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LESSICO NATURALE

104 years

20 Gennaio 2017

When I look back I think the world is perverse and life is no joke.

Life is short, it lasts only a moment.

The longer you live, the greater the suffering you go through. As soon as we begin to take a direction, to mature, it is already time to say goodbye to family and friends.

I think that life is, ultimately, an experience that is lived against evil, counteracting evil.

How you do it? By setting a series of principles.

In my case, the battle for what I have always considered right: equality. Precisely because the suffering of others is also ours and we are part of the world. In all cases, the result is always the same: in the end it disappears. Life is a breath. For this you have to learn to cross it in a decent way. Cultivate their own ideas, their own principles, which are like pillars, and carry them with us for the rest of life. This is the great challenge.

We are a bit like a house, we are born with a pre-established design: we grow one step at a time and we can also change, albeit only superficially. Like a house, we can then also be repaired, replacing a door, repainting the walls, but the most attentive will always find the original defects.

I feel saudade of the many passages of my life. Of the time of the college and then of the school of architecture, which in my day was the School of Architecture and Fine Arts. And then of the first loves, of the life that one led as a young man, drinking with friends, playing football, traveling. Above all friendship, which is the most important thing, a good to be preserved and cultivated.

At home we had the piano, and Vinícius de Moraes, Antonio Carlos Jobim, Ary Barroso, and that fantastic figure that is Chico Buarque came to visit us. When I saw him for the first time, Chico was a child because I was a friend of his father, the great historian Sergio Buarque de Hollanda: I designed a house for them, which however was not built, and it was a great regret. Jorge Amado was my friend, and so was Manuel Bandeira, an enormous poet. But how many friends! There is no one left!

Together with Darcy Ribeiro, an extraordinary man, and Leonel Brizola, we created the Cieps Popular Schools project, a work of which I am proud, although I think I could have done more for the people, for the people. Sometimes I think my mission has not been fulfilled!

All my friends ended up exiled because they were political opponents, Brizola stayed in France for a long time, like me. I lived in an apartment on Boulevard Raspail near Saint-Germain, and Paris welcomed me, I went to Jean-Paul Sartre, whom I have always admired and read. I was influenced by his thinking, his pessimism in the face of the pain and suffering of the world.

But I couldn’t stay away from here for too long, from the sea, from Copacabana: I can only live near the sea. I felt saudade from friends, from cariocas.

I was born here.

I remember that, when I returned from school – in short, I was a child – I ate and then immediately went out to play football on the street, until dinner time. The table was large, my grandparents sat at the head of the table, we, the younger ones, on one side and the uncles on the other. We have to imagine a large colonial house full of people and rules: we were six children and we had to sit at the table dressed in full clothes, jacket and cuffs.

I was studying in a religious college, strict, and when something was done wrong the fathers ordered us to write a hundred or two hundred times “I must not speak in class!”, And sometimes I was expelled, and so I went around, I went for a walk. I have always loved walking, walking by the sea, on the beach.

As a child I used to go all the way to Ipanema to see fishermen returning with full nets, women who went to buy fish at dawn, and fresh fish jumping out of their nets! What an impression! The sea has been my guide: I’ve always thought that a place to live is near the sea.

Of course, today I can’t move alone anymore, I always have to ask someone for help, even to go from here to there, and it’s not nice, it’s shit! But what can I do about it?

Patience!

 

Taken from: Oscar Niemeyer, The world is unfair

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104 anni

20 Gennaio 2017

Quando mi guardo alle spalle penso che il mondo è perverso e la vita non è uno scherzo.

La vita è breve, dura il tempo di un attimo.

Quanto più si vive, più grande è la sofferenza a cui si va incontro. Non appena si comincia a prendere una direzione, a maturare, già arriva il momento di dire addio alla famiglia, agli amici.

Penso che la vita è, in definitiva, un’esperienza che si vive contro il male, contrastando il male.

Come si fa? Fissando una serie di principi.

Nel mio caso, la battaglia per ciò che ho sempre ritenuto giusto: l’uguaglianza. Proprio perché la sofferenza degli altri è anche la nostra e noi siamo parte del mondo. In tutti i casi, il risultato è sempre lo stesso: alla fine si sparisce. La vita è un soffio. Per questo bisogna imparare ad attraversarla in modo decente. Coltivare le proprie idee, i propri principi, che sono come pilastri, e portarli con noi per il resto della vita. Questa è la grande sfida.

Siamo un po’ come una casa, nasciamo con un disegno prestabilito: cresciamo un passo alla volta e possiamo anche modificarci, sebbene solo superficialmente. Come una casa, potremo poi anche essere aggiustati, sostituendo una porta, riverniciando le pareti, ma i più attenti ritroveranno sempre i difetti originali.

Sento saudade dei tanti passaggi della mia vita. Del tempo del collegio e poi della scuola di architettura, che ai miei tempi era la Scuola di Architettura e Belle Arti. E poi dei primi amori, della vita che si faceva da giovani, bere con gli amici, giocare a pallone, i viaggi. Soprattutto l’amicizia, che è la cosa più importante, un bene da preservare e coltivare.

In casa avevamo il pianoforte, e venivano a trovarci Vinícius de Moraes, Antonio Carlos Jobim, Ary Barroso, e quella figura fantastica che è Chico Buarque. Quando l’ho visto la prima volta, Chico era un bambino perché io ero amico di suo padre, il grande storico Sergio Buarque de Hollanda: progettai una casa per loro, che però non si fece, e fu un grande rimpianto. Jorge Amado era mio amico, e così Manuel Bandeira, enorme poeta. Ma quanti amici! Non c’è più nessuno!

Insieme a Darcy Ribeiro, un uomo straordinario, e a Leonel Brizola, creammo il progetto delle Scuole popolari Cieps, un’opera di cui sono orgoglioso, anche se penso che avrei potuto fare di più per la gente, per il popolo. A volte penso che la mia missione non si è compiuta!

Tutti i miei amici finirono esiliati perché erano oppositori politici, Brizola restò in Francia a lungo, come me. Io vissi in un appartamento di Boulevard Raspail vicino a Saint-Germain, e Parigi mi accolse, frequentai Jean-Paul Sartre, che ho sempre ammirato e letto. Mi ha influenzato il suo pensiero, il suo pessimismo di fronte al dolore e alla sofferenza del mondo.

Ma non riuscivo a stare per troppo tempo lontano da qui, dal mare, da Copacabana: io posso vivere soltanto vicino al mare. Sentivo saudade degli amici, dei carioca.

Io sono nato qui.

Ricordo che, quando tornavo da scuola – ero insomma un bambino – mangiavo e poi subito uscivo a giocare a pallone per strada, fino all’ora di cena. La tavola era grande, i miei nonni si sedevano a capotavola, noi, più piccoli, da una parte e gli zii dall’altra. Bisogna immaginare una grande casa coloniale piena di gente e di regole: eravamo sei figli e bisognava sedersi a tavola vestiti di tutto punto, giacca e polsini.

Studiavo in un collegio religioso, severo, e quando si faceva qualcosa di sbagliato i padri ci ordinavano di scrivere cento o duecento volte “io non devo parlare a lezione!”, e a volte venivo espulso, e così andavo in giro, andavo a zonzo. Mi è sempre piaciuto molto camminare, camminare in riva al mare, sulla spiaggia.

Da bambino andavo fino a Ipanema a vedere i pescatori che tornavano con le reti piene, le donne che all’alba andavano a comprare il pesce, e il pesce fresco che saltava fuori dalle reti! Che impressione! Il mare è stato la mia guida: ho sempre pensato che un posto dove vivere è vicino al mare.

Certo, oggi non posso più muovermi da solo, devo sempre chiedere aiuto a qualcuno, anche per andare da qui a lì, e non è bello, anzi è una merda! Ma cosa ci posso fare?

Pazienza!

 

Tratto da: Oscar Niemeyer, Il mondo è ingiusto

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Induismo

2 Dicembre 2016

Per comprendere una qualsiasi delle filosofie che ora verranno descritte è importante rendersi conto che esse sono di natura essenzialmente religiosa. Loro scopo principale è l’esperienza mistica diretta della realtà, e poiché questa esperienza è per sua natura religiosa, esse sono inseparabili dalla religione. Più ancora che per qualsiasi altra tradizione orientale, ciò è vero per l’Induismo, nel quale il legame tra filosofia e religione è particolarmente forte. E stato detto che in India quasi tutte le forme di pensiero sono, in un certo senso, di tipo religioso e che l’Induismo non’ solo ha influenzato per molti secoli la vita intellettuale dell India, ma ne ha anche determinato quasi completamente la vita sociale e culturale.

L’Induismo non può essere indicato come una filosofia, e non è nemmeno una religione ben definita. È piuttosto un ampio e complesso organismo socio-religioso formato da un gran numero di sette, di culti e di sistemi filosofici che comprendono vari rituali, cerimonie e discipline spirituali, come pure il culto di innumerevoli divinità maschili e femminili. Le molte sfaccettature di questa tradizione spirituale complessa; tuttora viva e potente, rispecchiano la complessità geografica, razziale, linguistica e culturale del vasto subcontinente indiano. Le manifestazioni dell’Induismo vanno da filosofie di grande valore intellettuale, che comportano concezioni di straordinaria portata e profondità, fino ai rituali più semplici e ingenui seguiti dalle masse. Benché gli Indù siano in maggioranza semplici contadini che mantengono viva la religione popolare nella pratica quotidiana del culto, l’Induismo ha prodotto un gran numero di eminenti maestri spirituali per trasmettere le sue profonde intuizioni.

La fonte spirituale dell’Induismo sono i Veda, una raccolta di antiche scritture redatte da anonimi saggi, i cosiddetti « veggenti » vedici. Esistono quattro Veda, il più antico dei quali è il Rg-veda. Scritti in sanscrito antico, il linguaggio sacro dell’India, i Veda sono tuttora la massima autorità religiosa per la maggior parte delle scuole dell’Induismo. In India, qualsiasi sistema filosofico che non accetti l’autorità dei Veda è considerato non ortodosso.

Ognuno di questi Veda è costituito da numerose parti che furono composte in periodi diversi, probabilmente tra il 1500 e il 500 a.C. Le parti più antiche sono inni sacri e preghiere; quelle successive trattano i rituali sacrificali connessi con gli inni vedici; l’ultima parte, infine, costituita dalle Upanisad, ne sviluppa il contenuto filosofico e pratico. Le Upanisad contengono l’essenza del messaggio spirituale dell’Induismo e hanno guidato e ispirato negli ultimi venticinque secoli le più grandi menti dell’India, in armonia con il consiglio racchiuso in questo brano:

« Avendo afferrato come un arco quella grande arma che è l’arcano insegnamento (Upanisad), incocca in esso la freccia acuita dalla meditazione: avendolo tratto mediante lo spirito concentrato nella meditazione dell’Essere, riconosci questo indefettibile come il bersaglio da colpire, o mio caro »

Tuttavia le masse indiane non hanno ricevuto l’insegnamento dell’Induismo attraverso le Upanisad, ma attraverso un gran numero di racconti popolari raccolti in lunghi poemi epici, che sono la base della vasta e pittoresca mitologia indiana. Uno di questi poemi, il Mahābhārata, contiene il bellissimo poema spirituale della Bhagavad Gītā, il testo religioso più amato di tutta l’India. La Gita, come comunemente viene chiamata, è un dialogo tra il dio Krsna e il guerriero Arjuna, il quale si trova in uno stato di grande disperazione, essendo obbligato a combattere i suoi stessi parenti nella grande guerra familiare che costituisce la vicenda principale del Mahābhārata. Krsna, travestito da auriga di Arjuna, conduce il cocchio esattamente tra i due eserciti e in questo drammatico scenario del campo di battaglia comincia a rivelare ad Arjuna le verità più profonde dell’Induismo. Mentre il dio parla, lo sfondo realistico della guerra tra i due clan familiari si dissolve rapida- mente e risulta chiaro che la battaglia di Arjuna è la battaglia spirituale dell’uomo, la battaglia del guerriero in cerca dell’illuminazione. Krsna stesso fa ad Arjuna questa raccomandazione:

« Quindi, colla spada della conoscenza, recidi questo dubbio che ti siede nel cuore, nato dall’ignoranza. Raggiungi con lo yoga l’unità dell’armonia e sorgi, o Arjuna!».l

Il fondamento del messaggio spirituale di Krsna, come di tutto l’Induismo, è l’idea che la moltitudine di cose e di eventi che ci circondano non siano altro che differenti manifestazioni della stessa realtà ultima. Questa realtà, chiamata Brahman, è il concetto unificante che dà all’Induismo il suo carattere essenzialmente monistico nonostante l’adorazione di un gran numero di dèi e di dee.

Brahman, la realtà ultima, è inteso come il vero « sé », l’anima o l’essenza intima, di tutte le cose. Esso è infinito e trascende tutti i concetti; non può essere compreso dall’intelletto né adeguatamente descritto a parole: « il supremo Brahman senza principio, né essere né non essere ».1

E ancora: « imperscrutabile è questo supremo Sé immensurabile, non nato, impensabile, di cui non si può parlare ».2 Tuttavia la gente vuole parlare di questa realtà e i saggi indù, con la loro caratteristica inclinazione per il mito, hanno raffigurato Brahman come una divinità e ne parlano con il linguaggio mitologico. I vari aspetti del Divino hanno ricevuto i nomi delle diverse divinità venerate dagli Indù, ma i testi sacri indicano chiaramente che tutte queste divinità non sono altro che riflessi dell’unica realtà ultima:

« Allorché si dice: “Sacrifica a tale divinità, sacrifica a tale altra divinità!” e così per tutte le divinità singolarmente, si indica una creazione particolare di lui [Brahman]: egli è, in verità, tutti gli dèi ».3

La manifestazione di Brahman nell’anima umana è chiamata Ātman e l’idea che Ātman e Brahman, la realtà individuale e la realtà ultima, siano una sola cosa è
l’essenza delle Upanisad:

« Per quanto si riferisce all”essenza sottile, invece, è da questa che tutte sono animate; essa è lunica realtà, è L’Ātman, e tu stesso lo sei »

Il tema fondamentale ricorrente in tutta la mitologia indù, è la creazione del mondo mediante il sacrificio che Dio fa di se stesso – « sacrificio » nel senso originale di « rendersi sacro » – per mezzo del quale Dio diviene il mondo, che alla fine ridiventa Dio. Questa attività creativa del Divino è chiamata līlā, il gioco di Dio, e il mondo è considerato lo scenario nel quale si svolge il gioco divino. Come la maggior parte della mitologia indù, il mito di līlā ha un forte sapore magico. Brahman è il grande mago che si trasforma nel mondo, compiendo tale impresa con la sua « magica potenza creativa »; questo è anche il significato originario di māyā secondo il Rg-veda. La parola māyā, uno dei termini più importanti della filosofia indiana, ha mutato il suo significato attraverso i secoli. Da « potere » — o « potenza » — dell’attore e mago divino, è giunta a significare lo stato psicologico di chiunque si trovi sotto l’incantesimo di questo gioco magico. Fintanto che confondiamo la miriade di forme della divina līlā con la realtà, senza percepire l’unità di Brahman che sta alla base di tutte queste forme, siamo sotto l’incantesimo della māyā.

Māyā, perciò, non significa che il mondo è un’illusione, come spesso viene erroneamente affermato. L’illusione, semplicemente, si trova nel nostro punto di vista, se pensiamo che le forme e le strutture, le cose e gli eventi attorno a noi siano realtà della natura, invece di comprendere che sono concetti della nostra mente la quale misura e classifica. Māyā è l’illusione che deriva dallo scambiare questi concetti per realtà, dal confondere la mappa con il territorio.

Nella concezione indù della natura, quindi, tutte le forme sono relative, maya fluida e continuamente mutevole, evocata dal grande mago del gioco divino. Il mondo della māyā cambia continuamente, perché la divina līlā è un gioco ritmico, dinamico. La forza dinamica di questo gioco è il karman, un altro importante concetto del pensiero indiano. Karman, che significa « azione », è il principio attivo del gioco, è l’universo intero in azione, dove tutto è dinamicamente connesso con tutto il resto. Per usare le parole della Gītā « Karman è la forza creatrice che dà origine all’esistenza degli esseri ».

Il significato di karman, come quello di māyā, è stato trasferito dal livello cosmico originario a un livello più basso, quello umano, nel quale ha acquisito un significato psicologico. Finché la nostra concezione del mondo è frammentata, finché siamo sotto l’incantesimo della māyā e pensiamo di essere separati dal nostro ambiente e di poter agire indipendentemente da esso, noi siamo legati dal karman. Essere liberi dal legame del karman significa comprendere l’unità e l’armonia di tutta la natura, compreso l’uomo, e agire di conseguenza. Su questo punto la Gita è molto chiara:

Tutte le azioni avvengono per l’intrecciarsi delle forze della natura; (ma) colui che è traviato dal sentimento del proprio ego pensa: “sono io colui che fa”.

« Ma colui che conosce il rapporto fra le forze della natura e le azioni vede come certe forze della natura agiscono su altre, e non ne diviene schiavo ».1

Essere liberi dall’incantesimo della maya, spezzare i legami del karman, significa comprendere che tutti i fenomeni che percepiamo con i nostri sensi sono parte della medesima realtà. Significa provare concretamente e personalmente che tutto, compreso il nostro stesso io, è Brahman. Questa esperienza è chiamata moksa, o « liberazione », nella filosofia indù ed è la vera essenza del- l’Induismo.

L’Induismo ritiene che esistono innumerevoli vie per la liberazione. Non si aspetta affatto che tutti i suoi seguaci siano in grado di avvicinarsi al Divino nella stessa maniera, e perciò propone concetti, rituali ed esercizi spirituali differenti per differenti modi di consapevolezza. Il fatto che molti di questi concetti o di questi esercizi siano in contraddizione fra di loro non turba minimamente gli Indù, perché essi sanno che Brahman trascende in ogni caso concetti e immagini. Da questo atteggiamento deriva la grande tolleranza e la capacità di assimilazione che caratterizzano l’Induismo.

La scuola più intellettuale è il Vedānta che si basa sulle Upanisad e sottolinea che il Brahman è un concetto impersonale, metafisico, libero da ogni contenuto mitologico. Tuttavia, nonostante il suo livello altamente filosofico e intellettuale, la via di liberazione del Vedanta si differenzia da quella di qualsiasi scuola filosofica occidentale, in quanto comporta una meditazione quotidiana e altri esercizi spirituali finalizzati al raggiungimento dell’unione con il Brahman.

Un altro metodo di liberazione importante e autorevole è noto come yoga, termine che significa « mettere il giogo », « unire », e che indica l’unione dell’anima individuale con il Brahman. Vi sono numerose scuole, o vie », di yoga che comportano alcuni esercizi fisici fondamentali e varie pratiche mentali, destinate a persone di tipo diverso e di differenti livelli spirituali.

Per l’indù comune, il modo più diffuso di avvicinarsi al Divino consiste nel venerarlo nella forma di una divinità personale. La fertile immaginazione indiana ha creato letteralmente migliaia di divinità che compaiono in innumerevoli sembianze. Attualmente, le tre divinità più venerate nell’India sono Śiva, Visnu e la Madre Divina. Siva è uno degli dèi indiani più antichi e può assumere molte forme. E chiamato Maheśvara, il Grande Signore, quando viene rappresentato come la personificazione della pienezza del Brahman, e può anche impersonare molti singoli aspetti del Divino; la sua manifestazione più famosa è quella in cui compare come Natārāja, il Re dei Danzatori. Come Danzatore Cosmico, Siva è il dio della creazione e della distruzione, che con la sua danza sostiene il ritmo senza fine dell’universo.

Anche Visnu appare sotto numerose forme, una delle quali è il dio Krsna della Bhagavad Gita. In generale, la funzione di Visnu è quella di conservare l’universo. La terza divinità della triade è Sakti, la Madre Divina, l’archetipo delle divinità femminili, che nelle sue numerose forme rappresenta l’energia femminile dell’universo.,

Sakti appare anche come moglie di Śiva e i due sono spesso rappresentati in appassionati amplessi nelle splendide sculture dei templi sacri che irradiano una sensualità straordinaria, di un livello totalmente sconosciuto nell’arte religiosa occidentale. Contrariamente alla maggior parte delle religioni occidentali, nell’Induismo non è mai stato represso il piacere sensuale, perché il corpo è sempre stato considerato parte integrante dell’essere umano, non separato dallo spirito. L’indù, pertanto non cerca di controllare i desideri del corpo con la volontà cosciente, ma cerca di realizzarsi con tutto il suo essere, corpo e mente. L’Induismo ha addirittura prodotto una scuola, il Tantrismo medioevale, secondo la quale si cerca l’illuminazione attraverso una profonda esperienza di amore sensuale « in cui ciascuno è entrambi », in armonia con le parole delle Upanisad:

« Come un uomo tra le braccia della donna amata non è più cosciente né del mondo interiore né di quello esteriore, egualmente questo Purusa [spirito], abbracciato dallo Atman spirituale, non sa più nulla né del mondo esteriore né di quello interiore ».1

Siva fu strettamente associato a questa forma medioevale di misticismo erotico, e così pure Sakti e numerose altre divinità femminili presenti in gran numero nella mitologia indù. Questa abbondanza di dee mostra di nuovo che nell’Induismo l’aspetto fisico e sensuale della natura umana, che è sempre stato associato al femminile, è una parte pienamente integrata del Divino. Le dee indù non sono presentate come vergini sacre, ma in amplessi sensuali di meravigliosa bellezza.

La mente occidentale si disorienta facilmente di fronte al numero favoloso di divinità che popolano la mitologia indù nelle loro varie manifestazioni e incarnazioni. Per comprendere come gli Indù riescano a tener conto di una tale massa di dèi dobbiamo essere consapevoli dell’atteggiamento di fondo dell’Induismo secondo cui nella sostanza tutte queste divinità sono identiche. Esse sono tutte manifestazioni della stessa realtà divina, che riflette aspetti differenti dell’infinito, onnipresente e, in definitiva, incomprensibile Brahman.

Tratto da:  Fritjof Capra, Il Tao delle fisica

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Patrimonio artistico e democrazia

4 Novembre 2016

Il più importante repertorio di immagini della prima età moderna – l’Iconologia di Cesare Ripa – contiene un’allegoria della Conservazione il cui senso è che la «durazione» delle cose si può assicurare solo a condizione di una «trasmutazione».
È proprio così: l’ambiente e il patrimonio storico e artistico della nazione italiana dureranno solo se gli italiani «trasmuteranno» la loro mentalità. Per farlo abbiamo bisogno di pensieri diversi, di parole che non siano quelle – fruste, inefficaci, fallimentari – che affondano ogni giorno il discorso pubblico italiano. Di un altro modo per guardare alla funzione della cultura.
Un modo che riprenda le parole e lo spirito della Costituente: e soprattutto che ne riprenda lo sguardo felicemente presbite, e cioè libero dall’angoscia del presente e capace di guardare lontano. È di quel punto di vista che abbiamo disperatamente bisogno se vogliamo rompere l’opprimente stato delle cose nell’Italia di oggi: abbiamo bisogno di uno sguardo pieno di fiducia e di amore, di un progetto carico di futuro.
Per questo non parlerò di ‘beni culturali’, ma di ‘patrimonio’. Il patrimonio non è un’entità amministrativa, né una categoria economica: è, letteralmente, il retaggio dei padri, l’eredità delle generazioni che ci hanno preceduti. È ciò che ci definisce come famiglia, come comunità. «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»: l’articolo 9 della Costituzione si lega all’articolo 1 («la sovranità appartiene al popolo»), perché, conquistando la sovranità, il popolo acquista anche un patrimonio, quello che un tempo era nella disponibilità del re. Così, parlando di patrimonio parliamo di cittadinanza, di sovranità popolare, di uno Stato inteso come comunità. Durante un dibattito televisivo del dicembre 2013, un mio occasionale interlocutore ha esortato gli italiani a «non fidarsi della Pubblica amministrazione», e a fare invece da soli: rimboccandosi le maniche in prima persona per salvare il patrimonio artistico, magari riunendosi in associazioni. Il mio intervento vuole ricordare che esiste già una associazione per la difesa dell’ambiente e del patrimonio storico e artistico della nazione: quella associazione si chiama Repubblica italiana. Difficilmente potremmo inventarcene di migliori: perché solo la Repubblica può permettere al patrimonio di svolgere la sua vera funzione. Che non è assicurare il diletto privato di pochi illuminati volenterosi, ma alimentare la virtù civile, essere palestra di vita pubblica, mezzo per costruire uguaglianza e democrazia sostanziali. E a garantirlo è lo statuto di questa speciale associazione di cittadini: la Costituzione, appunto. L’impegno di ogni cittadino è prezioso: e mai come ora c’è bisogno di un’assunzione di responsabilità in prima persona. Ma il frutto di quell’impegno individuale non può essere la pietra tombale su ogni speranza di esistere come comunità: non possiamo condannarci a mimare ogni giorno il ruolo dello Stato, a ricostruirne malamente le funzioni in una sorta di bricolage personale. Al contrario, l’impegno personale dei cittadini deve aiutarci a riprendercelo, lo Stato. Insieme a quelle per la scuola, l’università e la salute pubblica, la lotta di resistenza per la difesa del patrimonio culturale è uno dei mezzi attraverso i quali dobbiamo riuscire a riportare la Repubblica a res publica.
Sono consapevole che si tratta di un messaggio controcorrente. L’intera scena politica italiana sembra infatti caratterizzata da un unico estremismo: quello antistatale. Così la pensa quel che resta della destra berlusconiana, così il centro post-montiano, così anche ciò che un giorno fu la sinistra, e che oggi si è affidata al neoliberismo ritardatario di Matteo Renzi. Quasi tutti i partiti rappresentati in Parlamento affermano che lo Stato non può essere la soluzione dei nostri problemi, perché esso stesso sarebbe il problema. Paradossalmente, questa convinzione rischia di mettere d’accordo la destra e ciò che era la sinistra: i neoliberisti con i fautori di una visione anti-pubblica del diritto dei beni comuni.

Una simile, radicale, sfiducia nello Stato fu espressa esattamente con quelle parole il 20 gennaio del 1981 da Ronald Reagan, nel discorso di insediamento del suo primo mandato alla Casa Bianca: «In this present crisis, government is not the solution to our problem; government is the problem». Ed è questa la dottrina che ha distrutto, in Europa, ogni idea di giustizia sociale e solidarietà, rimpiazzandola con la «modernizzazione», che è stata la parola d’ordine dell’età di Tony Blair: un’età a cui Renzi si ispira esplicitamente e programmaticamente, e la cui «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, … [è] volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra»1. Luciano Gallino ha spiegato che il primo articolo di questa legge – virtuale, ma ferrea – del mercato dice che «lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio»2. Così – mentre negli Stati Uniti economisti, storici e filosofi come Joseph Stiglitz, Tony Judt o Michael Sandel rilanciano il ruolo dello Stato e un’idea forte di interesse pubblico collettivo – l’Europa e con essa l’Italia sembrano condannarsi a guardare al passato, ripetendone errori e tragedie. Ciò che manca, ovunque si guardi, è un progetto di comunità, un’idea forte di cosa possa essere la Repubblica italiana del futuro, la capacità di render finalmente concreto l’attualissimo disegno contenuto nella Costituzione: quella vera. E questa idea manca perché oggi sembra impossibile avere un’idea dell’uomo che non sia ridotta alla sola dimensione economica. Far evadere il patrimonio culturale dalla prostrazione materiale e morale in cui è stato confinato dal totalitarismo neoliberista significa rimettere in circolo uno dei pochi antidoti a questo dogma. Perché le nostre città, i nostri musei, il nostro paesaggio non contengono solo cose belle: contengono valori e prospettive che possano liberarci, innalzarci, renderci di nuovo umani, restituirci un’idea dell’uomo e un idea di comunità che ci permettano di costruire un futuro diverso.

Testo di Tomaso Montanari

Bibliografia minima

Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Torino 2013

Ernst Gombrich, «Discipline umanistiche sotto assedio. La crisi delle università», in Argomenti del nostro tempo. Cultura e arte nel XX secolo, Einaudi, Torino 1991

Tony Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Bari 2010

Alice Leone, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari, Salvatore Settis,

Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Einaudi, Torino, 2013

Roberto Longhi, Critica d’arte e buongoverno, Sansoni, Firenze 1985

Ugo Mattei, Contro riforme, Einaudi, Torino 2013

Tomaso Montanari, A cosa serve Michelangelo?, Einaudi, Torino 2011

Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013

Erwin Panofsky, «La storia dell’arte come disciplina umanistica» [1940], in Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 1962

Michael J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013

Salvatore Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino, 2002

Salvatore Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, Einaudi, Torino, 2011 Salvatore Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino, 2012

Joseph Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2013

David Foster Wallace, «Questa è l’acqua», in Questa è l’acqua, a cura di Luca Briasco, Einaudi, Torino 2009

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Paola Molteni

19 Ottobre 2016

“Annodata alla rete. Era capitato un po’ per caso e un po’ per curiosità. Grande, ramificata, estesa, intricata, attraente, intrigante. Chi ci passava non poteva non rendersi conto di quale potere avesse. Era come una luce magnetica in grado di stregare gli occhi di tutti. La bimba ne era rimasta ammaliata da subito e trottando ci era caduta dentro trovandosi dappertutto, pur rimanendo seduta a gambe incrociate. Non poteva resistere alla tentazione di creare continui flussi di domande e di curiosità che scorrevano più velocemente del ticchettio dei tasti,  in cambio assorbiva come linfa parole, immagini, musica ed emozioni. Allargando con le dita le maglie di quella fitta trama, fatta da meridiani e paralleli, poteva guardare molto lontano. Viaggiare in equilibrio su un filo invisibile da un continente all’altro, in pochi istanti. Trovare la risposta e perdere la domanda. Cercare l’ordine nel disordine. Annodare i propri pensieri a quelli di un altro. Vedere la vita delle persone che filtra attraverso schermi e pagine e occhi e bocche e corpi, congestionata da un traffico prepotentemente umano.”

Tratto da: Paola Molteni, Nets

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Première soirée

1 Settembre 2016

– Elle était très déshabillée
et les grands arbres indiscrets jetaient malicieusement leur feuillage, tout près, tout près sur la vitre.

Assis dans ma grande chaise,
à moitié nue, elle croisa les mains.
Sur le sol, ses petits pieds minuscules frissonnaient sans gêne.

– J’ai regardé, couleur cire,
un petit rayon fugace flotte sur son sourire
et sur ses seins, – vole sur le rosier.

– J’ai embrassé ses fines chevilles. Elle un riz sucré brutal
qui s’étirait en trilles lumineux, un joli rire de cristal.

Les pieds sous la chemise ont trouvé l’évasion : « Finissez-en ! – La première audace accordée,
le rire faisait semblant de punir !

– Douce palpitation sur ma lèvre, j’embrassai doucement ses yeux :
– elle a retiré sa petite tête
retour : « Oh ! c’est encore mieux !…

Signorino, j’ai deux mots à te dire… “- le reste je lui ai jeté sur la poitrine avec un baiser, ce qui l’a fait rire
d’un rire tranquille et complaisant…

– Elle était très déshabillée
et les grands arbres indiscrets jetaient malicieusement leur feuillage, tout près, près de la vitre.

 

 

Extrait de : ARTHUR RIMBAUD / POESIE

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Première soirée

1 Settembre 2016

PRIMA SERATA xxvii (Première soirée)

– Lei era assai svestita
e i grandi alberi indiscreti buttavano sui vetri il loro fogliame maliziosamente, vicino, vicino.

Seduta sulla mia grande sedia,
seminuda, incrociava le mani.
Sul pavimento rabbrividivano senza disagio i suoi piedini minuti, minuti.

– Io guardavo, color della cera,
un piccolo raggio fuggiasco svolazzare sul suo sorriso
e sui suoi seni, – mosca sul rosaio.

– Io baciavo le sue caviglie fini. Lei un dolce riso brutale
che s’allungava in trilli luminosi, un riso amabile di cristallo.

I piedini sotto la camicia Trovarono scampo: “La fai finita!” – La prima audacia concessa,
il riso fingeva di punire!

– Sommessi palpitanti sul mio labbro, io baciavo i suoi occhi dolcemente:
– lei ritirò la sua testolina
indietro: “Oh! è meglio ancora!…

signorino, ho due parole da dirti…” – il resto io glielo gettai sul seno con un bacio, che la fece ridere
di un riso quieto, compiacente…

– Lei era assai svestita
e i grandi alberi indiscreti buttavano sui vetri il loro fogliame maliziosamente, vicino, vicino.

 

 

Tratto da:  ARTHUR RIMBAUD / POESIE

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Dov’è l’Enel, è la devastazione.

26 Luglio 2016

Dov’è l’Enel, è la devastazione. Il paesaggio è sconvolto e febbricitante. La torre è smisurata e a servirla molte formiche faticano. Si sta lavorando a un porto fluviale per ricevere la nafta e il carbone per via d’acqua. A Ostiglia, poco lontano, un’altra centrale, tutta a carbone, manda i suoi fumi fin qua, cosí Sermide ne avrà un p0’ di piú. Proprio dov’è l’Enel il Po è piú splendido: con isole, grandi rive in movimento, un dolcissimo lago.

Dell’Eridania c’è uno zuccherificio estinto, un fossile industriale, un enorme granchio morto sulle ghiaie del Po. Una teleferica, che ancora c’è, tirava su dai barconi le barbabietole e le tuffava nello zuccherificio che le trasformava in alimento assassino, per avvelenare il mondo e seminare la carie e il diabete. È ancora in funzione invece una vecchissima fabbrica che pesca acqua (quale acqua!) dal Po, per distribuirla agli agricoltori. Il Corradi, che mi porta dove voglio, sospeso il suo lavoro di meccanico per trasformarsi in autista, entusiasta di avere un giornalista, mi mostra anche la BONLAT, la fabbrica del latte, di cui non ho nessuna curiosità.

Gli scarichi schiumosi delle fabbriche corrono sull’acqua come bande di coniglietti bianchi. – È finito, il Po… – dice il bravo Corradi.

Come non capire che questo cielo, italiano e planetario, è figurativo, e che il suo chiudersi o fendersi, per crescita di vapori e assottigliarsi di strati protettivi, il suo progressivo intossicamento da miasmi umani, ha non soltanto un significato, ma una causa morale? Le società umane civilizzate, guardatele, non sono piú che aggregazioni di follia tenute insieme dalla paura e dalle coercizioni. Un momento, dice Abramo, se si trovassero cinquanta uomini giusti nella città il fuoco della Necessità può essere fermato dalla loro faccia. Non ci sono. Quaranta… dieci… Se non si trovano vuol dire che niente può fermare la Necessità, perché è la Necessità. Resta la scommessa sublime: se mai ci fossero… sfida alla Necessità della nostra impotenza, di una natura in cui sempre l’egoismo e il vizio prevarranno, eccetto che in rari campioni onorati o respinti, come strani fenomeni. Se la faccia di quei cinquanta introvabili apparisse sul Po ecco il Po non sarebbe piú un fiume finito (che ancora scorre, ma che è morto dentro, in quel che la sua anima profonda ha di affine con la nostra, che è morta); e se la faccia di quegli almeno dieci della res reducta ad triarios si mostrasse al cielo, i vapori maledetti si romperebbero e gli abbietti ordigni che spiano questa sventurata fogna abitata, solo perché c’è qualche nave da guerra a solcarla e tante milizie nere e bianche in corsa fra una tromba e un fischietto, si perderebbero come efimere dentro un lago. Consideriamo il cielo sporco e il fiume morto come castigo, invece che come accidente tecnico, come conseguenza del peccato (oscuro, impenetrato sempre: in che peccai bambina? haber nacido ec. aver perduto il centro, adorato gli idoli) e non come una svista, un errore di calcolo: sarebbe già qualcosa, il sollievo, il respiro piú libero, un po’ piú di luce nella mente malata. Sí, il Po è finito… C’è rabbia a pensare: per gli scarichi… No, no! Per il peccato; questo bacio di fatalità rasserena. Il largo davanti al Castello degli Este si chiamava Piazzetta de’ Letamai. Quella era toponomastica! Le città italiane sono diventate opache elettricamente buie, il giorno che nacque la prima Via Garibaldi, il primo Corso Vittorio Emanuele.

Via del Paradiso (un tagliagole). Via del Travaglio… Via delle Vecchie Pescherie… C’era la funesta aria della notte sabatina, slabbrato traffico carnale, assalto al cibo ambulante caldo e al gelato, schiamazzi di bande, movimento di ombre sordide per il vecchio quartiere (9 ottobre).

 

 

Tratto da: Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, Einaudi Ed.

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Italo Calvino

6 Giugno 2016

Intervista a Italo Calvino, girato a Parigi nel febbraio 1974- regia di Nereo Rapetti

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Le Fragranti Camelie Autunnali ( Camellia sasanqua s.l )

4 Aprile 2016

Sol te, priva d’odor fredda bellezza
marmorea, preziosa, e alle superbe
figlie di lusso prediletta, io taccio
insipida Camelia ..
E.Nencioni, 1870

PREMESSA

Parlare ancora di camelie (Camellia sp. pl.) in lucchesia, dove ormai proprio in questo territorio da molti anni sono state condotte ricerche ed organizzate Mostre annuali e Convegni sul tema ”Camelie”, può sembrare in effetti un argomento di scarso interesse se non per gli ”addetti ai lavori”.

Ma le camelie non finiranno mai di sorprenderci: non a caso, in varie parti del mondo, vengono definite come le più belle piante create dal Padreterno…

Le camelie di questo gruppo, in effetti, stupiscono l’appassionato del mondo verde per due insolite caratteristiche: il periodo di fioritura – da ottobre a gennaio – ed un’altra prerogativa, che per anni si è creduto non appartenere a questo gruppo di piante, come si può dedurre dal brano del poeta E. Nencioni precedentemente citato: Sol te, priva d ‘odor fiedda bellezza. / marmorea, preziosa, e alle superbe / figlie del lusso prediletta, io taccio / insipida Camelia… Ebbene, queste camelie sono profumate, e di un profumo, particolarmente delicato, che fa ricordare le lontane regioni orientali.

MA DI QUALI CAMELIE SI TRATTA?

Tutte le camelie con tali prerogative vengono definite collettivamente CAMELIE SASANQUA; a questo gruppo afferiscono numerosi ibridi (oltre 300!) ottenuti generalmente da specie differenti, ed esattamente fra la Camellia sasanqua Thunb., ed altre due entità – frutto anch’esse di incroci fra C. sasanqua e C. japonica – la Camllia x himaalis  Nak. e la Camellia x vernalis (Mak.) Mak.

In Giappone, luogo di origine di questo gruppo di camelie, esse sono note sino dall’antichità, allo stesso modo della più nota Camellia japonica L., e con le foglie, analogamente alla camelia del tè (Camellia sinensis (L.) Kuntze), veniva preparata una bevanda molto simile al tè, ma di qualità inferiore, per i ceti meno abbienti. Attualmente, con i fiori essiccati di queste camelie, si usa solo aromatizzare la nota bevanda.

Anche i semi, che queste producono copiosamente, sono stati impiegati per secoli ed hanno dato origine a fiorenti industrie. Da essi infatti è possibile ricavarne un olio, analogamente ad altre specie di camelie, dal notevole potere e dai molteplici impieghi.

Veniva utilizzato, prima della scoperta dell’ olio di balena o degli olii fossili, per illuminazione, ma in particolare era impiegato per cucinare e nella cosmesi; non c’era giapponese di un certo livello che non si ungesse i capelli con il profumato olio di camelia!

I semi vengono attualmente utilizzati, oltre che per l’estrazione dell’olio che è ancora impiegato nella cosmesi e soprattutto come lubrificante in micromeccanica ed in missilistica, anche nell’artigianato turistico per preparare collane, braccialetti, anelli e souvenir di vario genere.

QUALI SONO LE CAMELIE CHE FANNO PARTE DI QUESTO GRUPPO

La specie principale che compone questo gruppo di Camelie e che a questo ha dato il nome, è la Camellia sasanqua Thunb.; si tratta di un arbusto o piccolo albero sempreverde che cresce, allo stato spontaneo, nelle foreste di sclerofille del sud del Giappone, nei distretti di Shikoku, Kyiishii ed altre piccole isole a sud di Okinawa, ad una altitudine spesso superiore ai 90om.

Quest’ultimo dato può indurre ad errate interpretazioni a proposito della rusticità: infatti questa camelia, pur essendo perfettamente rustica nei nostri climi, sopporta meno il freddo della più nota Camellia japonica L.

I giapponesi chiamano questa specie Samnkwa che significa “fiore del tè di montagna”, e da questo nome è stato poi tratto quello specifico sasanqua. Le foglie sono ellittiche od oblunghe, ed hanno apice acuminato e base cuneata, mentre il margine è crenato e dentato; sono più piccole (4-6 x 1,5-3 cm) di quelle della C. japonica.

Di colore rossastro e inizialmente tomentose, come del resto i giovani getti, hanno inoltre venature prominenti anch’esse tomentose (in particolare nulla pagina inferiore); sono di colore verde scuro e lucido superiormente, più chiare al rovescio e portate da un corto picciolo (3-5 mm).

I fiori, delicatamente profumati e piuttosto grandi (4-8 cm), sono protetti da squame, caduche al momento che questi si schiudono – cosa quest’ultima che avviene fra la fine dell’estate e l’inizio dell’inverno – e vengono prodotti nella parte terminale dei rami.

Portati da un corto peduncolo, i fiori sono composti da 5-8 petali bianchi o rosa, piuttosto grandi (3,5 x 2 cm) di forma irregolare, spesso ovata od ovato-cuneata, con apice arrotondato e spesso increspati: dal centro del fiore si innalzano poi gli organi riproduttivi, che sono costituiti da un gruppo assai numeroso di stami gialli, uniti alla base, che portano antere anch’esse di colore
giallo dorato.

L’ovario è sericeo, generalmente sormontato da uno stilo e da uno stimma trilobato; i frutti sono capsule globose che si fendono a maturità, con 1-3 loculi, contenenti !, 2 ed a volte anche 3 semi.

LE ALTRE SPECIE

Le altre Camelie che formano nel loro insieme il gruppo suddetto, sono la Camellia x himealis Nak., chiamata in Giappone Kan Tsubala’ che significa Camelia del freddo” e la Camellia x wrnalis (Mak) Mak. definita ancora in Giappone Haru Tsubala’, “Camellia sasanqua primaverile”.

La prima di esse (Camellia x him/is), non è nota allo stato spontaneo; sembra importata in Giappone da Shanghai, ed è probabilmente. come già accennato, un ibrido fra C. sasanqua e C. japonica; è un arbusto – raramente un piccolo albero – a portamento piuttosto espanso e con foglie simili a quelle della C. sasanqua, ma leggermente più grandi (6-9 x 3-4 cm).

I fiori sono sessili, anch’essi simili a quelli della C. sasanqua, ma di dimensioni minori (intorno ai 5 cm) e con tonalità di colori simili, anche più scuri (bianco, rosa o rosso). Si schiudono proprio nei mesi invernali, e quindi è una pianta da utilizzare nei giardini in quelle località ove il clima non sia eccessivamente rigido.

L’altra entità che forma questo gruppo (Carmellia x vernalis), è anch’essa non nota allo stato spontaneo ed ha quali probabili genitori, come la precedente, la C. sasanqua e la C. japonica; si tratta di un arbusto di piccole dimensioni, con foglie più strette rispetto alla C. sasanqua (4-7,5 x 1,5-3 cm), mentre l’apice è bruscamente acuminato. I fiori sono semidoppi, piuttosto
grandi (6-7 cm), bianchi o talvolta rosati, e si schiudono fra la metà dell’inverno fino alla primavera; è più resistente al freddo delle altre due, e può fiorire senza problemi anche in climi più rigidi.

UN PO’ DI STORIA

Il gruppo delle cosiddette ”CAMELIE SASANQUA”, oggi composto da diverse centinaia di cultivar, sono note in Giappone sino da tempi assai lontani. La loro presenza è ben documentata nel periodo Muromachi (14° secolo) e vi sono alberi di questa camelia ancora vegetanti nei giardini dei templi di Kyòtò con un’età stimabile intorno ai 400 anni.

Si parla poi di questa particolare camelia in diverse opere, fra cui l’Anthology of Beautiful Flowers (1684) e in un’altro testo del 1739, il Golden Flowers and Plants, vi sono già citate un centinaio di cultivar.

Anche se le “Camelie sasanqua” sono note in Europa sino da tempi assai lontani, bisogna attendere la seconda metà dell’800 perché essa arrivi fino a noi, importata – sembra – da viaggiatori tedeschi nel 1869.

In effetti la sua diffusione non ebbe grande successo dato che, nelle regioni centro e nord Europee, queste Camelie dovevano essere coltivate in serra poiché, provenendo appunto dalle regioni del sud del Giappone, non era specie perfettamente rustica e non era quindi possibile coltivarla in piena aria; solo in Italia, per il suo clima più mite, poté essere impiegata come pianta da giardino
ed ebbe, verso la fine dell’800, un discreto successo, anche perché la più nota Camellia japonica stava entrando in un periodo di decadenza.

CENNI SULLA COLTIVAZIONE

La coltivazione della ”Camellia sasanqua” non si discosta di molto da quella delle altre camelie, forse anche più facile. Preferiscono terreni tendenzialmente acidi, pur vegetando egregiamente anche in quelli neutri; è fondamentale che questo sia ben drenato e ricco di sostanza organica, e le concimazioni si effettuano all’atto dell’impianto con concimi organici ben decomposti o anche con appositi fertilizzanti per acidofile; è opportuno ripetere poi, alla fine dell’estate ed in primavera, un’ulteriore concimazione con gli appositi fertilizzanti anzidetti.

Notevole importanza riveste anche l’esposizione, che non deve essere mai troppo assolata, in particolare in pianura e in zone calde; l’ideale è una mezz’ombra, che escluda le piante dai raggi solari nelle ore più calde della giornata.

E’ opportuno annaffiare con regolarità ed in particolare in periodi siccitosi, con acqua il più possibile priva di calcare; per l’eventuale impianto nel giardino è d’obbligo prediligere, come per le altre camelie, siti ove le condizioni naturali favoriscono una certa umidità atmosferica.

LA PROPAGAZIONE

La propagazione di questo gruppo di Camelie si effettua in maniera analoga alle altre: per via gamica, cioè per seme, da porre in terrine prelevandolo appena maturo dalle piante (è fondamentale che il seme sia fresco o che venga conservato – sempre per tempi brevi – in sabbia umida ed in frigorifero).

La germinazione, se si rispettano tali condizioni, avverrà nell’arco di 20-40 giorni.

L’altro metodo di propagazione, detto agamico, avviene utilizzando una parte della pianta che vogliamo riprodurre; questo metodo permette soprattutto di riprodurre fedelmente (cosa che non avviene riproducendo per seme queste camelie) le caratteristiche della cultivar che ci interessa riprodurre. Le metodologie impiegate sono: talea, margotta e innesto.

Lc talee vengono prelevate da giovani getti appena lignificati, in genere in agosto 0 settembre (talee ”agostate”) ponendole poi, dopo un trattamento a base di ormoni che aiutano la radicazione, in un ambiente confinato saturo di umidità (serra, campana di vetro) ed innaffiandole regolarmente; radicheranno dopo circa un mese.

L’altro metodo – margotta – si usa su ramificazioni piuttosto grandi della pianta, facendo un’incisione anulare su un ramo ed asportando la corteccia per alcuni cm; si riveste poi la parte scortecciata con torba, muschio, ecc. e si ricopre poi il tutto, dopo averlo bene annaffiato, in un contenitore ermetico o fasciando la margotta con plastica in modo da evitare la traspirazione. Quando
le radici saranno evidenti all’interno dell’involucro – e questo avverrà dopo 2-3 mesi – si può tagliare la margotta e rinvasarla come una pianta autonoma.

L’innesto infine, si effettua spesso su piante nate da seme, in particolare quando la cultivar che vogliamo propagare ha un apparato radicale delicato. Si esegue solitamente in primavera e si usa la tecnica dell’innesto ”a spacco” od a corona”.

LE UTILIZZAZIONI DELLE “CAMELIE SASANQUA”

Le numerose cultivar ottenute in questo gruppo di camelie, fa si che vi si possano trovare piante adatte a molteplici utilizzazioni nell’ambito del giardinaggio o anche per altre finalità. Le cultivar di dimensioni minori sono infatti le più idonee alla coltivazione in vaso, e sono anche impiegate come piante da appartamento o da terrazzo. Un’altro impiego abbastanza diffuso di queste
piccole cultivar è quello di adoperarle per la realizzazione di bellissimi bonsai.

Ma l’utilizzo principale rimane pur sempre come pianta da giardino; gruppi di “Camelie sasanqua” che fioriscono scalarmente, ci possono regalare fioriture bellissime in un periodo dell’anno piuttosto avaro di fiori.

Inoltre, queste si prestano particolarmente ad essere con facilità e per lunghi anni coltivate in vaso, in modo da poterle utilizzare dove ci fanno più piacere, per esempio vicino alle abitazioni dove, in considerazione del microclima più protetto che si crea in tali ambienti, fioriranno molto più facilmente e senza subire troppi danni dal gelo.

Si potrà godere così, da ottobre a marzo/aprile, della bellezza di queste piante, che porteranno oltretutto nei nostri giardini un po’ di profumo d’oriente.

CULTIVAR REPERIBILI DI MAGGIOR INTERESSE

Con epoca di fioritura fra ottobre e novembre:

cv. ”Beatrice Emily”: fiore semidoppio, bianco violaceo;

cv. “Cleopatra”: fiori semplici, rosa molto intenso, portamento molto
compatto;

cv. ”Hind de Gumo”: fiori semplici di medie dimensioni, rosa in boccia,
poi bianco. Portamento espanso;

cv. “Jean Ma)”: fiore doppio, rosa, con portamento espanso;

cv. ”Iuletide”: fiore semplice, rosso intenso, fogliame minuto e porta-
mento piuttosto compatto;

cv. ”Mne-Ab- fida”: fiore doppio, bianco puro, portamento ricadente.

cv. ”Mmmi-Gata”: fiori semplici molto grandi, bianchi orlati di rosa; la
fioritura è assai copiosa e prolungata ed il portamento eretto;

cv. “Plantation Pink”: fiore semplice, rosa delicato, portamento eretto;

cv. ”Sparkling Burgundi”: fiore peoniforme, rosa-rosso, portamento ri-
cadente;

Con epoca di fioritura fra dicembre e marzo/aprile:

cv. ”Crimson King”: fiore semplice, rosso vivo, portamento espanso;

cv. “Hiqu”: fiore semplice, con particolare forma a coppa, rosso inten-
so, portamento espanso.

cv. ”Kanjim”: fiore semidoppio, rosa lillacino, con portamento espanso;

cv. ”Shona-M&he”: una fra le più note di questo gruppo in Giappo-
ne, con fiore semidoppio, rosa lilla; il profumo è particolarmente delicato, ed
il portamento è ricadente;

A cura di: Angelo Lippi, Guido Cattolica, Paolo Emilio Tomei

Edito a cura del Comune di Capannori | Centro Culturale Compitese e Circoscrizione n°4 di Capannori.

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La canapicoltura nel napoletano

29 Marzo 2016

Speranza e opportunità, tra terreni avvelenati e crisi occupazionale

Sosio Capasso nel suo libro “Canapicoltura e sviluppo nei comuni atellani” (Istituto di Studi atellani, 1994) riferisce della difficoltà di individuare l’origine della coltivazione della canapa. Poiché il processo di lavorazione della canapa è legato all’acqua, sicuramente la sua origine va ricercata là dove c’era un fiume o a un lago. Erodoto ci narra che nella lontana terra degli Sciti oltre il Mar Nero si trovava la canapa, un materiale molto simile al lino che i Traci coltivavano per realizzare vestiti. In Cina era conosciuta nel 500 a.C., ed è citata nello Shu-King , un classico della storiografia cinese. Gli Sciti la portarono in Europa intorno al 1500 a.C., spingendosi verso la foce del Danubio. In seguito si diffuse tra germani, i greci e i romani che la portarono in Gallia. Ai tempi dei romani importanti lavoratori di canapa erano i Miseni. Allora la canapa fu utilizzata soprattutto come cordigliera per la flotta imperiale. Dopo la distruzione di Miseno da parte dei Saraceni i cittadini del luogo si rifugiarono nell’entroterra e fondarono Fratta, l’odierna Frattamaggiore. La città è stata il cuore della produzione e della trasformazione della canapa. Con questo materiale si produssero corde e tessuti fino alla fine degli anni ’50 del ‘900. Fu allora, ben prima della crisi, che in questi comuni si sviluppò un’intensa attività legata alla canapa: talmente diffusa era la lavorazione della canapa che garage, villette e ogni tipo di edificio disponibile fu trasformato in un laboratorio.     La città è unita a Frattaminore, Grumo Nevano, Arzano, Casandrino Cardito, Caivano e Crispano da un’identità storica che risale molto indietro nel tempo: tutti questi comuni furono loci romani e poi casali medioevali, che sorsero sui resti dell’antica città osca di Atella, distrutta nel VII secolo. L’economia della canapa stimolò a tal punto gli abitati di allora che questi centri si configurano oggi come una’unica realtà urbana di circa 280.000 abitanti, su una superficie di 52,3 kmq, e con una densità media 3.977 ab/kmq. In quest’area, dunque, l’economia della canapa è un’attività millenaria che è stata capace di caratterizzare e trasformare il paesaggio.

Qui, l’elemento naturale di riferimento è l’antico fiume Clanio. È un fiume che aveva una caratteristica particolare: la portata decresceva durante l’inverno e aumentava alla fonte nei mesi estivi provocando nel mese di agosto delle piene che avvenivano proprio nel periodo della macerazione. Non solo, quindi, l’organizzazione della lavorazione della canapa lungo il fiume disponeva delle risorse necessarie a fini produttivi, ma era anche adatta alla bonifica del territorio. Infatti, il corso del fiume era costituito da margini irregolari con meandri e fiumiciattoli che s’impaludavano rendendo l’ambiente malsano e difficile agli insediamenti umani sin dall’antichità. Le erbacce che crescevano sul fondo e il crollo dei margini creava acquitrini malsani e infetti che obbligavano a una manutenzione continua. Nel 1312 un editto di Roberto d’Angiò ordinava alle popolazioni residenti in loco di eseguire a proprie spese i necessari lavori di sistemazione e di pulizia. I viceré spagnoli affidarono i primi lavori di bonifica all’architetto Giulio Cesare Fontana che realizzò un nuovo alveo e rettificò le sponde con l’aggiunta di piccoli corsi detti lagnuoli creando così un sistema di canali che da quel momento fu denominato “Regi Lagni”. All’inizio dell’ottocento furono effettuate nuove opere di bonifica con Murat, e in seguito, nel 1838, dopo particolari studi che riguardavano tutti i terreni malsani di Terra di Lavoro, furono eseguiti lavori di canalizzazione tra i Regi Lagni e il Lago di Patria sotto la direzione dell’ing. Vincenzo Antonio Rossi. Ai tempi dei Borboni il fiume era limpido e pescoso e una sua deviazione verso nord in direzione della reggia di Caserta era utilizzata per la navigazione. In seguito la deviazione che portava alla Reggia di Caserta fu interrata e divenne l’attuale viale Carlo III. Ciò che rimane dell’antico fiume Clanio oggi scorre sotterraneo e confluisce ancora nel Lago di Patria.

Un tempo, in questo territorio e nelle sue immediate vicinanze le acque del fiume venivano utilizzate per la macerazione di un altro prodotto tessile, il lino, che era coltivato anche nelle aree pedemontane della Collina dei Camaldolesi. Oggi i Regi Lagni sono stati largamente cementificati. I canali di cemento sono finalizzati alla raccolta delle acque piovane per l’irrigazione dei campi, ma raccolgono anche gli scarichi di acque reflue e di peggiore fattura e le convogliano a mare senza depurazione.
L’attività della coltivazione e lavorazione della canapa si sviluppò in modo particolare a partire dall’ottocento, quando furono realizzati maceri di varie grandezze, anche a notevole distanza dal Lagno, che erano connessi ad esso con apposite canalizzazioni. I maceri più piccoli sono collocati vicino alle case rurali. Qui, nei cicli di riposo dalla coltivazione di canapa, erano puliti e venivano utilizzati per l’allevamento di oche e anatre, oltre ad essere adibiti a peschiere dove si allevavano pesci tra quali tinche e carpe, che garantivano la purezza delle acque liberandole dagli insetti, in particolare dalle zanzare. Fu quello un periodo di trasformazione delle case rurali in vere e proprie aziende agricole: la loro estensione crebbe per accogliere gli operai e si realizzarono depositi per piante raccolte e lavorate. L’attività febbrile sarebbe proseguita per buona parte del ’900 fino all’inizio degli anni ’50 quando nei comuni atellani garage, villette e abitazioni di varie tipologie si andavano trasformando in laboratori senza nessun controllo urbanistico.

Nel recente passato l’Italia è stata la seconda nazione al mondo, dopo la Russia, per la produzione della canapa. Nel primo decennio del novecento si producevano 795.000 quintali annui su una superficie investita pari a 79.477 ettari contro i 3.440.570 quintali su 686.197 ettari della Russia. Alla produzione italiana contribuiva il napoletano con 89.000 quintali e la provincia di Caserta con 157.000 quintale; il resto era prodotto tra le provincie di Ferrara e di Bologna. Poi quest’industria fiorente cominciò a declinare. Negli anni settanta la produzione fu di soli 10.080 quintali su una superficie investita di 899 ettari. Il declino continuò inesorabile. La crisi comportò una forte disoccupazione, nel solo casertano vi furono coinvolti ben 40 comuni e, in particolare, nel napoletano, Frattamaggiore che era stata storicamente il cuore della produzione della canapa. All’origine del declino ci furono cause sicuramente legate all’introduzione sul mercato di fibre sintetiche e la rinuncia degli imprenditori di investire in nuove tecnologie; ma una parte della responsabilità va attribuita all’endemica disattenzione e miopia dei programmi di sviluppo del governo centrale e locale. A questa va aggiunta l’incapacità (o opportunità?) di distinguere nella lavorazione della canapa la sostanza che si coltiva a fini di produzione tessile e industriale da quella che si coltiva come sostanza stupefacente, di cui si ritrovano testimonianze dell’uso in questa forma fin dai tempi più remoti. Infatti, nel 1961 il governo italiano sottoscrisse la convenzione internazionale detta “Convenzione unica sulle sostanze stupefacenti”, a cui seguirono quelle del 1971 e del 1988, con l’obiettivo di far scomparire la canapa dal mondo (entro 25 anni dall’entrata in vigore delle convenzioni). In realtà si è creò allora una totale confusione tra “Cannabis sativa” da cui si ricavano le fibre e la “Cannabis indica” dalla quale si ottengono marijuana, hashish e altre droghe. La confusione creò danni enormi alla produzione della cannabis sativa e all’economia ad essa legata. Infatti in quegli anni, era il 1966, la società inglese “ Techical Association of the Pulp and Paper Industry” raccomandava la coltivazione della canapa per la fabbricazione della carta. Le cartiere italiane avrebbero potuto assorbire 500.000 quintali di produzione su una superficie pari a 22.000 ettari: uno sviluppo economico importante (soprattutto per le province di Napoli e Caserta), se si considera che oggi l’Italia spende intorno ai 2.000 milioni di euro annui per importare pasta di legno per fabbricare carta. Contemporaneamente, negli anni delle convenzioni che si andavano a sottoscrivere, in Italia si fecero ricerche per ricavare la carta dalla canapa. Ricerche che nel 1977 ottennero a tal fine un contributo dalla Comunità Europea. È stato infatti dimostrato come dalla canapa si ottiene una carta migliore perché i trattamenti chimici necessari sono meno aggressivi. Inoltre, rispetto alla produzione ottenuta con gli alberi, la canapa contiene un 33 per cento in più di cellulosa degli alberi e impiega 120 giorni a ricrescere rispetto ai 50 anni degli alberi. Un ritorno alla produzione di canapa presenta altri aspetti positivi. Oggi la coltivazione della canapa è strategica per il nostro territorio, la storica “Terra di Lavoro”. Essa permette di “depurare” a basso costo i terreni dai metalli pesanti che costituiscono i principali elementi che hanno avvelenato questa terra tra il casertano e il napoletano e in particolar modo lungo quella fascia che corre lungo i Regi Lagni. Le ricerche sulle proprietà della canapa hanno dimostrato, per esempio, che radici, fusto e foglie succhiano anche lo zinco rilasciato nell’ambiente dalla presenza di concerie e acciaierie.  Dalla raccolta si possono ottenere prodotti d’indirizzo energetico come, per esempio, la produzione di etanolo. Inoltre, attraverso il nuovissimo processo Pro.e.satm. – una tecnologia il cui primo prototipo è stato realizzato in Piemonte dalla Mossi & Ghisolfi, multinazionale della chimica tutta italiana che negli ultimi anni ha deciso di investire in ricerca – è possibile produrre carburante verde di nuova generazione in alternativa alle biomasse alimentari come zucchero di canna o mais, evitando così il loro aumento di prezzo sul mercato. La fibra è anche utilizzabile in edilizia nella realizzazione di panelli per l’isolamento energetico e di pannelli fonoassorbenti. E qui siamo entrati in un altro tema importante qual è quello del risparmio energetico. Per ora, data l’attuale scarsità di fibra di canapa, essa è mescolata con altre fibre naturali di importazione che provengono dai paesi in via di sviluppo, come il kenaf e la iuta.La coltivazione della canapa ha una filiera lunga. Oltre alla carta, all’uso nei processi di decontaminazione dell’ambiente, al carburante verde, alle applicazioni in edilizia, la canapa si trasforma in fibre per corde, tessuti, legno e geotessili a uso forestale per le applicazioni d’ingegneria naturalistica e la produzione di bioplastiche riciclabili in sostituzione dei derivati del petrolio.  Intanto le ricerche vanno avanti e la diffusione della produzione di canapa, oltre che a vantaggi economici in termini di uso industriale, commercializzazione e creazione di lavoro porterà certamente a nuove applicazioni e nuove prospettive.

 

 

di Antonio Guarino | Feb 2013

 

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Romanzo 29 settembre 1870.

28 Marzo 2016

I

A diciassett’anni non si può esser seri.
– Una sera, al diavolo birre e limonata
e gli splendenti lumi di chiassosi caffè!
– Te ne vai sotto i verdi tigli a passeggiare.

Com’è gradevole il tiglio nelle sere di Giugno!
L’aria è si dolce che a palpebre chiuse
annusi il vento che risuona – la città è vicina –
e porta aromi di birra e di vino…

II

Ecco scorgersi un piccolo brano
d’azzurro scuro, incorniciato da lievi fronde,
punteggiato da una malvagia stella, che si fonde
in dolci fremiti, piccola e bianca…

Notte di giugno! Diciassett’anni! Ti lasci inebriare.
La linfa è uno champagne che dà alla testa…
Divaghi e senti un bacio sulle labbra
che palpita come una bestiolina…

III

Il cuore è un folle Robinson in un romanzo
– quando, nel pallido chiarore d’un riverbero
passa una damigella affascinante
all’ombra del colletto d’un padre tremendo…

E siccome ti trova immensamente ingenuo,
trotterellando sui suoi stivaletti
si volta, attenta ma con gesti vivaci
-e sul tuo labbro muoiono le cavatine…

IV

Sei innamorato. Fino al mese d’agosto è affittato.
Sei innamorato. I tuoi sonetti la fanno ridere.
Tutti gli amici sono già andati, sei di cattivo gusto.
Poi l’adorata, una sera, si degnò di scriverti!…

Quella sera… – Ritorni ai lucenti caffè
e ordini ancora birre e limonata…
a diciassett’anni non si può esser seri,
se ci son verdi tigli lungo la passeggiata.

Tratto da: Arthur Rimbaud, Romanzo, 29 settembre 1870.

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Perché gli italiani sono diventati nemici dell’arte

26 Marzo 2016

In Europa e nel mondo si moltiplica oggi il dibattito sul ruolo che deve giocare il patrimonio culturale nella società del futuro. La questione del patrimonio è particolarmente presente nell’agenda culturale e politica in Italia in ragione della cieca politica di drastici tagli al budget per la cultura, della privatizzazione del patrimonio culturale e dell’alleggerimento degli enti pubblici di tutela che caratterizza l’attuale Governo. Io credo comunque che l’osservatorio italiano su questo tema abbia una grande importanza, anche fuori dall’Italia, in ragione della convergenza di tre caratteristiche storiche: l’altissima densità del patrimonio in situ in Italia, il suo intimo legame con il paesaggio e infine perché è in Italia (per la precisione negli Stati precedenti all’unificazione politica del Paese) che le più antiche regole di salvaguardia del patrimonio hanno visto la luce.

Intendiamoci sulla definizione più aggiornata di patrimonio
Le domande più frequenti sul patrimonio concernono la sua definizione, la sua importanza, l’utilizzo (o gli utilizzi) che ne vogliamo fare, la sua proprietà e i suoi costi di conservazione. La definizione di «patrimonio culturale» si è gradualmente ampliata e ha reso ancora più complessa la sua conservazione; e ciò, oltre alla sua importanza nella società contemporanea dominata dalla retorica della globalizzazione e dall’ossessione del presente, è continuamente messo in discussione in nome dei «valori» del mercato. La funzione del patrimonio culturale oscilla in continuo tra quella di deposito passivo della memoria storica e dell’identità culturale e quella, opposta, di potente stimolo per la creatività del presente e la costruzione del futuro. In relazione a questi temi, si solleva spesso un interrogativo sulla proprietà del patrimonio culturale, sballottata di continuo tra la sfera pubblica e la sfera privata; in questo interrogativo i linguaggi del diritto, dell’etica e della storia si mescolano inestricabilmente. Infine, la questione dei costi per la conservazione e la salvaguardia del patrimonio culturale è spesso trattata oggi separandola da quella della sua funzione. Si dà inoltre per scontato che il patrimonio culturale è un fardello che pesa sul budget dello Stato e non che possa divenire una riserva di energia per i cittadini e per le Nazioni.
Gli uomini politici e gli economisti affrontano spesso queste questioni riferendosi esclusivamente alla prospettiva presente, ai problemi della spesa pubblica e della libera concorrenza di mercato. Non è tuttavia meno legittimo rivendicare il ruolo della storia. La storia può dimostrare come il patrimonio culturale non sia un inutile fardello che ci trasciniamo da secoli in mancanza di nozioni economiche e politiche, ma come al contrario partecipi alla cosciente elaborazione di una strategia sociale destinata a formare e rafforzare l’identità culturale, i legami di solidarietà, il senso di appartenenza che sono condizioni necessarie di ogni società strutturata e, come riconoscono gli economisti con sempre maggiore chiarezza, sono anche un fattore non trascurabile di produttività. Se vogliamo comprendere i problemi del presente e del futuro col metro della storia secolare della conservazione, è quindi indispensabile comprendere storicamente le ragioni ultime della nozione di patrimonio e della sua funzione nelle società.

Le risibili e false stime del nostro patrimonio
Accenneremo ora all’Italia di oggi per tornare in seguito a quella di ieri. Vorrei cominciare con qualche citazione: 1. «Secondo le stime dell’Unesco, l’Italia possiede tra il 60 e il 70% del patrimonio culturale mondiale» (rapporto Eurispes 2006). 2. «Il 72% del patrimonio culturale europeo si trova in Italia e almeno il 50% del patrimonio mondiale è situato nel nostro Paese» (Silvio Berlusconi, conferenza stampa a Londra, 10 settembre 2008). 3. Secondo un ministro siciliano, «È situato in Italia il 60% del patrimonio culturale mondiale, il 60% del quale in Magna Grecia e il 60% di quest’ultimo in Sicilia»; ma secondo un consigliere regionale toscano, «L’Italia possiede da sola il 60% del patrimonio culturale dell’umanità, il 50% del quale si concentra in Toscana»; secondo un collaboratore del sindaco di Roma, «l’Urbe detiene dal 30 al 40% del patrimonio culturale del mondo». Sommando tutte queste cifre risulta che l’Italia da sola supererebbe di gran lunga il 100% del patrimonio culturale del pianeta. Evidentemente questi «dati dell’Unesco» non esistono e le cifre periodicamente improvvisate sono forse un sintomo dell’orgoglio nazionale, ma sicuramente di irresponsabile superficialità.
L’Italia è tuttavia un Paese molto importante in materia di patrimonio culturale. Il suo ruolo centrale non risiede però nella quantità ma piuttosto nella qualità del suo patrimonio e soprattutto in tre fattori diversi che sono l’armonia secolare tra le città e il paesaggio, la forte presenza nel territorio del patrimonio e dei valori ambientali e l’uso continuo in situ di chiese, palazzi, statue e quadri. In Italia, i musei non contengono che una piccola porzione del patrimonio artistico che è sparpagliato nelle città e nelle campagne. In questo insieme che è il frutto di un accumulo plurisecolare di ricchezza e civiltà, il totale è superiore alla somma degli addendi. Esiste tuttavia un quarto fattore non meno importante, è il «modello Italia» della cultura e della conservazione del patrimonio.

I primi al mondo a darci delle leggi
Molto prima dell’unificazione del Paese, gli Stati italiani sono stati i primi al mondo a dotarsi di regole e istituzioni pubbliche in questo campo. L’Italia è stata la prima a integrare la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nei principi fondamentali della sua Costituzione. La consistenza e la qualità del patrimonio da un lato, la cultura italiana della salvaguardia dall’altro sono le due facce della stessa medaglia. Le regole in merito alla conservazione non avrebbero visto la luce del giorno senza un senso civico risvegliato dalla densità del patrimonio culturale e la presenza di quest’ultimo non sarebbe mai stata così durevole se non fosse stata garantita da regole nel corso dei secoli. Che debbano esistere delle regolamentazioni pubbliche dei principi di tutela non è affatto dimostrato e, in effetti, la maggior parte dei Paesi non ne hanno avute per molto tempo. Nel XX secolo e in particolare all’inizio della seconda guerra mondiale, le leggi di tutela del patrimonio si sono moltiplicate in diversi Paesi (ad esempio in America Latina, in Africa e in Asia) seguendo modelli importati dall’Europa, ma i modelli europei si sono sviluppati a loro volta prendendo esempio dall’Italia.
Il concetto di patrimonio culturale si è formato a partire dall’idea di patrimonio nazionale elaborato in Francia tra la Rivoluzione e la Restaurazione allo scopo di utilizzare il patrimonio per definire la Nazione come un’unità culturale e giuridica. L’enorme bottino di opere d’arte messo insieme dall’esercito francese e trasportato a Parigi ha quindi dato luogo ad appassionati dibattiti. Questa razzia trovava la sua giustificazione nell’idea (ispirata da Winckelmann) che le arti non si sviluppino se non in un regime di libertà. È questa la ragione per cui la Francia postrivoluzionaria, in quanto patria della libertà, era di diritto la patria dell’arte.
Secondo il ministro degli Interni François de Neufchâteau (1794), «i grandi artisti del passato non lavoravano per i re o i papi» ma per i cittadini, perché questi creatori «prevedevano i destini dei popoli». «…mani famosi, divini genii (…) Sì: era per la Francia che partorivate i vostri capolavori. Alla fine quindi essi hanno trovato la loro destinazione», Parigi. In Italia questa gigantesca razzia venne vissuta come una violenza, ma la reazione più severa e coerente è venuta dalla stessa Francia. Nelle sue Lettres au général Miranda sur le préjudice qu’occasionneraient aux Art set à la Science le déplacement des monuments de l’art de l’Italie, le démembrement de ses écoles et le spoliation de ses écoles, galeries, musées (1796), Quatremère de Quincy sostenne che strappare le opere d’arte dal contesto per il quale erano state create era un crimine contro la memoria storica: un Raffaello uscito dal suo contesto non esprime niente, non è una reliquia (come un frammento della Santa Croce) che può comunicare «le virtù legate all’insieme». Le stesse posizioni furono molto presto difese in una petizione indirizzata al Direttorio e firmata da 50 artisti, tra i quali David. Quatremère focalizzava la sua attenzione su Roma e ricordava, a questo fine, le antiche regole di tutela dei papi in vigore dal XV secolo. È così che a partire dalla Francia si è diffuso in tutta Europa un grande dibattito culturale e politico, di cui l’Italia era il centro generatore.
In tutti gli Stati italiani preunitari esistevano regole di conservazione del patrimonio molto simili tra di loro e con influenze reciproche. Percorreremo brevemente una storia che si svolge tra Firenze, Roma e Napoli tra il 1725 e il 1755. Intorno al 1725, a Firenze, appariva ormai evidente che la dinastia dei Medici volgeva al termine e che le potenze europee avrebbero attribuito il Granducato di Toscana a una nuova dinastia. Per paura che il nuovo Granduca esportasse i tesori artistici dei Medici, nel 1728 venne fondata un’istituzione per la pubblicazione delle collezioni del Granducato che diede alle stampe i 12 volumi del Museum Florentinum a partire dal 1731. Neri Corsini, divenuto in seguito cardinale, faceva parte del novero dei promotori dell’iniziativa e, quando la Toscana venne attribuita a Francesco Stefano di Lorena, fu l’ispiratore del «patto di famiglia» tra il nuovo granduca e l’ultima dei Medici, Anna Maria Luisa (1737), in virtù del quale le collezioni dei Medici sarebbero dovute restare per sempre a Firenze come in effetti poi avvenne.
Spostiamoci ora a Roma. Nel 1728, il cardinale Alessandro Albani, nipote del papa Clemente XI, vendette al re di Polonia Augusto II trenta delle più belle statue della sua collezione (oggi a Dresda). I regolamenti pontifici vietavano l’esportazione di antichità, ma il cardinale camerlengo che avrebbe dovuto farli rispettare era allora Annibale Albani, fratello di Alessandro che non impedì questa vendita. Eppure, nel 1733, quando Alessandro Albani cercò di vendere la sua seconda collezione in Inghilterra, questa venne bloccata e le sculture furono acquistate dal nuovo papa Clemente XII, che in questa occasione fondò il Museo Capitolino, primo museo pubblico d’Europa (1734). Il nuovo papa era un Corsini di Firenze e l’ispiratore di questa iniziativa era suo nipote il cardinale Neri Corsini, lo stesso che si era battuto per il mantenimento dei tesori artistici dei Medici a Firenze.
Passiamo ora a un’altra capitale italiana: Napoli. Il re Carlo di Borbone, allora diciottenne, inaugurò una nuova era del regno ridivenuto indipendente dopo secoli di dominazione spagnola. Iniziò gli scavi a Ercolano (a partire dal 1738) e a Pompei (a partire dal 1748) che portarono in luce una massa enorme di nuove antichità. È in questo contesto che apparve la legislazione napoletana sulla tutela del patrimonio (1755), il cui punto di partenza era il «profondo disappunto» del re per le esportazioni di antichità e che riprendeva la legge pontificia del 1733. Da lì nacquero i volumi delle Antichità di Ercolano esposte e il Real Museo Borbonico. L’idea della conservazione degli oggetti d’arte nel contesto del loro luogo d’origine, idea delle più «italiane», si affermò così anche a Napoli. In effetti, quando Carlo III divenne re di Spagna (1759), egli non promulgò nessuna misura di protezione. Il «profondo disappunto» espresso per la mancanza di salvaguardia delle opere d’arte a Napoli scomparve quindi a Madrid? No. In un caso come nell’altro, il sovrano non elaborava personalmente le leggi, ma esprimeva la cultura civica e giuridica del posto.
L’emulazione tra Stati presuppone una profonda sintonia culturale che appartiene a un fondo comune di valori civici e morali. In effetti, la storia delle regole di tutela del patrimonio negli antichi Stati italiani comincia ben prima dell’Unità e prosegue fino a oggi.
Domandiamoci allora perché esista una tale continuità. A Roma, leggi molto organiche vengono emanate da Pio VII nel 1802 e nel 1819 (poco dopo la razzie di opere d’arte perpetuata dall’esercito francese e poco dopo il ritorno in patria delle opere saccheggiate). Il Commissario pontificio per le antichità Carlo Fea si rifece alle regole dei papi del passato, a cominciare da Martino V (1425), Pio II (1462) e Leone X (1515) e stabilì una continuità con i principi del diritto romano imperiale, in particolare rintracciando nella Roma antica le origini del concetto di publica utilitas così spesso evocato nella legislazione dei pontefici.
Le regole degli altri Stati italiani erano molto simili, da Venezia a Lucca, da Parma a Modena e a Milano. Dovunque si prendeva l’iniziativa di redigere il catalogo delle opere d’arte (innanzi tutto a Venezia nel 1773) e di creare istituzioni di sorveglianza come il Generale Ispettore delle Arti di Venezia (1773) o la Regia Custodia delle Antichità di Sicilia (1778). Ma perché gli antichi Stati italiani agivano in questo modo emulandosi gli uni con gli altri, quando nulla li obbligava a farlo?

Perché gli Stati italiani davano tanta importanza alle proprie opere d’arte
L’origine di questa cultura civica e giuridica si deve, credo, alle città italiane che, a partire dal XII secolo, elaborarono un potente concetto di cittadinanza secondo il quale i monumenti di ogni città costituivano un principio di identità civica e di identificazione emotiva che corrispondeva all’idea stessa del far parte di una comunità ben governata.
Mi limiterò a citare due documenti. 1) La delibera della municipalità di Roma (1162) sulla Colonna Traiana, in virtù della quale, «per salvaguardare l’onore pubblico della Città di Roma, la Colonna non dovrà mai essere danneggiata o demolita ma restare così com’è, per tutta l’eternità, intatta e inalterata fino alla fine del mondo. Se qualcuno attenterà alla sua integrità, sarà condannato a morte e i suoi beni saranno confiscati dal fisco». 2) Gli Statuti della municipalità di Siena (1309) in virtù dei quali colui «che governa la città deve in primo luogo assicurare la sua bellezza e il suo ornamento, essenziali alla felicità e alla gioia dei forestieri, ma anche all’onore e alla prosperità dei senesi». In centinaia di documenti come questo leggiamo gli stessi principi: bellezza, abbellimento (decorum), dignità, onore pubblico, bene comune o publica utilitas.
L’unanimità con la quale gli Stati preunitari si sono dotati di regole di tutela è stata (così come l’uso della lingua italiana dalle Alpi alla Sicilia) un autentico linguaggio comune nutrito di uno stesso senso della «bellezza» e dell’«ornamento» delle città e di un’identica tensione nel trasmettere i valori da una generazione all’altra, anche per il tramite di appositi magistrati come gli Ufficiali dell’Ornato (ente per l’abbellimento), attivi a Siena dal 1403. Queste regole trovavano il loro fondamento giuridico nella nozione di publica utilitas che, come ho già spiegato, risaliva al diritto romano. Per esempio, la Costituzione apostolica Quae publice utilia ac decora di Gregorio XIII (1574) affermava espressamente l’assoluta priorità del bene pubblico sugli interessi privati nell’edificazione. È su questo principio che si è esplicitamente fondato l’editto del 1733 che legava le collezioni di antichità a Roma, come le leggi che l’hanno seguito, a Roma come a Napoli e altrove.

I piemontesi difendevano la proprietà privata
Il principio «d’utilità pubblica» del patrimonio culturale è un elemento forte di continuità nella storia nazionale d’Italia. Tuttavia, dopo la costituzione del Regno d’Italia (1859-60 con la successiva annessione di Roma nel 1870), ci è voluto molto tempo per arrivare a una legge unitaria di tutela. Lo Stato promotore dell’unità italiana era il Regno di Sardegna che comprendeva il Piemonte, la Liguria e la Savoia, dove la tradizione di tutela del patrimonio era molto debole e lo Statuto concesso dal re Carlo Alberto nel 1848 affermava l’inviolabilità della proprietà privata, cioè esattamente il contrario che negli Stati Pontifici e nel Regno di Napoli. Da qui sono nati conflitti protrattisi per decenni nel Parlamento nazionale mentre la capitale si spostava da Torino a Firenze e poi a Roma. Si è dovuto attendere il 1902 per arrivare a una prima legge, seppure molto debole, che è stata rimpiazzata nel 1909 da una migliore. L’argomento che faceva abortire le numerose proposte di legge era sempre lo stesso. Era il primato del bene pubblico sugli interessi privati che suscitava strenue resistenze da parte dei grandi proprietari terrieri fortemente rappresentati in Senato (allora nominato dal re). Negli anni 1907-1908 ci fu un’importante mobilitazione pubblica che alla fine portò alla legge del 1909, intesa in continuità diretta alle regole di certi Stati preunitari, in particolare di Roma e Napoli.
La legge del 1909 sancì il primato dell’interesse pubblico sulla proprietà privata per tutti «i beni mobili e immobili dotati di interesse storico, archeologico, paleontologico e artistico» vietando la loro alienazione quando fossero di proprietà pubblica e incaricando della loro sorveglianza e conservazione il Ministero della Pubblica Istruzione. I beni rilevanti di proprietà privata non erano oggetto di una tutela completa a meno che presentassero un «interesse importante»: in questo caso si procedeva a una misura di notifica e la loro esportazione era vietata. In caso di vendita, lo Stato disponeva di un diritto di prelazione. Le scoperte archeologiche vennero dichiarate proprietà dello Stato e la loro esportazione vietata. La versione originale della legge conteneva anche altri principi approvati dalla Camera ma non dal Senato, fra cui l’azione popolare che si riferiva all’actio popularis del diritto romano. Questa doveva dare a ogni cittadino la facoltà di «far valere i diritti di competenza dello Stato», cioè di reclamare il rispetto delle regole di tutela per difendere il bene pubblico. Era insomma una sorta di class action destinata (secondo la relazione alla Camera) ad «avere un’opinione pubblica forte, ben costituita, ben diretta e ausiliaria dello Stato nella conservazione del patrimonio artistico». Ma questo principio non venne adottato né allora né successivamente.

La proprietà fondiaria contro la tutela del paesaggio
Nel testo approvato dalla Camera, la legge contemplava anche la tutela del paesaggio, che fu annullata dal Senato in cui sedevano numerosi rappresentanti dell’aristocrazia e della grande proprietà fondiaria. All’epoca si parlava ormai spesso di tutela del paesaggio in Italia, anche sotto l’influenza di altre esperienze, tra le quali ebbe grande riscontro in Italia la legge francese Beauquier (1906) e il movimento per la protezione della natura sviluppatosi negli Stati Uniti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Sotto la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909) si era svolta la più vasta campagna della storia nell’ambito della tutela dell’ambiente naturale e si era concretizzata attraverso la creazione di 6 parchi nazionali, 18 monumenti nazionali, 51 riserve ornitologiche federali e 150 foreste nazionali. Roosevelt si era esplicitamente ispirato a un principio già formulato da Gifford Pinchot (primo capo del servizio forestale degli Stati Uniti): «conservare significa creare il massimo vantaggio possibile per il maggior numero possibile (di cittadini) il più a lungo possibile». Egli commentò anche: «il criterio del maggior numero possibile deve applicarsi a tutto il corso dei tempi e, in questo ambito, noi che viviamo oggi non rappresentiamo che una frazione insignificante. Noi abbiamo il dovere di rispettare l’insieme degli uomini, soprattutto le generazioni non ancora nate. Dobbiamo dunque impedire che una minoranza senza principi distrugga un patrimonio che appartiene alle generazioni a venire. Il movimento per la conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali è per la sua stessa essenza democratico nello spirito, nelle finalità e nel metodo». Tra i pionieri della difesa dell’ambiente è annoverato George Perkins Marsh, primo ambasciatore americano in Italia per vent’anni (1861-82), che vi ha scritto il suo libro L’Uomo e la natura o la geografia fisica modificata dall’azione umana (1864), immediatamente tradotto in Italiano.
La protezione della natura come obbligo morale nei confronti delle generazioni future e il forte legame tra la salvaguardia della natura e l’identità nazionale non solo sono state caratteristiche della difesa dell’ambiente in America ma anche di analoghi movimenti in Europa (per esempio in Francia, in Germania e nel Regno Unito). John Ruskin si è mostrato particolarmente eloquente nel contesto inglese. Secondo lui, il paesaggio deve essere protetto in quanto fonte di esperienze etiche ed estetiche forti, non soltanto sul piano individuale ma per la collettività dei cittadini. Il paesaggio riflette e determina l’ordine morale e per questo è un luogo chiave per la responsabilità sociale. Di fronte ad esso, le istanze sociali e politiche sono obbligate a misurarsi con i valori della natura, della bellezza e della memoria e non possono rinunciarvi senza tradire se stesse. Le teorie di Ruskin sono state diffuse in Francia da Robert de la Sizeranne in un libro (Ruskin et la religion de la beauté, 1897) che ha avuto grande successo in Italia. Da questo è tratta la frase che, spesso attribuita a Ruskin, diventerà lo slogan della protezione della natura in Italia: «Il paesaggio è il volto amato della patria».
Tuttavia, il paesaggio italiano non è solo natura. Esso è stato modellato nel corso dei secoli da una forte presenza umana. È un paesaggio intriso di storia e rappresentato dagli scrittori e dai pittori italiani e stranieri e, a sua volta, si è modellato con il tempo sulle poesie, i quadri e gli affreschi. In Italia, una sensibilità diversa e complementare si è quindi immediatamente aggiunta all’ispirazione naturalista. Essa ha assimilato il paesaggio alle opere d’arte sfruttando le categorie concettuali e descrittive della «veduta» che si può applicare tanto a un quadro o a un angolo di paesaggio come lo si può osservare da una finestra (in direzione della campagna) o da una collina (in direzione della città). Secondo il Viaggio in Italia di Goethe, le architetture inserite nel paesaggio italiano sono «una seconda natura destinata alla pubblica utilità» o «che opera a fini civili».

La legge del 1920 voluta da Benedetto Croce
La tutela del paesaggio in Italia si è innestata sullo stesso tessuto etico, giuridico, civile e politico che aveva dato luce alle regole di tutela del patrimonio. Con la crescita dell’industrializzazione (più lenta che nel nord Europa), i pericoli per il paesaggio italiano sono cresciuti e il movimento di protezione della natura si è sviluppato. Ha dato vita ad associazioni e movimenti di opinione e, nel 1905, a una regolamentazione ad hoc per la salvaguardia della pineta di Ravenna. Tuttavia, la prima legge organica è stata elaborata nel 1920 da Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione. Nella sua relazione al Senato, Croce si appella ai precedenti americani ed europei e allude a ciò che è e resta il «doppio cuore» del problema, cioè da un lato la relazione tra natura e cultura (in Italia tra città e campagne), e dall’altro l’equilibrio tra interesse pubblico e proprietà privata. Un «grandissimo interesse morale e artistico legittima l’intervento dello Stato», scrive Croce, perché il paesaggio «non è nient’altro che la rappresentazione materiale e visibile della patria».
Le misure di tutela rappresentano, è vero, una limitazione dei diritti della proprietà privata, ma si tratta, dice Croce, di una servitù di pubblica utilità, assolutamente necessaria. Sarebbe ugualmente inammissibile «sfigurare un monumento o fare oltraggio a un bel paesaggio, entrambi destinati al godimento di tutti». Si riallaccia qui al tema della publica utilitas e richiama il diritto romano. Nel corso dei dibattiti alla Camera, furono evocate le servitù di veduta (servitus prospectus) previste nel diritto romano, per esempio per Costantinopoli.

Le due leggi «fasciste» di Bottai del 1939
La legge Croce venne approvata pochi mesi prima dell’avvento del fascismo, nel 1922. Per diciassette anni, il regime di Mussolini non modificò nulle delle regole di tutela ma, nel 1939, il ministro Giuseppe Bottai intraprese una riforma organica ed elaborò due leggi parallele per la tutela del patrimonio e la tutela del paesaggio. Queste leggi, seppure emanate sotto un governo fascista, non avevano niente di particolarmente «fascista». Esse presentavano al contrario una redazione più precisa e completa della regolamentazione dell’Italia liberale, la legge Rava del 1909 e la legge Croce del 1920-22. In materia di paesaggio, Bottai impose il principio della «servitù di godimento pubblico» esplicitamente ripresa da Croce. In materia di patrimonio, la legge si ispirava al primato dell’interesse pubblico sulla proprietà privata. Durante la fase di elaborazione delle leggi, Bottai si avvalse della migliore intellighenzia italiana, in particolare di Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e del grande giurista Santi Romano.
Le due leggi del 1939, che è impossibile descrivere nel dettaglio in questa sede, sono state elaborate come dittico e hanno stabilito che la tutela del paesaggio e la tutela del patrimonio storico, archeologico e artistico erano le due facce della stessa medaglia, conclusione in corrispondenza perfetta con la tradizione civile e giuridica secolare degli italiani. Possiamo anche risalire alle origini molto antiche di questo strettissimo legame nei sistemi giuridici italiani, e ritornare indietro almeno fino all’ordinanza del Patrimonio reale di Sicilia del 21 agosto 1745 che impose congiuntamente la conservazione delle antichità di Taormina e del bosco di Carpineto sul monte di Mascali come del «castagno dei cento cavalli» (oggi nel parco dell’Etna). L’autore di questa misura era il viceré di Sicilia Bartolomeo Corsini, nipote di Clemente XII, il papa cui dobbiamo importantissime regole di tutela (1733) e la creazione del Museo Capitolino, come abbiamo visto. Il viceré Corsini era anche fratello del cardinale Neri Corsini, l’ispiratore del Museum Florentinum e del «patto di famiglia» Medici-Lorena (1737) che ha assicurato il mantenimento perpetuo delle collezioni dei Medici a Firenze.
Le due leggi Bottai, approvate in dittico nel giugno del 1939 a qualche settimana di distanza l’una dall’altra, erano così poco fasciste che dopo la guerra e la catastrofica caduta del fascismo, la Repubblica nata dalla Resistenza ne ha iscritto il nucleo originario tra i principi fondamentali dello Stato nella Costituzione della Repubblica.
L’articolo 9 della Costituzione (entrata in vigore il 1° gennaio 1948) enuncia: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L’Assemblea Costituente giunse a questa formulazione dopo lunghi dibattiti e undici differenti formulazioni. I rappresentanti di tutti i partiti contribuirono al testo finale, in particolare il comunista Concetto Marchesi e il democristiano Aldo Moro. Nella Costituzione italiana, fa parte dei «principi fondamentali dello Stato» e si lega a una sapiente struttura di valori, in particolare «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3), i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), i limiti imposti alla proprietà individuale «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (art. 42). E inoltre, la Corte Costituzionale ha ugualmente riconosciuto come valore costituzionale la tutela dell’ambiente (non espressamente menzionata nel testo) facendola derivare dalla convergenza della tutela del paesaggio (art. 9) e il diritto alla salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art.32).
Insomma, l’articolo 9 della Costituzione italiana è la sintesi di un processo secolare che ha due caratteristiche principali: la priorità dell’interesse pubblico sulla proprietà privata e lo stretto legame tra tutela del patrimonio culturale e la tutela del paesaggio. Si è trattato in effetti di una «costituzionalizzazione» delle leggi di tutela del 1939 come attestato dai dibattiti dell’Assemblea Costituente. Dire che «La Repubblica protegge il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» non è una dichiarazione d’intenti, ma piuttosto la descrizione di un sistema normativo e istituzionale già in atto. Da un alto le regole (le due leggi Bottai del 1939) e dall’altro le istituzioni (il sistema delle Soprintendenze territoriali divise per competenze e incaricate concretamente di una missione di sorveglianza e tutela). La perfetta continuità tra le leggi dell’Italia liberale, le due leggi approvate dal governo fascista e infine l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica non sorprenderà se non quelli che ragionano per etichette e appartenenze senza entrare nella complessità della storia delle idee. Ancora più sorprendente sarà per essi l’evidente continuità tra le regole di tutela degli Stati italiani dell’ancien régime (come Roma o Napoli) e la cultura del patrimonio e della conservazione diffusa in Europa dopo la rivoluzione francese. Non si trattava quindi di «restaurazione» delle regole più antiche, ma di una nuova riflessione sui linguaggi e le regole dell’ancien régime alla luce di idee direttrici nuove come quelle di nazione, di sovranità popolare e di cittadinanza, che gli avvenimenti della rivoluzione francese avevano cambiato per sempre fornendo contenuti inediti alla nozione di «bene comune» e incarnandolo anche nei monumenti.
Una breve citazione dei Principi della filosofia e del diritto di Hegel (1821) lo dimostra bene: «I monumenti pubblici sono proprietà nazionale, cioè più esattamente, come nel caso delle opere d’arte in generale quando esse sono utilizzate, i monumenti pubblici hanno valore di fini viventi e autonomi fin tanto che sono abitati dall’anima della memoria e dell’onore. Quando quest’anima li ha lasciati, al contrario, essi diventano in questo senso, per la nazione, delle proprietà private, anonime e accidentali, come le opere d’arte greche ed egiziane in Turchia». In questo testo molto denso, si riconosce la nobile concezione del patrimonio nazionale che abbiamo visto nascere con Quatremère. I due poli convergenti di «memoria» e «onore» con la loro forte carica etica ritornano alla collettività dei cittadini ma presuppongono la forma dello Stato e richiedono una piena armonia tra etica e politica. Se «l’anima della memoria e dell’onore» scompare dall’orizzonte della vita e della storia, si produce una perdita radicale di significato. Questo evento, secondo Hegel, si era prodotto in Turchia, cioè nell’Impero Ottomano, per le antichità greche e egiziane.
Dagli statuti dei Comuni italiani del Medioevo alle leggi degli Stati preunitari e dell’Italia unificata fino alla Costituzione della Repubblica si disegna il percorso della cultura della tutela del patrimonio in Italia, un percorso unico per la sua lunga durata oltre che per la sua coerenza. Che i principi della tutela debbano essere iscritti nella Costituzione di un Paese moderno non è affatto evidente, e ancora oggi assai raro. L’articolo 9 della Costituzione italiana non ha avuto che due precedenti: la Costituzione della Repubblica di Weimar (1919) e quella della Repubblica Spagnola (1931), che fu peraltro di brevissima durata. In nessuno di questi due casi, comunque, la tutela del patrimonio faceva parte dei principi fondamentali dello Stato. A tutt’oggi, pochi Stati hanno dato a questo principio un rango costituzionale. In Europa, è uno dei principi fondamentali della Costituzione maltese e portoghese e ricopre forme diverse in altri Paesi, dalla Polonia alla Grecia ma anche nel continente americano, per esempio in Costa Rica e in Brasile.
Ho finora raccontato una storia «in crescendo», dalle regole sparse di qualche città nel Medioevo alla Costituzione di uno Stato moderno; e potrei benissimo proseguire ancora aggiungendo delle leggi e delle regole più recenti, in particolare la creazione del ministero dei Beni Culturali (1975) e, più recentemente, il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (2004, modificato nel 2006 e 2008) alla cui redazione ho partecipato e che ha modificato le leggi del 1939 conservandone tuttavia la la sostanza e lo spirito.

Ma dopo, e contro, le leggi inizia la distruzione massiccia
Devo tuttavia concludere con un tono completamente diverso, dichiarando senza mezzi termini che questo complesso sistema di tutela (il più vecchio e probabilmente ancora oggi sulla carta tra i migliori al mondo) funziona oggi sempre meno bene. La distruzione del paesaggio è sempre più drammatica. Basta ricordare che in 15 anni, dal 1990 al 2005, il 17% della campagna italiana si è ricoperta di nuove costruzioni, che ogni anno vengono edificati oltre 250 milioni di metri cubi e che la crescita della superficie abitativa dovuta alle nuove costruzioni è quaranta volte superiore alla modestissima crescita demografica (0,4%). L’armonico rapporto città-campagna costruito nei secoli sta cedendo terreno a un urban sprawl (distribuzione urbana) incontrollato che ospita ormai quasi un quarto della popolazione e delle attività produttive. L’antica forma urbis sta esplodendo e la sua espansione indefinita non annulla soltanto la periferia ma anche il centro. Nel nuovo paesaggio di periferia, lo spazio residuo tra le agglomerazioni perde il suo carattere di filtro e assume quello di terra di nessuno, mentre la terra delle campagne, coperta di cemento, perde per sempre le funzioni ecologiche che esercitava. Un territorio eccezionalmente fragile, soggetto a frane, inondazioni e terremoti è sempre più lasciato a se stesso e, mentre iniziano immensi lavori pubblici (per esempio il ponte sullo Stretto di Messina) non si fa quasi nulla per consolidare le zone più esposte ai rischi. Mentre le leggi di tutela restano in vigore e addirittura si migliorano un poco nel tempo, vengono concesse periodicamente deroghe, eccezioni o anche condoni in modo tale che quanti hanno commesso un delitto distruggendo un angolo di paesaggio possano fare ammenda pagando una piccola multa allo Stato o alle municipalità. Dato che questi condoni vengono accordati periodicamente (soprattutto dai Governi di destra), tutti sanno di potere violare impunemente la legge e che basterà attendere qualche anno per mettersi in regola pagando un’ammenda.
In materia di tutela del patrimonio culturale, si registra una profonda crisi di risorse umane e finanziarie. Da molti anni non si assume più personale e i funzionari di Soprintendenza hanno ormai in media 55 anni, cioè sono destinati ad andare in pensione entro cinque o dieci anni al massimo. Nel 2008 il Governo Berlusconi ha ridotto il budget del Ministero dei Beni culturali di circa un miliardo e mezzo di euro rendendo così praticamente impossibile qualsiasi intervento, anche i restauri urgenti divenuti indispensabili (come dopo il crollo della volta della Domus Aurea di Nerone). A fronte di queste carenze si sta affacciando l’idea di privatizzare il patrimonio culturale o di vendere una parte dei monumenti con il pretesto di adottare il «modello americano» di cui tutti parlano ma che nessuno conosce veramente. Nel frattempo il peso crescente della Lega Nord, partito nato con il progetto di realizzare la secessione delle regioni del Nord dal resto d’Italia, accresce la probabilità di una riforma costituzionale di orientamento «federalista» il cui enorme costo per i cittadini nessuno si preoccupa di misurare.
Per tracciare i confini di questa crisi bisogna almeno sommariamente richiamare un terzo punto. L’assenza di leggi non figura tra le ragioni della continua distruzione del paesaggio e del patrimonio. In questo campo esiste, al contrario, una sorta di accanimento terapeutico che origina un numero di leggi troppo elevato che è la ragione per cui è difficile osservarle tanto più che esse si sono spesso sedimentate nel tempo in maniera incoerente creando un labirinto di conflitti di competenze, in particolare tra lo Stato e le Regioni. Citerei a questo proposito il caso più grave che è rappresentato dal caos terminologico creato intorno alla tre parole chiave «paesaggio», «territorio» e «ambiente».

Il caos delle tre parole chiave: paesaggio, territorio e ambiente
Il «paesaggio», secondo l’articolo 9 della Costituzione, come abbiamo visto, deve essere posto sotto la tutela dello Stato e, in particolare, del Ministero dei Beni culturali, ma il «territorio», secondo l’articolo 117 della Costituzione, deve essere regolamentato e pianificato non dallo Stato centrale ma dalle Regioni e dai Comuni. Infine, «l’ambiente» è oggetto di competenza mista e, a livello dello Stato centrale, è un altro Ministero denominato proprio «dell’Ambiente» ad averne la responsabilità. Non si tratta di un dibattito astratto. Se, per esempio, si deve decidere dell’opportunità di distruggere o meno una grande pineta sulla costa tirrenica, chi dovrà prendere la decisione a questo proposito e accordare le relative autorizzazioni? Lo Stato, la Regione, il Comune? La legislazione è così complessa, soprattutto dopo la riforma costituzionale del 2001, che numerosi conflitti di competenza vengono portati ogni anno davanti alla Corte Costituzionale. Sarebbe quindi necessario porsi una domanda più radicale: esiste un territorio senza paesaggio e senza ambiente? Un paesaggio senza territorio e ambiente? Un ambiente senza paesaggio e senza territorio? Una revisione delle leggi finalizzata alla riunificazione delle tre Italie del paesaggio, del territorio e dell’ambiente è tanto difficile da realizzare quanto indispensabile.

A nessun politico, senza eccezioni, interessa il patrimonio artistico
La cronaca quotidiana, che non vado certo a ripercorrere oggi, mostra insomma l’usura progressiva e forse irreversibile della lunga tradizione italiana di tutela del patrimonio e di civiltà etica e giuridica del bene comune di cui in precedenza ho brevemente evocato la storia. Bisogna dunque domandarsi se ogni speranza è morta o se ci sono ancora dei rimedi da adottare. La mia non può essere che una risposta individuale di cittadino e non di uomo politico e deve partire da due semplicissime constatazioni. In primo luogo, nessun partito politico attivo nell’Italia di oggi, senza alcuna eccezione, ha richiamato l’attenzione su questo tema, per esempio in occasione delle elezioni politiche del 2008 o delle elezioni regionali del 2010. In secondo luogo, circa 20mila associazioni di cittadini, piccole e grandi, hanno fatto la loro apparizione negli ultimi anni promuovendo campagne di informazione e di difesa dei loro rispettivi territori. Questo «particolarismo italiano», che sembra aggiungersi alle così numerose altre forze di disgregazione del Paese, potrebbe avere in sé qualche caratteristica positiva, almeno lo spero, e riconnettere il meglio delle forze politiche ufficiali all’antica cultura delle città facendo rinascere forme di «azione popolare» o di class action come quelle che erano state prese in considerazione al momento dell’emanazione della legge del 1909.

Gli italiani hanno perso la coscienza
del valore del paesaggio
La crisi che viviamo è una ragione in più per riflettere, con un occhio rivolto al passato e l’altro al futuro, sui modelli storici di conservazione del patrimonio e sul loro destino. Per restituire all’antico modello consolidato della conservazione contestuale del paesaggio e del patrimonio, lo smalto e lo slancio richiesti dalle circostanze e dalla nostra responsabilità nei confronti delle generazioni future, è necessario sottomettersi a nuove questioni e nuove tensioni. Perché la conservazione del patrimonio abbia ancora un senso e perché il museo abbia ancora un avvenire nella città, credo che sia assolutamente necessario saper innescare due processi culturali. Il primo, del quale ho parlato, è la piena coscienza storico-istituzionale della funzione civile e sociale del patrimonio nella storia d’Europa. Il secondo processo, del quale non posso che accennare, è la piena reintegrazione della cultura della tutela del patrimonio nei grandi sviluppi culturali dei nostri tempi.
Perché il paesaggio non sia cannibalizzato da un pugno di speculatori senza scrupoli, esso deve divenire un luogo di coscienza di sé della società che l’ha creato e che lo sta distruggendo (è la «produzione dello spazio» evocata da Henri Lefebvre). Come ci bene mostrato Jean Clair nel suo recente libro L’hiver de la culture, i musei, come tutte le istituzioni culturali, sono soggetti all’usura del tempo e potrebbero quindi ben avere, in un prossimo futuro, la loro data di scadenza. Per non morire, il museo deve dialogare con la città e diventare un nodo urbano che si fonde al tessuto patrimoniale, civile e sociale della città e farsi concentrato e vetrina della sedimentazione storica e della memoria collettiva. Definire nuove funzioni per il paesaggio e il patrimonio è un obiettivo urgente che compete in primo luogo agli storici dell’arte come noi.
In realtà, il futuro della conservazione del patrimonio nelle nostre città si gioca innanzi tutto nella difesa del paesaggio e dell’ambiente, nella coscienza dei valori civili e sociali ad essi legati e non tra le mura di un museo. La scelta in effetti è la seguente: o il nostro patrimonio nel suo insieme, nel tessuto vivente della città e del paesaggio ridivengono un luogo di coscienza di sé del cittadino e un centro generatore di energia per la polis, o il loro destino è perire. La responsabilità etica e professionale degli storici dell’arte è anche di comprendere questo grave pericolo e di contribuire a evitarlo.

Poiché gli italiani non se ne occupano, ci vuole un movimento d’opinione (e di indignazione) internazionale
Tuttavia, gli sforzi isolati non bastano, per generosi e accaniti che siano. Un più ampio movimento di opinione che non si limiti all’Italia ma che possa farne un’opportunità di riflessione, è necessario, anzi urgente.
La qualità del patrimonio dell’Italia e del suo paesaggio, ma anche l’antichità delle sue tradizioni di tutela, storicamente legate a una piena coscienza e a una forte etica, attirano sempre di più l’attenzione dei cittadini di altri Paesi (soprattutto in Europa e in America). Un movimento di opinione come quello che auspico deve partire da un’informazione solida ed esatta. Richiede che venga valutata la gravità dei rischi che il paesaggio e il patrimonio d’Italia corrono oggi, ma richiede anche una piena coscienza del valore civile, etico e giuridico delle antiche regole di tutela e della loro trasmissione di generazione in generazione come elemento portante di continuità storica.
Per salvaguardare il prezioso patrimonio italiano e per evitare che ciò che resta del nostro paesaggio venga distrutto, bisogna ripartire dai diritti delle generazioni future e, su questa base, costruire (o ricostruire) un quadro istituzionale e legislativo credibile, funzionale e efficace. Senza dubbio sarebbe straordinariamente importante a questo riguardo che l’opinione pubblica internazionale illuminata esprimesse le proprie preoccupazioni su questo tema.

Testo della conferenza «La tutela del patrimonio e del paesaggio in Italia: una lunga storia, una crisi di grande attualità» tenuta domenica 29 maggio 2012 al primo Festival di Storia dell’Arte nel Castello di Fontainebleau
Per un approfondimento: Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Giulio Einaudi Editore, Torino 2010

di Salvatore Settis, da Il Giornale dell’Arte numero 324, ottobre 2012

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Pietro Porcinai

28 Febbraio 2016

L’Urbanistica come problema sociale in connessione alla organizzazione delle zone industriali.

In senso concreto, il “verde” nell’urbanistica non può certamente limitarsi a ciò che spesso avviene di vedere nei piani e progetti, cioè la mera indicazione, non sul terreno, ma sulle planimetrie, di quel colore in corrispondenza delle aree destinate ad esser piantate ad alberi, a cespugli generici, o a prato. Deve essere invece molto di più.

Anzitutto è bene rammentare che piantando senza precise vedute, od anche chiamando, ad opere eseguite, un giardiniere che infili piante nella terra, l’azione a pro del “verde” sarebbe molto simile a quella di certi ingegneri del passato i quali fatto l’edificio chiamavano l’architetto per fare la facciata.

Ebbene, quando si tratta del verde, oggi, da noi in Italia (ma non solo in Italia) siamo purtroppo proprio al caso della facciata pensata e disegnata a posteriori, dato che ben di frequente le zone verdi o sono lasciate all’abbandono o son fatte piantare a talento dal primo qualunque operaio sedicente giardiniere che capita a portata di mano.

E così facendo, non soltanto le zone verdi vengono ad essere quel che sono cioè spesso cosa miserrima o banale, ma, il che pure conta, vengono a costare enormemente di più, sia come impianto, sia come manutenzione: ne consegue di frequente che – siccome le economie si fanno sempre sulle cose ultime – nulla o poco, alla fine, risulta concretamente a pro delle zone verdi.

Ciò è non solo doloroso, ma anche assurdo, perché, se invece divenisse abitudine operare opportunamente già nella fase di progettazione, già all’inizio dei movimenti di terra (lavoro primo in qualunque costruzione), si arriverebbe agevolmente a realizzare le zone verdi usufruendo delle sole economie ottenute operando in senso logico e razionale.

Per giungere a tanto, architetti, ingegneri e geometri, tutti i costruttori, bisogna che si educhino opportunamente. Oggi, epoca delle zone verdi, non abbiamo invece in Italia nemmeno un corso di studi che a tali costruttori lasci intravedere come le accennate economie d’impianto e manutenzione possano essere realizzate.

Tra i concetti fondamentali, non appare si sappia che la zona verde non può e non deve essere un pezzo di giardino da trasferirsi sopra una data area. Tanto meno, poi, quando trattisi di sistemare col verde uno stabilimento industriale. Quel che occorre invece è creare un insieme di piante che, per l’opportuna scelta ed il voluto collocamento, abbia attitudine a formare un complesso in cui i singoli si tengano a bada reciprocamente, senza, quindi, la necessità del continuo intervento del giardiniere.

Trascurando gli accennati criteri fondamentali le zone verdi vengono a costare molto più del dovuto e, quindi, saranno sempre avversate da coloro che debbono aprire la borsa. Bisogna dunque capire e far capire che operando a dovere le zone a verde sono suscettibili di fortissima economia d’impianto e manutenzione, ripagata abbondantemente dai tanti altri benefici che se ne ricavano, specie nell’ambito dell’industria.

Altro criterio basilare è quello della scelta del terreno.

Determinata la zona in cui, rispetto alle materie prime, mano d’opera, energia e mercati, si considera conveniente far sorgere un impianto industriale, bisogna prima preoccuparsi di scegliere, per la definitiva ubicazione, terreni di minima redditività agraria.

A giustificazione di tale criterio basta riflettere che, in un paese come il nostro, super popolato e povero non solo di materie prime essenziali ma anche di buona terra, è colpevole distruggere appezzamenti di terreno capaci d’esser fonte di vita, quelli cioè dotati della meravigliosa forza che trasforma un seme in un prodotto.

Appare quindi indispensabile e saggio, prima di piazzare uno stabilimento, consultare una carta agrogeologica. Vero è anche, spesso, che la carta non c’è, perché non sempre gli organi governativi si occupano di provvedere a cose che certa burocrazia considera di dettaglio. Ma, anche in tale evenienza, si può supplire con fonti informative locali. Si avverta che consultare i dati del reddito catastale non basta; spesso, terreni a basso reddito possono con lavori opportuni esser messi in valore.

All’area industriale devono invece esser destinati sempre, se possibile, terreni non redditizi sotto l’aspetto agrario.

Ma non basta, che c’è ancora un criterio da tener per guida nella scelta delle aree di complessi destinati all’industria, ed è che l’impianto, una volta realizzato, non danneggi o deturpi l’ambiente naturale, come si verifica, non poche volte, a causa di un cattivo inserimento nel paesaggio, o per causa di esalazioni, rumori, smaltimento di rifiuti ecc.

Già troppo scempio si è fatto sinora a questo riguardo, e in un paese che ha le bellezze del nostro non si può all’infinito continuare la distruzione del paesaggio: in queste distruzioni, colpevoli perché oltretutto per nulla necessarie e invece facilmente evitabili, l’industria, insieme al Genio militare e civile, ha la sua buona parte di colpa.

L’inserimento del complesso industriale nel paesaggio dipende essenzialmente dalla sensibilità dei progettisti. Uno stabilimento brutto è, anche tecnicamente, sempre sbagliato; mentre un insieme ben inserito nel paesaggio è motivo pubblicitario notevole per lo smercio dei prodotti, ed è fonte di piacere per chi lavora, il che, per chi intenda, è cosa della massima importanza.

Studi, pubblicazioni ed esperimenti si vanno moltiplicando sulla efficienza del lavoro razionalizzato, e concordemente si riconosce che non basta creare industrie ottimamente dotate di macchinari attrezzi e arredamenti moderni, se, insieme, non si presta cura all’adattamento all’uomo del posto di lavoro.

Creare al lavoro umano l’ambiente più adatto è oggi dagli specialisti, e dagli industriali più lungimiranti, considerato l’antidoto essenziale alla fatica, alla monotonia, alla spersonalizzazione provenienti dai moderni sistemi tecnici di lavorazione.

L’operaio nell’opificio non è lieto come l’artigiano, specie perché non ha più la possibilità di usare il talento creativo: nello stabilimento industriale moderno, ben ordinato, ben dotato, ben organizzato, l’uomo tende a divenire poco più di un utensile e questo ha conseguenze gravi sulle possibilità di rendimento e, indirettamente, sugli stati d’animo riguardanti socialmente l’intera collettività.

Le zone verdi e il giardino di stabilimento creano un ambiente che nel modo migliore si contrappone al meccanicismo, perché riporta l’animo umano a contatto della natura. Risolvere in un opificio la questione del “verde” vuol dire influenzare beneficamente tutti coloro che lavorano: dal presidente del complesso industriale fino all’ultimo manovale e al più modesto impiegato. L’influsso di un ambiente ben sistemato con popolazione di alberi e piante è incalcolabile e può non solo mutare le sorti di una cattiva giornata, ma essere stimolo favorevole per un’intera esistenza. A tacere i dettagli, si può dire che colà dove tentativi coraggiosi di condurre il giardino e il verde nell’industria sono stati realizzati, si è creata la premessa per un maggiore rendimento del fattore umano e per una più placata convivenza di rapporti.

Zone verdi e giardino di stabilimento debbono essere, s’intende, volta per volta preliminarmente studiati in rapporto alle caratteristiche di luogo, spazio, lavorazione.

Ogni qual volta sia possibile, alla manutenzione del giardino e del verde si destineranno avvicendandoli, gli operai della fabbrica. Se il complesso comprende abitazioni operaie, non si innalzi casa che non abbia il suo piccolo pezzo di terra dove l’operaio possa fare qualcosa a proprio talento, come reattivo alla necessaria disciplina e coordinamento d’officina: sarà questo il mezzo migliore per conservare all’operaio la sua facoltà creativa, a tutto vantaggio del consueto lavoro.

Nell’area dell’abitato operaio non si rinunci poi al terreno comune da destinarsi ai giuochi dei ragazzi. Su questo terreno, anzi, si pongano a disposizione mezzi elementari, pietre, mattoni, pali e simili, con cui alla fantasia dei fanciulli e giovanetti sia possibile “costruire” qualcosa; si hanno all’estero, nei paesi della Scandinavia in specie, esempi altamente significativi di quanto possa ottenersi in fatto di autoeducazione al lavoro dei figli di operai. Liberi di “creare” ciò che a loro più talenta, abituati a risolvere da soli i contingenti problemi che in tali giuochi si presentano, questi ragazzi ricorderanno poi le difficoltà superate e saranno capaci di trarsi d’impaccio ne lavoro di domani, quando a loro volta diverranno operai nell’industria.

Mettere riparo ai danni e molestie che possono derivare da esalazioni e rumori di stabilimento è cosa facile a risolversi con accorgimenti tecnici; per i rumori in specie, non si dimentichi, tra l’altro, il potere assorbente e frangente che hanno le piantagioni opportunamente disposte.

Più complessa è la questione dello smaltimento dei rifiuti di fabbrica, ma anch’essa va programmaticamente risolta all’inizio in modo da non recar danno all’ambiente e ai terreni ed acque all’intorno. Le soluzioni non sono né difficili, né costose; basta affidare la realizzazione a chi ha pratica ed esperienza in materia, ed in Italia c’è chi sa molto al riguardo.

Un argomento, infine, che si aggiunge col suo peso agli altri accennati per consigliare la creazione di zone verdi nell’ambito degli edifici industriali ed ottenere il completo ambientamento di essi nel circostante paesaggio, è quello mimetico. Senza dilungarsi in proposito, basta ricordare che al Congresso internazionale di Madrid, urbanisti e paesaggisti di tutti i principali paesi del mondo votarono concordi un indirizzo ai Governi onde promuovano la creazione, attorno ad ogni complesso industriale, di una cinta alberata, tanto più spessa quanto maggiore sia l’area occupata dagli edifici e dipendenze.

In un mondo senza pace, è questa una misura molto saggia che nessun industriale e nessun progettista di costruzioni industriali deve a cuor leggero ignorare; tanto più in quanto una protezione di verde rispondente agli scopi non è cosa che possa improvvisarsi in un domani deprecabile nel quale incomba una pericolosa necessità.

Riassumendo e concludendo quanto esposto, si può dunque affermare che, per quanto in specie riguarda l’industria e l’urbanistica industriale, il problema del “verde” è innanzi tutto un problema di giusta comprensione e di economia.

Progettare un’industria tenendo presente l’elemento verde può consentire, fin dai primi movimenti di terra, di economizzare notevolmente; si evita di deturpare il paesaggio e si realizza una misura protettiva di mascheramento; si pongono, infine, le basi per creare un ambiente di lavoro adatto al fattore umano, mettendo l’operaio in condizione di produrre di più e d’esser più felice, conservandone più a lungo l’energia psichica di cui benefica il lavoro materiale, e si promuove inoltre la formazione di abitudini e convivenze utili al pacifico rapporto sociale nella comunità.

Perché le nuove costruzioni industriali e le trasformazioni di quelle esistenti siano avviate sopra una via che intenda al giusto valore l’importanza delle zone verdi, bisogna sperare in una azione educatrice che risulti convincente e formativa per architetti, ingegneri, geometri, impresari e committenti. Si potrebbe intanto cominciare con questi ultimi.

Lo Stato, per quanto lo concerne, ed in quanto emanatore di leggi sulla protezione del paesaggio, provveda in modo semplice e chiaro affinché d’ora in poi uno stabilimento industriale sia sempre realizzato con la stessa armonia che risulta dal lavoro dei campi, e ambientato in un paesaggio bello ed armonico.

Si pensi, ad esempio, alla dolce campagna toscana, in cui il lavoro umano nelle opere agrarie è continuazione ammirevole del lavoro millenario della natura.

E, soprattutto, non manchino le volontà, intese a far cosa praticamente e moralmente utile all’economia privata e all’economia dell’intera nazione.

Saggio di Pietro Porcinai presentato al congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica del 1951

Per gentile concessione di Anna Porcinai, Archivio Pietro Porcinai – Via Bandini, 15, San Domenico di Fiesole (FI)

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Andreina Montà Zegna

16 Febbraio 2016

Storie di giardini e di giardinieri

La contessa Andreina Montà Zegna ricorda la collaborazione
con il paesaggista Pietro Porcinai e il vivaista Ernesto Pozzi
durante i lavori dei giardini Zegna nel Trivero

Le interviste di lessico naturale | Storie di giardini e giardinieri
Ideazione e realizzazione di Alessio Guarino e Fulvia Grandizio

2014 © lessiconaturale.it

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Il Buddhismo

1 Gennaio 2016

1Il Buddhismo nasce in India nel VI sec. A.C. e si diffonde successivamente in Cina, accanto al Confucianesimo e al Taoismo, in Giappone, in Tibet, in Mongolia, nell’isola di Ceylon, in Thailandia, in Birmania, in Cambogia e persino nell’Europa occidentale, in Francia e in Germania. Siddhartha, il Buddha Gautama, ne predica la dottrina per la quale la vita è essenzialmente sofferenza. La strada per sospendere questa condizione di insoddisfazione è la pratica del distacco dalle cose del mondo materiale. Se vivere è desiderare, e il desiderio causa dolore, bisogna smettere di volere e bramare per smettere di soffrire. Cioè praticare il distacco ascetico dalla realtà materiale, per trovare la pace dei sensi. Per i Buddhisti tutto è permeato di spirito, e la meditazione consente di diventare una sola cosa con la realtà dell’intero universo. La penetrazione dell’essenza spirituale del reale abolisce l’opposizione di soggetto e oggetto, e permette la fusione dell’individuo singolo con l’universalità di tutto il reale circostante. Questo “respiro” totale e totalizzante, che abbraccia l’interezza dell’essere esistente, deriva dal distacco dalla materialità del desiderio, del potere, del denaro e della fama. L’unica cosa che importa è la ricerca della pace interiore, che è saggezza ed equilibrio nuovo dell’uomo con il proprio habitat naturale e sociale. Ne deriva una predisposizione alla vita contemplativa ed ascetica, praticata dai monaci buddhisti, i quali fanno voto di povertà, castità e silenzio. Difatti, proprio il silenzio è un elemento fondamentale per la meditazione religiosa. Mentre gli ideali della povertà e della castità rimandano alla liberazione e alla purificazione dal bisogno sessuale o materiale. Le tecniche di meditazione, come il controllo della respirazione e del proprio corpo, sono tutti strumenti utili a raggiungere questa condizione di ascetismo sognante e di piena soddisfazione dell’anima. Referenti filosofici del Buddhismo sono, in epoche successive, l’umanesimo di Socrate e di S. Agostino, per i quali la verità risiede nel cuore dell’uomo; Schopenhauer, che predica la necessità del distacco dal bisogno e del superamento dei desideri che animano la volontà, proponendo un ideale di vita ascetico; Cartesio, che pratica il dubbio metodico e invita l’uomo a fidarsi solo ed esclusivamente di ciò in cui crede per sola, provata esperienza. Il Buddhismo, in quanto atteggiamento filosofico, può definirsi antimetafisico, perché contiene continui richiami all’esperienza concreta di vita degli uomini, rifiutando sistemi onnicomprensivi ed autoesplicativi del reale. Attualmente, il Buddhismo rappresenta anche un richiamo ai valori della pace e della non violenza di Gandhi, per tutti i popoli dell’Occidente. Costituisce, inoltre, un esplicito invito a prendere decisamente posizione nei confronti della contemporaneità, eleggendo a scelta ideologica dominante l’antipositivismo, l’antiscientismo, l’antirazionalismo tecnologico e globalizzante. Attraverso la capacità di “sentire” la spiritualità che permea di sé tutta la storia dell’umanità. Intesa come un eterno ritorno, senza sviluppo, senza inizio né fine. Entro questa concezione circolare dello spirito è possibile la reincarnazione Karmica, che richiama alla memoria la metempsicosi delle anime dopo la morte, di cui parlano sia Pitagora che il grande Platone. I valori del Buddhismo si iscrivono, in questo senso, entro una cultura filosofica della pace. Si pensi a Erasmo da Rotterdam, allo stesso Socrate, ma anche a Kant, a Kelsen. Al personalismo di filosofi cattolici quali Mounier e Maritain, che esaltano l’umanesimo integrale di anima e corpo. E c’è anche un filone ebraico di studi filosofici sulla pace. Buber, ad esempio, parla della relazione intersoggettiva io-tu, che si instaura nel dialogo tra due persone. E che ricorda il Buddhismo Zen del giapponese Nishitani. Vi è poi la filosofia laica della pace di Lévinas, che individua il criterio del rispetto dell’altro nella fenomenologia del volto. L’Altro è colui che si incontra e che mostra, al primo impatto, il suo volto, nel quale si scorge l’infinito, ciò che attrae e respinge. In ogni caso, l’elemento che impone di considerare ogni uomo come una parte del tutto, di quella globalità nella quale quella singola, individuale esistenza è assolutamente indispensabile. Pertanto, ciò che accade ad ogni uomo non può restare indifferente alla categoria degli Altri. Perché ciascuno ha in sé quel briciolo di umanità che impone ad ognuno di riconoscersi nell’Altro. La dimensione filosofica della pace, di cui parla Lévinas, è l’ateismo. Seppure esista un Dio, è proprio nella distanza che intercorre tra Lui e l’uomo ateo che emerge la rispettiva grandezza. Quella del Creatore e quella delle creature. Che sono esistenze degne proprio perché dotate di intelligenza e di libertà morale. Anche per Lévinas non esiste più alcun residuo di metafisica che, come nel Buddhismo, finisce per coincidere proprio con la filosofia morale e con la religiosità, intese come spirito infinito che anima l’umana coscienza.

Tratto da: Antonietta Pistone, Docente di storia e filosofia, Articolo pubblicato sul “Rosone”, anno XXVII, marzo-aprile 2004

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Protagora

2 Dicembre 2015

Amico: Da dove sbuchi, Socrate? Lo so che sei andato a caccia della bellezza di Alcibiade! Quando l’ho visto l’altro ieri mi è proprio sembrato un bell’uomo; un uomo, però, Socrate, per dirla tra noi: e il suo mento è già quasi coperto di barba.

Socrate: E che significa questo? Non sei tu forse un ammiratore di Omero, che ha detto che il momento più affascinante della giovinezza è lo spuntare della prima barba? E questa è proprio l’età di Alcibiade.

Amico: Come vanno le cose ora? Vieni da un incontro con lui? Come è disposto verso di te il ragazzo?

Socrate: Bene, mi è sembrato, e soprattutto oggi: infatti ha parlato molto in mio favore ed è venuto in mio aiuto; torno proprio da un incontro con lui. Ti voglio raccontare una cosa davvero straordinaria: Alcibiade era vicino a me e io non gli prestavo affatto attenzione e spesso me ne dimenticavo.

Amico: E quale fatto così importante può essersi messo in mezzo fra te e lui? Certo non puoi aver incontrato un altro più bello, almeno in questa città.

Socrate: Anzi, molto più bello.

Amico: Cosa dici? Un cittadino o uno straniero?

Socrate: Uno straniero.

Amico: Di dove?

Socrate: Di Abdera.

Amico: E questo straniero ti è sembrato così bello da apparirti più affascinante del figlio di Clinia?

Socrate: Ma mio caro amico, come può non apparire più bello chi è più sapiente?

Amico: E così arrivi da noi, Socrate, dopo aver incontrato un sapiente?

Socrate: Sì. Il più sapiente fra i sapienti del nostro tempo, se Protagora ti sembra tale.

Amico: Che dici? Protagora è in questa città?

Socrate: Ormai da tre giorni.

Amico: E arrivi ora, dopo un incontro con lui?

[310] Socrate: Sì, e dopo aver parlato e ascoltato molto.

Amico: Perché allora non ci racconti la conversazione, se niente ti trattiene? Fai alzare questo schiavo e siediti qui!

Socrate: Va bene! Mi farete un favore ascoltandomi.

Amico: E sicuramente anche tu a noi raccontandoci.

Socrate: Il favore sarà così reciproco. Allora ascoltate.

La notte scorsa, alle prime luci dell’alba, Ippocrate, figlio di Apollodoro e fratello di Fasone, bussò a tutta forza alla mia porta con un bastone. Non appena qualcuno gli aprì subito entrò dentro di corsa e parlando a gran voce disse: “Sei sveglio o dormi?”

E io, riconosciuta la sua voce, dissi: “Questo è Ippocrate. Non mi porterai forse qualche brutta notizia!”

“No di certo, anzi te ne porto una bellissima”.

“Allora parla: cosa c’è e perché sei venuto qui a quest’ora?”

Avvicinatosi a me disse: “E’ arrivato Protagora!”

“L’altro ieri. Tu l’hai saputo solo ora?”

“Sì, per gli dei, solo ieri sera”. E trovato nel buio il mio piccolo letto si sedette ai miei piedi e raccontò: “Sono venuto a saperlo proprio ieri sera molto tardi di ritorno da Enoe. Mi era infatti scappato lo schiavo Satiro: voelvo dirti che l’avrei inseguito, ma chissà per quale altro motivo me ne sono dimenticato. Al mio ritorno abbiamo cenato e solo al momento di andare a dormire mio fratello mi ha detto che Protagora era arrivato. Avrei voluto venire subito da te, ma poi mi è sembrato che fosse troppo tardi. Non appena il sonno mi ha tolto via la stanchezza, mi sono alzato in fretta e sono venuto qui così come mi trovavo”.

E io, accortomi della sua impazienza e della sua ansia, chiesi: “Che cosa ti importa? Forse Protagora ti ha fatto qualche torto?”

E lui, ridendo, disse: “Sì, per gli dei, Socrate, perché lui solo è saggio, ma non rende saggio anche me”.

“Ma sì, per Zeus, se gli dai del denaro e lo convinci renderà saggio anche te”.

“Per Zeus e gli dei, bastasse questo! Non risparmierei né i soldi miei né quelli dei miei amici: vengo da te proprio per questo motivo, perché tu gli parli in mio favore. Io infatti sono ancora troppo giovane e non ho mai né visto né ascoltato Protagora: ero ancora un bambino quando venne in città per la prima volta. Comunque, Socrate, tutti lo lodano e dicono che sia il più bravo a parlare. Perché non andiamo subito da lui così da trovarlo ancora in casa? È ospite di Callia, figlio di Ipponico, ho sentito dire. Forza, andiamo”.

[311] “Non ancora, amico, è troppo presto. Alziamoci e andiamo nel cortile e passeggiando lì intorno passeremo il tempo finché non si farà giorno. Solo allora potremo andare. Protagora trascorre infatti molto tempo in casa. Perciò stai tranquillo: lo troveremo certamente lì”.

Ci alzammo dopo aver parlato così e andammo a passeggiare in cortile. Volevo mettere alla prova la motivazione di Ippocrate, perciò cominciai ad esaminarlo e a fargli domande.

“Dimmi, Ippocrate, tu ora ti prepari ad andare da Protagora e a dargli del denaro come compenso per la tua educazione: ma da chi pensi di andare e chi vuoi diventare? Supponiamo, per esempio, che ti venisse in mente di andare dal tuo omonimo Ippocrate di Cos, della famiglia degli Asclepiadi, e di dargli denaro come compenso per la tua educazione. Se qualcuno ti chiedesse: «Dimmi, Ippocrate, chi è questo Ippocrate al quale stai per dare un compenso?», cosa risponderesti?”

“Direi che è un medico”.

“E tu cosa vorresti diventare?”.

“Un medico”.

“Supponiamo invece che tu pensassi di andare da Policleto di Argo o da Fidia di Atene e di dare loro denaro per la tua educazione. Se uno ti domandasse: «Chi sono Policleto e Fidia ai quali vuoi pagare questo denaro?» cosa risponderesti?”

“Direi che sono scultori”.

“E tu cosa vorresti diventare?”

“Evidentemente uno scultore”.

“Molto bene. Tu ed io andremo da Protagora, pronti a dargli una ricompensa in denaro per la tua educazione: se basteranno le nostre ricchezze lo convinceremo con queste, altrimenti spenderemo anche quelle dei nostri amici. Se qualcuno, vedendo che ci diamo tanto da fare, ci domandasse: «Ditemi, Socrate e Ippocrate, chi è Protagora al quale volete dare i vostri soldi?» cosa gli potremmo rispondere? Con quale altro nome sentiamo chiamare Protagora? Sentiamo, per esempio chiamare Fidia scultore e Omero poeta, ma che nome sentiamo dare a Protagora?”

“Socrate, lo chiamano sofista”.

“Andiamo dunque a dargli denaro in quanto sofista?”

“Sì”.

[312] “Se poi ti si domandasse: «Tu stesso vai da Protagora per diventare chi?»”

E quello, arrossendo – infatti si stava già facendo giorno, perciò lo si poteva vedere chiaramente -, disse: “Se c’è qualche somiglianza con gli esempi precedenti, è chiaro che vado da lui per diventare sofista”.

“E tu, per gli dei, non ti vergogni di presentarti ai Greci come un sofista?”

“Sì, per Zeus, Socrate, se devo dire quello che penso”.

“Forse, Ippocrate, tu credi che l’insegnamento che riceverai da Protagora non sarà di questo tipo, ma come quello che si riceve dai maestri di grammatica, di musica e di ginnastica. Infatti non hai appreso queste discipline per esercitare un mestiere, per diventare cioè un professionista, ma per la tua educazione, come si addice a un libero e privato cittadino”.

“Mi sembra che sia piuttosto questo il tipo di insegnamento di Protagora”.

“Sai quello che stai per fare ora o ti sfugge?”

“Riguardo a che cosa?”

“Riguardo al fatto che stai per affidare la tua anima a un uomo che, come affermi, è un sofista. Mi stupirei, poi, se tu sapessi cosa sia mai un sofista. Se lo ignori non sai neanche a chi affidi la tua anima e neanche se questo è un bene o un male”.

“Credo di saperlo”.

“Dimmi, chi pensi che sia un sofista?”

“Io credo che sia un esperto del sapere, come dice il nome”.

“Che siano esperti del sapere si può dire anche dei pittori e degli architetti. Se qualcuno però ci chiedesse: «Di quale sapere sono esperti i pittori?» potremmo dirgli che sono esperti della rappresentazione delle immagini, e così di seguito. E se qualcuno chiedesse: »Di quale sapere è esperto il sofista?», cosa gli potremmo rispondere, di cosa si occupa?”

“Cos’altro potremmo dire, Socrate, se non che si occupa di rendere abili nel parlare?”.

“Forse diremmo la verità, ma sicuramente non sarebbe sufficiente. La risposta richiederebbe infatti un’altra domanda: su quale argomento il sofista rende abili nel parlare? Il maestro di cetra, per esempio, rende abili nel parlare su quello che sa, cioè l’arte di suonare la cetra. Non è vero?”

“Sì”.

“Bene. Su quale argomento il sofista rende abili nel parlare? Evidentemente su ciò che sa”.

“E’ naturale”.

“Di cosa è esperto il sofista e di cosa può rendere esperto anche l’allievo?”

“Per Zeus, non sono capace di risponderti”.

[313] “Allora? Capisci a quale pericolo stai per esporre la tua anima? Se tu fossi costretto ad affidare a qualcuno il tuo corpo, rischiando che questo possa diventare forte o debole, rifletteresti a lungo se farlo o meno, chiederesti consiglio ad amici e familiari, penseresti per molti giorni. Al contrario, per quanto riguarda la parte che consideri più importante del corpo, l’anima, e dalla cui condizione dipende la felicità o l’infelicità della tua vita, non hai chiesto il consiglio né di tuo padre né di tuo fratello né di nessuno di noi, tuoi amici, sulla necessità di consegnare o meno la tua anima a questo straniero venuto fino a qui: ne senti parlare la sera, come tu stesso dici, e sul far dell’alba ti presenti, senza parlarne prima e senza chiedere se convenga o meno affidarti a lui. Sei pronto a spendere il tuo denaro e quello dei tuoi amici, come se ormai avessi deciso che è strettamente necessario per te frequentare Protagora, che neanche conosci – come tu stesso affermi – e con il quale non hai mai parlato. Per di più lo chiami sofista, ma è chiaro che ignori chi sia un sofista, al quale pure stai per affidarti”.

Sentite queste parole, disse: “Pare proprio così, Socrate, in base a quello che dici”.

“Il sofista, Ippocrate, non sembra forse una specie di negoziante o venditore delle merci di cui si nutre l’anima? Credo che sia qualcosa di simile”.

“Ma, Socrate, di cosa si nutre l’anima?”

“Di conoscenze, certamente. Fai però attenzione, mio caro, che il sofista, lodando quello che vende, non ci truffi, proprio come coloro che vendono gli alimenti per il corpo, cioè il negoziante e il commerciante. Questi infatti delle merci che portano non sanno quale sia utile e quale dannosa per il corpo, ma per venderle le lodano tutte. Non lo sanno neanche quelli che comprano da loro, a meno che non capiti un maestro di ginnastica o un medico. Allo stesso modo anche coloro che portano le conoscenze in giro per le città e le vendono a chi di volta in volta le richiede, lodano tutto quello che vendono, ma forse qualcuno, mio caro, ignora cosa sia utile e cosa dannoso per l’anima tra le cose che vendono. Lo stesso succede anche a quelli che comprano da loro, a meno che non capiti un medico dell’anima. Ora, se riesci a sapere quali tra questi insegnamenti risulti utile o dannoso, potrai tranquillamente comprarli da Protagora o da chiunque altro. Al contrario, caro amico, stai attento a non mettere a rischio e a giocare a dadi quanto vi è di più caro.
[314] Si rischia molto di più nell’acquistare gli insegnamenti che non i cibi. I cibi, infatti, e le bevande, una volta acquistati dal venditore o dal commerciante, si possono portare via in altri recipienti. Prima di berli o mangiarli si può, dopo averli riposti in casa, chiedere consiglio, domandare a un esperto se va bene mangiarli o meno, in quale quantità e quando. In questo modo non si rischia molto nell’acquisto. Al contrario, non è possibile portar via le conoscenze in un altro recipiente, ma, dopo aver pagato il prezzo pattuito, acquisito e ricevuto l’insegnamento nell’animo bisogna andar via o con un danno o con un beneficio. Esaminiamo dunque queste affermazioni anche con coloro che sono più vecchi di noi. Noi, infatti, siamo ancora troppo giovani per risolvere una questione così importante. Ora, come era nostra intenzione, andiamo e ascoltiamo Protagora e, dopo averlo ascoltato, discuteremo anche con gli altri. Lì infatti non c’è solo Protagora, ma ci sono anche Ippia di Elide – credo che ci sia anche Prodico di Ceo – e molti altri sapienti”.

Presa questa decisione ci incamminammo. Giunti nel protiro ci fermammo e concludemmo un discorso che avevamo cominciato per strada. Non volevamo lasciarlo incompiuto, ma entrare dopo averlo finito: ci fermammo nel protiro e parlammo finché non ci convincemmo l’un l’altro. Avevo l’impressione che il portiere, un eunuco, ci stesse ascoltando e sembrava che si fosse irritato con i visitatori per la folla dei sofisti. Bussammo alla porta: ci aprì, ci vide e disse: “Ecco altri sofisti! Il padrone non ha tempo!”. E chiuse con tutte e due le mani la porta con tutta la forza che poteva. E noi bussammo di nuovo. Quelloi, a porta chiusa, ci rispose dicendo: “Ma insomma, non avete sentito che è occupato?”

“Amico, non veniamo per Callia e non siamo sofisti. Forza, apri! Siamo venuti per vedere Protagora. Digli che siamo qui!” Alla fine a malincuore ci aprì la porta.

[315] Entrati, incontrammo Protagora che passeggiava nel primo portico. Di seguito a lui passeggiavano da un parte Callia, figlio di Ipponico, e suo fratello da parte di madre Paralo, figlio di Pericle, e Carmide, figlio di Glaucone; dall’altra parte l’altro figlio di Pericle Santippo, Filippide, figlio di Filomelo, e Antimero di Mende, che era il migliore tra i discepoli di Protagora e ne apprendeva l’arte per diventare sofista. Altri seguivano il gruppo ascoltando la conversazione: ed erano per lo più stranieri, che Protagora si portava dietro da ciascuna delle città che visitava. Li incantava con la voce come Orfeo e quelli lo seguivano ammaliati dalla sua voce. C’erano alcuni Ateniesi. Io stesso alla vista di questa schiera provai piacere, notando con quale grazia facevano in modo di non intralciare il cammino di Protagora. Ogni volta che lui e i suoi discepoli si giravano, quelli che lo seguivano si disponevano ordinatamente da una parte e dall’altra: dopo aver fatto un giro, gli rimanevano sempre dietro in un modo molto coreografico.
Dietro di lui riconobbi, come disse Omero, Ippia di Elide, seduto nella parte opposta del primo portico. Accanto a lui su degli sgabelli sedevano Erissimaco, figlio di Acumeno, Fedro di Mirrina, Androne, figlio di Androzione, e tra gli stranieri alcuni dei suoi concittadini e altri. Mi sembrò che stessero interrogando Ippia su questioni astronomiche relative alla natura e alla meteorologia, e quello, seduto sul suo seggio, dava giudizi e passava in rassegna le domande. Riconobbi anche Tantalo – infatti c’era anche Prodico di Ceo e stava in una stanza, che prima Ipponico usava come dispensa. Ora Callia, costretto dal gran numero degli ospiti, l’aveva liberata per riceverli. Prodico era ancora a letto, avvolto in pelli e coperte in abbondanza, come si vedeva. Nei letti accanto a lui sedevano Pausania del demo di Cerameo, e con Pausania un adolescente ancora bambino e, come credo, di famiglia nobile, certamente molto bello d’aspetto. Mi sembrò di aver sentito che il suo nome fosse Agatone e non mi meraviglierei se fosse stato l’amato di Pausania. C’erano questo ragazzo e tutti e due gli Adimanti, il figlio di Cepide e il figlio di Leucofilide, e anche alcuni altri. Da fuori non potevo capire di cosa discutessero, sebbene desiderassi molto ascoltare Prodico, che mi sembra un uomo onnisciente e divino. Un rimbombo prodotto nella stanza dalla profondità della voce non rendeva però comprensibili le parole.
[316] Eravamo appena entrati e dietro di noi arrivarono Alcibiade il bello – come tu lo chiami e io sono d’accordo – e Crizia, il figlio di Callescro. Quando noi entrammo, avendo indugiato un poco e osservate queste cose, ci avvicinammo a Protagora e io dissi: “Protagora, io e questo Ippocrate che vedi siamo venuti da te”.

“Volete parlare con me solo o anche con gli altri?”

“Per noi non c’è nessuna differenza: stabiliscilo tu stesso dopo aver ascoltato il motivo per cui siamo venuti”.

“Qual è dunque questo motivo?”

“Ippocrate è uno della città, figlio di Apollodoro, di famiglia illustre e ricca: per le sue capacità mi sembra che sia in grado di gareggiare con i coetanei. Credo che abbia voglia di diventare un cittadino importante e pensa che ciò sarà possibile se ti frequenterà. Dunque considera tu, se ritieni che sia necessario discutere di queste cose da solo a solo o davanti agli altri”.

“Socrate, ti preoccupi giustamente per me. Uno straniero che va, infatti, in grandi città e in queste convince a frequentarlo i giovani più illustri, che, per diventare migliori grazie al suo insegnamento, tralasciano le compagnie degli altri, familiari ed estranei, anziani e giovani, è necessario che stia attento a questo comportamento. Ne nascono, infatti, non piccole invidie e altre ostilità e insidie. Io sostengo che l’arte sofistica sia antica, ma che quelli che l’hanno praticata tra gli uomini antichi, temendo l’invidia che ne può derivare, la travestirono e la mascherarono alcuni con la poesia, come Omero, Esiodo e Simonide, altri con iniziazioni e profezie, come i seguaci di Orfeo e di Museo. Mi sono accorto che alcuni altri la mascherano anche con la ginnastica, come Icco di Taranto e il sofista Erodico di Silimbria, in origine megarese, ancora vivente e in nulla inferiore a nessuno. Con la musica la mascherarono il vostro Agatocle, un grande sofista, e Pitoclide di Ceo e molti altri. Tutti questi, come dico, temendo l’invidia usarono come veli queste arti. [317] Io, su questo punto, non sono d’accordo con loro: ritengo che non abbiano ottenuto ciò che volevano. Non possono ingannare gli uomini potenti della città, per i quali hanno inventato questi travestimenti – i più, infatti, non si accorgono di nulla, per dirla in breve, ma accolgono con entusiasmo quanto questi dicono -. Invece non riuscire a fuggire una volta scoperti, pur avendoci provato, è una grande stoltezza e impresa folle che non può che rendere gli uomini più ostili. Si finisce infatti oltretutto per passare per delinquenti. Io dunque ho scelto la strada contraria: dichiaro di essere sofista e di educare gli uomini. Credo che questo atteggiamento sia migliore di quello, confessare piuttosto che negare. Ne ho escogitati altri oltre a questo così da non patire nessun danno per la mia dichiarazione, con l’aiuto degli dei. Già da tempo esercito quest’arte. Io infatti ho molti anni – non c’è nessuno tra di voi dei quali non potrei essere padre per età – così mi sarà molto gradito se vorrete fare discorsi davanti ai presenti”.

Sospettai che volesse mettersi in mostra davanti a Prodico e a Ippia e vantarsi del fatto che noi, suoi ammiratori, eravamo venuti da lui. “Perché non invitiamo anche Prodico e Ippia e quelli che si trovano con loro per ascoltarci?”

“Sì”

“Volete dunque – disse Callia – che sistemiamo la stanza per poter discutere seduti?”

Sembrava necessario. Eravamo felici perché stavamo per ascoltare tutti quegli uomini sapienti e, essendoci presi da noi sedie e sgabelli, ci sedemmo vicino a Ippia – infatti lì c’erano degli sgabelli. In quel momento arrivarono Callia e Alcibiade con Prodico, che avevano fatto alzare dal letto, e quelli che si trovavano con Prodico. Dopo che tutti ci sedemmo, Protagora disse: “Socrate, ora puoi dire, dal momento che questi sono presenti, il motivo per cui poco fa mi hai parlato in favore di questo ragazzo”.

[318] E io: “Dico le stesse cose di prima, Protagora, sul motivo della nostra visita. Ippocrate desidera frequentarti, e vorrebbe sapere quale vantaggio gliene può derivare. Questo è il nostro discorso”.

Presa la parola, Protagora disse: “Ragazzo, se mi frequenterai, dal giorno in cui verrai da me, potrai tornare a casa migliore e ugualmente il giorno successivo e di giorno in giorno progredirai sempre”.

E io, avendo ascoltato, dissi: “Protagora, non è affatto straordinario quello che dici, ma è naturale: anche tu, pur essendo di questa età e così saggio, se qualcuno tu spiegasse quello che per caso non sai, diventeresti migliore. Ma la questione è un’altra. Supponiamo che Ippocrate, cambiata improvvisamente intenzione, desiderasse frequentare questo giovane arrivato da poco in città, Zeusippo di Eraclea. Giunto da lui, come ora da te, ascolterebbe da lui le stesse identiche cose che ha ascoltato da te, cioè che di giorno in giorno, frequentandolo, diventerà migliore e progredirà. Se domandasse a Zeusippo: «In che cosa dici che diventerò migliore e in che cosa progredirò?», egli potrebbe rispondere: «Nella pittura». Supponiamo che ugualmente vada da Ortagora di Tebe e che ascolti da lui le stesse cose che ha ascoltato da te. Se domandasse in che cosa ogni giorno diventerà migliore frequentandolo, direbbe: «Nell’arte di suonare il flauto». Così anche tu rispondi al ragazzo e a me che ti domando a suo nome: Ippocrate, frequentandoti, dal giorno in cui inizierà a venire da te, in che cosa e rispetto a cosa diventerà migliore e così progredirà, Protagora, nei giorni successivi?”

E Protagora, sentite queste parole, disse: “Tu hai fatto una bella domanda, Socrate, e io mi rallegro nel rispondere a chi mi pone bene le domande. Se Ippocrate verrà da me non gli capiteranno quelle cose che gli accadrebbero frequentando un altro dei sofisti. Infatti gli altri rovinano i giovani: questi a parole evitano le tecniche, ma poi inevitabilmente tornano ad utilizzarle, insegnando l’astronomia, la geometria e la musica”. E dicendo questo lanciò uno sguardo a Ippia. “Giunto da me non imparerà nient’altro che quello per cui è venuto. Il mio insegnamento consiste nella facoltà di prendere decisioni sia riguardo alle questioni private – come, per esempio, si possa amministrare nel modo migliore la propria casa – sia riguardo a quelle pubbliche, come essere, cioè, il più idoneo a parlare e a gestire gli affari della città”.

[319] “Ho capito bene? Mi sembra infatti che tu stia parlando dell’arte politica e prometta di formare buoni cittadini”.

“Proprio questo, Socrate, è il mestiere che esercito”.

“Possiedi veramente una bella arte, se la possiedi davvero. Io poi non ti dirò nient’altro se non quello che penso. Non pensavo, Protagora, che quest’arte si potesse insegnare: ma come non crederti dal momento che tu lo affermi? È giusto che io dica il motivo per cui ritengo che non sia insegnabile né acquisibile dagli uomini. Dico, infatti, che gli Ateniesi sono saggi, come gli altri Greci. Noto che, in assemblea, quando la città deve deliberare sulla costruzione di un edificio, vengono chiamati gli architetti come consiglieri; quando invece bisogna deliberare sulla costruzione di navi, vengono chiamati i costruttori di navi e nello stesso modo si procede per tutte le altre cose che si ritiene possano essere insegnate e apprese. Se poi prova a dare consigli a qualcun altro, che gli ateniesi non ritengono un esperto, anche se è bello, ricco e nobile, non gli prestano affatto maggiore ascolto, ma lo deridono e lo contestano. Alla fine quello che cercava di parlare, sommerso dai fischi, si allontana da solo oppure le guardie pubbliche lo trascinano via o lo sollevano di peso per ordine dei pritani. Riguardo alle tecniche così si comportano. Quando si deve deliberare sull’amministrazione della città, invece, esprimono il loro parere, alzandosi in piedi, allo stesso modo il falegname, il fabbro e il calzolaio, il mercante e l’armatore, il ricco e il povero, il nobile e il plebeo. Nessuno li critica, come i precedenti, di tentare di dare consigli non avendolo imparato da nessuno né avendo mai avuto un maestro: è chiaro che non ritengono che la tecnica politica sia insegnabile. Non è così solo nell’amministrazione della città, ma anche nella vita privata, poiché i sofisti e i migliori cittadini non sono capaci di trasmettere agli altri le virtù che possiedono. [320] Pericle, ad esempio, il padre di questi ragazzi, li ha fatti educare alla perfezione nelle discipline che richiedono maestri, mentre per quelle in cui lui stesso è sapiente né provvede di persona né li affida a un altro: i suoi figli vagano soli e pascolano come animali selvatici, sperando di incontrare per caso la virtù. Eccoti poi un altro esempio: ancora Pericle, tutore di Clinia – il fratello minore di Alcibiade qui presente – temeva che questi fosse corrotto da lui. Separò i due fratelli e sistemò Clinia in casa di Arifrone, per farlo educare. Prima che fossero passati sei mesi, Arifrone riconsegnò Clinia a Pericle, non riuscendo a ricavarne nulla di buono. Potrei elencarti molte altre persone, che, pur essendo sapienti, non fecero progredire nessuno, familiare o estraneo. Considerando questi esempi, Protagora, non credo che la virtù sia insegnabile. Tuttavia sento che tu affermi il contrario: sono disposto a piegarmi e a riconoscere che tu dica la verità, poiché mi sembri esperto di molte cose – molte le hai imparate, altre le hai scoperte da solo -. Se dunque puoi dimostrarci in modo più chiaro che la virtù è insegnabile, non rifiutarti, dimostracelo”.

“Socrate, non mi rifiuterò; preferite però che ve lo dimostri raccontando un mito, come gli anziani ai più giovani, o con un ragionamento?”

Molti dei presenti risposero che scegliesse lui. “Mi sembra più piacevole – disse – raccontarvi un mito”.

“Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: “Dopo che avrò distribuito – disse – tu controllerai”. Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. [321] Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue. In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie. Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco – infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco – e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. [322] Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo.
Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano. Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?« «A tutti – rispose Zeus – e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia».
[323] Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici – naturalmente, dico io – se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece deliberano sulla virtù politica – che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza – ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città. Questa è la spiegazione, Socrate.
Ti dimostro che non ti sto ingannando: eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon auleta o esperto in qualcos’altro e poi dimostri di non esserlo, viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano come se fosse pazzo. Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra situazione ritenevano fosse saggezza – dire la verità – in questo caso la considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe della giustizia, oppure non appartiene al genere umano.
Dunque gli uomini accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono che ognuno ne sia partecipe. Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini, derivano dalla natura o dal caso. Tutti provano compassione verso queste persone: chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli? Infatti, io credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla natura o dal caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se invece qualcuno non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con lo studio, l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, viene biasimato, punito, rimproverato.
[324] Fra questi vizi ci sono l’ingiustizia, l’empietà e in generale tutto ciò che è contrario alla virtù politica; di fronte a ciò ognuno biasima e ammonisce, evidentemente perché pensa che la virtù politica si acquisisca attraverso lo studio e l’apprendimento. Se infatti, Socrate, vuoi capire quale valore abbia punire coloro che commettono ingiustizie, i fatti stessi ti dimostreranno che gli uomini credono che la virtù si possa acquisire. Nessuno punisce coloro che commettono ingiustizie per il semplice fatto che sono stati ingiusti, a meno che non voglia vendicarsi in modo irrazionale, come una bestia; chi, invece, vuole punire secondo ragione, non vendica l’ingiustizia commessa – dal momento che non può annullare ciò che è stato – ma punisce in vista del futuro, affinché non venga commessa ingiustizia di nuovo, né da quello né da un altro che lo veda punito. Ha un tale proposito perché è convinto che la virtù sia insegnabile; dunque punisce per distogliere dal vizio. Senza dubbio la pensano così tutti coloro che puniscono, sia in privato che in pubblico. Gli altri uomini e non meno gli ateniesi, tuoi concittadini, puniscono e castigano coloro che ritengono colpevoli; così, in base a questo ragionamento, anche gli ateniesi sono tra coloro che ritengono che la virtù sia acquisibile e insegnabile. In conclusione, Socrate, adeguatamente ti è stato dimostrato, come mi sembra, che i tuoi concittadini giustamente accettano che un fabbro o un calzolaio partecipi alle decisioni politiche e che inoltre pensano che la virtù sia insegnabile e acquisibile.
Ancora resta da risolvere la questione che ponevi riguardo agli uomini virtuosi: perché mai questi curino l’educazione dei figli in tutte le discipline che sono di competenza dei maestri e li rendano sapienti, mentre non li rendono affatto migliori nella virtù in cui essi stessi eccellono. Su questo argomento, Socrate, non ti racconterò un mito, ma esporrò un ragionamento. Rifletti: esiste o non esiste qualcosa di unico, di cui è necessario che tutti i cittadini siano partecipi, se la città deve esistere? In questo si dissolve il dubbio che tu ponevi e non in un altro ragionamento.
[325] Se infatti esiste questo qualcosa di unico, e non è né l’architettura né l’arte del fabbro né l’arte della ceramica, ma è la giustizia, la sapienza e la santità (insomma quell’unica cosa che io chiamo virtù dell’uomo); se questo è ciò di cui è necessario che tutti partecipino e se ognuno deve agire in conformità con questa virtù, se vuole imparare o fare qualsiasi cosa, e non può fare nulla senza questa; se è necessario istruire e punire chi non ne sia partecipe, bambino, uomo, donna, finché, punito, non divenga migliore, e se invece è necessario scacciare dalla città o uccidere come inguaribile chi, educato e punito, non obbedisca; se le cose stanno così, se questa è la natura di questa virtù, considera che strano comportamento hanno gli uomini virtuosi, che insegnano ai figli altre cose, ma questa no. Abbiamo dimostrato che gli uomini pensano che la virtù è insegnabile, in pubblico e in privato; tuttavia, pur essendo tale virtù insegnabile e potendo essere coltivata, sembra che tutti insegnino ai figli altre cose, la cui ignoranza non procura loro la pena di morte. Non insegnano invece e non dedicano ogni cura alla virtù, l’ignoranza della quale procura ai loro figli – se non l’hanno appresa e non sono stati indirizzati ad essa – pena di morte, esilio e, oltre alla morte, la perdita dei beni e insomma, per dirla tutta, la rovina delle famiglie. Sembra che sia proprio così, Socrate. Ma sin dall’infanzia, e poi per tutta la vita, i genitori si occupano del’educazione dei loro figli. Non appena un bambino inizia a comprendere quanto gli viene detto, la nutrice, la madre, il pedagogo e il padre stesso si preoccupano che diventi migliore giorno dopo giorno: gli insegnano e gli mostrano, per ogni cosa che egli faccia o dica, che questo è giusto, quello ingiusto, questo è bello, quello brutto, questo è sacro, quello empio, questo si può fare, quello no. Se ubbidisce volentieri, bene; se no, lo raddrizzano con minacce e percosse, come un legno storto e curvo. In seguito, mandando i figli a scuola, i genitori suggeriscono ai maestri di prendersi cura della loro buona educazione più che dell’apprendimento della grammatica e della cetra.
[326] I maestri si occupano di loro: non appena i ragazzi hanno imparato l’alfabeto e cominciano a comprendere le parole scritte, come prima comprendevano la lingua parlata, danno loro da leggere, sui banchi, le composizioni poetiche dei grandi autori e li costringono a impararle a memoria. In quelle composizioni ci sono molti insegnamenti, molte descrizioni, lodi ed encomi di antichi uomini valorosi: il ragazzo, ammirandoli, li imiterà e desidererà diventare come loro. I maestri di cetra, in modo analogo per ciò che loro compete, si prendono cura anche del buon equilibrio dei giovani e si preoccupano che stiano sulla retta via. E poi, quando i ragazzi hanno imparato a suonare la cetra, insegnano loro le poesie di altri bravi poeti melici, intonandole sulla cetra, e piegano i ritmi e le armonie perché diventino familiari alle anime dei ragazzi. In questo modo saranno più miti e, divenuti più armoniosi ed equilibrati, saranno anche abili nel parlare e nell’agire. Infatti tutta la vita dell’uomo ha bisogno di ritmo e armonia. E ancora, inoltre, li mandano dal maestro di ginnastica, affinché, con corpi più vigorosi, agiscano in nome di sani principi e non si dimostrino vili perchè deboli nel corpo, in guerra come nelle altre circostanze. Vengono educati così quelli che se lo possono permettere – in particolar modo i più ricchi – e i figli di questi, che cominciano in giovanissima età a frequentare i maestri e se ne allontanano molto tardi. Quando hanno lasciato i maestri, la città a sua volta li costringe a imparare le leggi e a vivere secondo il loro modello, affinché non agiscano a caso nella vita sociale. I maestri di grammatica, dopo aver abbozzato le lettere con lo stilo, danno la tavoletta ai ragazzi che non sono ancora in grado di scrivere e li costringono a seguire il tracciato delle linee. Allo stesso modo la città, dopo aver tracciato le linee guida delle leggi, creazioni di capaci e antichi legislatori, obbliga poi a governare e ad essere sudditi in base a queste e punisce chi vada al di fuori del tracciato. E il nome di questa punizione, presso di voi e altrove in molti luoghi, è «raddrizzare», poiché la pena «raddrizza». Dunque, Socrate, dal momento che c’è questa attenzione per la virtù, sia in pubblico che in privato, ti meravigli e dubiti che la virtù sia insegnabile? Non devi meravigliarti; piuttosto dovresti farlo se non fosse insegnabile.
Perché allora da padri virtuosi nascono figli mediocri? [327] Impara anche questo: non c’è da stupirsi, se io prima dicevo la verità, quando affermavo che, se deve esistere la città, è necessario che tutti siano partecipi della virtù. Se infatti le cose stanno così – e senza dubbio è così – scegli una qualsiasi altra professione o disciplina e rifletti. Poniamo il caso che la città non possa esistere se tutti non fossimo suonatori di flauto, ciascuno secondo le sue possibilità, e che ognuno insegnasse quest’arte a tutti, in pubblico e in privato, punendo chi non suona bene, e non tirandosi indietro. Considera anche come ora nessuno si rifiuti di insegnare la giustizia, né tenga segreto il suo sapere, come invece accade per le altre arti (è utile a tutti, credo, il reciproco scambio di giustizia e virtù, perciò tutti parlano volentieri con tutti e insegnano cosa è giusto e legittimo). Se dunque anche nell’arte di suonare il flauto noi con entusiasmo e generosità ci istruissimo vicendevolmente, credi forse, Socrate, che i figli dei buoni suonatori sarebbero buoni musicisti, più dei figli dei suonatori mediocri? Credo di no: chi nascesse per caso naturalmente disposto alla musica, crescerebbe illustre, di chiunque fosse figlio; invece, da chiunque nascesse uno privo di attitudini, crescerebbe privo di fama. Da un buon auleta potrebbe nascere un cattivo musicista e da un mediocre musicista potrebbe nascere un buon auleta, ma tutti sarebbero auleti sufficientemente esperti rispetto ai profani e a coloro che non hanno alcuna esperienza dell’arte di suonare il flauto. Così, anche ora, considera che chiunque a te sembri il più ingiusto tra quelli allevati fra le leggi e fra gli uomini, è in realtà giusto e anzi maestro di quest’arte, se dobbiamo giudicarlo rispetto a uomini che non hanno alcuna educazione né tribunali né leggi né alcuna necessità che li costringa continuamente ad aver cura della virtù, come i selvaggi che il poeta Ferecrate ha messo in scena l’anno scorso alle Lenee. Se ti trovassi realmente fra questi uomini, come i misantropi in quel coro, saresti contento incontrando Euribato e Frinonda, e ti lamenteresti, rimpiangendo la malvagità degli uomini di qui.
[328] Ora, Socrate, ti arrabbi, poiché tutti sono maestri di virtù, ciascuno in base alle sue capacità, e nessuno ti sembra tale. Ma se tu cercassi il nostro maestro di greco, non potresti trovarlo; allo stesso modo, se tu cercassi chi abbia insegnato ai figli degli artigiani il mestiere che hanno imparato dal padre, per quanto erano capaci il padre e gli artigiani suoi colleghi, e anche se cercassi chi abbia istruito questi ultimi, io credo, Socrate, che difficilmente troveresti il loro maestro. Facilmente invece potresti trovare il maestro di chi non è esperto in nulla, né nella virtù né in tutte le altre discipline. Quindi, se c’è qualcuno fra noi che si distingue un po’ nel rendere migliori gli altri, bisogna accontentarsi. Io credo di essere uno di questi, e meglio degli altri uomini penso di riuscire ad aiutare a diventare bravi e virtuosi, in maniera adeguata al pagamento che percepisco e anche maggiore (gli allievi pure la pensano così). Perciò ho adottato questo metodo di riscossione dell’onorario: dopo che qualcuno è venuto da me, se vuole, mi versa il denaro che ho richiesto; in caso contrario, va in un tempio, e, dopo aver giurato quanto pensa che valgano i miei insegnamenti, deposita la cifra.
Socrate, ti ho esposto il mito e il ragionamento per mostrare come la virtù sia insegnabile e come gli Ateniesi la considerino tale, e come non ci sia da meravigliarsi che da padri virtuosi nascano figli mediocri e da padri mediocri figli virtuosi. Infatti anche i figli di Policleto, coetanei di Paralo e di Santippo che sono qui, non valgono quanto il padre e anche i figli di altri artisti. Non è giusto biasimare ora i figli di Pericle, qui presenti: sono ancora giovani”.

Protagora, dopo aver parlato a lungo così, tacque. E io per molto tempo, ammaliato, continuai a guardarlo, come se stesse per dire qualcosa, poiché desideravo ascoltarlo. Quando mi accorsi che in realtà aveva finito, come riavutomi a stento, dissi, rivolto a Ippocrate: “Figlio di Apollodoro, grazie per avermi spinto a venire qui. E’ una gran cosa aver ascoltato le parole di Protagora. In passato, infatti, pensavo che nessuna attività umana potesse rendere gli uomini virtuosi; ora sono convinto del contrario. Però ho un ultimo piccolo dubbio, che evidentemente Protagora chiarirà con facilità, come ha già fatto molte volte. [329] Se qualcuno, infatti, discutesse di questi argomenti con un qualsiasi oratore da piazza, forse ascolterebbe discorsi simili da Pericle o da qualcun altro oratore; se poi, però, chiedesse spiegazioni su qualche punto del discorso, come accade con i libri essi non saprebbero né rispondere né a loro volta porre domande. Se qualcuno chiede un chiarimento, anche piccolo, sui discorsi pronunciati da loro, i retori, anche se la questione è di poco conto, fanno discorsi interminabili, proprio come bronzi percossi che risuonano a lungo e vibrano finché vengono toccati. Protagora invece è capace di pronunciare lunghi e bei discorsi, come dimostrano i fatti stessi, ed è capace anche, se gli viene chiesto qualcosa, di rispondere brevemente. Sa pure porre domande e, qualità assai rara, attendere e ascoltare la risposta. Ora però, Protagora, mi manca solo un piccolo particolare per avere il quadro completo, se rispondi a questo. Tu affermi che la virtù è insegnabile, e io credo a te più che a chiunque altro; mentre parlavi, però, mi sono meravigliato di una cosa: chiarisci questo dubbio nella mia anima. Hai detto infatti che Zeus ha inviato agli uomini la giustizia e il rispetto, e poi più volte nel tuo discorso hai ribadito che la giustizia, la saggezza, la santità erano nel complesso una cosa sola, la virtù. Spiegami allora precisamente con un ragionamento se la virtù è una sola (e la giustizia, la saggezza e la santità sono parti di questa), o se tutte queste cose che ho elencato sono solo nomi diversi di un’unica essenza, la virtù. Questo è l’ultimo tassello”.

“Socrate, è facile risponderti: la virtù è una sola, quelle di cui chiedi sono parti”.

“Sono parti come quelle del volto, bocca, naso, occhi e orecchie, o come le parti dell’oro, che non differiscono in nulla l’una dall’altra, né reciprocamente, né rispetto al tutto, ma si differenziano solo in base alla misura?”.

“Come le parti del volto stanno rispetto all’intero volto, Socrate”.

“Gli uomini, allora, sono partecipi solo di queste parti della virtù, chi di una chi di un’altra, oppure, se qualcuno ne acquisisce una, deve necessariamente possederle tutte?”

“Nient’affatto. Molti uomini sono coraggiosi, ma ingiusti, e molti a loro volta giusti, ma non sapienti”.

[330] “Dunque anche sapienza e coraggio sono parti della virtù?”

“Senza dubbio; e la sapienza è la più importante fra le parti”.

“E ciascuna di esse è distinta dall’altra?”

“Sì”.

“E ognuna ha anche una sua particolare proprietà? Nelle parti del volto, l’occhio non è come l’orecchio, né è uguale la loro funzione; nessuna parte è uguale all’altra, né per la sua proprietà, né per il resto. Allo stesso modo anche le parti della virtù sono diverse l’una dall’altra, in sé e rispetto alla loro proprietà? È evidente che è così, se il paragone è appropriato”.

“È così, Socrate”.

“Di conseguenza non vi è nessun’altra parte della virtù che sia simile alla scienza, alla giustizia, al coraggio, alla saggezza, alla santità”.

“No”.

“Bene. Ora esaminiamo insieme le caratteristiche di ciascuna di queste parti. Prima di tutto: la giustizia è un fatto concreto o non esiste? A me sembra che esista. A te?”

“Anche a me”.

“E che risponderemmo allora, se qualcuno chiedesse a me e a te: «Protagora e Socrate, ditemi, la giustizia, che avete nominato ora, in sé è giusta o ingiusta?» Io gli risponderei che è giusta; tu che risposta daresti? La mia o un’altra?”.

“La stessa”.

“La giustizia è giusta, direi io a chi me lo chiedesse; e tu?”

“Anch’io”.

“Se poi ci chiedesse: «Dite allora che esiste anche la santità?», diremmo di sì, credo”.

“Sì”.

“«Dunque dite che anche la santità esiste». Diremmo sì, o no?”

“Diremmo sì”.

“«La santità è per natura empia o santa?». Io mi arrabbierei per la domanda, e direi: «Non parlare a vanvera, mio caro; difficilmente potrebbe esistere qualcos’altro di santo, se non è santa la stessa santità». Che cosa diresti tu? Non risponderesti allo stesso modo?”.

“Certo”.

“Se, continuando a fare domande, ci chiedesse: «Come dicevate poco fa? Forse non vi ho capito bene? Affermavate, mi sembra, che le parti della virtù sono tutte diverse l’una dall’altra», io direi: «Per il resto hai capito bene, ma hai frainteso se credi che io abbia affermato questo; Protagora infatti ha risposto così. Io gli facevo domande». [331] Se poi chiedesse: «Dice la verità, Protagora? Affermi davvero che nessuna parte della virtù è simile all’altra? Questo è il tuo pensiero?». Cosa gli risponderesti?”

“Dovrei dire di sì, Socrate, per forza!”

“Allora, Protagora, se ammetti questo, che cosa risponderemmo se ci chiedesse: «La santità non è la stessa cosa della giustizia e la giustizia non è la stessa cosa della santità. Dunque la santità è ingiusta e la giustizia è empia?». Cosa risponderemmo? Io, per me, direi che la santità è giusta e la giustizia è santa. A nome tuo, se me lo permetti, risponderei le stesse cose: la giustizia è la stessa cosa della santità, o molto simile; senza dubbio la giustizia è simile alla santità e la santità è simile alla giustizia. Mi impediresti di rispondere così o sei d’accordo con me?”

“Socrate, non mi sembra certo che la questione sia così semplice da poter affermare con sicurezza che la giustizia è santa e la santità è giusta. Mi sembra invece che ci sia qualche differenza. Ma che importa? Se vuoi, per noi la giustizia sia pure santa e la santità sia giusta”.

“Eh no! Non voglio esaminare i «se vuoi» e i «se ti sembra», ma me e te. Dico «me e te» perché ritengo che la questione potrà essere discussa nel modo migliore se aboliamo i «se»”.

“Ma sì… in qualche modo la giustizia è simile alla santità. In un certo senso ogni cosa assomiglia a qualsiasi altra: infatti il bianco in un certo senso può assomigliare al nero, e il duro al morbido, e così per le altre cose che sembrano opposte fra loro. Anche le parti del volto, che, abbiamo detto, hanno ognuna una funzione e sono una diversa dall’altra, in un certo senso si assomigliano e sono una simile all’altra. Con questo criterio, se volessi, potresti dimostrare che tutte le cose si assomigliano tra loro. Però non è giusto definire «simili» le cose che presentano qualche affinità, né chiamare «dissimili» quelle che presentano differenze, anche se la somiglianza o la differenza è minima”.

E io, meravigliato, gli dissi: “Dunque per te il giusto e il santo si assomigliano solo per qualche piccolo particolare?”

[332] “Non è esattamente così, ma neppure come credi tu”.

“E va bene. Poiché mi sembra che tu sia in difficoltà su questo punto, lasciamo stare. Esaminiamo qualche altro aspetto del tuo ragionamento. C’è qualcosa che chiami stoltezza?”

“Sì”.

“E la sapienza è in tutto contraria a questa?”

“Mi sembra di sì”.

“Quando gli uomini agiscono giustamente e utilmente, ti sembra che siano saggi o stolti?”

“Che siano saggi”.

“Agiscono saggiamente grazie alla saggezza?”

“Per forza!”

“Di conseguenza quelli che commettono ingiustizie si comportano da stolti e non dimostrano di essere saggi agendo così”.

“Pare anche a me”.

“Agire da stolto è dunque il contrario che agire da saggio?”

“Sì”.

“Quindi se si agisce da stolti lo si fa con stoltezza, se da saggi lo si fa con saggezza?”

“Sono d’accordo”.

“Di conseguenza se uno agisce con forza agisce vigorosamente, se agisce con debolezza debolmente?”

“Mi sembra di sì”.

“E se agisce con velocità, velocemente, se con lentezza, lentamente?”

“Sì”.

“Se dunque si agisce in un certo modo lo si fa per una certa causa, se si agisce nel modo contrario lo si fa per la causa contraria?”

“Sì”.

“E allora, c’è qualcosa che sia bello?”

“Certo!”

“C’è qualcosa contrario al bello, eccetto il brutto?”

“Non c’è”.

“E poi? Esiste il bene?”

“Esiste”.

“C’è qualcosa contrario al bene, eccetto il male?”

“No”.

“Esiste qualcosa di acuto nella voce?”

“Sì”.

“C’è qualcos’altro di contrario all’acuto, eccetto il grave?”

“No”.

“Dunque a ciascun elemento corrisponde un solo contrario e non molti?”

“Sono d’accordo”.

“Su, allora, riepiloghiamo ciò su cui siamo d’accordo. Abbiamo concordato che per ogni cosa c’è un solo contrario, non di più?”

“Così abbiamo concordato”.

“E che quando si agisce in modo contrario lo si fa per la causa contraria?”

“Sì”.

“Abbiamo concordato che chi agisce da stolto agisce al contrario di chi agisce da saggio?”

“Sì”.

“E chi agisce da saggio lo fa a causa della saggezza, chi da stolto a causa della stoltezza?”

“Sono d’accordo”.

“Dunque, se si agisce nel modo contrario, lo si fa per la causa contraria?”

“Sì”.

“Si agisce allora in modo saggio a causa della saggezza, in un altro a causa della stoltezza?”

“Sì”.

“Al contrario?”

“Certo!”

“A causa del contrario?”

“Sì”.

“Dunque la stoltezza è il contrario della saggezza?”

“Così sembra”.

“Ricordi che in principio abbiamo concordato che la stoltezza è il contrario della sapienza?”

“Ricordo”.

[333] “E che per ogni cosa esiste un solo contrario?”

“Sì”.

“Allora, Protagora, quale delle due ipotesi dobbiamo abbandonare? Quella in base alla quale ogni cosa ha un solo contrario o quella in base alla quale la sapienza è diversa dalla saggezza, che entrambe sono parti della virtù e che, oltre ad essere diverse, sono anche dissimili in se stesse e nelle loro proprietà, come le parti del volto? Quale delle due ipotesi dobbiamo abbandonare? Infatti i due ragionamenti non vanno d’accordo: non “cantano insieme” e non sono in armonia fra loro. Come potrebbero accordarsi se per ogni cosa deve esistere un solo contrario, e non di più, e invece la stoltezza, che è una cosa sola, sembra avere come contrari la sapienza e la saggezza? È così, Protagora, o no?”

“Ehm… è così”.

“Dunque saggezza e sapienza sarebbero una cosa sola? Prima ci è sembrato che giustizia e santità fossero quasi la stessa cosa. Su, Protagora, non ci scoraggiamo! Esaminiamo anche il resto. Chi commette ingiustizia, ti sembra che agisca da saggio, se compie un atto ingiusto?”

“Mi vergognerei di affermare una cosa simile, anche se molti lo sostengono”.

“Mi devo rivolgere ai molti o a te?”

“Se vuoi, confrontati prima con l’opinione della gente comune”.

“Ma a me non interessa affatto, voglio solo che tu mi risponda se la pensi così o no. Desidero esaminare il discorso in sé, anche se a volte capita di essere esaminati sia a me che faccio domande, sia a chi mi risponde”.

Protagora, all’inizio, si schermiva davanti a noi – diceva che l’argomento era troppo difficile – ma poi acconsentì a rispondere.

“Su, rispondimi da capo. Ti sembra che alcuni siano saggi, pur commettendo ingiustizie?”

“Può darsi”.

“Dici che essere saggi significa pensare bene?”

“Sì”.

“E pensar bene è prendere buone decisioni, commettendo ingiustizie?”

“Mi pare di sì”.

“Si prendono buone decisioni se, commettendo ingiustizie, si hanno risultati positivi o negativi?”

“Se si hanno risultati positivi”.

“Esistono per te cose buone?”

“Sì”.

“Sono buone quelle cose che sono utili agli uomini?”

“Sì, per Zeus. E alcune cose, anche se non sono utili agli uomini, io le chiamo buone”.

Mi sembrava che Protagora si fosse già innervosito e, ansioso, si preparasse a rispondere. Poiché lo vidi in quello stato d’animo, domandai con calma:

[334] “Protagora, intendi per caso le cose che non sono utili a nessun uomo, o quelle che non sono utili in assoluto? Anche queste tu chiami buone?”

“Assolutamente no. Ma conosco molte cose che sono dannose agli uomini, cibi, bevande, farmaci e mille altre e alcune che invece sono utili. Altre poi non sono né utili né dannose agli uomini, mentre sono utili ai cavalli; altre solo ai buoi, altre ai cani; altre a nessuno di questi, ma agli alberi. Quelle che sono buone per le radici degli alberi sono dannose per i germogli. Il letame, ad esempio, se dato alle radici è utile a tutte le piante, se invece fosse usato per i germogli e i ramoscelli giovani, li distruggerebbe completamente. L’olio poi è assolutamente dannoso per tutte le piante e ancora più dannoso per i peli di tutti gli animali, eccetto l’uomo; è infatti utile ai peli dell’uomo e al resto del corpo. Il bene è così variegato e multiforme che la stessa sostanza è utile all’uomo per le parti esterne del corpo, mentre è molto dannosa per quelle interne. Per questo motivo tutti i medici impongono agli ammalati di non usare olio, se non in piccolissime quantità nei cibi, quanto basta ad attenuare l’odore fastidioso dei cibi e delle bevande”.

Detto questo, i presenti rumorosamente applaudirono, per approvare le sue parole, e io dissi: “Protagora, sono un po’ smemorato e, se qualcuno fa discorsi lunghi , dimentico di cosa si stava parlando. Se io fossi sordo tu capiresti, se volessi parlare con me, di dover alzare il tono della voce più che con altri. Allo stesso modo ora, poiché hai incontrato uno smemorato, spezzami le risposte e abbreviale, così seguirò meglio il tuo discorso”.

“In che senso devo rispondere in breve? Devo rispondere più in breve di quanto sia necessario?”

“No di certo”.

“Quanto è necessario?”

“Sì”.

“Devo risponderti nella misura in cui a me sembra opportuno, o quanto sembra opportuno a te?”

“Ho sentito che tu sei capace di insegnare a fare lunghi discorsi sugli stessi argomenti, se si vuole, così da non smettere mai di parlare, e anche brevi discorsi. Ne deduco così che nessuno può parlare più in breve di te. Se dunque vuoi parlare con me, usa il discorso breve”.

[335] “Socrate, io ho già gareggiato nei discorsi con molti uomini. Se avessi fatto quello che tu chiedi, cioè discutere nel modo in cui voleva il mio antagonista, non sarei risultato migliore di nessuno e tanto meno si sarebbe diffuso il nome di Protagora tra i Greci”.

Io compresi che non era soddisfatto di sé per le risposte che mi aveva dato prima. Poiché non era disposto a discutere rispondendo alle domande, non ritenni più interessante essere presente a quella conversazione.

“Protagora, neppure io voglio conversare contro i tuoi desideri, ma discuterò con te se tu vuoi parlare in modo tale che io possa seguirti. Tu infatti, come si dice di te, e come tu stesso affermi, sei capace di conversare sia con discorsi lunghi sia con discorsi brevi: infatti sei saggio. Io invece, anche se volessi, non saprei fare discorsi lunghi. Sarebbe il caso che mi venissi incontro tu che sei capace di discorrere in entrambi i modi, affinché ci possa essere conversazione. Ora dal momento che non vuoi e dal momento che io ho un impegno e non posso rimanere con te se ti dilunghi – infatti devo andare in un posto – me ne vado, anche se avrei ascoltato con piacere le tue parole”.

E così parlando, mi alzai per andarmene. E mentre mi alzavo Callia mi afferrò la mano con la sua destra e con la sinistra si attaccò a questo mantello e disse: “Socrate, non ti lasceremo andar via: se infatti te ne vai la discussione non sarà più la stessa. Ti prego di rimanere con noi: io non ascolterei niente di più gradito della conversazione tra te e Protagora. Dài, fai questo favore a tutti noi”.

E io dissi – già mi ero alzato per andarmene -: “Figlio di Ipponico, ho sempre ammirato il tuo desiderio di sapere, e ancora di più lo lodo ora e lo apprezzo, a tal punto che vorrei farti questo favore, se tu mi chiedessi il possibile. Ora è come se tu mi chiedessi di seguire il corridore Crisone di Imera nel pieno delle sue forze o di gareggiare e seguire uno di quegli atleti che corrono sulle lunghe distanze o che corrono tutto il giorno. [336] Io ti direi che più di te desidererei correre dietro a costoro, ma non posso. Se fosse però necessario vedere correre allo stesso tempo me e Crisone, chiedi a lui di adattarsi. Io infatti non posso correre velocemente, ma lui lo può fare lentamente. Se dunque tu desideri ascoltare me e Protagora, chiedigli di rispondermi anche ora così come prima rispondeva brevemente alle domande che gli venivano poste. Altrimenti, quale sarà il tipo di conversazione? Io infatti credevo che il riunirsi per parlare insieme e il parlare in pubblico fossero due cose diverse”.

“Però vedi, Socrate, mi sembra che Protagora abbia ragione sostenendo che a lui sia permesso parlare come vuole e che tu, da parte tua, puoi parlare come vuoi”.

Alcibiade, presa a questo punto la parola, disse: “Non sono d’accordo, Callia: il nostro Socrate ammette di non saper fare lunghi discorsi e cede a Protagora. Al contrario, riguardo alla capacità di dialogare e di saper spiegare e interpretare un discorso, mi stupirei se fosse inferiore a qualcuno. Se dunque anche Protagora ammette di essere più debole di Socrate nel dialogare, per Socrate è sufficiente. Se invece si oppone, dialoghi allora facendo domande e rispondendo: non faccia un lungo discorso per rispondere a ogni domanda, eludendo le argomentazioni e non volendo spiegare il ragionamento. Non lo tiri, però, neanche alle lunghe al punto che molti degli ascoltatori dimentichino che domanda era stata fatta. Per quanto riguarda Socrate io garantisco che non dimentica, anche se scherza e dice di non avere memoria. Mi sembra che Socrate parli nella maniera più giusta: infatti è necessario che ognuno manifesti la propria opinione”.

Dopo Alcibiade, credo, fu Crizia a parlare: “Prodico e Ippia, mi sembra che Callia protenda troppo per Protagora, mentre Alcibiade è sempre desideroso di vincere qualsiasi cosa cominci. Noi, però, non dobbiamo affatto desiderare che vinca né Socrate né Protagora, ma chiedere a entrambi di non interrompere la riunione nel bel mezzo”.

[337]Parlò così e Prodico disse: “Mi sembra che tu abia ragione, Crizia: chi partecipa a queste discussioni deve essere ascoltatore neutrale, ma non indifferente, di entrambi i contendenti – infatti non è lo stesso. Bisogna ascoltare con neutralità, ma non dare ugualmente all’uno e all’altro contendente la stessa importanza: questa sia maggiore per il più saggio e minore per il meno saggio. Io, per quanto mi riguarda, Protagora e Socrate, ritengo che vi dobbiate mettere d’accordo e gareggiare tra voi sui discorsi, ma non lottare. Gli amici gareggiano tra loro con benevolenza, i nemici, invece, e gli avversari lottano: così la nostra riunione risulterebbe bellissima. Voi, infatti, con i vostri discorsi potreste essere apprezzati e non solo lodati da noi che ascoltiamo. L’apprezzamento risiede nell’anima di coloro che ascoltano senza inganno, invece spesso la lode è nelle parole di coloro che mentono contrariamente alla propria opinione. Noi che ascoltiamo, invece, potremmo in tal modo provare gioia e non piacere: provare gioia è apprendere qualcosa e partecipare alla saggezza solo con la mente; provare piacere, invece, è mangiare qualcosa o provare un’altra sensazione con il solo corpo”.

Dette da Prodico queste cose, molti dei presenti approvarono. Dopo Prodico prese la parola Ippia il saggio: “Uomini che siete qui presenti, ritengo che voi siate tutti consanguinei, familiari e cittadini per natura, non per legge: infatti il simile è per natura consanguineo del simile. La legge invece, che è tiranna degli uomini, agisce violentemente contro natura. Noi conosciamo la natura delle cose, siamo i più saggi tra i Greci, e per questo motivo siamo venuti in questo pritaneo della saggezza greca e in questa casa che è la più grande e la più ricca di questa città. È vergognoso che non ci mostriamo degni di questa nostra reputazione, ma lottiamo fra noi come i più meschini degli uomini.

[338] Io dunque vi prego e vi consiglio, Protagora e Socrate, di incontrarvi a metà strada, guidandovi noi come degli arbitri. Non usate puntigliosi dialoghi fitti di risposte brevi non graditi a Protagora, ma lasciate andare e allentate le briglie al discorso, perchè ci appaia più maestoso ed elegante. Protagora, da parte sua, sciogliendo tutte le vele e abbandonandosi al vento, non si getti nel mare dei discorsi allontanandosi dalla terra. Piuttosto percorrete entrambi una rotta intermedia. Fate dunque così e prestatemi ascolto: sceglietevi un giudice, un arbitro, un pritano che controllerà la giusta lunghezza dei discorsi di ognuno di voi”.

Queste proposte piacquero ai presenti e tutti le apprezzarono. Callia disse che non mi avrebbe fatto andar via e mi domandarono di scegliere un arbitro. Io dissi che sarebbe stato sconveniente scegliere un giudice per i discorsi: infatti se la persona scelta fosse stata peggiore di noi, non sarebbe stato giusto mettere a capo dei migliori uno peggiore di loro. Non sarebbe stato ugualmente corretto neppure se fosse stato uguale. Così dissi: “Chi è uguale a noi farà anche cose uguali a noi, sicché sarà inutile scegliere. Dovrete eleggere uno migliore di noi. È realmente impossibile per voi, io credo, scegliere uno che sia più saggio del nostro Protagora. Se sceglierete uno per niente migliore, ma lo definirete tale, offenderete Protagora: scegliere un arbitro per lui come se fosse un uomo di poco conto (mentre per quanto mi riguarda io certo non mi offenderei)! Faccio allora questa proposta, affinché ci siano la conversazione e i dialoghi che desiderate: se Protagora non vuole rispondere, faccia egli stesso le domande; io risponderò e al tempo stesso cercherò di dimostrargli come credo che debba rispondere chi è interrogato. Quando avrò risposto a tutte le domande che vorrà pormi, a sua volta lui stesso mi fornirà spiegazioni. Se, dunque, non sembra disposto a rispondere attenendosi solo alla domanda, io e voi insieme gli chiederemo quanto chiedete a me, cioè di non rovinare la conversazione. Per questo non c’è alcun bisogno di un arbitro, ma tutti voi insieme sarete arbitri”.

A tutti sembrò giusto fare così. Protagora, pur non essendo molto d’accordo, ugualmente, suo malgrado, acconsentì a fare domande e, quando ne avesse poste a sufficienza, a rispondere a sua volta in maniera molto breve.

[339] Cominciò allora ad interrogarmi più o meno così: “Ritengo, Socrate, che per un uomo la parte più importante della sua cultura consista nel conoscere la poesia. Significa, cioè, essere capace di comprendere tra le cose dette dai poeti quelle corrette e quelle no, e saper spiegare e renderne ragione a chi ne domanda. Ti chiederò qualcosa riguardo alla virtù, che è l’argomento del quale tu ed io stiamo discutendo ora, ma spostandomi nel campo della poesia: questa sola sarà la differenza. Simonide, infatti, in un passo dice a Scopa, figlio di Creonte il Tessalo:

Un uomo buono, però, veramente è difficile diventare,
robusto di mani e di piedi e di mente,
creato senza difetto.

Conosci questo canto, o te lo devo recitare tutto?”.

“Non serve affatto: lo conosco e mi è capitato di averci riflettuto a fondo”.

“Perfetto! Ti sembra dunque che sia stato scritto in una bella forma e che esprima giustamente i concetti, o no?”.

“Mi sembra che sia senza dubbio espresso in ottima forma e corretto”.

“E ti sembra che sia composto in bella forma, se il poeta dice cose in contraddizione con se stesso?”

“No di certo!”

“Allora, osserva meglio!”

“L’ho già esaminato a sufficienza, amico mio”.

“Allora sai che andando avanti nel canto in un passo il poeta dice:

Non ritengo conveniente l’opinione di Pittaco
anche se ne è autore un luminoso sapiente:
“difficile è mantenersi onesto”

Ti rendi conto che la stessa persona esprime sia questo concetto sia quello di prima?”

“Lo so”.

“E ti sembra che queste parole vadano d’accordo con quelle di prima?”

“Mi sembra di sì (e al tempo stesso ebbi paura che mirasse a qualcos’altro). E a te non sembra?”

“Come potrei pensare che vada d’accordo con se stesso uno che esprime questi due concetti? Dapprima afferma che sia difficile diventare un uomo veramente buono, ma poco più avanti, procedendo nella poesia, se ne dimentica e condanna Pittaco, che esprime il suo stesso concetto, cioè che è difficile mantenersi onesto, e dice di non approvare uno che pensa queste sue stesse cose. Dal momento che Simonide rimprovera chi dice le sue stesse cose, è evidente che rimprovera anche se stesso cosicché prima o dopo si è sbagliato”.

Fatte queste affermazioni, provocò l’applauso e la lode da parte di molti degli ascoltatori. A me, in un primo momento, come se fossi stato colpito da un bravo pugile, si annebbiò la vista ed ebbi capogiri sentendo Protagora parlare così e tutti gli altri applaudire rumorosamente. Poi, a te posso dire la verità, per guadagnare tempo e capire cosa volesse dire il poeta, mi rivolsi a Prodico e, chiamatolo, gli dissi:

“Simonide è tuo concittadino, Prodico: sarebbe bello da parte tua andare in suo aiuto. [340] Mi sembra di invocarti allo stesso modo in cui Omero narra che lo Scamandro, assediato da Achille, abbia invocato il Simoenta dicendogli:

Caro fratello, tratteniamo entrambi la forza di questo eroe.

Allo stesso modo anche io ti invoco, affinché Protagora non ci distrugga Simonide. Per riabilitarlo c’è bisogno, infatti, della tua arte, con la quale tu distingui il volere e il desiderare, che per te non sono la medesima cosa, e di tutte quelle cose, belle e molte, che hai detto or ora. Ora considera se la pensi come me. Non mi sembra, infatti, che Simonide si contraddica. Tu, Prodico, esprimi prima la tua opinione: ti sembra che il divenire e l’essere siano la stessa cosa o due cose diverse?”

“Diverse, per Zeus!”

“Lo stesso Simonide nei primi versi ha espresso dunque la sua opinione, cioè che è veramente difficile diventare un uomo buono”.

“E’ vero”.

“Biasima Pittaco – continuai – non per il motivo che crede Protagora, cioè perché dice le sue stesse cose, ma perché dice cose diverse. Pittaco non riteneva infatti difficile questa cosa, il divenire onesto, ma, come diceva Simonide, restare onesto. Come dice Prodico, l’essere e il divenire, Protagora, non sono la stessa cosa. E se l’essere non è la stessa cosa del divenire, Simonide non si contraddice. E forse Prodico e molti altri potrebbero dire, così come dice Esiodo, che è difficile diventare buoni – infatti gli dei hanno posto davanti alla virtù il sudore – ma che quando si arriva alla cima sarà più facile possedere la virtù, per quanto essa sia difficile da raggiungere”.

Dunque Prodico, ascoltate queste mie parole, mi lodò. Protagora, invece, disse: “La tua correzione, Socrate, ha in sé un errore più grande di quello che vuol correggere”.

E io: “Mi sembra di aver fatto un bel danno, Protagora, e di essere un medico ridicolo: rendo più grave la malattia con la mia cura!”

“E’ proprio così”.

“Perché?”

“Sarebbe grande l’ignoranza del poeta se ritenesse così facile impossessarsi della virtù, cosa che è tra tutte la più difficile, come è risaputo”.

[341]E io: “Per Zeus! Al momento opportuno Prodico ascolta i nostri discorsi. La sapienza di Prodico, Protagora, rischia infatti di essere qualcosa di divino e di antico sia se risulta aver preso inizio da Simonide sia ancor prima. Tu, che sei esperto di molte altre cose, ti dimostri totalmente inesperto di questa e non competente come me che sono stato discepolo di Prodico che è qui. Ora mi sembra che tu non comprenda che Simonide non intendeva il termine «difficile» così come lo intendi tu. Per esempio, a proposito del termine «terribile», Prodico mi rimprovera tutte le volte che, lodando te o qualcun altro, dico che Protagora è un uomo sapiente e «terribile»: mi domanda se non mi vergogno di chiamare «terribile» una cosa buona. Infatti terribile è il male. Nessuno dice una «terribile ricchezza» né «una terribile pace» né «una terribile salute», ma dice «una terribile malattia», «una terribile guerra» e «una terribile povertà» come se «terribile» fosse un male. Forse dunque anche gli abitanti di Ceo e Simonide considerano il termine «difficile» un male o qualcos’altro che tu non comprendi. Vediamo cosa ne pensa  Prodico – infatti è giusto chiedere a lui spiegazioni sul linguaggio di Simonide. Prodico, cosa voleva intendere Simonide con il termine «difficile»?”

“Un male”.

“Per questo motivo, Prodico, egli rimprovera Pittaco quando afferma che è difficile rimanere onesto: è come dire che è male rimanere onesto”.

“Credi, Socrate, che Simonide abbia voluto intendere qualcosa di diverso da questo e rimproverare a Pittaco di non saper distinguere correttamente le parole perché abitante di Lesbo ed educato in una lingua straniera?”

“Protagora, hai ascoltato Prodico: hai qualcosa in contrario da dire?”

E Protagora: “La questione non sta proprio così, Prodico. Io sono certo che Simonide diceva «difficile» con lo stesso nostro significato, non di male, ma di qualcosa di non facile, a cui si arriva attraverso grandi fatiche”.

“Anche io so, Protagora, che Simonide voleva dire questo e lo sa anche Prodico, ma scherza e credo che abbia voluto provare se tu eri capace di sostenere la sua posizione. Simonide non intende il termine “difficile” come male: ne è una valida testimonianza la frase che segue subito dopo: infatti dice

solo un dio potrebbe avere questo privilegio.

Non pensa dunque che il rimanere onesto sia un male, dal momento che poi afferma che solo un dio potrebbe avere questo privilegio e al solo dio si concede questo dono. Prodico potrebbe altrimenti dire che Simonide è un impudente e niente affatto cittadino di Ceo. Ora ti voglio rivelare quale fosse l’intento di Simonide nel comporre questo canto, se tu vuoi mettere alla prova le mie capacità, così come le chiami tu, riguardo alla poesia. Se non vuoi, sarò io invece ad ascoltarti”.

[342] Protagora dunque, ascoltate queste mie parole, disse: “Va bene, Socrate”.

Prodico, Ippia e gli altri mi pregavano insistentemente.

“Tenterò di esporvi quanto penso di questo canto. A Creta e a Sparta si trova la filosofia più antica e più profonda di tutta la Grecia e lì ci sono moltissimi sofisti. Questi nascondono la loro sapienza e fingono di essere ignoranti per non mostrarsi apertamente superiori a tutti i Greci in sapienza (proprio come i sofisti di cui parlava Protagora) e per sembrare invece superiori nel combattimento e nel coraggio. Ritengono infatti che, se fosse risaputo ciò per cui sono superiori, cioè la sapienza, tutti la eserciterebbero.

Ora, avendo tenuto nascosta la sapienza, hanno ingannato coloro che nelle varie città vivono come gli spartani e che per imitarli si ammaccano le orecchie e avvolgono intorno ai pugni strisce di cuoio, impazziscono per la ginnastica e indossano corti mantelli, ritenendo che gli spartani siano i più forti dei Greci grazie a queste cose. Gli spartani, invece, quando vogliono liberamente incontrarsi con i sofisti e sono stanchi di parlare di nascosto, cacciati tutti questi loro imitatori e qualsiasi altro straniero ci sia nella loro città, conversano con i sofisti senza farlo sapere agli stranieri. Non permettono poi a nessuno dei giovani di andare in altre città, come fanno pure i cretesi, perché non dimentichino gli insegnamenti che sono stati loro impartiti. In queste città non solo gli uomini sono fieri della loro educazione, ma anche le donne. Potrete capire che quanto vi dico è vero e che gli spartani sono stati efficacemente educati ai ragionamenti filosofici da questo: se qualcuno si trova infatti a conversare con il più stolto degli spartani, troverà che per la maggior parte della conversazione l’uomo appare davvero stolto. Tuttavia, poi, quando gli si presenta un’occasione nel discorso, questa stessa persona è capace di scagliare una frase degna di nota, breve e significativa, come un abile arciere, cosicché il suo interlocutore appare niente più che un bambino. Questo dunque hanno compreso sia i contemporanei sia gli antichi, cioè che imitare gli spartani significa amare la filosofia molto più della ginnastica, consapevoli che pronunciare frasi brevi e significative è proprio di uomini che sono stati educati alla perfezione.
[343] Tra questi c’erano Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Briene, il nostro Solone, Cleobulo di Lindo, Misone di Chene, e il settimo tra loro si narra che fosse Chilone di Sparta. Tutti questi erano ammiratori, amanti e seguaci dell’educazione spartana: chiunque, dai detti brevi e memorabili che ciascuno di loro pronunciò, potrebbe comprendere che la loro sapienza era di origini spartane. Costoro, riunitisi insieme, consacrarono come primizia della loro sapienza ad Apollo nel tempio di Delfi queste iscrizioni che tutti celebrano, «Conosci te stesso» e «Nulla di troppo». Per quale motivo dico queste cose? Perché questo era lo stile della filosofia degli antichi: una brevità spartana. Privatamente si ripeteva anche questo detto di Pittaco, molto lodato dai sapienti: «E’ difficile essere onesti». Simonide, dunque, desideroso di essere annoverato fra i sapienti, capì che se avesse superato questo detto, come un celebre atleta, e lo avesse vinto, sarebbe stato famoso tra gli uomini del suo tempo. Contro tale detto, quindi, e per questo motivo compose questo canto, volendo sottrargli ogni valore, come mi sembra.
Ora esaminiamo tutti insieme il canto, per vedere se dico la verità. Subito, infatti, sin dai primi versi, sembrerebbe che a parlare sia un pazzo poiché, mentre afferma che è difficile per un uomo diventare buono, aggiunge poi quel «però». Il «però», infatti, sembrerebbe essere stato messo senza motivo, a meno che Simonide non parli volendo polemizzare contro il detto di Pittaco. Pittaco dice che è difficile mantenersi onesto, Simonide obbiettando dice «però, non essere, ma diventare buono è veramente difficile, Pittaco» . Simonide non dice «veramente buono»: il termine «veramente” si riferisce non a buono, come se esistessero alcuni «veramente buoni», e altri buoni sì, ma non «veramente» (infatti questo sembrerebbe sciocco e non degno di Simonide). Bisogna invece pensare che nel canto il «veramente” abbia un’altra posizione, immaginando che Pittaco parli e Simonide risponda.
[344] Pittaco direbbe: «Uomini, è difficile mantenersi onesti», e Simonide risponderebbe «Pittaco, però non dici la verità: non essere, ma divenire un uomo buono, robusto di mani, di piedi e di mente, creato senza difetto, questo è veramente difficile». Il «però» sembra essere stato inserito a proposito e il «veramente» è correttamente riferito alla parola «difficile». Tutto il seguito conferma la mia interpretazione. Per ciascuna delle cose dette nel canto, infatti, si può dimostrare che è stata ben costruita – risulta composto con molta grazia e cura – ma sarebbe lungo analizzarlo in tutti i suoi aspetti. Esponiamone piuttosto il significato complessivo e l’intento, che in tutto il canto consiste nel confutare il detto di Pittaco.
Simonide dice, andando avanti di pochi versi, come se parlasse in prosa, che divenire un uomo buono è veramente difficile, ma possibile per un certo periodo di tempo; una volta divenuto buono, rimanere in questa condizione ed essere tale, come tu dici, Pittaco, è impossibile e non umano, ma solo il dio avrebbe un tale privilegio

non è possibile che non sia malvagio
l’uomo che sia colto da un’irrimediabile sventura

Chi è colto da un’irrimediabile sventura alla guida di una nave? Evidentemente non l’inesperto: infatti l’inesperto è già fuorigioco. Come dunque si potrebbe colpire uno già disteso a terra? E’ possibile abbattere solo uno che prima era in piedi, così da farlo cadere. Allo stesso modo un’irreparabile sventura potrebbe colpire un uomo ricco di risorse, e non chi ne è sempre sprovvisto; una violenta tempesta, scatenandosi, potrebbe rendere senza ripari il nocchiero, il sopraggiungere di una stagione avversa il contadino e un’altra sciagura il medico. Così, allo stesso modo, solo a un uomo onesto è possibile divenire malvagio, come è testimoniato anche da un altro poeta che dice:

l’uomo buono a volte è malvagio e a volte è onesto

al malvagio invece non è possibile diventare tale, poiché malvagio lo è sempre.

Chi è pieno di risorse, saggio e buono, quando lo colga un’irreparabile sventura

non è possibile che non sia malvagio

Tu, invece, Pittaco, dici che “è difficile rimanere onesto”: al contrario, diventare onesti è difficile, ma possibile, mentre rimanere tali è impossibile

ogni uomo quando agisce bene è buono
quando agisce male è cattivo.

[345] In cosa consiste il successo nelle lettere e cosa rende l’uomo bravo nelle lettere? Certamente l’impararle. Quale modo di agire rende buono un medico? Certamente l’aver appreso le cure per gli ammalati. «È cattivo se ha una cattiva riuscita». Chi potrebbe diventare un medico cattivo? Evidentemente chi è per prima cosa un medico e poi un medico buono: solo costui potrebbe diventare un cattivo medico. Noi, invece, inesperti di medicina, non potremmo mai, pur agendo male, diventare né medici né architetti né tecnici in nessun’altra disciplina. Chi, pur operando male, non può diventare medico, è chiaro che non potrà diventare neanche un cattivo medico. Così anche l’uomo buono potrebbe diventare cattivo per vecchiaia, per stanchezza, per malattia o per qualche altro accidente. Questo infatti significa avere cattiva fortuna: perdere la conoscenza. Il malvagio non potrebbe diventare malvagio – infatti lo è già -, ma, se volesse diventare malvagio, dovrebbe prima divenire buono. Ecco il significato di questo passo del canto: non è possibile diventare buono, essendolo già, mentre è possibile che uno, da buono, divenga poi cattivo: migliori e per un tempo più lungo sono quelli che gli dei amano.
Tutte queste cose sono state dette contro Pittaco, e ancora di più lo dimostra il seguito del canto. Infatti dice:

Cercando quello che non è possibile che accada
io non getterò mai invano il destino della mia vita in una vuota speranza,
io vi annuncerò quando avrò trovato un uomo puro
tra noi tutti quanti ci nutriamo del frutto della terra dalle ampie vie.

Per tutto il carme così si scaglia contro il detto di Pittaco:

io amo e lodo volentieri (ekòn) coloro che non compiono azioni malvagie
contro la necessità non combattono neppure gli dei.

Anche queste parole sono dette con lo stesso fine polemico. Simonide non era così incolto da sostenere di lodare quelli che non compiono “volentieri” azioni malvagie, come se esistessero alcuni che “volentieri” commettono ingiustizie. Io credo che sia più o meno così: nessun saggio ritiene che qualcuno sbagli di sua volontà e che “volentieri” compia azioni cattive e malvagie, ma sa bene che tutti quelli che agiscono in modo vergognoso lo fanno involontariamente. Simonide non dice di lodare coloro che non fanno il male “volentieri”: quel “volentieri” lo dice pittosto riferendolo a se stesso.
[346] Allude certo al fatto che un uomo buono spesso si costringe a diventare amico di qualcuno, a lodarlo, come per esempio quando a un uomo capita di avere una madre, un padre, una patria o qualcos’altro del genere di natura diversa dalla sua. Ora, quando questa stessa situazione capita ai malvagi, l’accettano volentieri e con biasimo denunciano e accusano la malvagità dei genitori o della patria, per poterli trascurare senza essere per questo incolpati e rimproverati. Biasimano i genitori e la patria più del necessario e aggiungono risentimenti voluti a quelli già inevitabili. I buoni, invece, tentano di nascondere gli errori dei genitori e di lodarli, e se non sono d’accordo con i genitori o con la patria per aver ricevuto un torto, si calmano e si riconciliano costringendosi ad amarli e lodarli. Credo che spesso lo stesso Simonide abbia ritenuto opportuno lodare ed adulare il tiranno o qualunque altro uomo, non «volentieri», ma perché costretto. Questo è il motivo per cui dice anche a Pittaco: se ti biasimo non è perché sono per natura incline a biasimare. Infatti:

Mi accontento di un uomo che non sia malvagio
né del tutto inetto, che conosca la giustizia che giova alla città
e sia onesto; non lo biasimerò
(non sono per natura amante del biasimo),
perché infinita è la stirpe degli stolti

così che, se a qualcuno piace biasimare, potrebbe accontentarsi biasimando gli stolti.

Sono belle tutte le cose alle quali non si mescola nulla di brutto.

Simonide non intende certo dire con questo verso che sono bianche tutte quelle cose alle quali non si mescola nulla di nero, dal momento che questa sarebbe un’affermazione ridicola per molti aspetti. Intende piuttosto valorizzare le qualità intermedie, senza biasimarle. Infatti afferma: «Non cerco l’uomo puro, tra noi che ci nutriamo del frutto della terra dalle ampie vie. Se mai lo troverò ve lo annunzierò»; di conseguenza non loderò nessuno per la sua perfezione, ma mi accontenterò di un uomo di media virtù che almeno non compia azioni malvagie. Infatti dice: «Io amo e lodo tutti». Proprio in questo verso Simonide usa il dialetto di Mitilene e rivolgendosi a Pittaco dice: «Tutti io lodo e amo volentieri (qui è necessario che il lettore faccia una pausa dopo «volentieri»), purché non compiano azioni malvagie», ma c’è pure chi lodo e amo malvolentieri.[347] Pittaco, io non ti avrei mai biasimato se tu avessi detto cose mediamente giuste e vere; tu invece, pur sbagliando completamente su cose molto importanti, credi di dire la verità, perciò io ti biasimo. Prodico e Protagora, a me sembra che Simonide abbia composto il carme proprio avendo in mente queste cose”.

Ippia disse: “Socrate, mi sembra che tu abbia spiegato bene il carme; su questo stesso argomento ho anch’io un discorso ben fatto. Ve lo esporrò, se volete”.

Alcibiade disse: “Sì, Ippia, ma un’altra volta; ora è giusto che, in base agli accordi presi precedentemente, Protagora – se ancora vuole – faccia le domande e che Socrate risponda. Se invece Protagora preferisce rispondere, sia Socrate a fare le domande”.

Io dissi: “Lascio a Protagora la scelta. Se vuole, possiamo abbandonare i discorsi su carmi e versi. A me, Protagora, piacerebbe proseguire con gli argomenti su cui prima ti facevo domande, per portarli a termine esaminandoli insieme a te.

Discutere di poesia mi sembra in realtà una cosa da simposio di uomini mediocri e volgari. Questi infatti, mentre bevono, non sono capaci di intrattenersi fra loro con i propri mezzi, né con la voce né con le parole, a causa della loro ignoranza: fanno rincarare il prezzo delle flautiste, pagando profumatamente la voce estranea dei flauti, con cui si intrattengono fra loro. Al contrario, in un simposio di uomini di valore e di cultura, non vedrai né flautiste né danzatrici né suonatrici di cetra: uomini tali sono capaci di intrattenersi fra loro da soli, senza queste vane chiacchere e passatempi, con la loro stessa voce. Parlano e si ascoltano reciprocamente a turno, con ordine, anche se hanno bevuto molto vino. Allo stesso modo anche le riunioni come la nostra, se coinvolgono uomini di valore (molti di noi pensano di esserlo), non hanno affatto bisogno né di una voce estranea né di poeti, a cui non possono neppure essere poste domande riguardo a ciò che dicono. Infatti molti, citando i poeti nei loro discorsi, interpretano i loro versi in un modo, mentre altri li interpretano in un altro, così che spesso si arriva a discutere di questioni impossibili da risolvere. Gli uomini di valore, invece, non frequentano questo tipo di riunioni e si intrattengono fra loro con i loro mezzi, mettendo alla prova gli altri e dando prova di sé attraverso i loro discorsi.

[348] Mi sembra che tu ed io dobbiamo imitare proprio questi uomini: lasciamo stare i poeti e con i nostri soli mezzi discutiamo fra noi mettendo alla prova la verità e noi stessi. Se vuoi fare tu le domande, sono pronto a risponderti; se non vuoi, permettimi di concludere quei discorsi che abbiamo lasciato a metà”.

Mentre io parlavo in questo modo, Protagora non manifestava affatto quale fosse la sua intenzione. Allora Alcibiade, rivolto a Callia, disse: “Callia, ti sembra che ora Protagora si stia comportando bene, non volendo manifestare se discuterà o no? A me sembra di no. Discuta o dica che non vuole farlo, ci faccia conoscere le sue intenzioni: Socrate potrà parlare con qualcun altro o chiunque altro lo voglia potrà parlare con un altro”.

A questo punto Protagora, vergognandosi, come a me sembrò, sia per le parole di Alcibiade, sia per le preghiere di Callia e degli altri presenti – quasi tutti – a malincuore decise di discutere. Mi invitò a fare le domande, promettendo che avrebbe risposto.

Io dissi: “Protagora, non pensare che io, nel parlare con te, abbia altro scopo se non esaminare questioni su cui di volta in volta sono incerto. Io credo infatti che Omero abbia ragione: quando due camminano insieme, uno comprende prima dell’altro.

Noi uomini, tutti insieme, abbiamo più risorse di fronte a ogni azione, discorso, pensiero. Se poi «qualcuno pensa da solo», subito va in giro a cercare qualcun altro a cui esporre il proprio pensiero e con cui poterlo confermare, finché non lo incontra. Per lo stesso motivo anche io discuto volentieri con te piuttosto che con un altro, ritenendo che tu possa esaminare nel modo migliore sia le questioni sulle quali è naturale che rifletta un uomo di valore, sia in particolare la virtù.

Chi altri se non tu? Tu ti consideri un uomo virtuoso, ma non come tutti gli altri: questi infatti, pur essendo virtuosi, non rendono tali gli altri; tu, invece, sei virtuoso e sei pure in grado di rendere virtuosi gli altri.

[349] Hai una tale fiducia in te stesso che, mentre altri tengono nascosta questa capacità, tu ti sei mostrato pubblicamente di fronte a tutti i Greci, ti sei proclamato sofista, ti sei presentato come maestro di paideia e di virtù, e per primo hai ritenuto opportuno essere pagato per questo. Come potevamo non invitarti a questa ricerca, farti domande e renderti partecipe? Non era possibile. Ora io vorrei che tu ci rinfrescassi la memoria sulle questioni, sulle quali prima ti facevo domande; altre questioni, poi, vorrei esaminarle insieme a te. La domanda era questa, mi pare: questi cinque

nomi – sapienza, saggezza, coraggio, giustizia e santità – si riferiscono a un unico oggetto o esiste per ciascuno di questi un’essenza propria e un oggetto con una sua funzione, ognuno diverso dall’altro? Tu prima hai affermato che questi nomi non si riferiscono tutti alla stessa cosa, ma che ciascuno indica un solo oggetto; tutti poi indicano parti della virtù e non sono come le parti dell’oro, simili le une alle altre e all’intero di cui fanno parte, ma sono come le parti del volto, dissimili l’una dall’altra e dall’intero, ciascuna con una sua funzione. Se ancora la pensi così, dillo; se invece ci hai ripensato, spiega pure. Non te lo farei pesare, se tu ora parlassi in un altro modo e non mi meraviglierei se tu prima avessi

fatto certe affermazioni solo per mettermi alla prova”.

“Socrate, io dico che tutte queste cose sono parti della virtù e che quattro sono abbastanza simili fra loro, mentre il coraggio è molto diverso da tutte. Ecco la prova che quello che dico è vero: infatti tu puoi incontrare parecchi uomini molto ingiusti, empi, sregolati e ignoranti, ma al tempo stesso straordinariamente coraggiosi!”.

“Aspetta! – dissi io – Vale la pena di esaminare quello che dici. Per «coraggiosi» intendi gli audaci o qualcos’altro?”

“Intendo gli audaci e anche i temerari di fronte ai pericoli che molti temono di affrontare”.

“Pensi che la virtù sia bella e proprio perché bella ti proclami maestro di questa?”

“E’ bellissima, se non sono impazzito”.

“Ma è in parte bella e in parte brutta o è bella nel complesso?”

“E’ bella nel complesso, quanto più è possibile”.

“Sai chi sono quelli che con audacia si gettano nei pozzi?”

[350] “Sì, i palombari”.

“Lo fanno poiché sono capaci o per qualche altro motivo?”

“Perché sono capaci”.

“Chi sono quelli che con coraggio si battono a cavallo? Quelli abili nel cavalcare o quelli incapaci?”

“Quelli abili nel cavalcare”.

“Chi sono quelli che combattono con lo scudo? Quelli che sanno usare lo scudo, o no?”

“Quelli che lo sanno usare. E per tutte le altre cose, se a questo miri, quelli che sanno sono più audaci di quelli che non sanno. Gli stessi diventano più audaci quando hanno imparato piuttosto che prima di sapere”.

“Hai mai visto alcuni che non conoscono tutte queste cose, ma che tuttavia sono audaci?”

“Sì, e anche troppo audaci”.

“Ma questi audaci sono anche coraggiosi?”

“E allora il coraggio sarebbe una cosa orribile. Sono pazzi, piuttosto”.

“Allora come definisci i coraggiosi? Non sono forse gli audaci?”

“Sì, sì”.

“Eppure non è forse vero che quelli che sono audaci senza sapere, non sembrano coraggiosi ma pazzi? E d’altra parte poco fa i più sapienti non ti sembravano anche i più audaci e, essendo i più audaci, i più coraggiosi? E in base a questo ragionamento la sapienza non coincide forse con il coraggio?”

“Non ricordi bene, Socrate, quello che dicevo e che ti ho risposto. Io, quando tu mi hai chiesto se i coraggiosi fossero audaci, ho detto di sì; ma tu non mi hai chiesto se gli audaci fossero coraggiosi: se infatti me lo avessi chiesto, avrei detto «non tutti». Quindi non hai per niente dimostrato che i coraggiosi non sono audaci e che la mia affermazione non è corretta.

Tu dici poi che quelli che sanno sono più audaci di quanto lo fossero prima di sapere e di altri che non sanno, e per questo credi che il coraggio e la sapienza siano la stessa cosa: procedendo in questo modo potresti credere che anche la forza fisica sia sapienza. Se infatti, proseguendo con questo ragionamento, tu mi chiedessi se chi è forte fisicamente è anche potente, io risponderei di sì. Se poi mi chiedessi se quelli che sanno lottare sono più potenti di quelli che non sanno lottare e se, dopo aver imparato, siano più potenti rispetto a quanto lo fossero prima di imparare, direi di sì.

Accettate queste cose, sarebbe possibile per te, usando le stesse argomentazioni di prima, dire che in base alla mia ammissione la sapienza è forza fisica. Io, invece, anche in questo caso, non dico che i potenti sono forti, ma solo che i forti sono anche potenti.

[351] Infatti la potenza e la forza fisica non sono la stessa cosa: una, la potenza, è frutto di studio e anche di follia e di passione, la forza fisica invece è un dono della natura ed è frutto della buona cura del corpo. Allo stesso modo anche nell’esempio di prima l’audacia e il coraggio non sono la stessa cosa: i coraggiosi sono sì audaci, ma gli audaci non sono certo tutti coraggiosi. L’audacia infatti è frutto, per gli uomini, di studio e anche di passione e di follia, come la potenza, mentre il coraggio è un dono della natura ed è frutto della buona cura dell’anima”.

“Protagora, pensi che alcuni uomini vivano bene e altri male?”

“Sì”.

“Ti sembra che un uomo vivrebbe bene se fosse tormentato e afflitto dal dolore?”

“No”.

“E se invece morisse dopo aver vissuto felicemente? Non ti sembra che abbia vissuto bene?”

“Mi sembra di sì”.

“Vivere con gioia è dunque bene, vivere afflitti da dolori è male”.

“Sì, purché si viva godendo delle cose belle”.

“Che dici, Protagora? Anche tu, come molti, consideri cattive alcune cose piacevoli e buone alcune cose dolorose? Io dico: le cose, in base al fatto che sono piacevoli, non sono forse anche buone, indipendentemente da quello che ne potrà derivare? E a loro volta ugualmente le cose dolorose, nella misura in cui sono dolorose, non sono anche cattive?”

“Non so, Socrate, se devo risponderti così su due piedi, in base a come poni la domanda, che le cose piacevoli sono tutte buone e le cose dolorose sono tutte cattive. Mi sembra però che, non solo in relazione all’attuale risposta, ma anche in relazione a tutta la mia vita, sia più prudente per me dire che alcune cose piacevoli non sono buone e che alcune cose dolorose non sono cattive, mentre altre lo sono; in terzo luogo alcune cose non sono né l’uno né l’altro, né buone né cattive”.

“Non chiami forse piacevoli quelle che partecipano del piacere e che lo procurano?”

“Senza dubbio”.

“Questo dunque intendo dire: in quanto piacevoli non sono forse anche buone? E il piacere in sé non è forse un bene?”

“Come tu dici ogni volta, Socrate, «esaminiamo la questione»: se la ricerca avrà lo stesso esito del nostro ragionamento e bene e piacere ci sembreranno la stessa cosa, ne converremo insieme; se no, allora ne discuteremo”.

“Vuoi condurre tu la ricerca o devo condurla io?”

“E’ giusto che conduca tu; tu infatti hai iniziato il discorso”.

[352] “Forse possiamo chiarire la questione in questo modo. Ad esempio, se qualcuno vuole esaminare una persona in base all’aspetto esteriore e vuole giudicarne lo stato di salute o qualche altra qualità del

corpo, dopo aver guardato il volto e le mani dice: «Su, spogliati e mostrami il petto e la schiena, perché io possa esaminarti con più accuratezza». Io voglio fare la stessa cosa per questa ricerca: vedendoti così disposto in relazione al bene e al piacere, come tu affermi, devo dirti: «Su, Protagora, svelami anche questo aspetto del tuo pensiero: che cosa ne pensi della scienza? La pensi come la maggior parte degli uomini o in un altro modo? Ai più la scienza sembra una cosa né forte né adatta a guidare né idonea a comandare; non solo le attribuiscono una natura tale, ma ritengono che spesso la scienza, pur essendo presente in un uomo, non riesca a guidarlo, ma che altre cose prendano il sopravvento: l’ira, il piacere, il dolore, l’amore, spesso la paura. La scienza è per i più come uno schiavo, trascinata qua e là da tutto il resto.

Anche per te è così o pensi che la scienza sia qualcosa di bello, che sia capace di guidare l’uomo, e che, se uno conosce il bene e il male, non sia trascinato da niente altro e agisca solo come ordina la scienza? Credi che l’intelletto sia sufficiente a portare aiuto all’uomo?»”

“Sembra che sia come tu dici, Socrate. Se è vergognoso per altri, figurati quanto lo è per me affermare che la sapienza e la scienza non sono le più potenti fra tutte le cose umane!”

“Parli bene e dici la verità. Sai però che la maggior parte degli uomini non crede né a me né a te: dicono che molti, anche se conoscono il bene, non vogliono metterlo in pratica, pur essendo possibile per loro, ma preferiscono agire secondo altri princìpi. Se io chiedo quale sia la causa di questo comportamento, rispondono che quelli che agiscono così lo fanno o perché vinti dal piacere o dal dolore o perché dominati da qualcuna delle passioni di cui parlavo poco fa”.

“Socrate, credo che anche in molte altre questioni gli uomini si sbaglino”.

[353] “Allora, preparati a convincere gli uomini insieme a me e a insegnare che cosa accade loro quando affermano di essere vinti dai piaceri e di non praticare per questo motivo il bene, benché lo conoscano. Se infatti noi dicessimo: “Non sono giuste le cose che dite, vi sbagliate” ci chiederebbero: “Protagora e Socrate, se quello che ci accade non è essere vinti dal piacere, allora che cosa è mai e che cosa pensate che sia? Ditecelo!»”

“Che bisogno c’è, Socrate, di esaminare l’opinione della massa, che parla a vanvera?”

“Credo che la ricerca consista nello scoprire in quale relazione si trovi il coraggio con le altre parti della virtù. Se dunque la pensi ancora come prima, cioè che sia io a condurre la ricerca come penso sia meglio, seguimi; se non vuoi, se lo desideri, lascerò stare”.

“Va bene; continua come hai cominciato”.

“Se ancora una volta ci chiedessero: «Che cosa pensate che sia quello che per noi è essere vinti dai piaceri?» Io risponderei: «Ascoltate: io e Protagora tenteremo di spiegarvelo. Non vi accade forse la stessa cosa quando siete trascinati dai cibi, dalle bevande e dagli amori, che sono piacevoli, e, pur sapendo che sono cose cattive, tuttavia cedete?»”

“Direbbero di sì”.

“E allora potremmo chiedere ancora: «In che senso affermate che sono cose cattive? Forse perché sul momento procurano piacere e perché ciascuna di loro è piacevole, o perché poi provocano malattie e povertà e molte altre cose simili? Oppure, anche se in futuro non procurano nessuna di queste cose, ma solo godimento, sarebbero pur sempre cattive, poiché, non importa in che modo, fanno godere chi le prova?» . Io credo, Protagora, che risponderebbero che queste cose non sono cattive in base al fatto che procurano piacere sul momento, ma per ciò che segue, le malattie e il resto”.

“Penso che molti risponderebbero così”.

“Essendo causa di malattie e di povertà non sono forse anche causa di dolori? Sarebbero d’accordo, mi pare”.

Protagora disse di sì.

“«Allora, in base al ragionamento mio e di Protagora, vi sembra che queste cose siano cattive per qualche altro motivo se non perché procurano dolori e ci privano di altri piaceri?”. Sarebbero d’accordo?».

[354] Eravamo entrambi della stessa opinione.

“Poi se domandassimo loro il contrario: «Quando affermate che ci sono alcune cose buone che sono anche dolorose, forse intendete gli esercizi ginnici, le campagne militari, le cure mediche, con le loro cauterizzazioni, tagli, medicamenti, diete, che sono tutte cose buone, ma dolorose?» Risponderebbero di sì?”.

Era d’accordo.

“«Forse allora definite buone queste cose perché sul momento procurano estreme sofferenze e dolori o perché in un momento successivo derivano da loro salute, benessere fisico, salvezza degli stati, dominio su altri e ricchezza?»

Sceglierebbero la seconda ipotesi, mi pare”.

Era d’accordo.

“«E queste cose sono buone per qualche altra ragione se non perché procurano piaceri e ci separano e ci allontanano dai dolori? O avete un altro criterio, in base al quale le considerate buone, che non siano i piaceri (che procurano) e i dolori (che allontanano)?» Direbbero di no, mi sembra”.

“Anche secondo me direbbero di no”.

“«Perciò inseguite il piacere come un bene e fuggite il dolore come un male?»”

Protagora era d’accordo.

“«Ritenete dunque che il dolore sia un male e che il piacere sia un bene. Inoltre considerate un male la stessa gioia intensa, se ci priva di piaceri più grandi di quelli che esso stesso procura o ci causa dolori più grandi dei piaceri che contiene. Se la considerate un male per qualche altro motivo e in virtù di un altro criterio, dovreste dirlo anche a noi, ma non vi sarà possibile””.

“Neppure secondo me è possibile”.

“«Non possiamo fare le stesse considerazioni anche sulla sofferenza? Non considerate forse un bene la

sofferenza, se allontana dolori più grandi di quelli che contiene o procura piaceri più grandi dei dolori? Se però, considerando la sofferenza un bene, avete presente un criterio diverso da quello che dico, dovete dircelo; ma non potrete»”.

“Dici la verità”.

“«E ancora, se voi mi chiedeste: ‘Perché la fai tanto lunga?’ ‘Perdonatemi’- direi. Infatti non è facile dimostrare che cosa sia mai quello che voi definite ‘essere vinti dai piaceri’; da questa derivano poi tutte le altre dimostrazioni». [355] Potete ancora cambiare opinione, se siete capaci di sostenere che il bene sia una cosa diversa dal piacere, o che il male sia una cosa diversa dal dolore; oppure a voi basta vivere felicemente la vita senza dolori? Se vi basta e se per voi bene e male non sono altro che ciò che conduce al piacere o al dolore, ascoltate cosa ne consegue. Infatti vi dico che, se le cose stanno così, il ragionamento diventa ridicolo. Voi affermate che spesso l’uomo, pur sapendo che il male è male, tuttavia lo fa, pur essendo possibile non farlo, trascinato e sconvolto dai piaceri; poi dite che l’uomo, pur conoscendo il bene, non vuole farlo, vinto dai piaceri del momento”.

Che tutto questo sia ridicolo, sarà evidente se non useremo molti nomi contemporaneamente, ‘piacere’, ‘dolore’, ‘bene’ e ‘male’: poiché sembra che si tratti di due cose, chiamiamole con due nomi, in primo luogo ‘bene’ e ‘male’ e poi ‘piacere’ e ‘dolore’. Stabilito questo, diciamo: l’uomo pur sapendo che il male è male, tuttavia lo fa. Se qualcuno ci chiedesse: «Perché?» «Perché è vinto» diremmo; «Da cosa?» quello ci domanderà; per noi non sarà più possibile dire «dal piacere», poiché adesso il piacere ha cambiato nome e si chiama ‘bene’. Allora gli risponderemo e diremo: «Perché è vinto»; «Da cosa?» dirà; «Dal bene, per Zeus!» diremo. Se il nostro interlocutore è un po’ arrogante, riderà e dirà: «È davvero ridicolo quello che dite, se affermate che qualcuno fa il male, pur sapendo che è male e pur non essendo lecito farlo, perché è vinto dal bene. Per voi il bene può o non può vincere il male?». E’ evidente che dovremmo rispondere che non può, se che chi è vinto dai piaceri compie il male. «In che cosa – dirà forse – i beni sono inferiori ai mali e i mali ai beni? Forse in base al fatto che gli uni sono più grandi, gli altri più piccoli? O che gli uni sono di più e gli altri di meno?» Non potremmo che essere d’accordo. «E’ evidente dunque – dirà – che per voi ‘essere vinti’ significa scegliere mali maggiori in cambio di beni minori». Su questo siamo d’accordo. Attribuiamo ancora una volta i nomi di ‘piacere’ e ‘dolore’ a queste stesse cose e diciamo: l’uomo fa cose dolorose – prima dicevamo ‘cose cattive’ – pur sapendo

che sono dolorose, vinto dai piaceri, che evidentemente non sono in grado di prevalere.

[356] E in cosa altro il piacere è inferiore rispetto al dolore, se non per l’eccesso o per il difetto dell’uno rispetto all’altro? Piaceri e dolori possono essere reciprocamente più grandi o più piccoli e più o meno numerosi, in maggiore e in minore intensità. Se poi qualcuno dicesse: «C’è però molta differenza, Socrate, fra il piacere del momento e il dolore o il piacere futuri!” «E questa differenza consiste in qualcos’altro se non nel piacere e nel dolore? No di certo. Tu, come un bravo pesatore, dopo aver raccolto il piacere e il dolore e aver aggiunto sul piatto della bilancia la vicinanza e la lontananza nel tempo, dimmi quale dei due piatti è più pesante. Se infatti poni a confronto i piaceri con i piaceri, devi

sempre scegliere i più grandi e i più numerosi; se invece poni a confronto i dolori con i dolori, devi scegliere i meno numerosi e i più piccoli. Se poi poni a confronto piaceri e dolori, nel caso in cui i dolori siano superati dai piaceri, e se i dolori vicini sono superati dai piaceri lontani e i dolori lontani sono superati dai piaceri vicini, devi orientare la scelta laddove c’è l’eccedenza; qualora invece i piaceri siano superati dai dolori, bisogna rinunciarvi. Le cose stanno così o in un altro modo?». So che non potrebbero rispondere diversamente”.

Anche lui era d’accordo.

“«Poiché le cose stanno così, rispondetemi a questa domanda: una stessa grandezza vi appare maggiore da vicino e minore da lontano, o no?»”

“Diranno di sì”.

“«E lo stesso accade per il volume e la quantità? E voci di uguale intensità non sono forse più forti da vicino, più deboli da lontano?»”

“Direbbero di sì”.

“«Se dunque per noi questo fosse l’agire bene, fare e scegliere le cose grandi, fuggire e non fare

le cose piccole, quale vi sembrerebbe la salvezza della vita? L’arte della misura o il potere dell’apparenza? L’apparenza forse ci ingannerebbe e ci farebbe spesso prendere e lasciare senza criterio le stesse cose e pentirci, sia quando agiamo, sia quando scegliamo le cose grandi e piccole. L’arte della misura, invece, renderebbe vana l’illusione dell’apparenza e, dopo aver mostrato la verità, farebbe in modo che l’anima, accanto alla verità, fosse tranquilla e ci salverebbe la vita”. Gli uomini sarebbero d’accordo sul fatto che l’arte della misura ci potrebbe salvare oppure affermerebbero che è un’altra arte a salvarci?”.

“Direbbero che è l’arte della misura”.

“«Cosa accadrebbe se la salvezza della vita per noi dipendesse dalla scelta tra il pari e il dispari (che consiste poi nel capire quando sia giusto scegliere il più e quando il meno, o preso per sé o in relazione ad altro, sia che sia vicino, sia che sia lontano)? Che cosa ci salverebbe la vita? Non sarebbe forse la scienza? [357] E non sarebbe proprio la scienza della misura, poiché è un’arte che riguarda l’eccesso e il difetto? E la scienza del pari e del dispari non è forse l’aritmetica?»Tutti sarebbero d’accordo con noi, o no?”. Anche a Protagora sembrava che sarebbero stati d’accordo.

“«Bene; poiché ci è sembrato che la salvezza della vita risieda nella giusta scelta fra piacere e dolore – fra il più numeroso e il meno numeroso, fra il più grande e il più piccolo, fra il più lontano e il più vicino – questa non è forse una forma di misura, poiché è una ricerca dell’eccesso e del difetto e della reciproca uguaglianza fra piaceri e dolori?»”

“Necessariamente”.

“Poiché è una misura, deve essere anche un’arte e una scienza”.

“Saranno d’accordo”.

“«Esamineremo in un secondo momento di quale arte e di quale scienza si tratti; per la risposta mia e di Protagora alla vostra domanda basta sapere che è una scienza. Se ricordate, avete iniziato a farci domande quando io e Protagora abbiamo concordato che nulla è più forte della scienza e che questa domina tutto, dovunque sia, il piacere e tutte le altre cose; voi, invece, affermavate che spesso il piacere ha in suo potere anche l’uomo sapiente. Poiché noi non eravamo d’accordo con voi, ci avete chiesto: ‘Protagora e Socrate, se ciò che accade in questi casi non è essere vinti dal piacere, che cosa è mai e che cosa voi dite che sia? Ditecelo!’. Se subito vi avessimo risposto ‘l’ignoranza’ avreste riso di noi; ora

invece, se rideste di noi, ridereste anche di voi stessi. Infatti voi avete ammesso che chi sbaglia nella scelta fra i piaceri e i dolori – cioè fra il bene e il male – sbaglia per mancanza di scienza, e non solo di scienza in generale, ma anche di quella che abbiamo chiamato arte della misura: un’azione sbagliata per mancanza di scienza sapete forse anche voi che avviene per ignoranza. Dunque ‘essere vinti dal piacere’ non è altro che la più grande ignoranza, di cui Protagora, qui presente, dice di essere medico, come pure Prodico e Ippia; voi però, poiché credete che non si tratti di ignoranza, né andate voi stessi

né mandate i vostri figli dai maestri di queste cose, dai sofisti, come se l’arte di cui parlavamo non fosse insegnabile. Preoccupandovi solo dei vostri soldi e non dandoli a questi maestri, agite male sia nel vostro interesse che in quello della città». [358]

Questo avremmo potuto rispondere ai più; ora insieme a Protagora chiedo a voi, Ippia e Prodico (infatti il discorso è rivolto anche a voi), se vi sembra che io dica la verità o che sbagli”.

Straordinariamente a tutti sembrava che le cose dette fossero vere.

“Anche per voi dunque, il piacere è bene, il dolore è male. Tralascio la sottile distinzione di nomi che fa Prodico: sia infatti che tu lo chiami piacere, diletto, gioia intensa, o come a te piace, caro Prodico, rispondimi a tono”.

Dopo aver riso Prodico fu d’accordo e anche gli altri.

“E che pensate allora di questa affermazione: tutte le azioni che tendono a una vita senza dolore e piacevole, non sono forse belle? E un’azione bella non è forse buona e utile?”

Erano d’accordo.

“Se dunque il piacere è bene, nessuno farebbe le cose che fa se sapesse e credesse che esistano altre cose migliori che sarebbe possibile fare; e essere vinti da se stessi non è altro che ignoranza, mentre dominare se stessi non è altro che sapienza”.

Tutti erano d’accordo.

“E poi? L’ignoranza non consiste forse nell’avere una falsa opinione e ingannarsi su questioni importanti?”

Anche su questo tutti erano d’accordo.

“Non è forse così? Nessuno volontariamente tende al male né a ciò che ritiene essere male, e non è nella natura umana, mi pare, andare volontariamente verso ciò che si ritiene male, invece del bene. Quando infatti si è costretti a scegliere uno fra due mali, qualcuno sceglierà forse il più grande, pur essendo possibile scegliere il più piccolo?”

Su tutte queste cose eravamo d’accordo.

“Che cosa sono per voi timore e paura? Quello che sono per me? Mi rivolgo a te, Prodico. Per me timore e paura – usate il nome che preferite – consistono in una indefinibile attesa del male”.

A Protagora e a Ippia sembrava che il timore e la paura fossero questo, a Prodico invece sembrava che il timore fosse questo, ma la paura no.

“Prodico, non c’è alcuna differenza! Ecco la cosa importante: se le affermazioni di prima sono vere, forse qualcuno si dirigerà volontariamente verso le cose che teme, pur essendo possibile andare in un’altra direzione? Oppure questo è impossibile, se è vero quello che abbiamo detto prima? Infatti abbiamo concordato che ciò che si teme rappresenta un male e che nessuno volontariamente va verso il male né lo sceglie”.

[359] Anche su queste cose tutti erano d’accordo.

“Stabilito ciò, Prodico e Ippia, Protagora ci giustifichi come le risposte di prima possano essere giuste secondo lui. Non mi riferisco alle prime risposte che ha dato; infatti in un primo momento aveva detto che, delle cinque parti della virtù, nessuna è simile all’altra, ma che ognuna ha una sua funzione. Non mi riferisco a questa affermazione, ma a ciò che ha detto in seguito. Infatti poi ha detto che quattro parti della virtù sono abbastanza simili fra loro, mentre una, il coraggio, si differenzia molto e ha aggiunto che io avrei potuto capirlo da questa dimostrazione: «Infatti, Socrate, troverai uomini che sono in tutto empi, ingiusti, sregolati e ignoranti, ma molto coraggiosi; da ciò riconoscerai che il coraggio è molto diverso dalle altre parti della virtù». E io subito mi meravigliai della risposta, e ancor più dopo che abbiamo discusso queste cose con voi. Di seguito gli domandavo se ritenesse audaci i coraggiosi; e quello: «Sì, e anche temerari». Ricordi, Protagora, di aver risposto così?”

Disse di sì.

“Su, spiegaci: di fronte a cosa i coraggiosi sono temerari? Alle stesse cose di fronte a cui i vili sono vili?”

“No”.

“Allora di fronte a cose diverse?”

“Sì”.

“I vili si dedicano a imprese sicure, mentre i coraggiosi a quelle pericolose?”

“Socrate, così affermano i più”.

“È vero, ma non è questo che mi interessa. Di fronte a cosa tu affermi che i coraggiosi sono temerari? Di fronte alle imprese pericolose, sapendo che sono pericolose, o di fronte a quelle che non lo sono?”

“In base ai nostri ragionamenti è stato dimostrato che la prima ipotesi è impossibile”.

“Anche questo è vero; infatti, se quello che abbiamo detto è giusto, nessuno va verso un pericolo che conosce, poiché è stato dimostrato che essere vinti da se stessi è ignoranza”.

Protagora era d’accordo.

“Invece tutti scelgono le cose in cui si sentono sicuri, sia i vili che i coraggiosi, così che sotto questo aspetto i vili e i coraggiosi si orientano verso le stesse cose”.

“Però, Socrate, le cose verso cui si volgono i vili e i coraggiosi sono sotto molti aspetti differenti. Per esempio i

coraggiosi vogliono andare in guerra, i vili no”.

“E’ bello o no andare in guerra?”

“E’ bello”.

“Se dunque è bello, in base ai discorsi di prima è anche buono: infatti abbiamo convenuto che tutte le azioni belle sono anche buone”.

“E’ vero, e anche ora la penso così”.

[360] “Va bene. Ma chi sono secondo te quelli che non vogliono andare in guerra, pur essendo una cosa bella e buona?”

“I vili”.

“Se dunque è una cosa bella e buona è anche piacevole?”

“Così abbiamo concordato”.

“E allora i vili, pur essendone a conoscenza, non si dirigono volontariamente verso ciò che è più bello, migliore, più piacevole?”

“Ma, se ammettiamo anche questo, annulliamo quello che abbiamo concordato prima”.

“E cosa fa invece il coraggioso? Non si muove forse verso ciò che è più bello, migliore e più piacevole?”

“Sì”.

“Dunque, in generale, i coraggiosi non hanno, quando temono, vergognose paure, e quando sono arditi non hanno vergognose audacie”.

“E’ vero”.

“Se non sono sentimenti vergognosi, non sono forse belli?”

Era d’accordo.

“Se sono belli, non sono anche buoni?”

“Sì”.

“Invece i vili, gli audaci e i folli non hanno forse, al contrario, vergognose paure e vergognose audacie?”

Era d’accordo.

“E sono arditi in azioni vergognose e cattive per nient’altro che per incoscienza e ignoranza”.

“E’ così”.

“E allora? Ciò per cui i vili sono vili, per te è viltà o coraggio?”

“Viltà”.

“E i vili non lo sono forse perché ignorano le cose da temere?”

“Certo!”

“Dunque a causa di questa ignoranza sono vili?”

Era d’accordo.

“Ciò per cui sono vili per te è viltà?”

Disse di sì.

“Dunque la viltà non è altro che l’ignoranza delle cose da temere e da non temere”.

Annuì.

“Ma allora il coraggio è il contrario della viltà”.

Disse di sì.

“E la sapienza delle cose da temere e da non temere è contraria alla loro ignoranza?”.

Ancora una volta a questo punto annuì.

“E l’ignoranza di queste cose non è viltà?”

A questa domanda annuì malvolentieri.

“E la sapienza delle cose da temere e da non temere non è forse coraggio, che è il contrario della loro ignoranza?”

A questo punto non volle più annuire e rimaneva in silenzio.

“Perché, Protagora, non rispondi né sì né no alla mia domanda?”

“Concludi tu stesso”.

“Non prima di averti chiesto una sola cosa, se, come prima, ancora sei convinto che esistano uomini molto ignoranti, ma molto coraggiosi”.

“Socrate, tu insisti perché io risponda; allora ti farò contento, dicendoti che, in base a ciò che abbiamo concordato, questo mi sembra impossibile”.

“Io faccio tutte queste domande solo per un motivo: voglio esaminare come stanno le cose riguardo alla virtù e che cosa

sia mai la virtù. [361] Infatti so che, stabilito questo, subito si chiarirebbe la questione su cui tu e io, a turno, abbiamo tenuto un lungo discorso: io sostenevo che la virtù non fosse insegnabile, tu invece sostenevi che lo fosse. A me sembra che ora l’esito dei nostri discorsi, come una persona in carne e ossa, ci accusi e ci derida; infatti, se potesse parlare, ci direbbe: «Siete proprio strani, Socrate e Protagora: tu, che prima dicevi che la virtù non è insegnabile, ora ti vuoi contraddire a tutti i costi, tentando di dimostrare che tutto è scienza, la giustizia, la saggezza e il coraggio. In questo modo potrebbe risultare allora che la virtù è insegnabile. Se infatti la virtù fosse altro dalla scienza, come Protagora tentava di dire, evidentemente non sarebbe insegnabile; ora, se risulterà che la virtù in tutto è scienza, come ti sforzi di sostenere, Socrate, ci sarebbe da meravigliarsi se non fosse insegnabile. Protagora, a sua volta, che prima sosteneva che la virtù è insegnabile, ora invece si sforza di dimostrare il contrario, cioè che questa tutto sembra, tranne che scienza; e in questo modo non sarebbe minimamente insegnabile». Io dunque, Protagora, vedendo che le parti si stanno capovolgendo, desidero soprattutto che tali questioni si chiariscano. Vorrei che noi, che abbiamo esaminato tutte queste cose, giungiamo poi a definire cosa sia la virtù e se sia insegnabile o no, non lasciandoci indurre in errore dall’inganno di Epimeteo, che trascurò noi uomini anche nella distribuzione, come tu dici. Nel mito Prometeo mi è piaciuto più di Epimeteo; così io, servendomi di questo esempio e cercando di gestire con cura la mia vita, mi occupo di tutte queste cose e, se tu vuoi, cosa che dicevo anche all’inizio, le esaminerei molto volentieri insieme a te”.

E Protagora: “Io, Socrate, apprezzo la tua intenzione e il modo in cui procedi nei tuoi ragionamenti. Credo per molti aspetti di non essere una persona cattiva e per nulla invidiosa degli altri; infatti anche su di te ho pubblicamente affermato che, tra le persone che in genere incontro, apprezzo te più di tutte, in particolar modo fra i tuoi coetanei; dico pure che non mi meraviglierei se tu fossi considerato uno dei sapienti. Ma su queste cose torneremo un’altra volta, quando vuoi; ora è ormai tempo di dedicarsi ad altro”.

[362] “Dobbiamo fare così, se tu vuoi. Infatti anche per me è ora di andare dove dicevo poco fa: sono rimasto solo per fare un piacere al bel Callia”. Dette e ascoltate queste cose ce ne andammo.

 

 

Tratto da: Platone, Protagora, (Trad. it. di M.E. Gabrielli e M. Palma)

 

 

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La forma della città

8 Aprile 2015

Io ho scelto una città, la città di Orte, cioè praticamente ho scelto come tema la forma di una città, il profilo di una città. Ecco, quello che vorrei dire è questo: io ho fatto un’inquadra­tura che prima faceva vedere soltanto la città di Orte nella sua perfezione stilistica, cioè come forma perfetta, assoluta, ed è più o meno un’inquadratura così… Basta che io muova questo affare qui nella macchina da presa, ed ecco che la forma della città, il profilo della città, la massa architettonica della città è incrinata, è rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo. C’è quella casa che si vede là a sinistra, la vedi? Ecco, questo è un problema di cui io parlo con te, perché non sono capace di parlare in astratto, rivolto al vuoto, al pubblico televisivo che non so dov’è, dove si trova. Parlo con te che mi hai seguito in tutto il mio lavoro e mi hai visto molte volte alle prese con que­sto problema. Tante volte sono andato a girare fuori dall’Italia, in Marocco, in Persia, in Eritrea, e tante volte avevo il proble­ma di girare una scena in cui si vedesse una città nella sua com­pletezza, nella sua interezza, e quante volte mi hai visto soffrire, smaniare, bestemmiare perché questo disegno, questa purezza assoluta della forma della città era rovinata da qualco­sa di moderno, da qualche corpo estraneo che non c’entrava con questa forma della città, con questo profilo della città, così severo.
Siamo adesso di fronte a Orte da un altro punto di vista. C’è la solita bruma azzurro-bruna della grande pittura nordica rina­scimentale. Se la inquadro, vedo un totale ancora più perfetto di quello di prima. Cioè la forma della città è proprio nella sua perfezione massima. Ma se panoramico da sinistra a destra, quello che ti dicevo prima risulta in modo ancora molto più grave. Infatti la città, dal nostro punto di vista all’estrema destra, finisce con uno stupendo acquedotto su quel terreno bru­no. E immediatamente attaccate all’acquedotto ci sono altre case moderne, dall’aspetto non dico orribile, ma estremamente mediocre, povero, senza fantasia, senza invenzione; insomma case popolari, che sono assolutamente necessarie, non dico di no, ma che lì sono un altro elemento disturbatore della perfe­zione della forma della città di Orte, come la casa che abbiamo visto prima. Ora cos’è che mi dà tanto fastidio, anzi direi quasi una specie di dolore, di offesa, di rabbia, nella presenza di quelle povere case popolari, che comunque devono esserci? Il problema era semmai quello di costruirle da un’altra parte, in­somma, di prevedere di poterle costruire da un’altra parte. Dunque, che cos’è che mi offende in loro? E il fatto che appar­tengono a un altro mondo, hanno caratteri stilistici completa­mente diversi da quelli dell’antica città di Orte e la mescolanza delle due cose infastidisce, è un’incrinatura, un turbamento della forma, dello stile.
Questo io forse lo soffro in modo particolare, non soltanto per­ché ho un senso estetico forse esagerato, eccessivo, da anima bella, ma anche perché ho tanto lavorato su dei film storici, in cui questo problema era proprio un problema pratico. Perché questo non è un difetto solo italiano, ma è un difetto di tutto il mondo ormai, soprattutto del Terzo Mondo. Non so, per esem­pio in Persia, dove c’è un regime completamente diverso dal no­stro, dove c’è una specie di imperatore, lo Scià, lì succedono le stesse cose, forse ancora peggiori. Per esempio, mi viene in men­te una stupenda città che si chiama Yazd, sul Golfo Persico vici­no al deserto, una città meravigliosa perché tutte le città aveva­no un sistema di ventilazione antico, di due, tremila anni fa, che era rimasto intatto: delle colonnine che raccoglievano il vento e lo facevano entrare dentro la città. Quindi il panorama della città era dominato da questa specie di ventilatori che sembrava­no un po’ dei tempietti greci arcaici o egiziani, insomma, una cosa stupenda. Beh, questa città, quando sono arrivato lì io, era distrutta, come se ci fosse stato un bombardamento a tappeto. Lo Scià la faceva distruggere per dimostrare ai suoi sudditi, al suo popolo, che la Persia era un paese moderno, che avanzava, eccetera eccetera. Ma questo succede anche in paesi che sono esattamente il contrario della Persia, cioè in paesi comunisti: lo stato dell’Aden del Sud, lo stato di Aden, dove c’è al governo addirittura un gruppo di comunisti estremisti. Bene, lì, c’era un’antica città sul mare che si chiama Al Mukalla. Questa città di Al Mukalla aveva verso la terraferma una stupenda porta, gigantesca, di granito, bianca come tutto il resto della città. Ora siccome an­che ad Al Mukalla un pochino il traffico è aumentato, dopo la liberazione dello stato di Aden dagli emiri eccetera eccetera, c’era qualche furgone in più e la porta era stretta, cosa hanno fatto? L’hanno fatta saltare, ed erano fieri di aver fatto saltare questa stupenda porta. Dicevano addirittura con grande fierez­za «la rivoluzione ha liberato Al Mukalla da questo ingombro del passato». Senza parlare di Sana’a, ti ricordi? Quella stupen­da città dello Yemen del Nord posata sul deserto come una specie di rustica Venezia, che stanno già distruggendo, hanno già praticamente finito di distruggere tutte le mura che la ci­condavano e quindi davano la sua forma, quella assolutezza meravigliosa delle città antiche.
Oppure nel Nepal, che è effettivamente ancora molto intatto, soprattutto la città di Bhatgaon, è ancora quasi com’era tremila anni fa, però Katmandou è già praticamente distrutta in quan­to forma, rimangono i monumenti, ma non è dei monumenti che si tratta, non son quelli il problema, quelli è facile salvarli, è l’intera forma della città che è difficile salvare. Dunque questo è un problema che si pone in tutti i paesi del mondo, ma naturalmente ciò che mi turba e mi ferisce di più è che questo avvenga in Italia.
Ora, a proposito della città di Orte, vorrei aggiungere una cosa: avendo io scelto come tema del mio argomento la forma della città, vorrei precisare che la forma della città si manifesta, appa­re, si rivela se confrontata con un fondale naturale. Perciò la for­ma della città di Orte appare in quanto tale perché è sulla cima di questo colle bruno, divorato dall’autunno, con questa curva­tura davanti e contro il cielo grigio. Ora, quelle case che ti ho ci­tato prima, quelle case popolari, che cosa vengono a turbare? Vengono a turbare, soprattutto, il rapporto fra la forma della città e la natura. Ora il problema della forma della città e il pro­blema della salvezza della natura che circonda la città, sono un problema unico. Ma sempre si pone il problema di rispettare il confine naturale tra la forma della città e la natura circostante. Ora il caso della città di Orte è un caso ancora bellissimo. Ecco, il panorama è ancora praticamente perfetto, a parte questo di­fetto sia pur doloroso che ti ho detto. Ma mentre per Orte si può parlare soltanto di lieve danneggiamento, di difetto, per quel che riguarda in generale la situazione dell’Italia, delle forme del­le città nella nazione italiana, la situazione è invece decisamente irrimediabile e catastrofica.
Questa strada per cui camminiamo, con questo selciato sconnes­so e antico, non è niente, non è quasi niente, è un’umile cosa. Non si può nemmeno confrontare con certe opere d’arte, d’autore, stupende, della tradizione italiana, eppure io penso che questa stradina da niente, così umile, sia da difendere con lo stes­so accanimento, con la stessa buona volontà, con lo stesso rigore con cui si difende un’opera d’arte di un grande autore. Esatta­mente come si deve difendere il patrimonio della poesia popola­re anonima come la poesia d’autore, come la poesia di Petrarca o di Dante, eccetera eccetera. E così il punto dove porta questa strada, quella antica porta della città di Orte, anche questo non è quasi nulla, vedi? Sono delle mura semplici, dei bastioni, dal co­lore così, grigio, che in realtà nessuno si batterebbe (con rigore, con rabbia) per difendere questa cosa. E io ho scelto invece pro­prio di difendere questo. Quando dico che ho scelto come og­getto di questa trasmissione la forma di una città, la struttura di una città, il profilo di una città, voglio proprio dire questo: voglio difendere qualcosa che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende e che è opera, diciamo così, del popolo, di un’intera storia, dell’intera storia del popolo di una città. Di una infinità di uomini senza nome, che però hanno lavorato all’inter­no di un’epoca che poi ha prodotto i frutti più estremi, più asso­luti, nelle opere d’arte d’autore. Ed è questo che non è sentito, perché chiunque, con chiunque tu parli, è immediatamente d’accordo con te nel dover difendere un’opera d’arte d’un auto­re, un monumento, una chiesa, la facciata di una chiesa, un campanile, un ponte, un rudere il cui valore storico ormai è assodato. Ma nessuno si rende conto che invece quello che va difeso è pro­prio questo anonimo, questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare.
Eccoci di fronte alla struttura, alla forma, al profilo di un’altra città immersa in una specie di grigia luce lagunare, benché in­torno ci sia una stupenda macchia mediterranea. Si tratta di Sabaudia. Quanto abbiamo riso noi intellettuali sull’architettu­ra del regime, sulle città come Sabaudia. Eppure adesso osser­vando questa città proviamo una sensazione assolutamente ina­spettata. La sua architettura non ha niente di irreale, di ridicolo. Il passare degli anni ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assuma un carattere, diciamo così, tra metafisico e realistico. Metafisico in un senso veramente europeo della parola, cioè ricorda mettiamo la pittura metafisica di De Chirico, e realistico perché, anche vista da lontano, si sente che le città sono fatte, come si dice un po’ retoricamente, a misura d’uomo. Si sente che dentro ci sono delle famiglie costituite in modo regolare, delle persone umane, degli esseri viventi com­pleti, interi, pieni, nella loro umiltà.
Come ci spieghiamo un fatto simile che ha del miracoloso? Una città ridicola, fascista, che improvvisamente ci sembra così in­cantevole? Bisogna esaminare un po’ la cosa, cioè: Sabaudia è stata creata dal regime, non c’è dubbio, però non ha niente di fa­scista, in realtà, se non alcuni caratteri esteriori. Allora io penso questo: che il fascismo, il regime fascista, non è stato altro, in conclusione, che un gruppo di criminali al potere. E questo gruppo di criminali al potere non ha potuto in realtà fare niente, non è riuscito a incidere, nemmeno scalfire lontanamente la realtà dell’Italia. Sicché Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo certi criteri di carattere razionalistico, estetizzante, ac­cademico, non trova le sue radici nel regime che l’ha ordinata, ma trova le sue radici in quella realtà che il fascismo ha domina­to tirannicamente ma che non è riuscito a scalfire. Dunque, è la realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleo-industriale eccetera eccetera, che ha prodotto Sabaudia, e non il fascismo.
Ora invece succede il contrario. Il regime è un regime democra­tico eccetera eccetera, però quella acculturazione, quella omo­logazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottene­re, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce ad ottenere perfettamente: distruggendo le varie realtà particuolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha, che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. E allora questa acculturazione sta distrug­gendo, in realtà, l’Italia; allora posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia. E questa cosa è avvenuta talmente rapi­damente che, in fondo, non ce ne siamo resi conto, è avvenuto tutto in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni. È stato una specie di incubo, in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi di­struggersi e sparire. Adesso, risvegliandoci forse da questo in­cubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.

Tratto da: Pier Paolo Pasolini, La forma della città, 1973

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Walter Rossi

2 Febbraio 2015

Di tutte le foglie che cadono

mi incuriosiscono molto

quelle che si avvitano.

Vorrei ragionare

con i loro occhi chiari,

sospesi a mezz’aria.

31_10_2014

Abbiamo abbandonato la civiltà della terra

dei fiumi

del mare,

la paura e il timore,

il rispetto per la pioggia

la neve

il destino

la vita.

15_10_2014

Ho più rose che amici

molte rose

amici quasi punti.

Se dico una cosa a una rosa

è quella

loro lo sanno

e mi credono.

13_10_2014

Mi sono seduto per un giorno intero

a guardare i tuoi occhi

che correvano nell’acqua

tu eri il tempo

fermo

e immenso.

6_10_2014

Ti dico che sei bella

per crescerti accanto

senza possesso

o proprietà

senza usucapire

nell’oro del cielo e del grano

5_10_2014

Conservo da vent’anni

le foglie della mia magnolia

l’oro della vita

non c’è colore che sia uguale all’altro

perché?

22_09_2014

L’amore è un’entità invisibile

inconoscibile

misteriosa.

E’ una rosa corallo

che nasce e muore

nel suo stesso odore.

19_09_2014

Curare un piccolo orto

di 300 metri quadri

coltivare rose

cavolo nero

piantare un ciliegio

è l’inizio di un mondo nuovo.

Economia reale

vita

29_08_2014

Le api ventilatrici

nei giorni caldi

creano

con il battito delle loro ali

un flusso d’aria fresca

dentro gli alveari.

26_08_2014

I miei occhi partono

dal punto più basso della terra

dove nascono le piccole cose

erbe infestanti

che amano il cielo.

22_08_2014

Ho chiesto a un merlo del mio giardino

se preferisce l’estate o l’autunno

mi ha domandato

quando maturano i diosperi?

30_07_2014

La pioggia

ti fa sentire amato

perduto e amato

amato

come se il suo amore

fosse nato

solo per te

e per nessun altro.

26_07_2014

Walter Rossi (1964) ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie. Oltremare (2000), Genitivo Diacronico (2002), Quaranta sedie (2004), Cassarmonica (2010), Erfahrung (2012), Vita, giustizia degli occhi miei (2013).

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Panevìn 2015

5 Gennaio 2015

Resiste, resiste, resiste. Il panevìn resiste. La sera del 5 gennaio, nelle campagne, nelle piazze, nei vicoli, nei meandri, a lato delle strade, si accende uno specialissimo tipo di fuoco. Non è un fuoco come quello che si accende tra amici, sempre più raramente, per ritrovarsi una sera d’estate a chiacchierare, né quello acceso per cucinare, né…

E’ un fuoco così: speciale, che attira molta gente intorno, atteso da vari giorni, prefestivo, diverso, altro ….
Ho usato aggettivi e frasi inusuali per questa fenomenologia urbana-agricola, questo fuoco, il panevìn, e il lettore potrà associarsi a questo esercizio di descrizione inusuale. A un patto però: non descrivere il panevìn come tradizione della cultura contadina, non spiegarlo come risposta ad alcuni bisogni.

Bisogni? Non sappiamo bene a quali bisogni risponda un tale fuoco, né se effettivamente risponda a dei bisogni. Più che di bisogni bisognerebbe parlare di potere: in passato esso era usato dalle famiglie più potenti per esprimere la loro potenza (1).
La maggior parte delle persone non ha alcun “bisogno” del panevìn, e vi assiste passivamente e ripetitivamente. Moltissime persone, se nessuno più si occupasse di costruire la catasta di legna, non penserebbero minimamente a mettersi a farlo esse stesse, non ne sentirebbero “il bisogno”.

Tradizioni? Le tradizioni sono invenzioni, storicamente databili, socialmente costruite, culturalmente funzionali. Il panevìn era quasi dimenticato, nel secondo dopoguerra, ma è stato rivitalizzato come momento associativo in cui un grande ruolo rivestono le associazioni locali. C’è sempre chi crede che il panevìn nel trevigiano sia una tradizione trevigiana, nel pordenonese una tradizione pordenonese, nel padovano una tradizione padovana. Invece, l’accensione dei fuochi nel periodo del solstizio è una pratica estesa in tutto il mondo, come vedremo anche più oltre in questo scritto.

Non tradizione, non bisogno, non rito… per leggere il panevìn 2015 possiamo concentrarci sul fuoco.

Altare di fuoco, tavolette di fuoco, taglia e brucia col fuoco, elementi classificati dalla parte del fuoco, fuoco del sacrificio bramanico, stregoni trasformati in una sfera di fuoco, il frutto del fuoco… sono molte le immagini del fuoco e le esperienze che con il fuoco si sono costruite da parte dell’umanità tutta.

La mia –di immagine- è una esperienza che non ho mai visto nella realtà, ma che mi è stata raccontata: una mia zia all’ora del tramonto (non ancora buio, appena pomeriggio tardo…) prende alcuni mannelli di canne del granoturco (sempre più rari, oggi quasi introvabili…), si reca nell’orto dietro casa, orto ghiacciato in inverno, con le aiuole vuote, li dispone a capanna, aggiunge qualche sterpaglia se c’è, accende il fuoco, piccolissimo, brucia piano, mentre lei prega… e potrebbe essere qualsiasi tipo di preghiera….. poi il fuoco si spegne rapido, lei lo lascia accasciarsi un poco, si segna in volto, mette in sicurezza le poche braci, rientra in casa. Non l’ho mai vista fare questo piccolo panevìn. Quest’anno che volevo filmarla è troppo tardi: è anziana e non lo fa più. Ecco, qui sarebbe da cominciare ad indagare… bisognerebbe sempre indagare …

Quello che ci servirebbe è una indagine del panevìn oggi. Non le frasette ripetitive e banalizzanti dei mass media locali, amici dei potenti di turno, sempre pronti a parlare di tradizioni contadine quando il mondo contadino i potenti veneti di turno (gli amici fedeli del capitalismo distruttivo) lo hanno appena fatto fuori tutto, devastandone l’ambiente di vita (e inventando poi i musei della vita contadina).

Gli articoli dei mass media servono a convogliare le masse (2) e a rafforzare lo stereotipo delle tradizioni locali. Rafforzare questi stereotipi con una bella festa intorno al fuoco, con un nome (panevìn), con una connotazione (le nostre tradizioni), senza alcuna riflessione critica senza alcuna storicizzazione, senza alcun studio, serve a convincere che esistono delle tradizioni locali che ci danno un’identità, e se noi abbiamo un’identità nostra allora bisogna difenderla, come si difenderebbe un bambino, un figlio (ecco, le identità hanno il sentimento proprio di “figlio”); bisogna difenderla dalle tradizioni degli altri, dagli altri che vengono “da fuori” o da lontano, che non prendano spazio e non prendano la parola qui in mezzo “a noi” e non ci tolgano le nostre tradizioni. Il panevìn vissuto come “tradizione” e come “identità” rafforza un percorso molto pericoloso che sfocia già oggi nel razzismo, poiché ogni razzismo è costruito sulla identificazione di un gruppo contro l’altro, con contrapposizione e felice difesa di “tradizioni”(3). Stupida gaiezza, direbbe Andrea Zanzotto.

Esiste però almeno una indagine del panevìn seria e rigorosa, scientificamente fondata, ed è un libro scritto dall’etnografa Antonella Pomponio (4). Tre anni di studio, interviste, documentazioni sui fuochi della notte dell’Epifania. Il libro dimostra, tra le altre cose, come la costruzione del panevìn inteso come tradizione e identità comprenda anche il mito dell’esclusività di questo rito. Insomma, i locali che fanno il panevìn crederebbero che sia una cosa che si fa “in questa zona”. Il libro dimostra invece come questo tipo di fuoco sia diffuso nel mondo, su tutta la Terra: “Questi riti periodici non sono prerogativa delle società agricole, ma li ritroviamo in civiltà della caccia-raccolta e della pesca, specialmente in ambiente nordico o temperato. […] Gli indigeni Wheelman e gruppi attigui, cacciatori e raccoglitori dell’Australia sud occidentale, al termine della stagione di siccità festeggiano l’evento con una cerimonia detta Mancarl, che consiste in balli e canti attorno a fuochi accesi nel centro dei campi […] Gli Eschimesi, civiltà di cacciatori-pescatori, durante la stagione invernale danno vita a numerosi riti, tra cui la festa del solstizio invernale, che consiste nello spegnimento e nella riaccensione di numerosi fuochi al fine di scongiurare la carestia che minaccia il gruppo. […] E’ curioso constatare come alcuni informatori pensano che il rito dell’accensione dei fuochi sia diffuso esclusivamente nella provincia di Treviso, e rimangono perplessi quando sentono parlare di falò simili in altre zone” (Pomponio 2002: 98).

Il libro citato è del 2002, e da allora alcune cose sono cambiate: la gara per costruire il panevìn più grande ha lasciato posto (nei consumatori di feste che si aspettano sempre qualcosa di nuovo, come la sorpresa degli ovetti Kinder) nel 2013-2014 alle polemiche sull’inquinamento generato da questo fuoco, poiché si usa bruciare rifiuti e gomme di auto e camion (emblemi dell’ industrializzazione consumistica), ramaglie di viti che hanno assorbito pesticidi (emblemi dell’agricoltura industriale), altre plastiche varie.

L’ARPAV ha misurato i picchi di inquinamento nell’aria, il Questore di Treviso ha dato direttive di contenimento e regolamentazione dell’altezza dei falò (altezza massima cinque metri), alcuni sindaci hanno protestato, il Presidente leghista della Regione Veneto ha incitato a non rispettare gli ordini, è intervenuto un eurodeputato ambientalista (5), i grillini hanno rivendicato una tradizione pulita (6), il WWF è intervenuto con chiarimenti e appelli (7)…. e avanti così. Avanti così e anche al contrario di così, come niente fosse, poiché i giochi di inversione dei significati sono parte del gioco del nostro mondo politico contemporaneo, anche al prezzo di sovvertire ogni realtà, soprattutto quella ambientale (come dimostra la storia degli umidi ambienti dei palù seppellititi dall’ autostrada A28) (8).

Ho letto il libro dell’etnografa Antonella Pomponio, per cercare di capire. Quello che capisco è questo: se metto in fila tutti i gesti che si compivano in riferimento al panevìn fino a prima degli anni ’50, cioè fino a prima dell’era dell’antropocene (l’era in cui per la prima volta nella storia dell’umanità l’industrializzazione è in grado di intervenire e modificare i meccanismi profondi della Terra), prima del consumismo sfrenato, si ottiene un quadro impressionante; impressionante perché emerge che il panevìn era FATICOSO. Esso implicava una lunghissima serie di particolari attività:

– Fare siepe a mano, tenendo a mente la rotazione della potatura delle siepi e scegliendo la siepe i cui scarti di potatura andranno costruire il panevìn.
– separare la legna buona da quella di scarto da utilizzare per il panevìn. Raggrupparla con la forca e la sola forza delle braccia.

– costruire il panevìn a mano (senza l’aiuto di alcun mezzo se non il carro per alzarsi): palo centrale, bracieri attorno a sorreggere la legna, differenziazione della legna e posizionamento delle canne o cartocci per l’accensione.

– costruzione lavoro differenziato in base al genere: gli uomini il panevìn, le donne la vècia (la vecchia, il fantoccio da bruciare sopra il falò) e il cibo da offrire.

– i giorni precedenti: mettere il ceppo di Natale e conservarne un tizzone fino all’epifania per accendere il panevìn
– processione dalla casa al panevìn con il tizzone per l’accensione.
– benedizione del falò con acqua benedetta da procurarsi il giorno prima.

– durante i primi momenti del panevìn: offerte di prodotti al falò: piccoli salami, fagioli, semi, vino, venivano buttati sopra il panevìn e per ognuno di essi si invocava: “Signore màndane” (Signore mandaci) … e seguiva il nome del cibo richiesto (9).
– canti delle litanie e preghiere varie.

– discussione dei pronostici sull’anno futuro e verifica del passato.
– consumazione del cibo fatto in casa, dono e scambio.
– alla fine del panevìn: spegnimento e guardia delle braci per tutta la notte (animaletti avrebbero potuto avvicinarsi e propagare il fuoco nei fienili…)
– al mattino successivo processione di buonora nei campi e negli argini dei fiumi, con preghiere speciali, a piedi scalzi.
– “battitura” (con un pezzo di legno bruciacchiato prelevato dai resti del panevìn) di piante, animali, terra, botti e arnesi del lavoro contadino per indurre alla prolificazione, alla fertilità, per risvegliare la natura dal letargo invernale … (10).
– successivamente uso di ceneri e residui del panevìn nella concimazione di parti dei campi.

Il panevìn-non-consumistico era dunque faticosissimo. Era faticoso, e solo la festa comunitaria e i buoni cibi che si consumavano compensavano l’obbligo alle azioni correlate prima durante e dopo il panevìn. Induceva a una tale quantità di azioni da fare e di gesti, parole e canti da rispettare, e obbligatoriamente da eseguire, che ben si capisce come esso sia stato accantonato appena fu possibile, nel secondo dopoguerra.

Se oggi come tante tradizioni il panevìn è stato reinventato, come ben illustra il libro di Pomponio (11), esso è di sicuro il panevìn-del-consumismo, qualsiasi sia stato il comitato promotore: costruzione del falò con uso di macchinari vari, auto parcheggiate nei dintorni, grandi mense per la massa che deve mangiare, cibo spazzatura per tutti, spesso cibo a pagamento e non più donato, musica a tutto volume da casse elettrificate ben disposte, illuminazione a giorno intorno al falò, botti e petardi, fuochi d’artificio a dimensione ridotta, per un consumo e acquisto individuale …. Tempo totale: poche ore, la sera del panevìn, il 5 gennaio nella Felice Marca Radiosa Trevigiana.

E’ l’avvento di Homo comfort, direbbe l’antropologo Stefano Boni, che ha studiato il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze (12): “Homo comfort aumenta vertiginosamente la facoltà trasformativa mediante un’esponenziale crescita tecnologica che gli permette di soggiogare a piacimento i processi naturali con un’invadenza, una forza, una capillarità, un’ubiquità che non hanno precedenti” (S. Boni, 2014, pag. 177). Homo comfort per superare la fatica, di grado in grado, perde la sua artigianalità, la padronanza di saperi e di saper fare, l’autonomia professionale, l’interazione sapiente con la natura, la capacità di monitorare le ferite inferte all’ambiente. Homo comfort ha creato una fase storica “in cui il delirio di sottomissione totale della natura ai capricci consumistici dell’umanità contemporanea mina alla base qualsiasi prospettiva di lungo periodo” (S. Boni, 2014: 197). Homo comfort preferisce di sicuro un panevìn così.

Le mie conclusioni non possono che essere ispirate al lavoro dell’antropologo Philippe Descola (13) che nei sui studi sul rapporto tra natura e cultura ci ha mostrato che esistono modi di fare le cose umane relazionandosi alla natura in modo intimo e paritario; ai lavori di Gilles Clément che ha indicato che in fondo l’unica cosa che dovrebbe interessarci è stare vicino al “vivente” umano e non umano, lasciarlo vivere e andare (14).

Quindi: non titoli di giornale o poster ai crocicchi delle strade che indicano alle auto dove raggiungere un panevìn o l’altro. Bisognerebbe indagare qualcosa di più intimo e profondo, di più vitale. Gesti significativi: zia, come facevi? Cosa pensavi mentre? Perché e quando hai smesso? Come e quando avevi iniziato?

E magari riprovare a fare un piccolissimo fuoco, quasi individuale (fuori dalla pericolosa massa), poiché una nuova ecoantropologia avrà bisogno di gesti minuti e delicati, sostenibili.

Come sarebbe allora molto più vitale sentirsi immersi in un grande ciclo cosmico e in un grandissimo pianeta vivente dove umani qualsiasi (che non hanno bisogno di combattere per una definita identità) esprimono qualcosa di umano accendendo un fuoco speciale, una sera o l’altra dell’anno, e si sentono in comunione con tutti gli esseri della Terra, e con tutti gli umani che stanno sulla Terra con gli altri esseri non umani della Terra nella terra…. Qui un animale scappa via correndo spaventato dal rumore del fuoco, là un uccello sente aria calda e folate di faville e si allontana allarmato, sottoterra animali sentono calore, le stelle forse vedranno lampi di luce, l’erba si brucia e si mescola alla terra, alcuni umani chiacchierano piano tra loro, bambini ridono e corrono intorno al fuoco, è estate, è inverno, è panevìn….. panevìn sulla Terra di tutti.

Nadia Breda,  San Vendemiano (TV) , 2-3 gennaio 2015.

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(1) “Nei tempi passati ogni famiglia contadina preparava i falò: in particolare quelli maestosi erano opera dei grandi affittuari, e vi partecipavano anche coloro che non avevano la terra; gli altri, di dimensioni più piccole, erano fatti da chi aveva un piccolo appezzamento. […] la grandezza del Panevìn era sinonimo di ricchezza, abbondanza, e ben si accordava con l’estensione dei terreni coltivati e dei vigneti” (Pomponio 2002, : 167). “ […] la famiglia che chiamava a partecipare al rito chi non aveva terra, diventava simbolo di prestigio e potere, potere che si combinava con la Chiesa, vera custode della cultura egemone e artefice del sincretismo che tutt’oggi pervade il rito” (Pomponio 2002: 171)

(2) Mi sto riferendo alla massa come descritta da Elias Canetti in Massa e potere, Adelphi, Milano 1981 [ed. or. 1960]

(3) Se poi –come è accaduto in una scuola del Coneglianese- l’ideologia delle tradizioni si sposta nella scuola, viene lì praticata e rafforzata, se anziché studiare i libri e la storia delle tradizioni si fanno feste che rafforzano una singola identità locale (come per esempio con le canzoni di Chiesa fatte cantare dagli studenti a scuola, o la predica del prete a fine anno a tutti gli studenti a scuola) allora il panevìn-tradizione-identità si è già spostato dentro la scuola, siamo già ben infilati in un percorso di razzismo e di mancanza di interculturalità che il panevìn non potrà che rafforzare e suggellare la sera del 5 gennaio.

(4) Antonella Pomponio, Il Panevìn. La notte dei fuochi nel Trevigiano e nel Veneziano, Cierre Edizioni/Canova, Verona- Treviso 2002.

(5) Comunicato dell’On. Andrea Zanoni, 29 novembre 2013, http://www.andreazanoni.it/it/news/comunicati- stampa/panevin-zaia-non-scherzi-con-il-fuoco.html.

(6) Un volantino diffuso dal Movimento 5 stelle, così scriveva: “Si al Panevin, NO a respirare veleni. Manteniamo le tradizioni salvaguardando la salute dei nostri figli. Il Panevin è una splendida tradizione che va rispettata e conservata come ricordo delle nostre origini: si brucia il vecchio con la fiamma che è il simbolo della speranza, quindi non è una gara a chi fa il fuoco più alto e grosso, ma è la gioia di stare insieme. Inoltre in molti Panevin c’è la brutta consuetudine di bruciare olii esausti, benzina, plastica, immondizie ed altro ancora; ancor peggio è quando si bruciano tralci di viti impregnati di pesticidi tossici in gran parte cancerogeni, teratogeni e interferenti endocrini che liberano nell’aria micidiali diossine e inquinanti cancerogeni. Le potature trattate devono essere smaltite come rifiuti speciali agricoli, sminuzzandoli nelle vigne o cipparle e compostarle. Nella nostra ULSS7, a fine 2010, c’erano ben 10.345 malati di tumori maligni, con un incremento del + 7% sull’anno precedente, una crescita nettamente più alta della media italiana. Ogni singolo cittadino dovrebbe riflettere e vigilare su cosa si brucia nel panevìn”.

(7) Così si esprimeva nel 2013 il WWF: “Panevin 2014: pochi, piccoli e senza legno trattato. Il WWF Altamarca prende atto del dibattito in corso in alcune amministrazioni comunali e nel “consorzio delle pro loco del Quartier del Piave” sui problemi che ogni anno ritornano puntualmente ad emergere, in occasione dei “panevìn”. Qui vogliamo ribadire che non è il WWF che impedisce i fuochi all’aperto, ma bensì la legge 152/2006, senza contare i richiami della CE per non superare i parametri dei valori delle pm-10 e della diossina, ed il numero massimo di sforamenti/anno consentiti. Ora siamo sotto osservazione della CE, ma è chiaro che se continuiamo imperterriti a produrre pm-10 e diossine, arriverà la prevista contravvenzione comunitaria. sia ben chiaro che questa volta, l’eventuale multa non saranno i cittadini a pagarla, ma tutti i sindaci e gli assessori, personalmente e non con denaro pubblico, che hanno consentito e concesso l’autorizzazione ai panevìn illegali 2014. Non solo, ma saranno ritenuti responsabili dei mancati controlli e dell’applicazione delle relative sanzioni, previste dalla legge 152/2006 […]. E’ bello rispettare le tradizioni, ma quando si dimostrano dannose per la salute e per l’ambiente, occorre avere il coraggio ed il buon senso di riconoscerlo e di sostituirle con un atto simbolico. Nulla impedisce di inventare una nuova tradizione rispettosa delle leggi, della natura e dell’uomo! Ricordiamo che alcune tradizioni fanno riferimento a popolazioni rurali, composte da non molte persone, che accendevano piccoli roghi di materiale non inquinato dai prodotti chimici moderni, come i pesticidi sui tralci trattati. I pesticidi sono in genere idrocarburi clorurati che, se bruciati […] producono le micidiali diossine, uno dei veleni più tossici che esistano. La cattiva usanza dei nostri politici italiani è di fare un buon articolo di legge e subito dopo aggiungerne un altro con sostanziose e insindacabili deroghe, vanificando così lo scopo per cui hanno legiferato. E’ giunto il momento che i nostri amministratori pubblici lavorino seriamente e responsabilmente per tutti i cittadini! Invitiamo anche le pro loco del Quartier del Piave ad attenersi al rispetto delle leggi in vigore, per non partecipare in solido con gli amministratori comunali, al pagamento delle contravvenzioni CE”. (WWF Altamarca, 06.12.2013)

(8) Nadia Breda, Bibo, dalla palude ai cementi. Una storia esemplare, CISU 2010.

(9) Pomponio 2002: 103
(10) La “battitura” di piante e animali è un gesto diffuso in ampie zone del mondo (Pomponio 2003: 105)
(11) “A cominciare dagli anni Sessanta sorgono parecchie associazioni che si organizzano per preparare il Panevìn in luoghi pubblici. Il rito non è più ristretto al mondo rurale, ma gli strati borghesi e urbani, sopraffatti da una crisi di valori, tendono a impossessarsi o, se sono ex contadini, a riappropriarsi, dei costumi, modi e stili di vita dei contadini “ (Pomponio 2002: 54).

(12) Stefano Boni, Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze, Elèuthera, Milano 2014.

(13) Il lavoro fondamentale di Philippe Descola, Par-delà nature et culture, Gallimard, Parigi 2005, è stato recentemente tradotto in Italia da Elena Bruni con il titolo Oltre Natura e Cultura (SEID edizioni, 2014), con una prefazione a mia cura.

(14) Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet 2005; Franco Lai, Nadia Breda, Antropologia del Terzo paesaggio, CISU ed., Roma 2011.

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Articolo 9

12 Novembre 2014

COSTITUZIONE

DELLA REPUBBLICA ITALIANA

[ Gazzetta Ufficiale 27 dicembre 1947, n. 298 ]

ART. 9.

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura

e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio

e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

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Antonio Guarino

15 Agosto 2014

Riccardo Dalisi – Gocce di latte

Le radici antropologiche del sud e la sfida alla società dei rifiuti. 

Nel 1982 in quella Napoli post-terremoto, lui era professore di Composizione architettonica della Facoltà di Architettura e io ero un suo studente. Il suo interesse era rivolto al recupero dei grandi edifici del centro storico di Ponticelli (antico casale di Napoli). Pezzi di edilizia di origine rurale raccolti intorno a grandi corti chiamate “e Curtine” che Dalisi amava definire soggiorni a cielo aperto. Luoghi su cui si sono stratificati nel tempo corpi, ambienti dettati da continue necessità agricole prima, urbane dopo. Bisogni che si erano sedimentati, idee, carne e sudore che nel tempo avevano preso  forma.  Muro contro muro, voltine che sorreggono ballatoi e terrazzini, scale su archi rampanti; in ogni angolo, in ogni spazio residuo si inserivano nuovi pezzi, nuove necessità. Tutto intorno ad un vuoto: luogo dove si raccoglie un pezzo di umanità emarginata quella che un tempo veniva denominato sottoproletariato urbano. Quell’apparente disordine formale era stato creato da un’antica e lunga operosità che aveva raggiunto, nel pieno della modernità, una densità abitativa critica. Quell’importante pezzo di storia, quegli elementi caratterizzanti del paesaggio locale andavano recuperati dandogli un ruolo nella città moderna.

Bisognava inserire nuovi standard abitativi pulendo gli eccessi, diradando e inserendo cellule abitative nel tessuto tortuoso esistente. La cucina e il soggiorno erano i luoghi che avevano bisogno di una riflessione particolare. L’idea del gruppo di studio era d’inserire sulla parete finestrata un blocco cucina sul modello americano. La critica del professore fu quella che vicina alla finestra era il posto del tavolo.  Il luogo dove i bambini fanno colazione e godono la luce diretta del sole. Ricordo un ulteriore particolare nelle sue parole, che allora mi sembrava strano, estraneo alla formazione di un architetto; soprattutto in quell’ambiente dominato dal razionalismo. La sua lezione di come disporre gli spazi passò anche sul latte versato sul tavolo La macchia di latte, diceva, che sempre i bimbi fanno versare sul tavolo, diventa matrice di disegni che il piccolo dito propaga sul piano verso l’esterno come raggi che esplodono dal nucleo. Questo particolare ricordo mi appare alla mente, mentre visito il suo studio e le sue opere. Diventa la mia chiave di lettura per capire la sua produzione artistica di come nasce e si sviluppa: da un nucleo originale che si dirama verso l’esterno conquistando lo spazio e la luce. Le sue composizioni mi appaiano come originate da quel processo che si manifesta sia nel disegno con il latte sul tavolo sia nell’antropologia delle grandi conformazioni architettoniche di Ponticelli.

Da quella cultura antica e popolare dove le cose si stratificano, si dilatano dettate dalle necessità sia da continue ispirazioni espressive e sia da un lungo processo di identità culturale. Oggi nel suo studio, a distanza di 30 anni, vedo nella sua produzione anche una sfida contro quella civiltà del consumo e dei rifiuti. Nel suo fare si evidenzia un programma, un modello di società che nega il rifiuto dove i materiali non muoiono mai perché hanno un’altra possibilità, una nuova possibilità di prendere vita. Un programma artistico profondamente radicato nella cultura materiale dei luoghi che si sta concretizzando anche con l’esperienza laboratori dei giovani del Rione Sanità di Napoli e con gli artigiani di Rua Catalana. Immagini di arcaiche di divinità si mischiano con personaggi di favole.  Disegni dai tratti primitivi e infantili che si depositano uno dopo l’altro, in un ambiente e in una Napoli, in un sud che i poeti descrivono contemporaneamente disperata e vitale. Nello studio-laboratorio segni si sommano ad altri segni, bozzetti a bozzetti, modellini di caffetterie a modellini di oggetti con misteriose funzioni saturando ogni spazio, ogni angolo possibile. Le cose si accumulano e negano il loro destino, la deriva che conduce al rifiuto.

Il lavoro quotidiano a cui il maestro si dedica ha la funzione di ridargli vita, trasformandoli in preziosi oggetti d’arte. Il professore ci illustrata disegni dove le campiture vengono coperte con bucce di caramelle o gocce di caffè rimaste nella tazza dopo il suo consumo e metalli che sembrano sempre raccolti e riportati in vita da un deposito di rifiuti. Ancora una volta quello che si vede sembra essere realizzato per dare l’opportunità al bambino di creare forme sotto  il sole. In questo suo studio, che è anche un tortuoso spazio laboratorio, si depositano continue idee e forme che vanno oltre la vita personale dell’artista. Qui un esercito di oggetti con significati lontani dai valori che dominano il mondo contemporaneo sembra pronto a riempire di senso la città desertificata dai miti del consumismo. Prima di salutarci, attraverso il balcone, ci indica la Napoli millenaria che sembra uscire dal mare o forse sprofondare in esso.

Antonio Guarino, Riccardo Dalisi – Gocce di latte. Le radici antropologiche del sud e la sfida alla società dei rifiuti, in «Diari»,  (2010).

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Ermanno Pozzi

22 Aprile 2014

 

Storie di giardini e di giardinieri
Il giardino di Villa J’Aune a Valdengo | Grandi Vivai Ernesto Pozzi – Biella | Ermanno Pozzi ricorda la collaborazione con il paesaggista Pietro Porcinai in occasione dei suoi lavori nel Biellese.
Le interviste di lessico naturale | Storie di giardini e di giardinieri ideazione e realizzazione di Alessio Guario e Fulvia Grandizio
2014 © lessiconaturale.it

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