sostituito da «Paese», che prima non si era mai sentito in riferimento allo Stato. Tanto è vero che c’era un giornale di sinistra che si chiamava Il Paese. E non avrebbe mai potuto chiamarsi La Patria! Figuriamoci, sarebbe diventato subito uno strumento dei fascismi. In quei primi anni subito dopo la fine della guerra, però, anche a destra si andava cauti con la parola «patria».

Nel suo Viaggio in Italia, dei primi anni Ottanta, lei ha scritto: «L’Italia è ben poco interessante, il popolo, dopo tanta storia, è più che mai rincretinito». Lo pensa ancora?

Certo! Tante cose contenute nel Viaggio in Italia sono un travalicamento del senso di patria e nello stesso tempo trasudano una struggente nostalgia. Il termine «madrepatria» esprime bene una trasposizione vera: la patria è una madre più grande per tutti. E quando manca la madre, il disorientamento è massimo. L’assenza di patria non è sostituita da nient’altro, forse solo, per quelli che ce l’hanno, dalla fede. Tra l’altro, sul tema dello Stato confessionale, io voglio dire che è sbagliato pensare che l’Italia sia un Paese cattolico. Abbiamo almeno ottocento gruppi religiosi, la stessa Sicilia va diventando pentecostale: diciamo meglio che l’Italia è un Paese dove c’è anche il Vaticano. Una religione è anche un pensiero, e dov’è un vero pensiero cattolico in Italia, oggi? L’originalità di scrittori cristiani come Sergio Quinzio e Ferdinando Tartaglia resta insuperata. E poi silenzio.

Questo papa francescano le piace?

Così così. Non mi piaceva nemmeno il suo predecessore, il teologo. Direi che tutto il discorso dei papi ha pochissima consistenza. Ascolto sempre l’interessante rassegna della stampa vaticana di Giuseppe Di Leo su Radio Radicale, la domenica. È fatta molto bene, ma quando si evocano le parole del pontefice in un’occasione o nell’altra, qualcosa che somigli a un pensiero non c’è. Avevano fatto a Pio X, che aveva condannato il modernismo per eresia, una domanda circa le idee nuove. Lui aveva un calamaio sul suo tavolo. E aveva risposto: «Lo vede questo calamaio? Non è mio, l’ho ricevuto. Quando me ne andrò lo passerò al mio successore: questa è la mia dottrina». Cioè non avrebbe mai potuto cambiarla, non avrebbe mai speso una goccia di quell’inchiostro per trasformare la dottrina. È mutato lo stile. Papa Francesco potrà essere, nello stile appunto, un grande modernizzatore. Ma niente di più.

Nei supplementi al Viaggio in Italia dedica alcune pagine al Museo delle carrozze dei papi.

È un luogo affascinante: ci sono delle carrozze che altro che quelle dei dogi! E poi cominciano le automobili: venivano fabbricate apposta, in modello unico, per donarle al papa. Quella di Pio XII aveva un microfono con cui il pontefice comunicava con l’autista, perché non poteva parlargli direttamente. Ma lui si muoveva pochissimo. Poi scoprendo una jeeppona per i viaggi africani di papa Giovanni Paolo II vedi che c’è stato un cambiamento, inaudito e rapidissimo. Con l’inevitabile papa-mobile si è ristabilita una certa distanza.

L’obiezione sul pensiero inconsistente dei papi vale anche per la politica?

Politici che pensano attualmente non ne vedo neppure uno.

Lo stesso nella Prima repubblica?

Questo vorrebbe dire che ce n’è una Seconda… Anzi, non so nemmeno se la nostra si possa dire una Repubblica. È nata di provetta e di cesareo: priva di padre e di madre. L’Italia unita è stata fatta da una dinastia celtica poco raccomandabile e finita male. Ricordo il passaggio decisamente traumatico e violento del 25 aprile. Dopo la Liberazione mi appassionava moltissimo tutto quel che era politica. Per slancio, del resto ero talmente giovane… Avevo nelle orecchie i discorsi del duce, quando – lo ricordo come se fosse ieri – andai, con molta speranza e un certo fervore, allo stadio che aveva appena cambiato nome da stadio Mussolini a stadio Comunale. Non c’era ancora la repubblica. Mi trovai ad ascoltare – davanti a una folla oceanica perdutamente bisognosa di essere ingannata – un discorso unitario di Nenni e Togliatti, i due capi dei grandi partiti di massa. Ma era la prosecuzione di quegli altri discorsi, era lo stesso identico vuoto di verità. E quelli sono stati i padri fondatori. Con tutti i suoi difetti di romagnolo – non dimentichiamo che era stato amico e sodale di Mussolini prima del ’15 – Nenni era comunque preferibile a Togliatti, che era un emissario di Stalin e un complice delle sue famose purghe. Ero della generazione delle «conversioni de La corazzata Potëmkin». Alla domenica il Pci organizzava visioni gratuite del film di Ejzenštejn e il giorno dopo c’era una fila di ragazzi che andava a iscriversi al partito. Io no: avevo una grande diffidenza verso il Pci e a partire dal ponte aereo di Berlino fui definitivamente anticomunista. Tanti giovani avevano ancora residui di fascismo nelle vene, a me era andato via del tutto con l’8 settembre. Poi c’erano gli increduli sulle deportazioni: sapesse le discussioni. «Ma come, non è possibile: paralumi fatti con la pelle umana, figuriamoci!» A Nizza, sulla collina in faccia al mare, c’è un monumento con la scritta: «Qui è sepolto un pezzo di sapone prodotto con grasso umano». Sventurato chi non piange.

Primo Levi è stato sempre tormentato dal timore di non essere creduto.

Sì, è stato così per tutti i sopravvissuti. Anche per mia suocera, che era stata a Birkenau. Io sono stato attirato dall’ebraismo per via delle persecuzioni. Un giorno, nel 1946, vidi in una libreria di Torino un libretto di Giuliana Tedeschi, Questo povero corpo. Raccontava le deportazioni al femminile. Quel volumetto è stato molto importante per me. Tanti anni dopo, abitavo a Roma, mi chiama una ragazza e mi dice: «Mi chiamo Erica Tedeschi, buongiorno». Era sua figlia. Faceva l’assistente sociale, si occupava dei profughi ebrei della Libia. Dopo la Guerra dei sei giorni, molti ebrei libici avevano fatto una brutta fine: tanti ebrei nordafricani scampati arrivarono in Italia. La nostra convivenza felice è durata quattordici anni. Separati dal 1982 e mai divorziati. Con Erica il mio rapporto non si è mai interrotto.

Le sue posizioni su Erich Priebke – colpevole, lei ha scritto, di eccesso di obbedienza militare e della «miseria di non essere un santo», di non aver cioè voluto rifiutarsi di partecipare all’eccidio delle Fosse Ardeatine – hanno fatto molto scalpore.

Ho intervistato Erich Priebke. Per me è sempre stato un essere umano e non un mostro. E penso ancora che sia stato creato «mostro delle Ardeatine» e «vittima di una giustizia dell’odio», come ho più volte scritto. Penso poi che la scena della folla che prende a calci la sua bara – una qualunque bara – faccia schifo. Io volevo sottolineare il processo di trasformazione mediatica di una persona in un mostro, al di là delle sue responsabilità. Voglio dire che lui non è mai stato visto come un imputato, ma subito come un mostro. Era la sua caricatura. Detto questo, io ho sempre pensato che le Fosse Ardeatine siano state un crimine commesso da entrambe le parti. Prima della rappresaglia, c’era stato un atto terroristico dei gappisti, voluto dal Pci che voleva indurre i romani a insorgere.

Su Repubblica ha scritto che bisogna assolutamente eliminare l’orripilante parola «femminicidio», che abbassa le donne «a tutto ciò che, in natura, è di genere femminile, dunque zoologico, col destino comune di figliare e allattare. Ma, per noi, se non siamo bruti, donna significa molto di più. L’etimologia latina ne restringe il ruolo allo spazio domestico (domina); il Medioevo occidentale l’ha inventata (o rivelata) ideale, e su quel trono è rimasta, anche quando trattata a frustate».

Ho proposto di sostituire «femminicidio» con «ginecidio». Non è che sia un neologismo bellissimo, ma appartiene alla schiera dei derivati dal greco classico (giné-gynekòs): gineceo, ginecologia, misoginia. Non pensavo mi toccasse di proporre un termine più accettabile per una cosa tanto ripugnante. Però «femminicidio» è rimasto nel linguaggio. Avevo scritto: «Se riuscirò me ne farò un merito», però le abitudini linguistiche sono dure a morire.

È stato, è, femminista?

Non è che mi sia mai interessato molto l’argomento. Cioè m’interessano le donne, ma questa è un’altra faccenda. Sono sempre stato naturalmente dalla parte delle donne, non ho mai visto ragioni di un contrasto «di genere». Ero attratto dalla differenza, ma mi pare abbastanza ovvio.

Ho un bellissimo ricordo parigino, che risale agli anni Settanta. C’era una manifestazione femminista in Saint-Germain-des-Prés, con duecento ragazzine. Una – biondina, con gli occhiali, dall’aria timidissima – mostrava il seguente cartello: «E le clitoris, alors?» Incantevole!

Torniamo alle questioni culturali. Legge gli scrittori contemporanei?

Molto poco.

Ci fermiamo a?

Guido Piovene. L’ho anche conosciuto e gli ho voluto bene. Cesare Pavese poi l’ho amato e mi ha interessato. Anche il Pavese poeta ha toccato corde che sono anche mie, come il rapporto città-campagna.

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.»

La luna e i falò. Quando poi dice: «Un paese vuol dire non essere soli», lo penso anch’io perché abito in un paese. Detto questo, Il mestiere di vivere è un capolavoro della letteratura italiana.

Perché non la attira la narrativa contemporanea?

Per lo più è roba dettata dal computer…

Lei è molte cose: poeta, drammaturgo, scrittore, giornalista, latinista e biblista. Cosa si sente di più d’essere?

Quel che più mi piacerebbe – e ci sono riuscito in buona parte – è di essere un filologo. Il resto è in consonanza. Come biblista era certo un miglior conoscitore dell’ebraico di me il cardinal Martini. Ma non avrebbe potuto tradurre un salmo in una lingua moderna accettabile. Eravamo insieme in prima elementare a Torino. Ho anche una foto di tutta la classe con la maestra, nel 1934, ma non saprei più dire chi fosse il futuro arcivescovo di Milano in mezzo a quei grembiulini. È certamente singolare che in una stessa classe all’età di sei anni ci fossero due futuri biblisti… A me interessava ricavare dai testi del Vecchio Testamento un po’ di autentica lingua italiana. Tutto quel che abbiamo di Bibbia tradotta in italiano è veramente roba da buttare.

Brutte traduzioni?

Per millenni i papi hanno impedito che venisse letta, poi all’improvviso hanno cominciato a promuoverne la lettura. Mondadori ha stampato la Bibbia del Diodati addirittura nei «Meridiani». Per tantissimo tempo è stata purtroppo la sola versione italiana disponibile. È una cosa che non si può dire. Ha presente l’italiano del Seicento imitato da Manzoni? Ecco, la lingua di Diodati è quella. Con effetti comici. In un verso il salmista si rivolge a Dio e dice: «Tu conosci quando io siedo, quando io cammino». Diodati traduce: «Tu conosci il mio sedere». Voglio vedere se uno non si mette a ridere. Per questo gli italiani fuggiranno sempre la lettura della Bibbia. Quando uscì nel Settanta il mio primo Qohélet, mi venne riferito che molti ragazzi dell’estrema sinistra lo tenevano come libro di capezzale. Adesso ho fatto l’edizione definitiva per Adelphi, ma potrei ritradurlo un’altra volta: è inesauribile. Lì non ci sono balle, non c’è politica.

Ci spiega l’associazione balle-politica?

La politica è menzogna incarnata, perché surrogato incruento della guerra civile. Là è il viadotto dei messaggeri infernali, e ogni tanto di angeli buoni destinati a esserne vittime. Quando Lenin arrivò in Russia nell’aprile 1917 subito si mise a predicare la trasformazione della guerra europea in aperta guerra civile: così la menzogna della guerra attinse apici inauditi nell’hitlerismo, nel leninismo e nel mussolinismo. Oggi nel mondo si salvano le perplessità di Obama o quella eccezionale donna birmana… Le menzogne nostre, italofone, sono bugie povere, senza grandezza, spurghi del pensiero unico che si maschera di anglismi, di sondaggi e di paraocchi economicoidi. Nessuna verità, neppure un quartino, mai.

Che pensa dei quotidiani 2014?

Sono nel giornalismo da circa settant’anni. I giornali vorrei che si salvassero, però con questi giovani giornalisti che usano una lingua sempre più standard, spersonalizzata, l’uniformità trionfa. Non è che sono scritti male, sono scritti uguale.

Lei ha tradotto Marziale, Catullo, Giovenale: che pensa della sempre minor fortuna dei licei classici?

È un disastro identitario e quindi politico. Ecco, se c’è una differenza tra la classe dirigente del secolo scorso e questa, è che l’altra aveva una base di latino. Questa non ha niente e perciò ha le chiappe scoperte. Se non hai come base il latino, quel che dici in italiano difficilmente contiene verità. Alla domanda: «A cosa serve il latino?», posso rispondere che serve a distinguere un uomo che ha studiato il latino da uno che non ne sa niente. Il latino è il vero padre della patria. Purtroppo essendo destinato – anche per colpa gravissima della Chiesa che lo ha cancellato dai riti – a sparire del tutto, siamo in piena tragedia identitaria.

Ai nostri politici invece piace molto usare termini inglesi: si sentono «moderni».

Matteo Renzi, sindaco di Firenze, la lingua italiana non l’ha difesa, perciò io lo rifiuto. Le vie di Firenze sono piene di parole inglesi: doveva mettere un argine. Quando l’ho sentito dire invece che «piano per il lavoro», «jobs act» ho pensato che fosse come tutti gli altri. Buttare via la lingua è svendita identitaria.

La grande obiezione che si fa a proposito di Matteo Renzi è «non è di sinistra». Lei che dice?

Che l’obiezione è miserrima: sinistra e destra sono vecchi fantasmi arcidefunti. Da segretario ha manovrato così bene da rimettere in sella Berlusconi che pareva finito. Bravo. L’uomo della provvidenza che getta il salvagente al provvidente più furbo: così la trappola si chiude.

Il Pd è stato al governo con Berlusconi, ha votato insieme al suo partito il presidente della Repubblica, ora farà con lui le riforme…

No, non faranno nessuna riforma. Una somma di zeri mentali farà sempre zero. Con Grillo scendiamo ancora.

Lei è coetaneo del presidente Napolitano.

Marameo: lui è più vecchio. È del ’25 e io sono del ’27. Il papa emerito sì, è mio coetaneo. Fidel Castro, ridotto male anche lui, è dello stesso mese mio, agosto 1927, però Leone.

11 febbraio 2014

Tratto da: Silvia Truzzi, Un paese ci vuole, Sedici grandi italiani si raccontano, ed. Longanesi

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Paul Bowles

8 Gennaio 2023

Pedalavano lentamente, percorrendo la lunga strada in direzione dell’apertura nella bassa catena di monti a sud della città. Dove le case terminavano cominciava la pianura, un mare di pietre su entrambi i lati. L’aria era fresca, il vento asciutto del tramonto soffiava contro di loro. La bicicletta di Port cigolava lievemente ad ogni pedalata. Non parlavano, e Kit procedeva un po’ più avanti. In distanza, alle loro spalle, qualcuno suonava la tromba; una ferma, vivida lama di suono nell’aria. Perfino ora, quando tra poco più di mezz’ora sarebbe scomparso, il sole scottava. Arrivarono a un villaggio, lo attraversarono. I cani abbaiavano furiosamente e le donne si giravano in là, coprendosi la bocca. Soltanto i bambini rimanevano a fissarli, paralizzati dalla sorpresa. Al di là del villaggio, la strada cominciava a salire. Si rendevano conto della pendenza soltanto per lo sforzo di pedalare: all’occhio, il terreno si presentava piatto. Ben presto Kit si sentì stanca. Si fermarono, si girarono a guardare al di là della piana apparentemente uniforme, verso Boussif, uno schema di bruni isolati alla base delle montagne. La brezza era sempre più tesa.
«È l’aria più fresca che si possa respirare», disse Port.
«Davvero meravigliosa», convenne Kit. Era in uno stato d’animo amabile, sognante, e non si sentiva molto in vena di parlare.
«Vogliamo tentare di arrivare fino al passo, laggiù?», disse Port.
«Tra un istante. Giusto il tempo di riprendere fiato».
Poco dopo ripartirono, pedalando decisi, gli occhi fissi sullo squarcio del crinale di fronte a loro. A mano a mano che si avvicinavano, potevano già intravedere il piatto e sconfinato deserto che si stendeva oltre, rotto qua e là da aguzze creste di roccia che si levavano al di sopra della superficie, simili a pinne dorsali di altrettanti mostruosi pesci che si muovessero tutti in una stessa direzione. La strada era stata aperta con la dinamite attraverso la cima della dorsale, e i massi frastagliati erano scivolati a valle su entrambi i lati del taglio. Lasciarono le biciclette di fianco alla strada e presero ad arrampicarsi sempre più in alto tra quei massi enormi, diretti proprio in cima. Il sole era ormai all’orizzonte; l’aria era soffusa di rosso. Nell’aggirare uno di quei massi piombarono inaspettatamente su un uomo, che se ne stava a sedere con il burnus tutto rialzato intorno al collo – per cui era nudo dalle spalle in giù – e intento a radersi i peli pubici con un lungo coltello appuntito. l’uomo guardò in su con indifferenza, quando gli passarono davanti, e riabbassò immediatamente la testa per continuare la delicata operazione.
Kit prese per mano Port. Salivano in silenzio, felici di essere insieme.
«Il tramonto è un’ora così triste», osservò a un tratto lei.
«Se guardo morire una giornata – una qualsiasi – ho sempre la sensazione che sia la fine di un’intera epoca. E l’autunno! Potrebb’essere addirittura la fine di tutto», disse Port. «Ecco perché detesto i paesi freddi, e amo quelli caldi, dove non c’è l’inverno, e quando scende la sera hai come l’impressione che la vita si schiuda, invece di chiudersi. Non è così anche per te?»
«Sì», disse Kit, «Ma non sono ben sicura di preferire i paesi caldi. Non lo so. Tutto sommato ho quasi l’impressione che sia sbagliato cercare di sfuggire al buio e all’inverno, e che se lo fai dovrai poi scontarlo, in qualche modo».
«Oh, Kit! Tu sei proprio pazza!». L’aiutò su per il fianco di una bassa rupe. Il deserto si stendeva direttamente sotto di loro, molto più in giù della piana dalla quale si erano appena inerpicati.
Lei non rispose. La rattristava rendersi conto che, pur avendo tanto spesso le stesse reazioni, gli stessi sentimenti, non arrivavano mai alle medesime conclusioni, perché i loro rispettivi scopi, nella vita, erano quasi diametralmente opposti.
Sedettero l’uno accanto all’altro sulla roccia, a contemplare la vastità sottostante. Kit infilò il braccio in quello di Port e appoggiò la testa contro la spalla di lui. Port si limitò a fissare dritto davanti a sé, poi sospirò, e infine scosse lentamente la testa.
Erano i luoghi come quello, i momenti così, ch’egli amava sopra ogni altra cosa nella vita; Kit lo sapeva, e sapeva anche che li amava di più se c’era lei presente, a sperimentarli con lui. E sebbene fosse ben consapevole che quegli stessi silenzi, quegli stessi luoghi deserti che gli toccavano il cuore la riempivano di sgomento, non sopportava di sentirselo ricordare. Era come se ogni volta gli rinascesse la speranza che anche lei potesse sentirsi affascinata nello stesso modo dalla solitudine e dalla vicinanza con l’infinito. Spesso le aveva detto «È la tua unica speranza», e Kit non era mai ben certa di che cosa intendesse dire. A volte pensava che intendesse alludere all’unica speranza per lui, che soltanto se fosse stata in grado di diventare com’egli era, sarebbe riuscito a ritrovare la via dell’amore, dato che amore, per Port, voleva dire amare lei: l’eventualità di un’altra donna non si poneva nemmeno. E da tanto tempo, ormai, l’amore non c’era, ne era mancata la possibilità. Ma nonostante la volontà di diventare come egli voleva che lei diventasse, Kit non poteva cambiare fino a quel punto: il terrore era sempre dentro di lei, pronto a prendere il sopravvento. Era inutile pretendere il contrario. Ma proprio come lei era incapace di scrollar via lo sgomento che sempre l’accompagnava, Port era incapace di liberarsi dalla gabbia in cui da se stesso si era chiuso, la gabbia costruita tanto tempo prima per salvare se stesso dall’amore.
Kit gli serrò il braccio. «Guarda là!», bisbigliò. A soli pochi passi da loro, seduto in cima a un masso, così immobile che non lo avevano notato, c’era un arabo venerando, le gambe ripiegate sotto di sé, gli occhi chiusi. Pensarono dapprima che potesse essersi addormentato, nonostante la posizione eretta, dato che non dava segno d’essere consapevole della loro presenza. Ma poi videro che le labbra si movevano quasi impercettibilmente, e capirono che stava pregando.
«Ma è giusto rimanere qui a osservarlo?», domandò lei, con voce sommessa.
«Che male c’è? Ce ne staremo tranquilli». Le posò la testa in grembo e rimase disteso a fissare il cielo limpido. Con mano leggera, lei prese ad accarezzargli i capelli. Il vento che soffiava dalle regioni sottostanti andava rinforzandosi. Lentamente, il cielo perdeva la sua intensa luminosità. A un tratto Kit lanciò un’occhiata all’arabo; non si era mosso. Improvvisamente, venne presa dal desiderio di tornare, ma continuò per qualche tempo a rimanere perfettamente immobile, guardando teneramente il capo inerte sotto la sua mano.
«Sai», disse Port, e la sua voce sonò irreale, com’è facile che accada alle voci dopo una lunga pausa in un luogo estremamente silenzioso, «il cielo qui è molto strano. Spesso, quando lo guardo, ho la sensazione come di una cosa solida lassù, che ci protegge da quello che c’è dietro».
Kit rabbrividì lievemente nel ripetere: «Da quello che c’è dietro?».
«Sì».
«Ma che cosa c’è, dietro?». La sua voce era fievole fievole.
«Niente, credo. Soltanto oscurità. Notte assoluta.»
«Ti prego, non parlarne proprio ora». C’era angoscia nella richiesta di Kit. «Tutto quello che mi dici mi terrorizza. Quassù comincia a far buio, c’è tanto vento, e non lo sopporto».
Lui si mise a sedere eretto, le gettò le braccia al collo, la baciò, si ritrasse un poco per guardarla, la baciò di nuovo, tornò a ritrarsi e così via, diverse volte. C’erano lacrime sulle guance di Kit, che sorrise, sconsolatamente, mentre lui gliele sfregava via con le dita.
«Sai una cosa?», mormorò Port con grande serietà. «Credo che abbiamo paura tutti e due della stessa cosa. E per la stessa ragione. Non siamo mai riusciti, né tu né io, a immergerci nella vita fino in fondo. Ci teniamo aggrappati all’esterno con tutte le nostre forze, convinti che al prossimo scossone finiremo per cascar giù. Non è così?».
Lei chiuse per un attimo gli occhi. Quei baci sulle guance avevano risvegliato il senso di colpa, che ora si abbatteva su lei in una grande ondata, lasciandola stordita e sofferente. Aveva passato tutta la siesta a cercar di lavar via dalla coscienza le cose accadute la sera prima, ma era perfettamente consapevole, ora, di non esserci riuscita, e di non poter essere giammai in grado di farlo. Si mise una mano sulla fronte, tenendovela, e alla fine disse: «Ma se ci teniamo all’esterno, c’è ancora più probabilità per noi di… cascar giù».
Aveva sperato ch’egli opponesse qualche obiezione a questo, che trovasse errata la sua stessa analogia, forse… che qualche consolazione potesse scaturirne. Tutto quello che disse fu: «Non lo so».
La luce stava facendosi sensibilmente più fioca. Il vecchio arabo sedeva sempre immerso nelle sue preghiere, severo e statuario nel crepuscolo dilagante. Sembrava a Port che dietro di loro, là sulla piana, si potesse udire una nota di tromba a lungo protratta, che però continuava, continuava. Nessuno poteva tenere il fiato così a lungo: era la sua fantasia. Prese la mano di Kit e la strinse. «Dobbiamo tornare», bisbigliò. In fretta si alzarono e, balzando di masso in masso, scesero fino alla strada. Le biciclette erano là dove le avevano lasciate. In silenzio, tornarono verso la città, andando a ruota libera. I cani del villaggio presero ad abbaiare in coro, quando lo riattraversarono velocemente. Lasciarono le biciclette nei pressi del mercato, poi si avviarono lentamente lungo la strada che portava all’albergo, immergendosi nella sfilata di uomini e pecore che continuava la sua avanzata sulla città, perfino di sera.
Per tutto il percorso di ritorno Kit non aveva fatto che rimuginare su un’idea: «In qualche modo Port sa di Tunner e me». Nello stesso tempo, non credeva che fosse consapevole di saperlo. Ma con una parte più profonda della sua intelligenza intuiva la verità, sentiva quello che era accaduto: lei ne era certa. Mentre percorrevano insieme la strada buia fu quasi tentata di domandargli come lo sapesse. La incuriosiva il funzionamento di un istinto puramente animale come quello in un uomo complesso come Port. Ma sarebbe stato deleterio; non appena lo avesse reso consapevole di quella scoperta, avrebbe deciso d’essere furiosamente geloso, immediatamente sarebbe seguita una scenata, e tutta l’implicita tenerezza tra loro sarebbe svanita, forse per non essere ritrovata mai più. Non avere neppure quella tenue comunione con lui sarebbe stato insopportabile.
Port fece una cosa strana, una volta terminato di cenare. Da solo andò fino al mercato, sedette per qualche minuto nel caffé a osservare uomini e animali alla luce tremolante delle lampade a carburo, poi, nel passare davanti alla porta aperta della bottega dove aveva noleggiato le biciclette, entrò. Chiese una bicicletta munita di fanale, disse all’uomo di aspettarlo fino al suo ritorno, e in fretta pedalò via in direzione della spaccatura tra le rocce. Faceva freddo lassù, soffiava il vento notturno. Non c’era luna e lui non poteva vedere il deserto davanti a sé, giù in basso: soltanto le stelle gelide che sfolgoravano in alto, nel cielo. Seduto sul masso, lasciò che il vento lo raggelasse ben bene. Nel ritornare verso Boussif, si rese conto che non avrebbe mai potuto dire a Kit d’esser stato lassù. Kit non avrebbe capito quel suo desiderio di tornarvi senza di lei. O forse, rifletté, avrebbe capito fin troppo bene.

tratto da: Paul Bowles, Il tè nel deserto, trad. it. Hilia Brinis, Milano 1989.
Titolo originale The Sheltering Sky, prima edizione London 1949.

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Elementi di Botanica parallela

2 Gennaio 2023

Nell’antichità la botanica faceva parte di un’unica scienza, che includeva la medicina e le scienze agrarie ed era praticata da filosofi e barbieri. Alla famosa scuola medica di Coo (V secolo a.C.) Ippocrate, e più tardi Aristotele, scrissero i primi abbozzi di una metodologia scientifica. Ma fu Teofrasto, allievo di Aristotele, il primo a sviluppare un rudimentale metodo di osservazione del mondo vegetale. I suoi Historia plantarum e De plantarum causis si ritroveranno poi, tramandati da Dioscoride, fra le frasi e le frasche degli erbari medievali che monaci scrivani componevano nei chiostri fioriti delle badie, ritraendo le piante più umili, ognuna sul suo altarino di zolla, ferme, perfette come i santi, in una solitudine che sfidava il tempo e le stagioni.
Dopo Gutenberg anche le piante avranno una nuova iconografia. Alle delicate velature dell’essenza di petali, applicata con amorevole pazienza, si sostituisce la brutalità del taglio nel legno e l’opaca indifferenza degli inchiostri. Nel 1539 Hieronymus Bock pubblica un’opera, illustrata da tavole xilografiche, in cui l’autore descrive 567 delle seimila specie di piante allora conosciute nel mondo occidentale, includendovi per la prima volta tuberi e funghi. […]
Meno di un secolo dopo l’avvento della stampa i Conquistadores e i capitani delle Compagnie delle Indie vuoteranno su un’Europa sbalordita la cornucopia profumata dei giardini e delle giungle che dormivano di là dagli oceani. Migliaia e migliaia di nuove piante dovranno essere frettolosamente nominate e collocate in un sistema di classificazione primitivo e inefficiente. Finalmente, nei primi decenni del XVIII secolo lo scienziato svedese Carlo Linneo redige una tassonomia botanica che sembra essere definitiva; un’anagrafe vegetale dove tutte le piante della Terra, presenti e future, potranno avere un nome, un rango, una descrizione sommaria. Nel 1735 Linneo pubblica il suo Systema Naturae e nel 1753 introduce la nomenclatura binomia che assegna a ogni pianta due nomi latineggianti, uno per il genere e uno per la specie. Oggi 300mila nomi di piante formano un lungo involontario poema che commemora, ricorda, descrive, esalta, celebra le intricate vicende della storia umana.
Tutto sembra pronto per la nuova scienza. Liberati dall’ossessione della tipologia, i botanici si chiedono ora il come e il perché dei comportamenti vegetali. La chimica, la fisica e la genetica provvedono nuovi strumenti di ricerca. La tipologia cede il posto all’etiologia.
La botanica, chiamata a stabilire un rapporto logico e causale fra l’organizzazione morfologica e le funzioni vitali delle piante, servendosi di metodi sperimentali, è ora una scienza moderna. Il futuro sembra sicuramente tracciato – s’insegue il piccolo con un piccolo sempre più piccolo, fino all’infinito. Là, paradossalmente, si pensa, dovrà avvenire l’incontro e la spiegazione di tutto quello che esiste nell’universo.
Ma la prospettiva, al tempo stesso esaltante e confortevole, di un programma di ricerca faticosamente delineatosi attraverso i secoli, e che pareva fissato per sempre nel tempo, sarà profondamente scossa dalle notizie del ritrovamento delle prime piante parallele – un regno sconosciuto le cui caratteristiche di arbitrarietà e di imprevedibilità sembrano sfidare non solo le conoscenze biologiche recentemente acquisite, ma anche le strutture tradizionali della logica.
«Tali organismi» scrive Franco Russoli «la cui corporea esistenza è ora molle ora porosa, ora invece ossea ma fragile, slabbrati a mostrare colonie di semi, bulbi che crescono e lievitano nella cieca ostinazione di una metamorfosi vitale, e sembran lottare contro la resistenza di un mallo soffice ma vischiosamente insuperabile – tali abnormi creature che sfoderano aculei e cornee protuberanze, o si fan corpetto e gonna e frange di fibrilli e pistilli e articolazioni ora di mucosa ora di cartilagine, potrebbero ben appartenere vagamente alle grandi famiglie di una flora di giungla, ambigua, feroce e mostruosamente affascinante. Ma non appartengono ad alcuna specie in natura, né alcun sapientissimo innesto di laboratorio arriverebbe a farle esistere»1. Quando si pensi che nel 1330 fra Odorico da Pordenone aveva descritto, con serafico impegno, una pianta che genera niente di meno che un agnello, e che, ancora nel Seicento, agli albori delle prime autentiche esperienze scientifiche, un Claude Duret parla di alberi che partoriscono animali2, non c’è da meravigliarsi se la scoperta di una botanica le cui leggi sembrano estranee a tutte le leggi naturali conosciute abbia indotto a descrizioni che non sempre riflettono con fedeltà obiettiva la realtà delle nuove piante.
«Che dire» osserva Romeo Tassinelli «di piante che affondano le proprie radici anziché nelle zolle familiari della nostra terra, in un humus onirico, lontanissimo, traendone per la propria esistenzialità succhi eterei immisurabili? Le piante di questo regno sembrano essere estranee al gioco ordinato della selezione naturale e della sopravvivenza della specie. Sfuggono alle tecniche più provate e sicure della metodologia sperimentale e rifiutano i più elementari sistemi di osservazione diretta. La loro etiologia, la loro stessa esistenzialità non sono normalmente collocabili sul nostro pianeta. In fondo» conclude «non si dovrebbe parlare di un regno ma di un’anarchia vegetale».

Tratto da: Leo Lionni, Elementi di Botanica parallela

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FRANK LLOYD WRIGHT A FIESOLE

28 Dicembre 2022

“L’esilio volontario”, come lo definisce lo stesso Wright, cominciò a Berlino dove si recò, appena sbarcato in Europa, per revisionare il volume Ausgeführte Bauten und Entwürfe von Frank Lloyd Wright. La prima edizione del libro sull’opera del maestro americano uscì nel 1910, immediatamente seguita da una seconda l’anno successivo. Il libro e la contemporanea grande mostra berlinese completamente dedicata ai lavori di Wright ebbero un’eco fortissima fra gli architetti europei e provocarono immediatamente una svolta radicale nel movimento moderno in Germania e Olanda.

La casa editrice Wasmuth chiese inoltre a Wright di scrivere delle note di spiegazione per accompagnare le illustrazioni delle sue opere e l’architetto, sempre insieme alla signora Cheney, si trasferì a preparare il lavoro “nell’antica Fiesole, più in alto della romantica città delle città, Firenze, in una piccola villa color crema di Via Verdi.” (F.L. Wright, op. cit.).

Fiesole, benché il suo territorio sia costellato di beni culturali riferibili a periodi storici che vanno dall’etrusco-romano al medioevale e al moderno, aveva mantenuto fino al 1865 un carattere prevalentemente agricolo. Con il trasferimento della capitale da Torino a Firenze si tentò di adattare la struttura insediativa di Fiesole alle nuove esigenze e di dare un aspetto realmente urbano alla ‘città’ (riferendosi a Fiesole si era sempre impropriamente parlato di città in considerazione della sua sede episcopale benché, in realtà, il vescovo risiedesse a Firenze).

Così a partire dal 1866 l’ingegnere comunale Michelangiolo Maiorfi cominciò a studiare un ‘piano regolatore’ che, attraverso una serie di modifiche, venne approvato nel 1875. Negli anni successivi si cominciarono a realizzare i primi interventi con la costruzione di ville per famiglie borghesi sul versante privilegiato con panorama su Firenze in direzione Borgunto e case per operai sul versante opposto. La trasformazione in senso cittadino di Fiesole portò anche alla riorganizzazione della piazza della cattedrale (oggi piazza Mino da Fiesole) che, corredata di panchine e lampioni, si trasformò in area di passeggio e incontro e divenne luogo rappresentativo e di immagine della città, su cui ancora oggi si affacciano il municipio, il museo, la cattedrale e il seminario. Anche in conseguenza della costruzione della nuova Via Fiesolana (1839-40), Fiesole stava sempre più affermandosi come meta di un turismo borghese italiano e internazionale. Nacque quindi l’esigenza di un servizio pubblico di collegamento con Firenze. La linea, che collegava la piazza San Marco di Firenze con il centro di Fiesole, venne inaugurata il 19 settembre 1890 e fu la prima linea di tram a trazione elettrica realizzata in Italia. Proprio nel 1910, anno in cui Wright vi abitò, il comune di Fiesole assunse l’assetto territoriale che conserva tuttora e gli uffici dell’Amministrazione Comunale, precedentemente ospitati a Firenze e Coverciano, vennero trasferiti nel centro cittadino.

Wright, come molti altri illustri personaggi prima e dopo di lui – da John Ruskin ad Anatole France, da Arnold Böchlin a Paul Klee, per citarne solo alcuni – si recò a Fiesole dove cercò “riparo accanto a colei che l’impeto della ribellione, oltre all’amore, aveva portato nella mia vita.” (F.Ll.. Wright, op. cit.). Probabilmente era a conoscenza dei molti che lo avevano preceduto, poiché in un altro passo della autobiografia scrive: “Quanti spiriti in cerca di sollievo da reali o immaginarie afflizioni domestiche non hanno trovato rifugio sui colli fiesolani!” (F.Ll. Wright, op. cit.).

Del suo soggiorno fiesolano Wright ricorda:

“Passeggiavamo assieme, la mano nella mano, lungo la strada che sale da Firenze all’antica cittadina, circondati lungo tutto il tragitto, alla luce del giorno, dalla vista e dal profumo delle rose. Percorrevamo sotto braccio la stessa antica strada, di notte, ascoltando l’usignolo nelle ombre fitte del bosco illuminato di luna, facendo del nostro meglio per udire il canto nel colmo della vita. Innumerevoli pellegrinaggi compimmo per raggiungere la piccola porta massiccia incassata nel muro compatto imbiancato a calce, e la più grande porta verde che si apriva sull’angusta via Verdi. Entrati, dopo aver chiuso la porta medievale sul mondo esterno, trovavamo il fuoco acceso sulla piccola griglia. Ester, in grembiule bianco, sorridente, impaziente di stupire la signora e il signore con l’incomparabile pranzetto: l’oca arrosto, perfetta, il vino dolce, la crème-caramel… superiori, ricordo, a tutte le oche arrosto, e i vini. e le crèmes-caramel mai serviti.

Oppure, passeggiavamo nel parco cintato da alte mura, intorno alla villa, nel sole fiorentino, o nel giardinetto accanto alla fontana, nascosta da masse di gialle rose rampicanti. E vi furono lunghe escursioni per i sentieri di quelle dolci colline, più in alto, fra i papaveri che ammantavano i campi, verso Vallombrosa.

E laggiù la cascata, che ritrovava, e smarriva la propria voce nei silenzi profondi di quella famosa pineta. Aspirando nel profondo dei polmoni il profumo dei grandi pini… Stanchi, dormivamo nella piccola solitaria locanda delle alture.

E poi ancora il ritorno, la mano nella mano, per chilometri nel sole ardente, nella polvere fitta dell’antica serpeggiante strada: un’antica strada italiana, lungo il torrente. Quanto antica! Quanto pienamente romana!” (F.Ll. Wright, op. cit.).

Della dimora fiesolana dell’architetto sappiamo che era una piccola villa color crema, che aveva una piccola porta massiccia incassata nel muro compatto imbiancato a calce e una più grande porta verde che si apriva sull’angusta via Verdi. la villa era inoltre circondata da un parco cintato da alte mura. Un dato ancor più interessante sulla abitazione di Wright è riportato nella prefazione del libro del 1910 Ausgeführte Bauten Und Entwürfe. Qui l’architetto apre la prefazione del volume scrivendo:

Villino Belvedere, Via Verdi, Fiesole, Italia, Giugno 1910

e la conclude firmando: Frank Lloyd Wright, Villino Belvedere, Fiesole, Giugno 1910.

Per ben due volte quindi Wright riporta il nome della casa e ne conferma l’ubicazione nella via Verdi. Nella presentazione della ristampa di tale prefazione, avvenuta nel 1951 in occasione della mostra tenutasi in Palazzo Strozzi a Firenze sull’opera dell’architetto, Wright ribadisce che la stesura dello scritto è avvenuta nel Giugno 1910 a Fiesole, nel Villino Belvedere.
Da questi dati, e da un’analisi della cartografia storica del territorio fiesolano, si è potuto identificare la dimora dell’architetto con un villino in prossimità della parte finale della via Verdi, dove questa attualmente si biforca nelle vie di Montececeri e della Doccia. Tuttavia nel 1910 la via Verdi – che aveva assunto questo nome in seguito ad una delibera della Giunta Municipale del 15 febbraio 1901 mentre prima di tale data si chiamava via del Carro – si estendeva dalla piazza Mino da Fiesole alla via vicinale del Pelagaccio e comprendeva quindi anche quella parte che solo in tempi assai più recenti sarebbe diventata via di Montececeri. L’edificio, che reca ancora accanto all’ingresso su via di Montececeri l’iscrizione ‘Villino Belvedere’, compare per la prima volta nel Plantario Geometrico Catastale Del Territorio Comunicativo Di Fiesole del 1869, mentre nelle carte di epoca precedente il lotto risulta non ancora edificato. Le caratteristiche architettoniche forniscono un’ulteriore traccia per datarne la costruzione attorno alla metà del 1800.

Le foto scattate nel 1910 da Frank Lloyd Wright alla casa e al giardino, archiviate presso la Fondazione Wright di Taliesin, hanno confermato l’esatta identificazione dell’edificio, che è rimasto sostanzialmente invariato dal lato dell’ingresso sulla via di Montececeri (già via Verdi) se si eccettuano la scomparsa di due riseghe nel cornicione che nasconde la pendenza del tetto e la sostituzione delle inferriate delle finestre. Assai differente è invece la situazione sul fronte opposto dell’edificio, quello che si affaccia verso Firenze, dove al piano superiore il balcone centrale è stato esteso per tutta la lunghezza della facciata mentre al piano inferiore è stata creata una loggetta panoramica in aggetto con vista sulla città. Analizzando il progetto di Wright per la casa-studio di Fiesole (vedi capitolo successivo) ed in particolare la loggetta che compare nelle prospettive al termine di uno dei bracci minori della pianta, alcuni particolari quali la tripartizione dell’apertura ed i pilastri rettangolari terminanti con capitelli dal disegno lineare suggeriscono la suggestiva ipotesi di una possibile influenza di tale progetto nella realizzazione della loggetta del villino Belvedere.

In uno dei disegni del progetto compare la scritta autografa di Wright: “Villa Florence Italy, Via Verdi – Madame Illingworth – 1910 Feb.” Da una ricerca compiuta presso l’Archivio Comunale di Fiesole si è appurato che la signora Elisa Illingworth, nata a Leeds nel 1849 e residente a Fiesole dal 1889 fino alla morte nel 1930, era proprietaria di diversi edifici della zona fra cui il villino Belvedere e la sottostante villa Belvedere in cui risiedeva. Nel censimento del 1901 sotto la voce mestiere la signora Illingworth è definita quale possidente; una delle sue proprietà, probabilmente il villino Belvedere, risulta data in affitto ad un suo connazionale il signor Arthur Woole mentre le altre proprietà, ad esclusione della propria abitazione, risultano affittate ad italiani. Appare allora probabile che la scelta di recarsi ad abitare a Fiesole possa essere stata suggerita a Wright da qualche membro della numerosa comunità anglofona di Firenze tenuto anche conto del fatto che quando giunse in città Wright non parlava affatto la lingua italiana. Lo splendido panorama su Firenze che si gode dal villino Belvedere e i resti ancora oggi visibili delle mura urbane del III-IV secolo a.C. a pochi metri di distanza, contribuirono sicuramente a creare quella atmosfera incantata che pervade gli scritti di Wright a proposito del suo soggiorno fiesolano. Partendo da Fiesole Wright e la sua compagna, oltre alle escursioni a Firenze e dintorni descritte nell’autobiografia e documentate da numerose fotografie (San Miniato, Boboli, ecc), si recarono a visitare anche altre città della penisola.

Frank Lloyd Wright, Fiesole 1910

da: architettura.it

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Abu l-Qasim al-Shabbi

24 Dicembre 2022

Voler vivere
Se un giorno alla gente venisse voglia di vivere
allora il fato dovrà rispondere,
e la notte dovrà aprirsi
e le catene spezzarsi
chi vivere desidera il corpo non trattiene
s’evapora e svanisce nel vasto cielo della vita
gli esseri, gli esseri tutti così mi hanno detto
così mi ha parlato il loro spirito celato.
In cima alla montagna, nel più segreto albero
nel mare scatenato, ascolta il mormorio dei venti:
che io mi volga verso un luogo al mondo
indossi la speranza, mi spogli di prudenza.
Non temo sentieri rigorosi
né fuochi alteri.
Rifiutare le alte vette,
non è vivere per sempre nel fossato?
Abu l-Qasim al-Shabbi
Tunisia, 1909 – 1934

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L’infinito senza farci caso

24 Dicembre 2022

“Abbiate cura di incontrare

chi non sta nel mezzo.

Cercate gli esseri estremi, i deliri, gli incanti.

Cercate una donna o un uomo che non siano di questo mondo, 

cercate Giovanna D’Arco, Giordano Bruno.”

Franco Arminio

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L’uccello lotta per uscire dall’uovo

24 Dicembre 2022

L’uccello di sogno che avevo dipinto era in viaggio e cercava il mio amico. La risposta mi giunse in un modo stranissimo. Un giorno, in classe, al mio posto, dopo l’intervallo fra due lezioni, trovai un biglietto infilato in un libro. Era piegato come usava tra noi quando durante la lezione ci scambiavamo di nascosto qualche bigliettino. Mi domandai meravigliato chi potesse avermelo mandato, perché non ero mai stato in simili rapporti con alcun compagno. Pensai che fosse l’invito a qualche chiassata, alla quale certamente non avrei partecipato, e senza leggere lasciai il foglietto nel libro. Soltanto durante la lezione mi capitò di nuovo fra le mani. Per giuoco e senza riflettere spiegai il foglio e vi trovai scritte alcune righe. Vi buttai uno sguardo, afferrai una parola e mentre il cuore mi si stringeva in un presentimento fatale come sotto l’azione di un gran gelo, lessi: “L’uccello si sforza di uscire dall’uovo. L’uovo è il mondo. Chi vuol nascere deve distruggere un mondo. L’uccello vola a Dio. Il Dio si chiama Abraxas.” Dopo aver letto più volte quelle righe, m’immersi in profonde riflessioni. Non c’era dubbio, la risposta veniva da Demian. Nessuno, tranne lui e io, sapeva dell’uccello. Aveva dunque ricevuto il mio disegno, aveva capito e mi aiutava a interpretarlo. Ma quale era il nesso? E, mio tormento principale, che cosa significava Abraxas? Non avevo mai udito o letto questa parola. “Il Dio si chiama Abraxas!” La lezione terminò senza che ne avessi ascoltato una parola. Seguì la successiva, l’ultima della mattinata. Era tenuta da un giovane supplente appena arrivato dall’università, il quale ci piaceva per il fatto che era così giovane e di fronte a noi non assumeva falsi atteggiamenti di sussiego. Sotto la guida del dottor Follen leggevamo Erodoto. Questa lettura era una delle poche materie che mi piacessero. Ma ora non stavo attento. Avevo aperto il libro, macchinalmente, ma non seguivo la traduzione, immerso com’ero nei miei pensieri. Più volte avevo sperimentato quanto fosse giusto quel che Demian mi aveva detto a suo tempo nelle lezioni di religione. Ciò che si vuole con sufficiente energia riesce. Se durante la lezione mi occupavo intensamente dei fatti miei, potevo essere sicuro che l’insegnante mi lasciava in pace. Quando invece ero distratto o assonnato mi compariva vicino all’Improvviso: anche questo mi era già capitato. Chi è veramente assorto nei suoi pensieri è al sicuro. Avevo provato anche l’effetto dello sguardo fisso, e le prove erano riuscite. Non ero giunto a buoni risultati ai tempi di Demian, ma ora capivo che molto possono gli sguardi e il pensiero. Anche a quel tempo dunque ero ben lontano da Erodoto e dalla scuola. All’improvviso però la voce del maestro mi entrò nella coscienza come una folgore facendomi sussultare di spavento. Udivo la sua voce ed egli era accanto a me e già mi pareva che mi avesse chiamato per nome. Invece non mi guardò nemmeno e io respirai sollevato. Poi udii di nuovo la sua voce che diceva forte: «Abraxas.» Nella spiegazione, della quale avevo perduto il principio, il dottor Follen continuò: «Non dobbiamo credere che le concezioni delle sette e delle confraternite mistiche dell’antichità fossero così ingenue come sembrano a chi le osservi con occhio razionalistico. L’antichità non aveva, in genere, una scienza secondo i nostri criteri. In compenso si dedicava a verità mistico-filosofiche molto evolute. Ne derivarono in parte la magia e certi trastulli che probabilmente conducevano talora alla truffa e al delitto. Ma anche la magia era di nobile origine e possedeva pensieri profondi. Così per esempio la dottrina di Abraxas che ho citata dianzi. Questo nome viene collegato con formule magiche dei greci e molti lo considerano un nome di qualche diavolo stregone come se ne trovano ancora tra i popoli selvaggi. Sembra però che Abraxas abbia un significato molto più largo. Oggi possiamo dire che è il nome di una divinità cui spettava il compito simbolico di unire insieme il divino e il diabolico.» Il giovane erudito continuava a parlare con zelo, nessuno prestava molta attenzione, e siccome quel nome non fu più ripetuto, anch’io mi ritirai di nuovo in me stesso. “Unire insieme il divino e il diabolico” ripensai come un’eco. Poteva essere un punto di partenza. Ci ero avvezzo dai colloqui con Demian negli ultimi tempi della nostra dimestichezza. Demian aveva detto allora che possediamo bensì un Dio da noi venerato, ma egli rappresenta soltanto una metà del mondo arbitrariamente staccata (il mondo “chiaro”, ufficiale, lecito). Si deve però poter venerare il mondo intero e perciò o si deve avere un Dio che è anche diavolo o bisogna introdurre accanto al servizio divino anche un servizio diabolico. Ed ecco ora Abraxas, il Dio che era Dio e diavolo insieme. Per un po’ cercai di seguire con molto zelo questa traccia, ma senza fare progressi. Frugai tutta una biblioteca In cerca di Abraxas, ma invano.

La mia natura però non era adatta alla ricerca diretta e consapevole nella quale si comincia col trovare verità che ti restano in mano come sassi. La figura di Beatrice, alla quale per un certo tempo mi ero dedicato con tanta intensità, affondò a poco a poco o meglio si staccò lentamente da me avvicinandosi sempre più all’orizzonte e facendosi più pallida e lontana. Era un’ombra che non bastava più alla mia anima. Nella mia involuta esistenza che trascinavo come un sonnambulo, incominciò a formarsi qualcosa di nuovo. Fioriva dentro di me la nostalgia della vita, anzi la nostalgia dell’amore; e lo stimolo sessuale, che per un po’ aveva potuto risolversi nell’adorazione di Beatrice, esigeva nuove Immagini e nuove mete. Ancora non vedevo appagamento, e più impossibile che mai mi riusciva deludere la nostalgia e sperare qualcosa dalle ragazze presso le quali I miei compagni cercavano la loro felicità. Ripresi a sognare con frequenza, e sognavo più di giorno che di notte. Immaginazioni, figure, desideri sorgevano in me e mi distaccavano dal mondo esteriore di modo che con quelle immagini, con quei sogni, con quelle ombre avevo contatti più concreti e reali che col mio vero ambiente. Grande importanza assunse un determinato sogno o giuoco di fantasia che continuamente si ripeteva. Il sogno, importante e tenace più di qualunque altro, era all’incirca il seguente: ritornavo nella casa paterna, sopra il portone brillava l’uccello araldico in giallo su fondo azzurro, in casa mi veniva incontro la mamma, ma quando stavo per abbracciarla non era più lei, bensì una figura mai vista, alta e poderosa, simile a Demian e al mio disegno, eppure diversa e nonostante la robustezza in tutto femminile. Questa figura mi attirava a sé e mi accoglieva in un abbraccio amoroso accompagnato da brividi. Voluttà e raccapriccio erano fusi insieme, l’amplesso era un atto religioso e nello stesso tempo un delitto. Troppi ricordi di mia madre e dell’amico Demian erano presenti nella figura che mi abbracciava. Era un amplesso che urtava contro ogni rispetto, eppure dava la beatitudine. Molte volte mi svegliavo da questo sogno con un profondo sentimento di felicità; altre volte invece con angoscia mortale e con la coscienza tormentata come da un orribile peccato. A poco a poco e senza pensarci si venne stabilendo una relazione fra quella visione interiore e l’invito venutomi dal di fuori a cercare Iddio. La relazione si fece più stretta e intima mentre cominciavo a sentire che proprio in quei sogni presaghi invocavo Abraxas. Voluttà e orrore, uomo e donna, la cosa più sacra e la più ripugnante mescolate insieme, un grave senso di colpa guizzante nella più tenera innocenza: questo era il mio sogno d’amore e questo era anche Abraxas. L’amore non era più l’oscuro istinto animale che nella mia angoscia mi era parso da principio, né era la pia e spirituale adorazione che avevo avuto per Beatrice. Era l’uno e l’altra, era più ancora, angelo e Satana, uomo e donna insieme, umanità e bestialità, supremo bene e male estremo. Questa era la vita che credevo riservata a me, questo il destino che dovevo assaporare. Di esso avevo nostalgia e paura, ma era sempre presente, sempre vicino a me. Nella primavera successiva dovevo lasciare il liceo e iscrivermi all’università, ma non sapevo dove né cosa avrei studiato. Sul labbro mi crescevano i baffetti, ero uomo fatto e tuttavia imbarazzato e senza meta. Di una sola cosa ero sicuro: della voce interiore, della mia visione di sogno. Sentivo il compito di seguire ciecamente quella guida ma non mi era facile, e tutti i giorni mi ribellavo. Forse, pensavo spesso, ero matto, forse non ero come gli altri. Eppure anch’io sapevo fare ciò che facevano loro, con qualche sforzo e con un po’ di diligenza potevo leggere Platone, risolvere quesiti trigonometrici o seguire un’analisi chimica. Una sola cosa non potevo: strappare la meta oscura sepolta dentro di me e disegnarla da qualche parte come altri facevano, sapendo che volevano diventare professori o giudici, medici o artisti, quanto tempo ci voleva e quali vantaggi ne avrebbero tratto. Di ciò non ero capace. Forse anch’io sarei diventato qualcosa di simile, ma come facevo a saperlo? Forse avrei dovuto anch’io cercare e cercare per anni e anni senza arrivare a niente. O forse anch’io sarei giunto a una meta, ma cattiva, pericolosa, spaventevole. Eppure, non volevo tentar di vivere se non ciò che spontaneamente voleva erompere da me. Perché era tanto mai difficile? Spesso feci il tentativo di dipingere la grande figura d’amore che avevo sognato, ma non mi riuscì mai. Se mi fosse riuscito, avrei mandato il disegno a Demian. Dov’era? Non lo sapevo. Sapevo soltanto che fra noi c’era un legame. Quando lo avrei rivisto? La bella tranquillità delle settimane e dei mesi del periodo di Beatrice era tramontata da un pezzo. Allora avevo creduto di essere arrivato su un’isola e di aver trovato la pace. Sempre era così: appena mi affezionavo a una situazione, appena un sogno mi aveva beneficato, ecco che sfioriva e tramontava. Inutile rimpiangerlo. Adesso vivevo dentro un fuoco di desiderio implacato, di speranza protesa che talvolta mi rendeva pazzo e furente. Vedevo davanti a me l’immagine dell’amata con precisione più che viva, molto più chiara delle mie mani, le parlavo, piangevo davanti a lei, la maledicevo. La chiamavo mamma e m’inginocchiavo tra le lacrime, la chiamavo amante e presentivo il suo bacio maturo e promettente, la chiamavo demonio e cortigiana, vampiro e assassina. Mi invitava ai più delicati sogni d’amore e alle più brutali spudoratezze, nulla era per lei troppo buono e prezioso, nulla troppo cattivo e abietto. Passai tutto quell’inverno in una tempesta interiore che non saprei descrivere. La solitudine alla quale ero avvezzo da tempo non mi deprimeva poiché vivevo con Demian, con lo sparviero, con l’immagine del sogno che mi era destino e amante. Era abbastanza per poterci vivere poiché tendeva alla grandezza e a vasti orizzonti e tutto alludeva ad Abraxas. Nessuno però di quei sogni, nessuno dei miei pensieri mi obbediva, né potevo chiamarli o attribuire loro un colore a piacimento. Venivano a prendermi, da essi ero governato, ero vissuto. È vero che esternamente stavo al sicuro. Non avevo paura del prossimo. Anche i miei compagni ne avevano fatto l’esperienza, e dimostravano per me un senso di stima che mi faceva sorridere. Quando volevo, sapevo leggere benissimo nel loro cuore e farli rimanere stupefatti. Ma volevo raramente, o mai. Mi occupavo sempre di me stesso e mi auguravo ardentemente di vivere una buona volta anch’io, di dare al mondo qualcosa di mio, di entrare con esso in relazione e in conflitto.

Talora, mentre di sera passavo per le strade e, irrequieto, non riuscivo a rincasare prima di mezzanotte, immaginavo di dover incontrare da un momento all’altro la mia adorata, di vederla girare l’angolo, di sentirmi chiamare dalla prima finestra. Altre volte tutto ciò mi pareva insopportabile e penoso, e prevedevo che un giorno mi sarei tolto la vita. Allora trovai uno strano rifugio; per un “caso”, come si dice. Ma casi di questo genere non esistono. Quando uno ha assolutamente bisogno di una cosa e la trova, non e stato il caso a dargliela, ma egli stesso e il suo stesso desiderio ve lo hanno condotto. Nelle mie passeggiate per la città avevo udito due o tre volte suonare l’organo in una chiesetta della periferia, ma non mi ero soffermato. Passando un’altra volta da quelle parti, udii di nuovo quel suono e ravvisai una musica di Bach. Trovai la porta chiusa, e siccome la strada era deserta, mi sedetti accanto alla chiesa, su un paracarro, e avvolto nel mantello stetti ad ascoltare. Era un organo non grande ma buono, e chi suonava esprimeva in modo singolare e molto personale una volontà e una costanza che parevano una preghiera. Ebbi l’impressione che l’esecutore doveva sapere quale tesoro fosse racchiuso in quella musica e stava facendo ogni sforzo per scavare quel tesoro come ne andasse della sua vita. In quanto a tecnica, io non so molto di musica, ma fin da bambino ho capito istintivamente quell’espressione dell’anima e ho sentito dentro di me la musica come una cosa ovvia. L’organista suonò anche un pezzo moderno che poteva essere di Reger. La chiesa era quasi buia e soltanto un sottile barlume veniva dalla finestra. Aspettai che l’organista avesse finito e poi mi misi a passeggiare in su e in giù finché lo vidi uscire. Era ancora giovane ma più vecchio di me, tozzo e tarchiato nella persona, e si allontanò in fretta con passo risoluto e quasi indispettito. Da quel giorno stetti molte sere seduto davanti alla chiesa o a passeggiare su e giù. Una volta trovai la porta aperta e per mezz’ora stetti felice e infreddolito in un banco, mentre l’organista suonava alla fioca luce del gas. Nella musica che eseguiva non udivo soltanto lui, ma tutte le sue esecuzioni erano legate da una certa affinità, da un nesso segreto. Tutto era pieno di fede e di pia devozione non già la devozione dei pastori e dei fedeli, bensì quella dei pellegrini e dei mendicanti medievali, dedicata senza nessuna riserva a un senso dell’universo superiore a tutte le religioni. Venivano eseguiti specialmente i maestri anteriori a Bach e i vecchi italiani. E tutti dicevano la stessa cosa, dicevano ciò che aveva in cuore anche l’interprete: la nostalgia, l’intima presa di possesso del mondo e il più aspro distacco da esso, la bruciante attenzione rivolta alla propria anima tenebrosa, l’ebbrezza della dedizione e la grande curiosità tesa verso il meraviglioso. Una volta, seguendo l’organista uscito dalla chiesa, lo vidi entrare in un lontano ristorante ai margini della città. Non seppi resistere ed entrai anch’io. Era la prima volta che lo vedevo bene. Era seduto in un angolo della saletta col feltro nero in testa, un calice di vino davanti a sé e il viso quale me l’ero immaginato. Era brutto e un po’ torbido, interrogativo e assorto, caparbio e volitivo e, intorno alle labbra, tenero e infantile. L’espressione forte e virile era tutta negli occhi e nella fronte, mentre la parte inferiore del viso era delicata e incompiuta, senza freni e un po’ femminea, sicché il mento indeciso e puerile era in contraddizione con la fronte e con lo sguardo. Mi piacquero gli occhi scuri, pieni di orgoglio e ostilità. In silenzio sedetti di fronte a lui che era l’unico cliente. Mi lanciò un’occhiata come per cacciarmi via, ma io la sostenni e continuai a guardarlo finché brontolò bruscamente: «Perché diavolo mi fissa così? Ha da chiedermi qualcosa?» «Non ho da chiederle nulla» risposi «ma da lei ho già ricevuto molto.» Egli corrugò la fronte. «Davvero? È un appassionato di musica? A me sembra ripugnante appassionarsi alla musica.» Non mi lasciai sconcertare. «Più volte sono stato a sentire davanti a quella chiesa laggiù» osservai. «Ma non voglio darle fastidio. Avevo l’impressione che presso di lei avrei trovato qualcosa di particolare, non so nemmeno io. Ma non mi dia retta. Posso ascoltarla in chiesa.» «Ma se chiudo sempre!» «Ultimamente se n’è dimenticato e io sono entrato. Per lo più sto fuori in piedi o siedo sul paracarro.» «Mi dispiace. Un’altra volta venga pur dentro: è più caldo. Basta che bussi alla porta, ma forte e non quando suono. E adesso, fuori: che cosa voleva dire? Vedo che è molto giovane, sarà uno studente. Studia musica?» «No. Ascolto molto volentieri, ma solo musica come quella che suona lei, musica assoluta, dove si sente che un uomo afferra e scrolla paradiso e inferno. Mi piace molto la musica, forse perché è così poco morale. Tutte le altre cose sono morali e io cerco qualcosa che non lo sia. La moralità mi ha fatto soltanto soffrire. Forse non mi esprimo bene. Lo sa che deve esserci un Dio che è ad un tempo Dio e diavolo? Ci dev’essere stato; ne ho sentito parlare.» Il musicista spinse indietro il largo cappello e liberò la fronte dai capelli scuri. E intanto mi guardava con occhio penetrante e abbassava il viso verso di me. Poi domandò con voce smorzata: «Come si chiama il Dio di cui mi sta parlando?» «Non ne so quasi nulla, purtroppo. A rigore so solamente il nome. Si chiama Abraxas.» L’organista si guardò intorno diffidente come se qualcuno potesse origliare. Poi si avvicinò mormorando: «Me lo immaginavo. Chi è lei?» «Sono uno studente di liceo.» «E come ha saputo di Abraxas?» «Per caso.» Quello batté un pugno sulla tavola facendo traboccare il calice di vino. «Per caso! Non dica scempiaggini, giovanotto! Non si viene a sapere di Abraxas per caso, se lo metta in mente. Di Abraxas le darò io notizie. Qualche cosa ne so.» Tacque e spinse indietro la sedia. E mentre lo guardavo in attesa mi fece una smorfia. «Non qui. Un’altra volta. Ecco, prenda!» Così dicendo ficcò una mano nella tasca del pastrano che non si era levato e ne cavò un paio di caldarroste e me le porse. Senza dir niente le presi, le mangiai ed ero molto soddisfatto. «Dunque» sussurrò dopo qualche istante «come ha avuto notizia di… lui?» Esitai un po’, ma poi dissi: «Ero solo e non sapevo che pesci pigliare. Allora mi venne in mente un amico di altri tempi che credo sappia moltissimo. Avevo dipinto un uccello che usciva dalla sfera del mondo e glielo mandai. Dopo qualche tempo, quando non ci pensavo più, mi venne in mano un pezzo di carta dov’era scritto: “L’uccello lotta per uscire dall’uovo. L’uovo è il mondo. Chi vuol nascere deve distruggere un mondo. L’uccello vola a Dio. Il Dio si chiama Abraxas”». Egli non replicò, e tutt’e due continuammo a sbucciare le castagne e a mangiarle accompagnandole col vino. «Prendiamo un altro bicchiere?» domandò. «No, grazie, non mi piace bere.» Egli rise un po’ deluso. «Come vuole. Io sono diverso. Resto qui ancora. Lei vada pure.» Quando mi trovai un’altra volta con lui dopo la musica, non fu molto comunicativo. In una vecchia strada mi fece salire in un grande casamento ed entrare in uno stanzone un po’ scuro e disordinato dove nulla parlava di musica tranne un pianoforte, mentre un grande armadio pieno di libri e una scrivania davano alla stanza un’aria da scienziato. «Quanti libri!» esclamai con ammirazione. «Molti fanno parte della biblioteca di mio padre col quale abito. Sì, giovanotto, abito con babbo e mamma, ma non posso presentarla perché in questa casa non hanno molta opinione della mia presenza. Deve sapere che sono un figliol prodigo. Mio padre è una gran brava persona un notevole pastore e predicatore di questa città. E io, perché lei sia subito informato, sono il suo figliolo intelligente e molto promettente che però è uscito dal binario ed è diventato un po’ matto. Studiavo teologia e poco prima dell’esame di stato ho abbandonato quella onesta facoltà. Tuttavia, col mio studio privato sto sempre in quel campo. Considero ancora sommamente importante sapere quali dei la gente è andata inventando di volta in volta. D’altro canto mi occupo di musica e, a quanto pare, otterrò fra breve un modesto posto di organista. Ed allora, eccomi di nuovo legato alla chiesa.» Scorrendo il dorso dei libri, trovai titoli greci, latini, ebraici, per quanto potevo scorgere al barlume della lampada accesa sulla tavola. Intanto il mio conoscente si era messo per terra al buio e stava combinando non so che cosa. «Venga qua» mi chiamò. «Faremo un po’ di filosofia pratica, che consiste nello star zitti, coricarsi sul ventre e pensare.» Accese un fiammifero e appiccò il fuoco alla carta e alla legna accumulata nel caminetto. Suscitata la fiamma alimentò il fuoco con squisita cautela. Anch’io mi misi accanto a lui sul tappeto consunto. Egli fissava le fiamme che attiravano anche me, e così rimanemmo una buona ora davanti al fuoco scoppiettante che vedevamo lingueggiare e sibilare, abbassarsi e torcersi, guizzare e sfiaccolare, infine covare nelle braci ammucchiate. «L’adorazione del fuoco non era la cosa più stupida che si sia inventata» mormorò tra sé. Oltre a queste, però, nessuno di noi pronunciò una parola. Guardavo la vampa con gli occhi fissi e, immerso in un sogno silenzioso, vedevo figure nel fumo e immagini nella cenere. A un certo punto mi riscossi perché l’altro aveva gettato nella fiamma un pezzetto di resina, facendone sprigionare una vampata guizzante nella quale ravvisai lo sparviero dalla testa gialla. Nel caminetto prossimo a spegnersi, una serie di fili incandescenti si univa a formare reti, lettere e figure, e vi apparivano ricordi di visi e animali, di piante vermi e serpenti. Quando riscossomi guardai il mio compagno, lo vidi col mento sui pugni contemplare la cenere con fanatico abbandono. «Ora devo andare» sussurrai. «E vada. Arrivederci.» Non si alzò, e siccome la lampada era spenta dovetti attraversare a tastoni la camera buia, i corridoi e le scale per uscire da quel vecchio palazzo stregato. Sceso nella strada mi voltai a guardare la casa. Nessuna finestra era illuminata. Una targa di ottone luccicava al riverbero del fanale a gas. Vi lessi: “ Pistorius – pastore”. Soltanto a casa, quando dopo cena mi trovai solo nella mia cameretta, mi venne in mente che da Pistorius non avevo saputo nulla né di Abraxas né di altro, e tutto sommato avevamo scambiato forse dieci parole. Ma della mia visita ero molto contento. E per la volta successiva Pistorius mi aveva promesso un brano squisito di vecchia musica per organo, una passacaglia di Buxtehude. Quando ero rimasto coricato per terra davanti al caminetto in quella triste camera da eremita, l’organista Pistorius, senza che me ne rendessi conto, mi aveva dato una prima lezione.

Quel guardare nel fuoco mi aveva fatto bene, rafforzando e confermando certe mie tendenze che avevo sempre avute, senza però coltivarle mai. A poco a poco una parte di ciò mi fu chiara. Già da piccolo ero stato incline a guardare le forme bizzarre della natura, non già osservando ma abbandonandomi al loro fascino e al loro complicato linguaggio. Lunghe radici d’albero affioranti, vene colorate nella pietra macchie d’olio natanti sull’acqua, crepe nel vetro, tutte queste cose esercitavano su di me una grande attrattiva, soprattutto l’acqua e il fuoco, il fumo, le nubi, la polvere e In modo particolare, le macchioline giranti che vedevo chiudendo gli occhi. Ciò mi tornò in mente nei giorni dopo la prima visita a Pistorius. Notai infatti che quel maggior vigore, la gioia più intensa, il più profondo sentimento di me stesso che provavo dopo di allora, erano dovuti esclusivamente all’insistente contemplazione del fuoco. Era una cosa stranamente benefica e un arricchimento. Alle poche esperienze raccolte fino allora lungo la via verso lo scopo della mia vita si aggiunse anche questa. La contemplazione di siffatte immagini, l’abbandono a forme irrazionali, strane e complicate della natura, producono in noi un senso di concordanza fra il nostro cuore e la volontà che fece nascere queste forme; tosto abbiamo la tentazione di prenderle per nostri capricci, per nostre creazioni, vediamo tremare e confondersi i limiti fra noi e la natura e veniamo a conoscere l’atmosfera in cui non sappiamo se le immagini sulla retina provengono da impressioni esteriori o da quelle interne. Mai come in questo esercizio facciamo la semplice e facile scoperta di quanto siamo creatori, di quanto la nostra anima sia sempre partecipe della continua creazione del mondo. Anzi, la stessa indivisibile divinità agisce dentro di noi e nella natura, e se il mondo esterno perisse noi saremmo capaci di ricostruirlo poiché monti e fiumi, alberi e foglie, radici e fiori e tutte le cose formate nella natura sono preformate in noi, provengono dall’anima la cui essenza è l’eternità, essenza che non ci è nota, ma si fa sentire per lo più come energia amorosa e creatrice. Soltanto alcuni anni dopo trovai la conferma di queste osservazioni in un libro di Leonardo da Vinci che a un certo punto dice quanto sia bello e istruttivo guardare un muro su cui molti abbiano sputato. Davanti a quelle macchie sul muro umido egli sentiva la stessa cosa che Pistorius e io sentivamo davanti al fuoco. Al nostro prossimo incontro l’organista mi diede una spiegazione. «Noi tracciamo sempre troppo stretti i limiti della nostra personalità. Attribuiamo alla nostra persona soltanto ciò che ci appare individualmente diverso e differente. Ma noi, ognuno di noi, consta di tutto il complesso del mondo, e come il nostro corpo ha in sé le tavole genealogiche dello sviluppo su su fino al pesce e più indietro ancora, così abbiamo nell’anima tutto ciò che mai è vissuto in anime umane Tutti gli dei e i diavoli che sono esistiti, sia tra i greci e i cinesi, sia fra gli zulù, tutti sono dentro di noi come possibilità, come desideri o vie d’uscita. Se l’umanità si estinguesse tutta, tranne un unico bambino di mediocre intelligenza che non avesse avuto alcuna istruzione, questo bambino ritroverebbe intera la via delle cose e saprebbe riprodurre tutto, dei e demoni, paradisi, leggi e divieti, antichi e nuovi testamenti.» «Sta bene» obiettai: «ma in che consiste allora il valore dell’individuo? A che scopo fare sforzi se abbiamo già tutto compiuto dentro di noi?» «Un momento!» gridò Pistorius. «C’è una bella differenza tra l’avere il mondo dentro di sé ed esserne anche consapevoli! Un pazzo può produrre pensieri che ricordino Platone e lo scolaretto devoto di un istituto religioso può concepire nessi mitologici che troviamo nei gnostici o in Zoroastro Ma non ne sa niente, e finché non lo sa è un albero o un sasso, nel migliore dei casi un animale. Quando poi gli balena la prima scintilla di questa conoscenza diventa uomo. Non vorrà mica considerare uomini tutti i bipedi che passano per la strada soltanto perché camminano ritti e la gestazione dei loro figli dura nove mesi! Lei capisce che molti di loro sono pesci o pecore, vermi o sanguisughe. E quanti sono formiche, quanti api! Certo in ognuno di loro ci sono possibilità di diventar uomini, ma solo quando lo intuiscono e imparano a rendersene conto queste possibilità appartengono a loro.» Di questo genere all’incirca erano le nostre conversazioni. Dl rado mi recavano qualcosa di nuovo, qualcosa di sorprendente. Ma tutte, anche le più umili, colpivano con leggero e costante martellio il medesimo punto dentro di me, tutte contribuivano a formarmi a rompere gusci di uova da ognuno dei quali alzavo i; capo un po’ più in alto, un po’ più libero, finché l’uccello giallo con la bella testa di rapace erompeva dal frantumato guscio del mondo. Spesso Ci raccontavamo anche i nostri sogni che Pistorius sapeva sempre interpretare. Ricordo un esempio curioso: in un certo mio sogno io sapevo volare o piuttosto ero lanciato nell’aria da una grande forza che non riuscivo a dominare. Quel volo era entusiasmante ma diventò presto angoscioso, poiché mi vidi trascinato involontariamente ad altezze sospette. Allora feci la consolante scoperta che potevo regolare la salita e la discesa trattenendo o emettendo il respiro. Pistorius osservò: «Lo slancio che la fa volare è il grande possesso umano di noi tutti. il senso di collegamento con le radici di ogni forza, che ben presto ci angoscia, maledettamente pericoloso. Perciò la maggior parte rinuncia volentieri al volo e preferisce camminare per i marciapiedi con le dande delle prescrizioni di legge. Lei no, invece, lei continua a volare come si addice a un bravo giovane. Ed ecco, le vien fatto di scoprire con meraviglia che può diventarne padrone, che alla grande forza universale da cui è trascinato si unisce una piccola forza propria, un organo, un timone. Magnifico. Senza di ciò si navigherebbe senza volontà nell’aria come fanno ad esempio i pazzi. Essi hanno intuizioni più profonde di coloro che passano per il marciapiede, ma non ne possiedono la chiave né il timone e precipitano nell’infinito. Lei invece, Sinclair, lei riesce. Ma come? Forse non lo sa nemmeno. Lei ricorre a un nuovo organo, a un regolatore del respiro. E qui può vedere quanto poco sia personale la sua anima nel profondo. Essa, infatti, non inventa questo regolatore. Non è nuovo, ma preso a prestito, dato che esiste da millenni. È l’organo dell’equilibrio nei pesci, è la vescica natatoria. Esistono anche oggi alcune specie di pesci strani e conservatori la cui vescica è ad un tempo una specie di polmone e in date circostante può servire per il respiro. Esattamente dunque come il polmone che lei in sogno usa da vescica aviatoria! E mi portò persino un volume di zoologia, facendomi vedere i nomi e le figure di quei pesci antiquati. E io sentii in me, con un brivido singolare, farsi viva una funzione che risaliva a epoche di un’evoluzione precedente

 

 

Tratto da: Hermann Hesse, Demian, Traduzione di Ervino Pocar

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Fedor Dostoevskij

16 Dicembre 2022

“La compassione è la più importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera”. Fedor Dostoevskij

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Johanna

6 Dicembre 2022

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Johanna.  Un film di Ian Derry 

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Foto dal finestrino

6 Dicembre 2022

Qualche volta la luce non è quantità di lux; qualche volta la luce è il cielo completo che precipita nella stanza. Jaisalmer, India, 1985

Tratto da: Ettore Sottsass, Foto dal finestrino, Adelphi

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Nasrin Sotoudeh, la sua condanna è un insulto al genere umano

26 Novembre 2022

Devo essere sincera: stavolta ci ho messo un po’ ad accettare questa notizia dall’Iran. Benché sia ormai da anni assuefatta a impiccagioni, esecuzioni pubbliche, condanne a morte, restrizioni e via dicendo, la sentenza nei confronti di Nasrin Sotoudeh mi ha lasciata davvero senza parole. La più famosa avvocatessa iraniana per i diritti umani è stata condannata infatti a 38 anni di carcere e 148 frustate. A darne la notizia su Facebook è stato il marito Reza Khandan dopo aver ricevuto una telefonata dal carcere da parte di sua moglie.

Più volte negli anni ho seguito la vicenda di Nasrin e più volte ho interagito anche con suo marito, che mi dice di non potermi rilasciare dichiarazioni. Anche lui era stato arrestato lo scorso settembre, poi rilasciato su cauzione e precedentemente picchiato davanti alla prigione di Evin, perché aveva provato a chiedere notizie circa sua moglie. Trovo la sentenza iraniana nei confronti di Nasrin un vero e proprio insulto al genere umano, in particolare a quello femminile. Si parla di 148 frustate, che porterebbero alla morte certa del condannato e che solo a nominarle fanno rabbrividire qualunque essere umano dotato di una sana coscienza.

La coscienza che invece Nasrin ha dimostrato di avere non lasciando mai il suo Paese o la sua famiglia, ma restando accanto alle persone che lei pensava di poter aiutare con il suo lavoro di avvocato. Nasrin da sempre aveva preso a cuore il grido di libertà – che da 40 anni non viene ascoltato – delle donne iraniane, ancora sottomesse a un pezzo di stoffa tenuto in testa, il velo appunto, che non hanno scelto di indossare.Nasrin Sotoudeh era stata arrestata più volte: l’ultima lo scorso luglio, proprio per aver difeso le donne che tra dicembre 2017 e gennaio 2018 si erano tolte il velo, chiamate anche “Le ragazze di Enghelab Street“. Semplici donne che avevano protestato pacificamente contro la legge della Repubblica Islamica che obbliga le donne a indossare il velo (hijab) in pubblico. Purtroppo le notizie che arrivano dall’Iran e quelle che ruotano attorno alle cause di questo genere non sono mai chiare e spesso anche le informazioni non sono trasparenti.

Non abbiamo ancora letto gli atti del processo, ma qualcuno parla di un processo iniquo, una consuetudine in Iran. I giornali iraniani su questa notizia, che ormai ha fatto il giro del mondo e per la quale si sta creando una mobilitazione internazionale, ci vanno cauti e provano a scrivere di una pena diversa da quella citata dal marito, diminuendo il numero degli anni di detenzione. Ma il problema non cambia, qua si accusa una donna di “collusione contro la sicurezza nazionale”, “propaganda contro lo Stato”, “istigazione alla corruzione e alla prostituzione” e di “essere apparsa in pubblico senza hijab”: le solite accuse trite e ritrite usate dall’Iran quando vuole condannare qualcuno senza una motivazone valida.

In Iran qualunque gesto di ribellione nei confronti del regime viene considerato quale “attentato alla sicurezza nazionale“. Nasrin già in passato era stata in prigione, dove ha sostenuto due scioperi della fame per protesta alle condizioni di Evin, il famigerato carcere di Tehran, e le era stato proibito vedere i suoi figli. Sotoudeh era stata rilasciata a settembre 2013 poco prima dell’elezione del presidente Hassan Rouhani, che aveva dichiarato nella campagna elettorale di migliorare i diritti civili della popolazione. Una campagna che in molti abbiamo sostenuto e nella quale abbiamo creduto, ma i cui risultati tardano ad arrivare.

Non è facile essere donne in Iran e malgrado l’emancipazionedegli ultimi anni le donne non sono ancora nella facoltà di poter decidere della propria vita, del proprio abbigliamento. Ed è proprio questo quello che stanno facendo le giovani donne iraniane: rivendicare il proprio diritto alla “scelta”, una parola poco conosciuta in Iran. Si sa che nella Repubblica Islamica dell’Iran una donna non “sceglie”, ma sono gli uomini – dettati dalla religione islamica o chissà, forse da una mentalità arcaica e misogina, a decidere ancora cosa sia giusto o meno per una donna.

Gli uomini in Iran hanno deciso che per una donna cantare è sbagliato, lasciare il Paese senza il consenso di un uomo adulto è sbagliato, partecipare agli eventi sportivi alla presenza di uomini è sbagliato. Ben venga invece il coraggio delle iraniane che sfidano questo sistema anche a costo dell’arresto. Appaiono più che mai appropriate le preziose osservazioni della scrittrice Dacia Maraini che nella prefazione del mio libro Ti Racconto l’Iran. I miei anni in terra di Persia – pubblicato da Armando Editore – auspica per le donne iraniane l’annullamento di tutte quelle nozioni discriminatorie nei loro confronti in vigore dalla Rivoluzione Islamica del 1979. Finché accetteremo che esistano Paesi nel mondo in cui la libertà alle donne viene ancora negata, potremo pur dire di aver fallito.

Testo di: Tiziana Ciavardini, Giornalista e antropologa

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Voglia di viaggiare

7 Novembre 2022

La vera voglia di viaggiare non è niente di più e niente di meglio che la rischiosa e intrepida voglia di pensare di voler capovolgere il mondo e di esigere risposte da tutto, da uomini, cose, avvenimenti. Non la si soddisfa né con progetti né sui libri; essa esige e costa di più: è il cuore e il sangue che occorre impegnarvi. Fuori della mia finestra il tiepido e morbido vento di ponente fruga nel lago nero senza uno scopo, senza una meta, infuriando nel suo impeto e consumandosi, selvaggio e insaziabile. Altrettanto selvaggia e insaziabile è la vera voglia di viaggiare, quell’impulso a conoscere e a esperire che nessuna conoscenza placa e nessuna esperienza soddisfa.

 

Tratto da: Hermann Hesse, voglia di viaggiare, 1910

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Entanglement

6 Novembre 2022

“Un altro interessante paradosso della meccanica quantistica è quello meglio conosciuto come Entanglement, parola inglese traducibile come “intreccio-non-separabile” e si riferisce ad un interessantissimo quanto mai inspiegabile (attraverso le nostre categorie mentali) fenomeno che avviene tra le particelle.

Due oggetti, due elettroni, creati contemporaneamente, sono in empatia tra loro. Se si invia uno dei due dall’altro lato dell’universo, poi su uno di loro si fa qualcosa di nuovo, l’altro risponde istantaneamente, subendo l’effetto del cambiamento sul primo elettrone.  Allora o l’informazione viaggia infinitamente rapida oppure in realtà i due elettroni sono ancora connessi tra di loro.”

http://it.wikipedia.org/wiki/Entanglement_quantistico

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Risolvere la sofferenza facendo saltare in aria l’universo? La dubbia filosofia dell’estinzione umana

5 Novembre 2022

In un momento in cui gli umani minacciano l’estinzione di così tante altre specie, potrebbe non sembrare così sorprendente che alcune persone pensino che l’estinzione della nostra stessa specie sarebbe una buona cosa. Prendiamo, ad esempio, il Movimento per l’estinzione umana volontaria , il cui fondatore crede che la nostra estinzione metterebbe fine ai danni che ci infliggiamo a vicenda e agli ecosistemi più in generale.

Oppure c’è il filosofo sudafricano David Benatar , che sostiene che portare le persone all’esistenza fa sempre loro del male. Raccomanda di smettere di procreare e di abbandonare gradualmente la Terra. Ma gli umani non sono gli unici esseri a provare dolore . Gli animali non umani continuerebbero a soffrire senza di noi. Quindi, spinti dal desiderio di eliminare completamente la sofferenza, alcune persone hanno scandalosamente sostenuto di portare con noi il resto della natura. Raccomandano di abolire attivamente il mondo, piuttosto che abbandonarlo semplicemente.

Questa posizione inquietante ed estremista risale sorprendentemente molto indietro nella storia.

Circa 1600 anni fa, sant’Agostino suggerì che gli esseri umani smettessero di procreare. Ha approvato questo, tuttavia, perché voleva affrettare il giudizio finale e l’eternità di gioia da allora in poi.

Se non credi nell’aldilà, questa diventa un’opzione meno attraente. Dovresti essere motivato esclusivamente rimuovendo la sofferenza dalla natura, senza alcuna promessa di ottenere ricompense soprannaturali. Probabilmente la prima persona a sostenere l’estinzione umana in questo modo è stata Arthur Schopenhauer . Lo fece 200 anni fa, nel 1819, esortando a “risparmiare” alle “generazioni future” il ” fardello dell’esistenza “. Schopenhauer vedeva l’esistenza come dolore, quindi credeva che dovremmo smettere di portare all’esistenza gli esseri umani. Ed era chiaro sul risultato se tutti avessero obbedito : “La razza umana sarebbe morta”.

Ma per quanto riguarda il dolore degli animali non umani? Schopenhauer aveva una risposta, ma non era convincente. Era un idealista filosofico , credendo che l’esistenza della natura esterna dipenda dalla nostra autocoscienza di essa. Quindi, con l’abolizione del cervello umano, anche le sofferenze degli animali meno consapevoli di sé sarebbero ” svanite ” poiché cessavano di esistere senza che noi li percepissimo.

Anche alle stesse condizioni di Schopenhauer, c’è un problema. E se esistessero altri esseri intelligenti e autocoscienti? Forse su altri pianeti? Sicuramente, quindi, il nostro sacrificio non significherebbe nulla; l’esistenza e la percezione dolorosa di esso continuerebbero. Toccò al discepolo di Schopenhauer, Eduard von Hartmann, proporre una soluzione più completa.

Hartmann , nato a Berlino nel 1842, scrisse un sistema di filosofia pessimista lungo quasi quanto la sua imponente barba. Famigerato ai suoi tempi, ma completamente dimenticato nel nostro, Hartmann propose una visione incredibilmente radicale.

Scrivendo nel 1869 , Hartmann rimproverò Schopenhauer di pensare al problema della sofferenza solo in un senso locale e temporaneo. La visione del suo predecessore dell’estinzione umana “per continenza sessuale” non sarebbe sufficiente. Hartmann era convinto che, dopo pochi eoni, un’altra specie autocosciente si sarebbe ri-evoluta sulla Terra. Questo semplicemente “perpetuerebbe la miseria dell’esistenza”.

Hartmann credeva anche che la vita esistesse su altri pianeti. Data la sua convinzione che la maggior parte fosse probabilmente non intelligente , la sofferenza di tali esseri sarebbe stata impotente. Non sarebbero in grado di farci niente.

Quindi, piuttosto che distruggere solo la nostra specie, Hartmann pensava che, in quanto esseri intelligenti, siamo obbligati a trovare un modo per eliminare la sofferenza, in modo permanente e universale. Credeva che spetta all’umanità “annientare” l’universo: è nostro dovere, scriveva , “far scomparire l’intero kosmos”.

Hartmann sperava che se l’umanità non si fosse dimostrata all’altezza di questo compito, alcuni pianeti avrebbero potuto evolvere esseri che lo sarebbero stati , molto tempo dopo che il nostro sole si fosse congelato. Ma non pensava che questo significasse che potessimo essere compiacenti. Ha notato il rigore delle condizioni necessarie affinché un pianeta sia abitabile (per non parlare dell’evoluzione di creature con cervelli complessi) e ha concluso che il compito potrebbe ricadere esclusivamente sugli umani, qui e ora.

Hartmann era convinto che questo fosse lo scopo della creazione : che il nostro universo esiste per far evolvere esseri compassionevoli e abbastanza intelligenti da decidere di abolire l’esistenza stessa. Ha immaginato questo momento finale come un’onda d’urto di eutanasia mortale che si increspa verso l’esterno dalla Terra, cancellando l ‘”esistenza di questo cosmo” fino a quando “tutte le sue lenti del mondo e le nebulose non saranno state abolite”.

Non era chiaro come esattamente questo obiettivo sarebbe stato raggiunto. Parlando vagamente della crescente unificazione globale e della disillusione spirituale dell’umanità , ha accennato a future scoperte scientifiche e tecnologiche. Per fortuna era un metafisico, non un fisico.

La filosofia di Hartmann è affascinante. È anche inimmaginabilmente sbagliato. Questo perché confonde l’eradicazione della sofferenza con l’eradicazione dei malati. Confondere questa distinzione porta a visioni folli di omnicidio. Per sbarazzarsi della sofferenza non è necessario sbarazzarsi di chi soffre: potresti invece provare a rimuovere le cause del dolore. Dovremmo eliminare la sofferenza, non il malato.

In effetti, finché ci sono esseri intelligenti in giro, c’è almeno l’opportunità di una rimozione radicale della sofferenza. Filosofi come David Pearce sostengono addirittura che, in futuro, tecnologie come l’ingegneria genetica saranno in grado di eliminarla completamente, abolendo il dolore dalla Terra. Con i giusti interventi, sostiene Pearce, gli esseri umani e i non umani potrebbero essere plausibilmente guidati da ” gradienti di beatitudine “, non da privazioni e dolore.

Questo non dovrebbe necessariamente essere un Brave New World , popolato da esseri estasiati e stupefatti: plausibilmente, le persone potrebbero ancora essere altamente motivate, semplicemente perseguendo una gamma di gioie sublimi, piuttosto che evitare sentimenti negativi. Pearce sostiene anche che, in un lontano futuro, i nostri discendenti potrebbero essere in grado di effettuare lo stesso cambiamento su altre biosfere, in tutto l’universo osservabile.

Quindi, anche se pensi che rimuovere la sofferenza sia la nostra priorità assoluta , c’è un valore astronomico in noi che ci resta . Forse lo dobbiamo ai malati in generale.

Tratto da: Thomas Moynihan, Researcher, Future of Humanity Institute, University of Oxford

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Alessando Orsini

2 Novembre 2022

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Il capitalismo non è un’idea, è una malattia che ci è passata nelle cellule

26 Ottobre 2022

«Quello che mi preoccupa di più è che non vedo una rivolta contro il capitalismo. Dove ci sta portando il capitalismo? Non posso lasciare fuori questa domanda. La crisi, le crisi che stiamo vivendo non sono nate dalla gente semplice, ma dalla vittoria del denaro su tutto e tutti. Stéphane Hessel, che è stato in campo di concentramento con me, scrisse “Indignatevi!”. Ma io non vedo più nemmeno questo: vedo piccoli fuochi, proteste, frustrazione… ma non la rivolta morale contro il capitalismo. Viviamo in una società egoista, che fa schifo; il capitalismo non è un’idea, è una malattia che ci è passata nelle cellule, glielo dice un anticomunista».

È come un grido questo congedo di Boris Pahor, dopo oltre un’ora di colloquio. Nonostante il sillabare lento, il tono basso della voce, come può esserlo quello di un uomo che il prossimo agosto compirà 106 anni. Che ha attraversato il buio del Novecento raccontandolo in migliaia di pagine. Soprattutto in “Necropoli”, il capolavoro che ha preso forma nel campo di concentramento nazista di Natzweiler-Struthof e che l’Italia ha scoperto nel 2008, con quasi 40 anni di ritardo da quando fu pubblicato per la prima volta, in sloveno.

«Necropoli riesce a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessità della storia», scrisse Claudio Magris nell’introduzione alla prima edizione italiana (fatta eccezione per un una piccola traduzione apparsa nel ’97 con diffusione locale) dell’opera. E con la complessità della storia, con il dovere della memoria, Boris Pahor continua il suo corpo a corpo quotidiano. Lavora ancora lo scrittore della minoranza slovena di Trieste, più volte candidato al Nobel. Qualche pagina al giorno.

Nel tinello, su un piccolo tavolo c’è una vecchia macchina da scrivere, una Remington Deluxe, con un foglio infilato che attende l’inchiostro. «L’ho acquistata a Lubiana tanto tempo fa. L’ho fatta pulire bene, vede? Batte forte… La uso da 40 anni».

In veranda ci sono dei panni appena stesi dalla badante con cui Boris Pahor parla solo in sloveno. Tra i panni si intravede l’azzurro. Chiediamo di uscire. Là sotto c’è il golfo di Trieste: la vista spazia da Pirano, gioiello veneziano incastonato nella piccola fetta di Istria slovena, al castello di Miramare. La Storia in uno sguardo, da questa villetta sul Carso: la Serenissima, gli Asburgo, la Resistenza, la pulizia etnica e linguistica dei fascisti in quest’altopiano slavofono di pietre e boscaglia, le leggi razziali annunciate laggiù a sinistra, tra quei palazzi imperiali un po’ sfuocati da qui, in piazza Unità. L’Italia in attesa fino al 1954, quando finisce l’amministrazione alleata, la cortina di ferro, il confine del “nostro mondo” che passava qui, qualche centinaio di metri più su.
Al numero di cellulare aveva risposto lui, che a 105 anni fa ancora il segretario di se stesso. «Chi? Ah, l’Espresso? Venga, venga a trovarmi, ma io i 105 anni li ho compiuti ad agosto… di cosa vuole parlare?».

Della storia professore, di quella che stiamo vivendo, e di quella che si annuncia. Del passato, del Novecento, lei forse ha già detto e scritto tutto…..

«Molto, forse. O forse non abbastanza, visto che voi giornalisti in Italia non vi siete mai occupati veramente della comunità slovena di Trieste… Noi eravamo la pietra dello scandalo, sa. L’Italia voleva Trieste ma noi triestini sloveni eravamo qui da secoli… Eravamo una comunità culturale forte. Poi è arrivato il fascismo e ci hanno caricati sui treni. In Francia conoscono la nostra storia, nelle scuole italiane non se ne è mai parlato».

E sarebbe più che mai necessario, al risorgere dei nazionalismi, di nostalgie di regime…
«La memoria non è necessaria, è indispensabile. Ma quando si parla di nazionalismo io distinguo. Finché c’era l’Unione sovietica anche l’Europa aveva costretto i popoli alla sottomissione. Appena è crollata l’Urss i popoli hanno cominciato a respirare, a sentirsi liberi».

Ci sono nazionalismi buoni e cattivi? È questo che sta dicendo, professore?
«Senta, le faccio un esempio: i poeti e gli scrittori classici sloveni sono fioriti sotto l’impero austro-ungarico. Li lasciavano fare, non erano oppressi, era un nazionalismo onesto… Poi arrivano il fascismo e il nazismo, e oggi spuntano funghi velenosi qua e là. Ma io sono un disgraziato, ho visto i campi di concentramento e dopo questo non vedo nulla di simile all’orizzonte».

Insomma i “funghi velenosi” non prenderanno il sopravvento?
«Questo dipenderà… Se rinascerà una sinistra più persuasiva resteranno fenomeni isolati e probabilmente non duraturi. Per il momento la sinistra è andata a ramengo, ovunque. Per essere di sinistra non serve essere rivoluzionari: sarebbe stato sufficiente ascoltare il popolo. Invece non sono riusciti a proporre nulla, a costruire uno scenario di sinistra senza comunismo che potesse convincere il popolo. Dire questo non è populismo. Bastava essere di sinistra “a metà” invece di inseguire la destra. E se insegui la destra, se costruisci un modello sociale fatto solo di arrivismo, se non riesci a trovare punti di mediazione e vivi di contrasti interni… beh, allora vince la destra, è ovvio».

Le cronache, e non da oggi, raccontano di un razzismo che rialza la testa, in molti luoghi d’Europa. E in Italia.
«Io sono al limite delle mie forze… questo forse mi induce a non voler vedere? Non credo sia così. Nella società europea in generale non vedo ancora spinte così forti verso il razzismo. Certo i bulbi per una a rinascita di questo fenomeno ci sono ma sono minoranze e io ho visto altro… e come le dicevo sono al limite delle mie forze».

Lei è stato definito nazionalista da una parte della sinistra della Slovenia, poi c’è stato l’episodio di quel sindaco di colore nella cittadina slovena di Pirano e qualcuno le ha dato anche del razzista, quando lei fece intendere di non aver gradito quell’elezione. O almeno così fu interpretato…
«È stato un gigantesco malinteso. Io mi sono incontrato con quel sindaco e mi ha detto: “Forse sono l’unico che ha capito quello che lei voleva dire”».

E che cosa aveva capito?
«Che la memoria, la storia di un luogo, contano. Il che non vuol dire che in loro nome non si debba accogliere. Lui mi disse “vengo dall’Africa e ci sono legato, quello resta il mio essere. Ora sono qui e provo a fare del mio meglio”. Io avevo solo detto che non poteva conoscere, sentire profondamente la storia di Pirano, non che non potesse essere un buon sindaco. Ecco, era tutto qui».

La memoria, la storia…
«Purtroppo siamo senza memoria, senza storia. E quando accade questo tutto viene rimesso in discussione, libertà compresa. Anche gli sloveni hanno interpretato la libertà in modo sbagliato e hanno cominciato presto e rubare».

Ha votato alle ultime elezioni politiche?
«No, non ho seguito le elezioni italiane. Noi della minoranza slovena votavamo sempre con la sinistra, ma vista la malaparata della sinistra italiana mi sono disinteressato. Del resto nemmeno in Slovenia avrei votato la sinistra. Quale sinistra?».

Provi a immaginarne una.
«E come? Come si fa a creare un governo sociale se si è completamente immersi nel credo capitalista? È la grande domanda. Sicuramente avrà sentito anche lei la favola dei cospirazionisti che racconta dei grandi capitalisti del mondo riuniti attorno a un tavolo per mettere i popoli l’uno contro l’altro con lo scopo di dominarli meglio… È una favola, naturalmente. Ma non la vediamo questa tendenza al dominio inarrestabile del capitale, del denaro?».

Professore, qualcuno potrebbe leggere queste sue parole come un’evocazione dei “poteri forti”, categoria che va per la maggiore tra i leader di questo governo.
«Questo governo? Lasciamo stare. Sto cercando di capire come pensano di rovinare ancora l’Italia. Non riesco a capire che qualità abbiano per fare questa rivolta di cui io parlo, quella necessaria. Facendo debiti invece di pagarli? Non si può governare con le illusioni. Mai».

Tornando al dominio del denaro, “inarrestabile” suona come una sentenza definitiva. Se la politica nulla può, cos’altro? Una fede? Un miracolo?
«I miracoli non esistono o può farli l’uomo… Io sono un panteista. E mi riconosco nelle parole di Einstein: “sono religioso ma non credente”. Mi inchino davanti alla natura, lo faccio ogni giorno da quando sono uscito dal campo di concentramento. Possono distruggere loro stessi gli uomini e con sé stessi questa palla che chiamiamo mondo, il nostro mondo. Uno mi può dire: ma cosa te ne importa che tu fra poco sarai sottoterra? Dico che me ne importa perché c’è gente che vive, gente che nasce. Pensare a questo è un vivere onesto. La natura è senza coscienza, ma noi ce l’abbiamo, o dovremmo averla».

Che cosa significa “i miracoli può farli l’uomo”?
«Io ricordo noi dei “triangoli rossi”… gli internati politici nei campi di lavoro nazisti. Un pezzo di pane, una minestra di rape, nient’altro. Ho preso la tisi, dovevamo morire come tutti gli altri: gli ebrei gli zingari… Sono qui».

In questo mondo che non le piace.
«Ma potrebbe. Una sola cosa ci vuole: non il tavolo dei capitalisti che tengono in pugno il mondo come nella favola (ma neanche tanto) dei cospirazionisti. Ci vuole un altro tavolo, un incontro universale per l’uomo e la sua sopravvivenza. Durerà un giorno? Un anno? Dieci anni? Non importa. Dobbiamo cercare uno scopo per l’uomo finalmente, interrompere una storia che da Alessandro Magno a Hitler ha significato sterminio. Un incontro universale tra medici, poeti, ingeneri, religiosi… Mi si dice che è un’utopia? Se un uomo è capace di fare “miracoli” come quelli che ogni giorno ci fanno vedere le tecnologie, perché non è in grado di fare questo? Una ricerca per l’uomo, per vivere con senso una vita diversa da quella dell’avere, del conquistare. Nessuno che si chiami uomo resti senza pane. Si può. Solo così l’umanità della grande innovazione avrà creato qualcosa di Nuovo».

Lei è uno scrittore. Che contributo può dare la letteratura, se può darlo, a questa “innovazione”?
«La letteratura vale dove c’è già disposizione di spirito. Vale quando c’è chi accetta, è all’altezza, per ricevere questa ricchezza. Ma che con la letteratura si possa innescare questa rivoluzione morale, intellettuale, psicologica… non ci credo. Altrimenti ci sarebbe riuscito il cristianesimo».

Come trascorre le sue giornate?
«Ho molti incontri, vengono a trovarmi. Ho una biblioteca a Prosecco dove ho messo quasi tutti i libri. Porto lì chi viene a trovarmi, e parliamo. Poi scrivo ancora qualche paginetta. Leggo, possibilmente in lingua originale… Mi sono appena riletto “Vita di Gesù” di Renan».

C’è ancora il tempo per un caffè, che si raffredda nella tazza mentre Boris Pahor ha un’ultima parola da aggiungere: rivolta.

Intervista di MARCO PACINI link

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Solange Daini

24 Ottobre 2022

Ringrazio il prof. Barbulescu e l’Accademia di Romania per l’invito a parlare di Noica in occasione del centenario della nascita.

Uno dei motivi per cui ho accettato con gioia l’invito risiede nel titolo scelto per il colloquio: C. Noica e la filosofia come salvezza. Infatti è un titolo che ha attirato immediatamente la mia attenzione.

Un’importante premessa che non posso esimermi dal fare è che conosco Noica come traduttrice piuttosto che come storica della filosofia. Nel contesto delle opere da me tradotte, il tema della salvezza appare, ma non in maniera preponderante. Per questo motivo, mi sono interrogata su cosa l’ontologia di Noica, soprattutto quella contenuta in ‘Devenirea întru fiintă’ abbia da dire di significativo sul tema della salvezza.

La risposta che ho trovato in alcuni passaggi che citerò tra breve suggerisce che il tema della salvezza in Noica è associato all’idea di cultura.

La nozione di cultura in Noica

Dunque, per prima cosa, sarà opportuno ricordare che cosa sia per Noica la cultura. Noica descrive la sua idea di cultura in vari modi, ma tutte le definizioni presentano alcune caratteristiche in comune. In primo luogo, esse si basano su una distinzione fondamentale tra le istanze di ‘universale’, ‘particolare’ e ‘determinazione’. Ad esempio, gli Scrisori despre logica lui Hermes distinguono tra orientamenti della cultura alla determinazione, all’universalizzazione, alla particolarizzazione e loro combinazioni. Un altro tema ricorrente nell’idea noichiana di cultura è la sua identificazione con l’insieme omogeneo di lingua, folclore e credenze riscontrabili in una certa area geografica, area geografica spesso associata ad un’altra idea, quella di nazione.

Ma vediamo da vicino alcune definizioni di cultura secondo Noica. Nel Trattato, la cultura è spesso associata all’idea di cura (ingrijirea) e modellamento (modelarea) (per es. la cultura dovrebbe essere la forma superiore di “cura” (ingrijire) dell’uomo.1 La parola ‘îngrijire’ è usata nella filosofia romena anche per tradurre la parola ‘Sorge’, utilizzata ad esempio da Heidegger in Essere e Tempo. Noica stesso rende esplicita questa relazione nella sua trattazione della nozione heideggeriana di Sorge all’interno del Saggio sulla filosofia Tradizionale (ad es. a pag. 108 e segg, Incercarea p. 123). Tuttavia, la definizione di cultura come ‘curà presente nel Trattato non si inserisce in un contesto esplicitamente heideggeriano. È vero che l‘idea di cura viene introdotta una trentina di pagine prima assieme alle nozioni heideggeriane di paura e temporalità. Ma è anche vero che nelle trentadue pagine intermedie, Noica sviluppa una posizione filosofica personale, persino in opposizione, per certi versi, a quella di Heidegger (ad esempio, egli contrappone l’idea di chiusura che si apre al carattere angusto (îngustimea) dell’itinerario intrapreso in Essere e Tempo.2 Alla luce di tutto ciò, risulta opinabile definire il concetto noichiano di ‘cura’ come mera Sorge. Tornando alla nostra definizione, cosa vuol dire che la cultura è da intendersi come ‘cura’? Purtroppo non ci sono passaggi tremendamente chiarificatori a tal proposito. Possiamo solo tentare di rispondere via negativa. Nel Trattato Noica dice che la cultura resta immotivata quando non ‘coltivà l’uomo, quando si limita a rappresentare una forma di evasione dal reale. La cultura come ‘non-curà costituisce un’elusione della sua responsabilità ontologica.3 Da tali riflessioni, si può dedurre che una cultura che sia definibile come tale deve essere ben radicata nella realtà. Tale radicamento nella realtà è la premessa fondamentale per una relazione autentica tra l’uomo e le cose che sono. In questo senso, la cultura è cura: essa nutre e protegge (la parola romena è ‘cultivare’) l’essenza dell’uomo.

La cultura come cura è una cultura che si preoccupa di non cadere nel non-sense ontologico. In particolare, è una cultura che cerca di preservare una significatività dell’essere per l’uomo. A tal proposito, vorrei citare un altro passaggio, tratto dalle prime pagine del Saggio sulla filosofia tradizionale, che propone questo concetto:

Dice Noica: “Il divenire entro l’essere si mostrerà a noi effettivamente come un principio ordinatore: mediante esso, il reale acquisisce il carattere di realtà, nella misura in cui è sottratto al cieco divenire e restituito all’essere. Ma tale trasposizione può essere effettuata solo mediante l’uomo, senza il quale il divenire rimarrebbe divenire, fluire, varco cosmico, incompiutezza. L’uomo, a sua volta, acquisisce tale virtù con la cultura. Egli non è dotato di per sé del senso dell’essere, non colloca le cose al loro posto né le porta, abitualmente, a compimento. Solo mediante la cultura l’uomo acquisisce l’abilità di discernere in seno alla realtà e di organizzare ciò che ha visto”.

Tornerò su questo passaggio perché denso di contenuti. Per ora ci basti notare che tramite la cultura l’uomo si prende cura delle cose che sono. La cutlura permette all’uomo di 1. collocare le cose al loro posto (‘a rindui lucrurile la locul lor’) e 2. portarle a compimento (‘a duce lucrurile la implinire’, p. 59). Inoltre, si stabilisce che la cultura aiuta a discernere la realtà e ad organizzare l’esperienza. Anche l’idea di cultura come modellamento ben si adatta a questa descrizione. Tuttavia, è plausibile ritenere che la nozione di modellamento presenti una duplicità: in un senso, l’uomo modella le cose (le riconosce, attribuisce loro una caratterizzazione ontologica sottraendole alla vacuità del mero divenire), ma in un altro senso l’uomo modella anche se stesso. Nei Manuscrisele de la Cîmpulung, Noica aveva già anticipato il tema della cultura come cura dello spirito ed educazione. Nel Jurnalul de idei egli riformula la massima ‘homo homini lupus’ come ‘homo homini curator’. Nel Trattato, infine, questo tema è ripreso ed ampliato. Riguardo all’idea di compimento, vorrei aggiungere una cosa: talvolta, come nel passaggio appena citato, Noica menziona il compimento delle cose; talaltra, egli allude al compimento del mondo (ad esempio in questo passaggio: cosa fa l’uomo con la cultura e la filosofia? Contempla il mondo o, come si è talvolta detto, lo “trasforma”, lo completa per ciò che gli compete e ritrova il suo compimento?5 È discutibile se l’idea di mondo in Noica possa essere definita come ‘insieme delle cose che sonò. A mio avviso, ci sono passaggi in cui tale identificazione ha la sua ragion d’essere. Tuttavia, in altri casi, la nozione di mondo non è semplicemente questo insieme. Essa descrive, piuttosto, l’orizzonte ontologico entro il quale le cose che sono prendono vita e conducono la loro esistenza. In conclusione, la cultura introduce al compimento non solo delle cose che sono, ma anche dei loro ambiti, o, per dirla con le parole di Noica, dei loro elementi (a sostegno della tesi che cultura ed elementi sono strettamente legati, Noica attribuisce alla cultura ‘un’esplosione demografica in fatto di elementì).6

Abbiamo definito la nozione noichiana di cultura, almeno per quanto riguarda le linee essenziali del suo pensiero nei primi anni ’80. Ora, vorrei analizzare la concezione soteriologia della cultura in Noica. In svariate occasioni, dagli scritti giovanili a quelli della maturità, Noica suggerisce che la cultura è qualcosa di salvifico. Ad esempio, nelle Sei malattie dello spirito contemporaneo, Noica vagheggia una cultura che salvi l’uomo dalle forme di sapere vuote. Grazie al suo operare universalizzante, la cultura par excellence salverebbe anche dallo sbandamento dell’uomo contemporaneo, sbandamento definito come assenza di istanze generali e come estraniazione dalla sostanza delle cose. In un frammento raccolto nel Jurnalul de Idei, la cultura è definita ‘medicina mundì (Frammento 28).

Quale cultura?

Innanzi tutto, a quale cultura Noica si riferisce? Noica parla spesso della cultura in generale, ma in realtà ha in mente una precisa tipologia di cultura. Egli distingue tra culture occidentali e orientali, europea, indiana, cinese, anglosassone, greca, francese e, ovviamente, romena; tra culture del passato (classica, medievale, rinascimentale e moderna), cultura contemporanea e cultura di domani; infine tra culture scientifiche, cultura matematica, cultura della logica, umanistica. A causa di tale frammentazione, risulta difficile attribuire all’idea noichiana di cultura una caratterizzazione univoca. Ad ogni modo, è ricorrente l’idea che la cultura europea in particolare sia quella portatrice dei valori più fertili e ed educativi. La cultura europea è talvolta vista da Noica addirittura come l’unica vera cultura. Nella contrapposizione tra culture di tipo scientifico e quelle di tipo umanistico, invece, la funzione soteriologica non necessariamente è attribuita a quest’ultima. Ad esempio, in ambito contemporaneo, Noica vede la cultura umanista allo stallo, e osserva che anche quella scientifica subirebbe lo stesso destino se la tecnica non la salvasse dal probabile scacco. Ciò non implica, comunque, che la tecnica porti con se’ una genuina salvezza per l’uomo. In una conferenza radiofonica del 1940, Noica afferma che la cultura come istanza di salvezza, capace di restituire un senso all’uomo, nutrire il suo spirito e indirizzarlo entro l’essere, è la cultura umanistica. Essa è esattamente ciò che il mondo odierno richiede, accanto alla pratica delle virtù e dell’amore per l’uomo, alla rivalutazione della vita nella sua quotidianità e dell’esistenza umana in quanto tale. Noica aspira a promuovere tali valori nella loro dimensione assoluta e sovrastorica, come sfida quotidiana per l’essere umano.

Da che cosa si è salvati?

In secondo luogo, è utile chiarire da che cosa in particolare la cultura salvi. Si può rispondere, in modo abbastanza intuitivo, che la cultura salva dall’imbarbarimento della civiltà. Questa è , infatti, una delle tesi principali presenti ad esempio in Creaţie şi Frumos în rostirea românească.7 Ad ogni modo, Noica è preoccupato anche da un altro tipo di deriva della civiltà. La scienza odierna rischia di trascinare l’uomo in una realtà alienata e sterile, chiusa al confronto, all’arricchimento attraverso il dialogo, alla dialettica vivificante. Il seguente passaggio, tratto dal Jurnalul de Idei dice da cosa, secondo Noica l’uomo deve salvarsi: da ‘una scienza arida, senza sfumature, senza finezze, monosemantica, senza sensò, capace solo di generare una pseudo cultura ‘stagnante, capace di scomparire dalla storia’. L’uomo è tenuto a fuggire il non-essere culturale, l’assenza di una meta finale, di ideali che in termini ontologici significa assenza di istanze generali. Noica deplora la caduta dell’individuale in un processo di estrema determinazione, e al tempo stesso deplora la degenerazione delle scienze verso ciò che egli definisce ‘infinito negativo’. Quando le possibiltà vuote conquistano il primato sulla realtà, l’uomo diventa uno ‘spettro’, un ‘Homunculus’ (Pregate per il fratello Alessandro, p. 56 e seguenti). L’astrazione vuota, il relativismo e lo scetticismo esasperato sono la barbarie da cui Noica mette in guardia (in tale posizione sembra riecheggiare il monito dell’Husserl della conferenza di Vienna nel 1935 e, soprattutto, nella Crisi delle Scienze Europee). A tutto ciò, Noica intende contrapporre una cultura di valori umani forti e soprattutto di apertura all’essere in se’. La cultura è chiamata a divenire lo ‘stimolo ontologico’ e ‘l’agente dell’essere’, come ricordano anche i Diaconu nel loro dizionario.8 Gli obiettivi di tale cultura saranno, dunque, la cura dello spirito e la promozione di valori quali la creatività, la libertà e la responsabilità individuale. Purtroppo non abbiamo tempo, in questa sede per approfondire e contestualizzare nella filosofia di Noica la trattazione di tali valori, ma basti ricordare che essi costituiscono il costante scopo a cui tende il pensiero di Noica, sin dagli scritti giovanili fino a quelli della piena maturità; passando peraltro per un’importante e ammirevole concretizzazione: la scuola di Păltinis.

Chi o cosa è salvato?

In terzo luogo, vorrei menzionare chi questa cultura salvi. Anche se appare subito abbastanza chiaramente che l’oggetto della salvezza è l’uomo, ci sono passaggi del Noica maturo che non si riferiscono direttamente all’uomo come beneficiario della funzione soteriologica della cultura. Nel Saggio sulla filosofia tradizionale,9 Noica osserva che la sete di assoluto si esprime sì, attraverso l’uomo, ma è sintomo di qualcosa di ancora più diffuso e universale, che è la tensione di tutte le cose verso l’essere. La cultura è il veicolo per esprimere il bisogno di divenire entro l’essere. L’uomo si distingue dalle altre cose che purtuttavia tendono all’essere perché egli possiede anche una coscienza di tale tensione, una coscienza che Noica riconosce come razionale. Dice Noica a p. 172: Solo un essere “razionale” può riorientare, con il suo divenire razionale entro l’essere, tutto il resto.

La trattazione del tema della cultura nel Saggio sulla Filosofia tradizionale mi sembra una delle più interessanti perché conferisce all’idea di ‘cultura come salvezzà un più ampio respiro. La visione di Noica incoraggia a considerare la cultura non solo un bene per gli esseri umani, ma anche un bene per l’essere in generale. La cultura non si limita ad essere funzionale all’uomo, ma rivela un valore intrinseco ancora più profondo, meta-antropologico, direi. Non è più la cultura a dover fare qualcosa per noi, ma siamo noi, forse, a poter fare qualcosa per la cultura e, di riflesso, per l’essere in generale. Questo pensiero riecheggia in qualche modo le osservazioni di Heidegger nelle prime pagine di Introduzione alla Metafisica, in cui il filosofo tedesco esorta ad abbandonare la domanda ‘a cosa ci possa servire la filosofia’, invitando piuttosto a chiedersi cosa noi possiamo fare per la filosofia. È indubbio che Noica sia stato un appassionato ammiratore di Heidegger, ma purtroppo non ho elementi a sufficienza per stabilire quale sia l’esatta connessione tra l’idea di cultura in Noica e quella di filosofia in Heidegger. Tuttavia, ciò che mi interessa in questa sede è stabilire quale sia la connessione tra l’idea di cultura e l’idea di filosofia in Noica, anche per ricollegarci al titolo di questo intervento e, in ultima analisi, di questo simposio. Per Noica la cultura è lo sforzo umano ad elevarsi allo spirito, limitando senza limitare (‘La cultura umana tende a trasformare le limitazioni che limitano in limitazioni che non limitano’, Trattato p. 98). La saggezza e l’amore per la saggezza, quindi la filosofia intesa nel suo senso etimologico) ha luogo solo mediante la cultura (frammento 267, Jurnalul de Idei). Possiamo dunque concludere che per Noica la cultura ha una funzione soteriologica nella misura in cui è dimora della filosofia.

Torniamo ora al passaggio sul collocamento delle cose e sull’organizzazione dell’esperienza. Abbiamo detto che tale passaggio aiuta a rileggere l’idea di modellamento della realtà come auto- modellamento operato dall’uomo su se stesso. Ora, l’idea che l’uomo modelli se’ stesso tramite la cultura è ciò che implica più di ogni altra la nozione di salvezza. Infatti, l’auto-modellamento è la via per salvarsi dall’incompiutezza e dalla rarefazione del divenire. Nei Manoscritti di Cimpulung, Noica aveva già compiutamente formulato questa tesi. Come osserva Diaconu, egli prospetta la possibilità di un salto dai valori autoctoni della cultura locale a una cultura capace di rappresentare valori più generali, una cultura più universale. L’auto-modellamento in questo caso equivale all’impegno di ciascun individuo a trasformare il mondo in una realtà carica di senso, una realtà onticamente autentica. Ciò implica il superamento delle preoccupazioni personali e degli interessi localizzati, verso l’elevamento spirituale dell’Uomo con la U maiuscola, o come dice Noica, ‘omul cinstit’.

Quale salvezza? Cultura e ordine

Il quarto e ultimo punto del mio intervento verte intorno alla domanda su che cosa significhi ‘salvezza’. Come abbiamo visto dai passi citati precedentemente, la nozione di salvezza in Noica implica l’idea di una cultura superiore, di un ritrovamento di senso, di un nuovo umanesimo. Tuttavia, ognuna di queste idee sarebbe incompleta se non fosse fondata su una categoria essenziale per Noica: quella di ordine. In Devenirea intru fiinta Noica stabilisce che salvarsi implica il ‘rientrare nell’ordine dell’essere’. L’insieme delle cose che sono si organizza in un cosmos ordinato. Ma cosa ha a che fare la cultura con tutto questo? Beh, la cultura è l’atto dell’uomo che sancisce questo ordine. È l’uomo infatti, a ratificare l’ordine delle cose tramite la conoscenza e il logos. In particolare, l’uomo è l’essere preposto alla nomenclatura delle cose che sono: questo è il presupposto ontologico della cultura. Ecco un passaggio tratto dal Saggio sulla Filosofia tradizionale che spiega questo concetto:

‘E come Adamo era preposto a dare un nome ad ogni essere vivente, e il nome che egli dava si fissava – poiché equivaleva a sottrarre al caos e a qualificare entro l’essere – così l’ordine che si palesa mediante l’uomo nelle cose è anche ordine di tali cose medesime, non solo dell’uomo (mia enfasi)’.

Abbiamo più volte menzionato la tendenza all’universalizzazione come tratto caratteristico del processo culturale. Nell’aspirare all’universale l’uomo attinge agli ambiti o elementi universali. Per la precisione, non solo vi attinge, ma li trasforma anche in ambiti interni. Dice Noica: ‘Così la cultura, che all’inizio rappresenta un perfetto medio esteriore, con il suo universo di conoscenze che devono essere apprese e di documenti che devono essere consultati, diviene alla fine un medio interiore, nel caso delle cose realizzare in essa e che si elevano al potere mediante quella’.11 La cultura viene così a costituire un processo di interiorizzazione dello spirito del mondo. Tramite la cultura, l’oggettività del divenire entro l’essere diviene una specie di soggettività trascendentale, per tornare ad usare le parole di Husserl, a cui ho brevemente accennato prima. Nelle parole di Noica, invece questo processo di trasformazione è così descritto: ‘la cultura e la vita dello spirito non fanno che riflettere le vie per l’essere. Poiché, effettivamente, cosa significherebbe la cultura se non fosse l’insieme delle modalità di accesso all’essere, tentate dall’uomo?’ (Tratat, p. 232). Ma in che senso possiamo dire che questo complesso meccanismo culturale si fonda sulla nozione di ordine? Noica dice che nel trasformare il medio esterno in medio interno, l’uomo sradica il disordine del mondo e allo stesso tempo fa ordine in se’ stesso. Il tema della creazione dell’ordine interiore (e del suo mantenimento) diviene, così, un tema centrale nella ‘teleologià di Noica. Egli osserva: ‘Il bello, il vero e la loro cultura non possono essere positivi fino in fondo se non hanno apportato ordine in noi e un aumento di ordine nelle cose’. La sua ontologia diviene un percorso verso un sistema di valori e leggi validi per l’uomo e per le cose, in cui si aspira ad un telos che è compimento e perfezione.

Ora, c’è un’obiezione importante che potrebbe essere mossa al connubio di cultura e ordine in Noica. Infatti, una cultura fondata sull’ordine sembra non rendere giustizia all’imperfezione costitutiva delle cose che sono e dell’uomo. Possiamo cercare di rispondere a tale obiezione osservando brevemente due punti. Innanzi tutto Noica è ben cosciente dell’imperfezione costititiva degli essenti. Egli ne parla diffusamente nelle Sei malattie dello Spirito contemporaneo e nel Trattato di ontologia, facendone uno dei temi cruciali del suo pensiero. Per questo motivo, non possiamo assumere che gli sia sfuggita ciò che a noi appare come una discrepanza. In secondo luogo, l’idea di ordine che Noica associa alla cultura è molto articolata. La cultura è in grado di catalogare le cose con le loro imperfezioni e con la loro vivificante tendenza alla perfezione. Tali caratteristiche sono essenziali caratterisitiche di ogni essente e non sembrano contraddire l’ordine in cui la cultura le colloca. A tal proposito Noica afferma che ‘l’essere perdona le deviazioni da sé, pronto a investire di nuovo persino ciò che lo dimentica o lo rinnega’.12

Conclusioni

In conclusione, possiamo affermare che la nozione di cultura in Noica ha importanti significati soteriologici. Ho cercato di stabilire un signifcato di base per la parola ‘cultura’ in Noica, ma mi sono anche interessata a quale tipologia in particolare di cultura Noica alluda nei passaggi chiave soprattutto di Devenirea intru fiinta. Ho anche tentato di rispondere alle domande su chi sia salvato e da cosa lo sia, e infine che cosa veramente significhi l’essere salvato in specifici contesti. Si tratta di domande a cui Noica ha risposto in decine di opere nelle forme più diverse e la mia pretesa è ben lungi dall’esaurire le immense risorse bibliografiche a tal riguardo. Quello che possiamo dedurre dai temi menzionati in questa sede è che cultura e filosofia sono strettamente legate nell’impianto soteriologico noichiano. Di più, la cultura richiede di essere sostenuta da una vera e propria coscienza filosofica, al fine di ‘elevare le cose ai prototipi o all’essere che è loro proprio’. In un passaggio del Saggio Noica riassume: ‘Il divenire entro l’essere, con il cerchio che arreca, implica pertanto la realtà umana; la quale a sua volta, presuppone l’atto di cultura e, infine, la coscienza filosofica, la sophia. Ciò significa che il reale umano, la cultura e la sophia sostengono metafisicamente il mondo: non si tratterebbe solo di conoscenza dell’essere, ma l’uomo, la cultura, la sophia sottraggono il mondo alla condizione di semplice divenire, lo perfezionano, elevandolo al grado di essere’. (p. 31). Cultura, salvezza e filosofia si rivelano, in tal modo, il fine, il telos del progetto noichiano. Essi divengono i capisaldi di quella coscienza planetaria13 che Noica vagheggia nella parte più matura del suo pensiero. Tuttavia Noica mantiene in primo piano lo stato di precarietà e imperfezione costitutivo delle espressioni secolari dell’essere: la cultura può essere dimora dell’ontologia e salvare l’uomo solo se quest’ultimo si apre dialetticamente all’incompiutezza del mondo.

Tratto da: Solange Daini, Constantin Noica e la cultura come salvezza, UCD Roma, 4 Giugno 2009

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Albert Schweitzer

18 Ottobre 2022

“L’uomo non troverà la pace interiore finché non imparerà ad estendere la sua compassione a tutti gli esseri viventi” Albert Schweitzer

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Sui visi

10 Ottobre 2022

Quello che mi ha sempre profondamente turbato è la naturalezza con la quale la maggior parte della gente porta il suo viso. Se un viso mi piaceva e l’altro no, per colmare la misura, si aggiungeva la scusa di un terzo argomento imparziale: l’uomo non può far niente per il suo viso. Nessun punto di vista è più insostenibile: infatti la responsabilità che uno si assume per il suo naso lungo è fondata per lo meno quanto quella che egli si accolla per le sue convinzioni politiche. Per le convinzioni politiche l’uomo, nella maggior parte dei casi, non può essere in alcun modo ritenuto responsabile, perché esse gli derivano dalla nascita, da un’educazione sbagliata, da un’innata debolezza della disposizione spirituale o dal nefasto esempio dell’ambiente. Un difetto fisico al contrario nasce da una mancanza di riguardo che colpisce molto penosamente data la copiosa possibilità di scelta nelle forme di suicidio. Ho notato che gli afflitti da un viso, sul quale la creazione ha impresso il marchio della merce di scarto, non solo non indietreggiano timidamente al cospetto della deturpazione dell’immagine estetica del mondo, ma fanno il possibile per attirare l’attenzione del prossimo. Si può essere sicuri che uno, fornito di orecchie a sventola, non coglierà mai la critica che il suo viso somiglia al vaso da notte del re Attila, ma vivrà credendo di somigliare al ritratto di Dorian Gray. Neanche l’ombra di pentita rassegnazione per il fatto di essere uno sgorbio! Invece la sicurezza che traspare da simili tratti porta alla conclusione che il felice proprietario di quel viso lo ritiene la forma definitiva tra tutte quelle possibili e immaginabili, si, la forma che nei futuri atti creativi verrà presa in considerazione come l’unica determinante e decisiva per la moda. La bellezza è troppo ambiziosa per potersi considerare perfetta, mentre niente vince la superbia di una bruttezza congenita. Chi la assolve della sua responsabilità, offende la sua autocoscienza. L’«io sono qui, non posso fare altrimenti» è una scusa che giustifica tutto.

È invece assolutamente riprovevole il fatto di somigliare ad un altro. I lineamenti del viso sono l’unica caratteristica per cui il volgare si distingue dal quotidiano. Se essa manca, ne deriva una confusione irrimediabile: in Germania si cerca di porvi rimedio, andando tutt’al più in direzione delle punte dei baffi. Ma proprio a questo riguardo la vanità può avere un ruolo fatale e creare somiglianze che mettono nel più grave imbarazzo chi le nota. In sé e per sé è già uno spettacolo orrendo che si gridi «hurrà» per sbaglio. Sarebbe però addirittura funesto se una manifestazione simile fosse diretta a un caporale che porta i baffi secondo la moda di una volta, proprio mentre passa, senza essere riconosciuto, un ufficiale superiore, che non si è ancora immedesimato e conserva un’espressione mite… In ogni caso, nella vita le somiglianze provocano le più sgradevoli complicazioni. Basterebbe forse rimproverare alla creazione una certa pigrizia, se essa invece non avesse dimostrato, con l’istituzione dei gemelli, una pianificazione del processo che si regola da sola. Sono immense le difficoltà a cui si va incontro, se si pensa a un asino e si picchia suo fratello; in questo caso l’unico conforto è la speranza che le percosse siano capitate a un altro asino. Qualunque cosa succeda, i gemelli devono incolpare se stessi. È uno spettacolo impagabile vedere come uno trascini sempre con sé l’altro. Recentemente si è letto che uno di due gemelli si era stancato di questa situazione e perciò si sono sparati tutti e due. Erano ufficiali e ambedue erano arrivati al grado di maggiore. Correva voce che da alcuni anni lottassero con i debiti. Pareva che avessero subito gravi perdite a carte e ai cavalli. Rischiavano perciò d’esser degradati. Non erano riusciti a pagare una cambiale; perciò andarono al comando, ritornarono a casa all’una meno un quarto, scrissero parecchie lettere, mandarono i loro attendenti a recapitarle e si spararono. Uno nell’angolo destro della stanza alla tempia sinistra, e l’altro nel lato sinistro alla tempia destra. Finalmente erano riusciti a differenziarsi. Se, in condizioni più favorevoli, avessero continuato a vivere, il caos li avrebbe alla fine ridotti alla disperazione. Infatti il rapporto si chiude con la dichiarazione che «fatto notevole, i due fratelli avevano sperato di risolvere i loro problemi con un matrimonio, che però non era andato in porto». Comunque, uno dei due avrebbe dovuto mantenere ciò che l’altro aveva promesso, se questo non si fosse dimenticato di ciò che l’altro non seppe ricordarsi. Questi rapporti confusamente intrecciati avevano provocato la morte dei gemelli. La natura si decide per i gemelli soltanto in casi estremi. Essa produce duplicati quando un solo esemplare non è stato sufficiente per la creazione di uomini dozzinali, data la mancanza di personalità disponibile. Che uno debba sospirare quando l’altro è innamorato è una situazione ridicola, che uccide anche senza la perdita del comune grado di ufficiale.

Spesso però anche la somiglianza tra padri e figli ha le più tragiche conseguenze. Sarebbe semplicemente un problema familiare, se non si presentassero occasioni di arrabbiature pubbliche nei casi che riguardano figli di padri famosi. È già triste di per sé che uomini, i quali esplicano un’attività creativa in un campo qualsiasi, nutrano l’ambizione di farlo anche in campo sessuale; bisognerebbe per lo meno badare che nella prole venisse soffocata in nuce qualsiasi traccia di somiglianza. Per l’amor del cielo, che ne sarà di un giovane assolutamente incapace di comporre, ma che ha lo stesso aspetto del padre, musicista famoso? Non c’è bisogno di essere figli di un grande compositore per non essere in grado di scrivere una nota. La cosa triste però non è l’incapacità, bensì la somiglianza. Ecco, il padre è morto in un palazzo a Venezia71, gli stranieri si recano in pellegrinaggio alla sacra salma, mentre al Lido sta facendo il bagno la spoglia terrena del caro estinto; e anche questo fatto resta indimenticabile per gli stranieri. Si ammira uno scherzo di natura, mentre si dovrebbe condannarlo. A che servono questi inganni della natura? Per turbare con le somiglianze, basta soltanto un profilo ritagliato nello schermo: una vecchia mette il viso nel buco, si mette su una sedia nel giardino di un’osteria e dice: «Adesso lor signori vedranno Richard Wagner. Prima però chiedo una piccola mancia o douceur…… Oggi vaga per l’Europa qualche indegno portatore di un nome famoso. Per un falso sentimento umanitario si è trascurato, a suo tempo, di spedirlo nel Caucaso, nelle montagne di Dovre o nella Svizzera sassone, per cui ora siamo costretti a vedere che le conseguenze sessuali predominano sulla più nobile creatività degli uomini celebri. Li si costringa almeno, con una legge, ad adottare uno pseudonimo ed un altro taglio della barba; si aspetti poi di vedere se sono ancora capaci di vivere. n figlio di Goethe non ha meritato sotto nessun aspetto di essere accolto nell’edizione delle opera omnia del padre. Se però uno ha un aspetto tale, che deve scrivere lo Slernengebol perché rimanga in gola l’esclamazione: «Tutto suo padre! .., si finisce per maledire l’eterna presa in giro della natura. No, le somiglianze sono un disastro. Non servono neppure alla mania di grandezza tipica dei figli di padri famosi. Egli infatti sarà sempre convinto di conservare anche in ciò la propria autonomia.

[da: «Die Fackel.., nr. 256, , giugno 1908, pp. 3-8]

 

Tratto da: Karl Kraus, Elogio della vita a rovescio

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Finestra sul nulla

9 Ottobre 2022

 

Queste ore che trascorri divorato dal cocente rimorso di non aver trovato un luogo per morire, di aver mancato la tua fine per pigrizia… Sono le ore dell’amore.

Emil Cioran

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CULTURA, DISPERATO AMORE MIO

29 Settembre 2022

Dire «crisi della cultura», luogo comune dei più manifatturieri, è pur sempre, oltre che comodo, pregnante d’indefinibile. Nella versione italiana, significa noncuranza del potere, perdita di bellezza, capitali e sovvenzioni sbaragliati, diseducazione progressiva dei cittadini. Cultura è tutela dell’identità nazionale: ce la stanno smerdando bravamente, senza un grido di rivolta, a colpi di intrusioni massicce di locuzioni e nomenclatura angloamericane. Scendi in strada un mattino qualunque e trovi che dal giorno prima si sono moltiplicate per contagio le insegne, e perfino targhe e targhette di professionisti, senza neppure la sminuzzata foglia di fico del bilinguismo, come le puoi leggere nelle vie commerciali di Londra o di New York. Oh guarda, il parrucchiere ha chiuso… Ma no, la bottega è rimasta, ma l’insegna per riconoscerla è diventata Hair Studio! Ho una speciale allergia per la parola design, oltre che per le Niagara Falls mostruose di O.K. Design è diffuso quanto il W.C., altro anglismo che per essere d’epoca di Queen Victoria si è da tempo impadronito del territorio nazionale a livello delle chiappe. Poiché i designers sono attivissimi e la ceramica sanitaria è un’industria italiana che funziona, sia pure a Tirana, a Ulan Bator, la produzione di W.C., bidet e lavabi dalle forme purgatoriali non manca di acquirenti dall’accentuato masochismo. La perdita di lingua è, per quanto intendiamo come cultura, una ferita mortale. Sarà bello e nobile essere difensori di Termopili, ma io, vecchio e indignabile per ogni bruttura, sono stufo di agitare lo scudo mentre il branco passa senza fine.

Da rilevare quanti venti di significato s’incrocino nel degenerare senza speranza della democrazia politica, nella perdita del senso dei valori, inseparabilmente etico-spirituali (riassumibili malamente come culturali), nel getto, come un gioiello in una discarica, dell’identità linguistica. Aggiungi che l’Italia non ha né tempo né capacità né volontà di integrare, assimilare, rifare mentalmente l’enorme afflusso di popolazioni indicibilmente estranee a tutto quanto l’Italia rappresenta di non-materiale, che è per loro impenetrabile, dunque gettabile, non conservabile. Per loro non contano che i bisogni primari, mangiare, dove dormire, come trovare un guadagno, sfogare sesso. Libri italiani non ne leggono. La televisione è distruttiva, sia per noi che per loro, per i bambini di ogni colore. I rapporti servili possono farsi anche affettuosi, mettere radici, stimolare la tolleranza, ma questo non sgattiglia che la superficie. Ho amato il cinema, ma è morto. Finanziarne i festival (Venezia, figuriamoci) è puro spreco. Violenza, pornografia, assenza totale di presa morale. A lunghezza di giorni, nel sordo duello tra il Cinema e il Teatro, il teatro ha vinto. Far vivere ad ogni costo il teatro sarebbe illuminato. Però è nell’irreperibilità di illuminati autentici il difetto di manico! Col teatro salvi ancora anime, col teatro puoi tentare ancora di rieducare un po’ di gente. Per l’esperienza che ne ho, chi frequenta e affolla i teatri ha fame di uscirne cambiato dentro. Perciò se dovessi ricominciare adesso mi sforzerei di essere un attore, il più vicino alla «santa prostituzione d’anima» dell’artista, una forma di sacerdozio superiore a ogni altra. Con un teatro ad altezza giusta puoi convertire alla verità. Ricordo con emozione un attore solitario, in Rue de la Gaîté, che in un apparente trionfo, lungo tutta la via, di fellazioni, cunnilatrie, pedofilie, sodomie, recitava intrepidamente l’Evangelo di Marco, a platea gremita. Far vivere gli Enti Lirici non è niente di famoso quanto a protezione e diffusione di cultura. Dall’Opera non esci mutato, ammiri le bacchette, le voci, i cori (di rado le regie), su quattro o cinque ore ne dormi senza valium due e mezza. Questo perché c’è l’obbligo di non uscire e rientrare per le arie più celebri, com’era nella tradizione. La cultura qui non c’entra: il 7 dicembre alla Scala è un evento mondano, non migliora nessuno. Invece l’ultima battuta di Sonja in Zio Vanja, se l’interprete è grande, ma grande davvero, ci trasfigura la pena di essere. L’addio di Maša a Veršinin in Tre sorelle è uno squarcio di verità sull’amore passionale.

Interculturale mi è incomprensibile. Il prefisso inter oscura il senso delle cose. Il più e il meglio di quel che è pubblico si concentra oggi nel museo, nelle fiere del libro, nella musica consolatrice, nel libro di sempre, nei teatri di attori e di figura, arti del mimo, del clown, del riacchiappapalle a volo. Vedi nella Quinta Elegia di Rilke i versi che esaltano i girovaghi (die Fahrenden), ispirati da un meraviglioso quadro di Picasso rosa. Tutta questa gente va protetta, da uno Stato, da collettività degne del nome, perché lasciata a morire di fame, costretta ad abbandonare l’attività, a limitarla, c’è un altro crimine che si affaccia, sociale: la distruzione della Festa, della sacralità della festa in sé, disinteressata, antimorte, fuori calendario ufficiale, salvagente contro l’ignoranza e la lingua violata.

Intervistandomi per «la Repubblica», Anna Bandettini (eravamo a Milano, al Teatro Strehler) annunciava uno spettacolo al Piccolo del mio umbratile Teatro dei Sensibili, dedicato ai cento anni della guerra 1914-1918, anniversario che ha cominciato a pungiglionare i depositi insepolti della ricordabilità.

Mi credo adatto a far questo perché l’argomento mi è familiare, e quegli anni sono stati il cuore del male del secolo che ne è seguito, e di quel che noi viventi siamo. Simpatico annuncio, e amara frustrazione mia nell’apprendere mancato il finanziamento necessario dell’Unione teatri d’Europa (UTE) e dunque compromessa fortemente la possibilità di realizzare fino in fondo il fachirico progetto, molto caro agli amici del Piccolo e al suo direttore Escobar. L’occasione, per chi abbia la mano sui bottoni, di mostrarsi intelligente, mi pare imperdibile. Ma novanta su cento avrà la coscienza tranquilla, perdendola. Tuttavia, senza mendicare con il piattino, l’aiuto di ipotetici privati mecenofili non lo respingerei. La modicità della spesa, secondo i miei algoritmi mentali, sarebbe considerevole. Ma nessuno di noi teatranti e girovaghi vive di solo Prana.

Cultura, disperato amore mio.1

1 Lo spettacolo, con meraviglioso esito, è andato in scena per il Piccolo al Teatro Grassi di Milano nel giorni 3-4-5 ottobre 2014. Nessun teatro straniero europeo lo ha richiesto.

 

Tratto da: Guido Ceronetti, Tragico Tascabile

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Franco La Cecla

21 Settembre 2022

Oggi prevale una ideologia della bigness che vede nell’ingrandirsi delle città la promessa di un mondo di città globali che donerebbero al resto della società un effetto di «prosperità». Se si leggono i report di Un-Habitat sulle città africane, asiatiche o dell’America Latina, o anche i report generali sulla condizione urbana, la parola prosperity è quella che si rintraccia piú spesso. Ma a leggerli poi in profondità si capisce che è una pia illusione. Nulla dimostra che in effetti all’ingigantimento delle città corrisponda un miglioramento della condizione dei loro abitanti. Quello che invece è chiaro è che la povertà mondiale si sta concentrando nelle città. E non è detto che i poveri di città stiano meglio di quelli della campagna. Dipende dalle politiche del Fondo monetario internazionale o della Banca mondiale o dai pretesi aiuti internazionali oppure dipende dalla rapina di terre, dal landgrabbing delle multinazionali dell’olio di palma, e dalle varie De Rica e Del Monte. Ma poi in città per i poveri e poverissimi le condizioni igieniche e di affollamento non sono certamente di prosperity. Questa parola è azzeccata perché parla di un futuro e non di un presente. È una promessa, non un’evidenza. I report che si basano su proiezioni per il 2050 promettono un futuro di città globali e un inurbamento del pianeta. Oggi siamo al 50 per cento ma è una media mondiale e non è vero che interi continenti siano urbanizzati, non lo sono l’Asia e l’Africa dove la dimensione rurale è ancora importantissima e in molti casi preponderante. Ovviamente è una dimensione minacciata.

Dietro l’idea di urban prosperity sta l’incapacità degli organismi internazionali di mettere in questione la contrazione dell’agricoltura di sussistenza a opera delle multinazionali. Il mondo si urbanizzerà se ai contadini del mondo verrà impedito di vivere sulla propria terra. Non si capisce perché i «trend» osservati da Un-Habitat non debbano portare a politiche di correzione invece che ad auspicare un mondo tutto urbano. Una pericolosa ideologia si annida dietro la parola urban prosperity ed è della stessa natura di chi pensa che il futuro stia in una rete di città mondo, come se l’agricoltura e la produzione di cibo non fossero altrettanto essenziali per la prosperity e come se nelle campagne fosse impossibile un modello di cultura e di vita di tipo differente da quello delle città ma altrettanto radicato nella storia umana e capace di produrre cultura e società.

La stessa idea di città globali cozza contro il fatto che crescono piuttosto le piccole e medie città, ma anche lí non dappertutto. Nei report internazionali sulle città sembra che interi paesi ormai vivano solo di aria o di trickle down urbano dei benefici (?) indiretti dell’espansione urbana, come se nessuno producesse piú niente da mangiare. In realtà se si va un po’ in giro per i continenti, a fronte delle devastazioni provocate dalle multinazionali dell’agricoltura, resiste un vastissimo bacino di piccoli coltivatori, contadini di risaie, gestori di orti, piccoli allevatori, agricoltori piú o meno organizzati in montagna come a valle che vivono in campagna come se fosse la sistemazione migliore, non solo dal punto di vista della sussistenza, ma anche da quella del sistema culturale a cui si appartiene. È impossibile pensare a un indigeno di Toraja3 senza le sue risaie, come è impossibile pensare a un montanaro peruviano senza i suoi campi di patate. Il problema è che abbiamo un’immagine dell’agricoltura di sussistenza tutta legata all’emergenzialità delle Ong e delle organizzazioni internazionali. Moltissimi piccoli e medi insediamenti sono costituiti (ad esempio in Indonesia) da famiglie che hanno una casa adiacente ai campi e allineata con altre case simili. Sono queste le classi medie «rurali» di cui si parla pochissimo.

Il problema è che l’urbanistica delle organizzazioni internazionali è la schiava delle statistiche, anzi di quelle strane cose che sono le proiezioni. Sembra che tutta la sua scienza sia legata a come leggere trend e percentuali e a una fiducia cieca nel calcolo delle probabilità. Unica disciplina rimasta a credere all’aspetto logaritmico dei fenomeni sociali, rimane l’ancella di quelli che «ne sanno di piú», cioè dei profeti della globalizzazione oggi come dei sacerdoti dello sviluppo ieri. Sembra che non sia stata intaccata da dubbi di sorta.

Ammettiamo che il mondo si stia avviando a diventare tutto urbano. Se la realtà non è un valore, ma un dato di fatto, allora di fronte a una simile eventualità l’urbanistica potrebbe inventare politiche e progetti che vadano in una direzione diversa. Non è la prima volta, per altro, e non è un caso che oggi sia proprio la Cina a guardare preoccupata il proprio futuro urbano e a correre ai ripari con politiche molto restrittive rispetto all’inurbamento del mondo rurale. Certo occorrerà che la prosopopea cinese di questi ultimi anni rispetto alla bigness faccia una chiara marcia indietro e soprattutto occorrerà invertire lo stigma che negli ultimi due decenni ha colpito la classe contadina, colpevole di non «arricchirsi» e di non consumare. Per la Cina è una questione essenziale, proprio perché la devastazione dell’ambiente e delle campagne sta arrivando a un punto di non ritorno e la vertigine del possedere finalmente grandi città mondiali come Shanghai, Shenzhen, Pechino e Hong Kong non regge piú i costi che deve pagare.

Quel che stupisce nei documenti di Un-Habitat sull’urbanizzazione è che sono soggetti a una vera e propria schizofrenia. Da un lato c’è la promessa di prosperità legata al crescere delle città, dall’altro c’è lo «spettro» degli slums. Vedremo come la maniera con cui gli slums sono stati trattati negli ultimi cinquant’anni dalle organizzazioni internazionali rivela una incapacità di giudizio rispetto ai pro e i contro dell’urbanizzazione. Ma facciamo un passo indietro. Cosa c’è nascosto nell’auspicio di Habitat, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa di insediamenti umani, che il futuro tutto urbano del mondo arrechi prosperità?

Già la copertina del report Un-Habitat sullo «Stato delle città del mondo 2013-2014» denuncia un partito preso. Una ruota a cinque bracci porta sulla sua circonferenza environmental sustainability, «sostenibilità ambientale», equity and social inclusion, «uguaglianza e integrazione sociale», quality of life, «qualità di vita», infrastructure, «servizi, infrastrutture», e productivity, «produttività». Al centro di queste virtú cardinali c’è l’effetto proposto, prosperity.

Per capire cosa c’è dietro occorre tornare al dibattito sulle città globali lanciato in qualche modo da Saskia Sassen negli anni novanta. La Sassen, analizzando tre grandi città mondiali, Tokyo, New York e Londra, lanciava l’idea di città globale (avrebbe aggiunto Seoul, Shanghai, Pechino e altre), città che sostituiscono come poli economici e politici le nazioni e che costituiscono una rete interconnessa di interessi. La sua idea, che ebbe un immediato successo, è che il futuro del mondo è legato al destino e alla crescita di queste città globali. Data la sua influenza all’interno del dibattito degli organismi internazionali, la globalità urbana diventa uno degli indici di sviluppo di un paese. Se un paese ha almeno una città globale, una world city, è destinato a crescere e a dare prosperità. Perfino la Comunità europea, in un continente dove le città si stanno contraendo e non espandendo, ha deciso di finanziare solo i progetti di aree metropolitane in espansione. Le conseguenze sono comiche. Per avere un finanziamento, Caltanissetta, Enna e Agrigento fanno finta di essere un’unica area metropolitana5. Già dieci anni dopo la Sassen si corregge e ammette che la devolution delle nazioni è ancora lontana e che forse un mondo fatto di città globali è da venire. Non importa. Le fanno coro i fautori della bigness, tra cui il sempre presente Rem Koolhaas che vede nella bigness il senso di uno sviluppo inarrestabile del capitale per cui alla fine è costretto – poverino – a lavorare. Dice che i cinesi sono realisti perché hanno capito che è nello sviluppo abnorme delle loro città che si nasconde il segreto della loro molla inarrestabile. La bigness percorre il mondo e si accompagna a qualcosa di meno eclatante ma forse molto piú sottile. Impero di Negri e Hardt6 dà l’occasione ai cultori della radical politics di allinearsi con il verbo della bigness. Cosa c’è di piú grande di un impero, di un capitale che è diventato mondiale e che si manifesta come un organismo unico? Nel frattempo in California una strana deriva del neodarwinismo crea un pensiero che fa da sostrato ad alcuni balzi in avanti della tecnologia e della rete. La rete, il web diventa nel pensiero di personaggi come Raymond Kurzweil, Stewart Brand, Kevin Kelly7 un organismo vero e proprio, ed essi passano presto da posizioni di militanza ecologista a una riformulazione del pensiero liberale in chiave neodarwinista. Il sistema capitalista, rielaborato e fortificato dall’organismo informatico tecnologico, è un organismo autopoietico, supera le ragioni individuali e qualunque tentativo di imbrigliamento. È una vera seconda natura. La distinzione tra natura naturans e natura naturata che Gregory Bateson8 riprendeva da Bacone (Bateson era parte del mondo californiano degli anni ottanta) in Mente e Natura non ha piú senso. La «Mente», sia essa l’immenso web, o il sistema capitalistico, o la Globalizzazione e con essa le città globali, diventa natura nel senso piú stretto del termine. È qualcosa out of control, come dirà Kevin Kelly. Bisogna accettare i tempi e i modi con cui questa natura si evolve e si autoregola. Inutile contrastarla. Se ci si adegua si può arrivare a tutto, a una tecnologia che aiuti l’umanità ad affrancarsi perfino dalla morte. Kurzweil fonda un’istituzione che lavora all’immortalità, raggiungibile sconfiggendo deperimento e malattie. È la biologia applicata al capitale che dà vita a un neoliberismo che non ha i caratteri del cappello a cilindro del cattivo di Wall Street, ma quello del guru della Silicon Valley che va in bicicletta e fa fondazioni filantropiche.

In questa onda la città non ha piú bisogno di una campagna né di una natura dove vengano prodotte le risorse per la sua sopravvivenza. La città è un organismo che si autoregola, per quanto possano sembrare crudeli le sue movenze e i suoi scarti. Nella sua globalità si spiegano gli slums e la nuova povertà, i derivati e perfino le manifestazioni di strada. Essa entra a far parte del sano realismo di chi guarda a un futuro di prosperità.

Bisogna dire che questo nuovo organicismo in parte è pura ideologia, self-fulfilling prophecy, pubblicità che un sistema che non è per niente globale (e per nulla nuovo, visto che la mondializzazione è un fenomeno che appare continuamente nella storia) fa a se stesso per convincere che non c’è via di scampo. In parte è invece un salto in avanti del pensiero neoliberale, una sua solidificazione in un universalismo che prende in prestito l’olismo dall’ecologia degli anni ottanta.

Google, Facebook, Amazon, Twitter sono i suoi quattro cavalieri dell’Apocalisse, disposti ad accompagnarci fino all’eternità. Le città ne sono l’ovvio corollario universalista, sennò perché chiamarle globali, città che promettono di essere puri hub dell’ubiquità, porte di accesso a una geografia smaterializzata.

La realtà è un bel po’ differente. Invece di essere frutto di una logica inesorabile dell’organismo globale, quello che sta accadendo al rapporto città/campagna proviene da scelte ben precise. Le campagne vengono sottratte a un uso finalizzato a sfamare chi le abita e il paese che le circonda. Gli agricoltori vengono espulsi da politiche che privilegiano le multinazionali dei semi e dei pesticidi. Si inserisce qui l’inutile dibattito sugli Ogm.

Perfino la Banca mondiale se n’è resa conto. Si può leggere al riguardo il rapporto del 2008 dell’International Assessment of Agricultural Science and Technology for Development (Iaastd), elaborato dalla Banca mondiale e dalle Nazioni Unite, che rappresenta la prima valutazione scientifica di carattere globale sull’agricoltura. Redatto da oltre 400 scienziati provenienti da tutto il mondo, il rapporto ritiene che gli Ogm non giochino nessun ruolo utile per raggiungere i Millennium Development Goals o sradicare la fame nel mondo. Ecco alcune ragioni:

– la soia Ogm resistente a un erbicida attualmente commercializzata produce raccolti fino al 10 per cento inferiori rispetto alle varietà tradizionali;

– fluttuazioni estreme delle temperature hanno causato perdite nei raccolti di cotone Ogm in Cina;

– tutte le colture Ogm, anche quelle sviluppate dalle istituzioni di ricerche governative, sono controllate attraverso i brevetti da poche aziende multinazionali. I brevetti aumentano drammaticamente il costo delle sementi. Negli Stati Uniti, il prezzo dei semi del cotone transgenico è quadruplicato nel corso degli ultimi dieci anni.

Le tecniche di riproduzione convenzionali, sia tradizionali sia moderne, hanno un ruolo fondamentale per ottenere soluzioni di lungo termine per la crisi alimentare. Aumentano la capacità delle piante di resistere alle imprevedibili e diverse modifiche del tempo dovute ai cambiamenti climatici.

Scelte ben precise stanno alla base dello svuotamento delle campagne, ad esempio la produzione di idrocarburi che sostituiscano il petrolio in via di sparizione. Nel 2007 gli Stati Uniti hanno trasferito 54 milioni di tonnellate di mais alla produzione di bioetanolo e l’Unione europea ha utilizzato 2,85 milioni di ettari per produrre olio di colza e altre colture per biocarburanti. Se la stessa superficie fosse stata destinata alla coltivazione di mais e grano per fini alimentari, si sarebbe raccolta una cifra stimata di 68 milioni di tonnellate di cereali, quantità sufficiente a nutrire 373 milioni di persone per un intero anno – abbastanza per nutrire le popolazioni dei 28 paesi meno sviluppati dell’Africa messi assieme. La corsa ai biocarburanti nei mercati internazionali sta sottraendo terreno agricolo alla produzione di cibo e contribuisce all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari di prima necessità, rendendo i cereali molto piú costosi. Inoltre, sta contribuendo alla distruzione della foresta pluviale, processo che va ad alimentare i cambiamenti climatici.

La speculazione sulle materie prime è un altro fattore collegato all’aumento del costo del cibo, perché gli speculatori, che si sono allontanati da altri mercati in caduta, si stanno sempre piú arricchendo sui prezzi futuri delle materie prime. La domanda crescente di carne, come conseguenza della diffusione e dell’assimilazione della dieta del mondo occidentale, sta sottraendo cereali alle persone per nutrire bestiame. Si stima che se il 50 per cento della popolazione che vive nei paesi Ue e negli Stati Uniti sostituisse la metà della media annuale di consumo di carne con proteine vegetali, i cereali che non sarebbero piú destinati all’alimentazione del bestiame basterebbero a nutrire la metà delle popolazioni denutrite presenti nel mondo.

I cambiamenti climatici influenzeranno sempre piú l’agricoltura a livello mondiale. La sicurezza alimentare, in particolare nei paesi piú poveri, è minacciata dai cambiamenti imprevedibili delle precipitazioni e dai sempre piú frequenti eventi climatici estremi. Inoltre, l’agricoltura intensiva contribuisce ampiamente alle emissioni di gas serra, sia direttamente – ad esempio a causa dei fertilizzanti – sia indirettamente come risultato della distruzione delle foreste.

La strategia piú efficace per adattarsi ai cambiamenti climatici è un’agricoltura che punti sulla biodiversità. Dati provenienti dalle diverse parti del mondo dimostrano inequivocabilmente che unire differenti colture e varietà rappresenta un metodo affidabile per aumentare la resistenza agli improvvisi fenomeni metereologici legati ai cambiamenti climatici10.

Di tutto questo si dice ben poco nei report di Un-Habitat. L’urbanizzazione è un «trend» mondiale inarrestabile. Chi lo contrasta un reazionario anti-urbano. La miopia dei report è talmente acuta che c’è un gap tra le relazioni di Un-Habitat e i piú recenti studi degli stessi organismi internazionali sugli effetti della urbanizzazione sul cambiamento climatico.

L’altra miopia è nei confronti del peso che ancora in tutto il globo ha l’agricoltura di sussistenza e dei piccoli agricoltori. L’agricoltura è di gran lunga l’attività piú esercitata al mondo. Nonostante la tendenza globale all’urbanizzazione abbia fatto declinare la percentuale di piccoli agricoltori rispetto alla popolazione globale, il loro numero in assoluto è ancora in aumento e si stima che includa approssimativamente 2,6 miliardi di persone e cioè il 40 per cento della popolazione mondiale. Sono i piccoli agricoltori a produrre gran parte del cibo consumato nel mondo. La grande maggioranza di essi coltiva meno di due ettari in aree rurali ma anche intorno o dentro le città stesse. Il loro numero e la loro percentuale rispetto alla popolazione totale varia sostanzialmente paese per paese ed è molto alta nelle regioni asiatiche e africane afflitte dalla fame. I piccoli agricoltori occupano intorno al 60 per cento della superficie arabile nel mondo e contribuiscono in maniera consistente alla produzione globale di cibo. In Africa il 90 per cento della produzione agricola deriva da piccole aziende. Se un’alta percentuale della popolazione rurale è impegnata in agricoltura e ne trae il proprio sostentamento in piccoli appezzamenti di terra, l’intero settore è orientato alla sussistenza, cosa che rende le famiglie implicate molto suscettibili alle variazioni dovute a malattie, invasioni di insetti o roditori o ai cambiamenti climatici, ma anche a fattori indiretti come le fluttuazioni del mercato e la presenza o meno di infrastrutture.

L’agricoltura a piccola scala e di sussistenza è stata percepita tradizionalmente come arretrata e trascurata da coloro che decidono le politiche agricole, le istituzioni e l’accademia. Gli investimenti di sostegno a questo tipo di agricoltura sono progressivamente diminuiti negli ultimi decenni fino a raggiungere quote irrilevanti. Con una bassa accessibilità e un potere minimo di acquisto, i piccoli agricoltori e le comunità di piccoli agricoltori non sono partner attraenti per il moderno agrobusiness e sfuggono perfino alle statistiche dei dipartimenti governativi, rendendo lo scenario generale da questi riportato pieno di assunti e parametri falsi.

KUALA LUMPUR. MALESIA.

Capitalismo sudato. Arrivando qui dalla piú povera Indonesia si capisce la differenza tra alcuni «parametri» orientati ancora verso una visione locale dei problemi e delle opportunità e i parametri che vengono invece istruiti da «altrove». Kuala Lumpur è investita da quella furia che si chiama adeguamento alle world class cities. Come viene espresso in un libretto prodotto a spese della municipalità, per fare diventare Kuala Lumpur una città adeguata agli standard mondiali occorre risolverne alcuni problemi: congestione, igiene, e soprattutto un grande appeal come brand. Per questo la città ha lasciato il campo a un trust di imprese perché costruisse un grande centro direzionale che diventi anche un simbolo. In cambio del diritto a costruire due torri, le piú alte della città, il trust offriva la trasformazione in parco di un pezzo di giungla circostante. Le torri sono state affidate all’architetto César Pelli che ha fatto una specie di Sagrada Familia di cento piani con le due torri collegate da un inutile ponte – per giunta sostenuto da due grucce. Ma la città ha avuto il suo simbolo. Adesso questo è il logo di Kuala Lumpur. Un grattacielo in mezzo ad altri in una città che non ha risolto ma anzi ha complicato i problemi del traffico e soprattutto una soluzione tipicamente «anti-tropicale» in un magnifico posto tropicale. Qui diventare world class city significa offrire a estranei, investitori, turisti, personale internazionale e nuovi ricchi locali merci che non vengono prodotte qui ma che fanno somigliare gli shopping mall dentro le nuove torri a qualunque altro shopping mall del mondo, Mark&Spencer, Dolce&Gabbana, Prada, Kiel’s, Sony, Starbucks. E all’esterno coprire la città di cemento, per nascondere sotto il tappeto il fatto che siamo in una città tropicale. Un tappeto di sopraelevate, ambiziose monorotaie e nuovi enormi monumenti alla nazione islamica, immense moschee, cipolloni colorati e minareti altissimi. Questa città astratta non c’entra con i fiumi che l’attraversano (che vengono incanalati brutalmente) e non c’entra con la giungla, che viene tenuta il piú possibile in disparte e offerta come «distrazione». Il risultato è una distanza dalla realtà che proietta la città tra i requisiti del jet set internazionale ma la allontana dalla risposta alle questioni e alle opportunità locali. Qui la povertà è quella tragica della miseria urbana e dell’anonimato totale di chi dorme sui marciapiedi e delle zone «popolari» come Chinatown o Indian town, dove si ritaglia la vita di strada che è una caratteristica dell’Asia tropicale. Questi fazzoletti diventano però qualcosa di nuovo rispetto al passato. Nelle città asiatiche la vita di strada e l’organizzazione dello spazio prevede una informalità, un’invasività di alberi, polvere, un vivere tra dentro e fuori le case che detta un tono generale a tutta la città. Sono città in cui il costruito ha una provvisorietà che gli consente mille adattamenti climatici e funzionali. Qui il cemento invece spegne ogni possibilità di adeguamento alle logiche del presente e del locale. La gente, che in genere nelle città asiatiche è protagonista qui diventa folla anonima, schiacciata dalle pretese del consumo internazionale e in concorrenza con esso, offrendo merci taroccate, prostituzione e ristorazione «esotica» a prezzi stracciati. Anche il carattere «cosmopolita» della città si rivela qualcosa di astratto. In città come Kuala Lumpur prevale la logica della separazione in spazi contigui, indiani da una parte, cinesi dall’altra, malesi dall’altra ancora. Nel libretto pubblicato dalla municipalità si accenna al grande successo nella rilocazione di uno slum che stava dentro al centro. Sempre nella logica dell’impresa privata, il comune ha affidato un terreno da urbanizzare a un gruppo di imprese a patto che costruissero anche abitazioni dove rilocare gli abitanti dello slum. Nella stessa logica ha affidato a una ditta esperta di governance le procedure per rilasciare licenze edilizie alle imprese. Qui, come nelle città «classe mondo», tutta la speranza delle imprese pubbliche sembra essere riposta nel mattone. Kuala sta diventando un centro finanziario importante e soprattutto un centro della finanza islamica. Attrae un turismo ricco dai paesi arabi che cerca di vivere qui, a prezzi inferiori e con un clima molto piú umido, quello che è per molti ormai irraggiungibile a Dubai.

 

 

 

Tratto da Franco La Cecla, Contro l’urbanistica, La cultura delle città, Giulio Einaudi Editore

 

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Tomaso Montanari

19 Settembre 2022

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